Jerry Moffatt
TOPO DI FALESIA
EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI
Titolo originale: Revelations 2009 © Jerry Moffatt & Niall Grimes Vertebrate Publishing, Sheffield 2009 www.v-publishing.co.uk 2009 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati Traduzione: Giovanni Benedetti 2a edizione febbraio 2021 www.versantesud.it ISBN: 978 88 55470 551
Jerry Moffatt
TOPO DI FALESIA Scritto con Niall Grimes Traduzione di Giovanni Benedetti
EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
INDICE
PROLOGO Solo UNO I primi passi DUE Topo di Falesia TRE Gli anni di Stoney QUATTRO Il sogno americano CINQUE Assedio al Master’s Wall SEI Spuntano i primi chiodi SETTE Vive la France! OTTO La fenice brucia NOVE Ritorno dall’Inferno DIECI Il potere e la gloria UNDICI Quando il gioco si fa duro DODICI La mentalità vincente TREDICI Scimmie e santoni QUATTORDICI Il colore dei soldi QUINDICI Al massimo dei giri SEDICI Il prossimo movimento EPILOGO Mai smettere di aver fame
7 11 33 51 69 95 108 120 139 160 177 195 210 225 246 262 281 292
Ringraziamenti
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Nota di Niall Grimes
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Ascensioni e date significative 300
A Toby, Wolfgang, Andrew, Noddy e gli altri miei amici le cui vite sono state tragicamente interrotte troppo presto.
Jerry sale in free-solo Fern Hill (E2) a Cratcliffe. “Splendida via su ottime prese”. Foto: Ian Smith
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PROLOGO
SOLO
Estate 1983, Galles settentrionale. Ho soltanto vent’anni, e me ne sto seduto sul ciglio della strada a guardare i raggi del sole giocare col profilo delle splendide montagne di Snowdonia. Il sentiero del Llanberis Pass scende sinuoso dalla vetta di Snowdon, fiancheggiato su entrambi i lati da alcune tra le falesie storiche del paese: Dinas Mot, Carreg Wastad, Clogwyn y Grochan, Cyrn Las. Proprio sopra di me, in cima a una ripida collina punteggiata di massi, Dinas Cromlech, la più grande di tutte. Il maestoso torrione roccioso domina l’orizzonte, e le sue due enormi pareti scure, alte quasi cinquanta metri, disegnano il profilo di un libro aperto. Guardo in su. Questo è il posto dove i migliori scalatori dell’ultimo secolo si sono sfidati a colpi di vie estreme. Durante la settimana non c’è praticamente nessuno in giro, oggi si vedono soltanto un paio di ragazzi che si apprestano a salire una via facile nella parte sinistra della falesia, dove la roccia si fa più discontinua. Raccolgo lo zaino, pesante di corde e ferraglia, e m’incammino verso la base della parete. So cosa mi aspetta, ma cerco di tenerlo nascosto a me stesso. Mi ero ripromesso di non cascarci più, avevo deciso di fare un passo indietro. Soltanto ieri ho combattuto e vinto il più famoso problema irrisolto del paese, il Master’s Wall sul Clogwyn Du’r Arddu. Ho sfiorato la morte così da vicino da giurare a me stesso che per un bel pezzo non avrei più provato niente di tanto pericoloso. E oggi, invece, mi ritrovo qui. Ecco perché ho bisogno di fingere. Faccio solo un paio di giri su qualche via, dico a me stesso. Vado lì, trovo qualcuno senza compagno, e facciamo coppia per il pomeriggio, alternandoci a tirare questa o quella via. Sarà una bella giornata all’aperto, tutto qua. Quasi credendo alle mie stesse parole arrivo alla base del diedro; sono accaldato e bagnato di sudore. In giro non c’è anima viva. Non mi stupisce che il posto sia deserto, ma ora io sono qui, e sono pronto. In piedi al centro esatto della parete scura, guardo le vie ormai familiari su cui in passato ho faticato e lottato tanto. Sono stati banchi di prova eccezionali, sempre più duri a mano a mano che la mia forza di scalatore andava crescendo. Vedo la linea di Cemetery Gates di Joe Brown, e poi l’esposta fessura di Don Whillans, un E1 che corre lungo l’ultimo spigolo in fondo alla parete, tutto a destra. Mi Solo 7
infilo le scarpette e aggancio il sacchetto della magnesite, lasciando a terra il peso di corde e nut. Vestito solo dei miei pantaloncini corti, comincio a salire la parete verticale: ci vogliono meno di cinque minuti. Sembra incredibile potersi muovere dentro a una solitudine così totale, e in un ambiente tanto vasto, avendo come solo pensiero quello di continuare a scalare. Qualsiasi considerazione su pericolo e sicurezza rimane ai piedi della via. Giunto quasi in cima, mi appendo a due buone prese e guardo giù verso il vuoto che si spalanca sotto ai miei piedi, poi verso la strada, molto più in là. Lascio che tutto questo mi riempia i polmoni. Che posto fantastico. Arrivato in cima scendo lungo Ivy Sepulchre, una via che tre anni fa era stata il mio primo HVS; mentre mi muovo a ritroso lungo il passo chiave, il ricordo della fatica di quel giorno mi inonda la mente. Presto raggiungo la base del gran diedro. Di fronte a Cemetery Gates, una sottile fessura solca l’altrimenti liscia parete: si chiama Left Wall, grado E2. Sono passati due anni da quando, piantando a forza un nut dopo l’altro dentro l’esile spaccatura nella roccia, sono riuscito a salirla. Oggi, infilando soltanto la punta delle dita e la gomma delle scarpette in aderenza, salgo con facilità. Mentre ridiscendo ancora una volta, guardo a che punto sono gli altri due climber, ancora impegnati sul loro V Diff. So che anche loro si stanno gustando questa meravigliosa giornata si sole. Di nuovo a terra, salgo Cenotaph Corner, uno dei capolavori di Brown, una linea che corre su dritta, lungo il diedro centrale. Non l’ho mai provata prima, e il suo grado relativamente basso nasconde il fatto che come free-solo sia un’arrampicata disperata. A una trentina di metri mi trovo a combattere una serie di movimenti su roccia ormai unta; bilancio il peso del corpo su tacche levigate, senza nessun reale appiglio da tenere, e passo di slancio. I’m on fire! È una di quelle giornate indimenticabili in cui tutto è perfetto: il luogo, la situazione, il clima, la roccia, il mio corpo, la mia mente, e la mia voglia di scalare. Senza una corda a proteggermi in caso di errore, la più piccola disattenzione significherebbe morte certa, ma sento che niente di quel che faccio oggi, neanche il movimento più duro, è al limite. È destino. Memory Lane, lo spigolo esterno della parete a sinistra, se ne va in un attimo. Foil, ancora più a sinistra, è più strapiombante e difficile. L’ho salita un paio di anni fa, quando il suo E3 rappresentava per me un nuovo grado. Si tratta di una via intensa, faticosa e di continuità, ma segue la sicurezza di una buona fessura facilmente proteggibile. Oggi invece, senza friend o nut, è soltanto dura. In cima alla fessura, a una trentina di metri da terra, raggiungo il passo chiave, un lungo dinamico da una lama di roccia a un buon appiglio Jerry Moffatt TOPO DI FALESIA 8
più in alto. Quando la afferro, la lama si muove, e vibra come un serpente a sonagli nella mia mano. La parete strapiomba, e per passare devo caricare tutto il peso del corpo su quella presa. La forza con cui la sollecito finirà senz’altro per romperla, e so bene come andrebbe a finire. Tornare giù non è possibile. Indietro non si torna. L’acido lattico comincia a gonfiarmi gli avambracci, i muscoli si stanno stancando. Devo fare qualcosa. Decido di provare a rompere la lama: se non si stacca, vorrà dire che tiene. La colpisco più volte col pugno, si smuove un altro po’, ma non cede. Non ho altra scelta. Facendo ricorso a tutto il sangue freddo di cui dispongo, mi costringo a rimanere calmo e distaccato. Tenendo la lama con la destra, alzo i piedi sulla parete strapiombante. Mando giù due polmoni pieni d’aria, e chiudo il bloccaggio caricando tutto il peso su quell’appiglio traballante. Non si muove. Raggiungo la presa buona più in alto da cui poi, colmo di gioia e sollievo, volo lungo i restanti metri di facile arrampicata. In cima alla parete decido che ne ho avuto abbastanza, ma ancora una volta mi ritrovo alla base del diedro. La via più dura qui è Lord of the Flies, recentemente aperta da Ron Fawcett. L’ho salita l’anno scorso, ma rimane troppo vicina al mio limite per provarla ora senza la sicurezza di una corda. Alla sua destra, Right Wall, la superclassica di Pete Livesey, l’E5 più duro del paese fino al 1974. Una via verticale, con lunghe sezioni su minuscoli appigli. Sfilo lungo quei movimenti senza la minima esitazione, fino a raggiungere più in alto un microscopico dente di roccia dall’aspetto non proprio solido, attaccato alla parete come una cialda sul gelato. Sarà che ho ancora in mente la lama di prima, ma ho l’impressione che si muova. Posso fidarmi di questa piccola presa? Si è mossa davvero un attimo fa? Decido che no, non si è mossa. Arcuo le dita sul bordo dell’esile presa, caricandola con tutto il peso del corpo. Eccomi qui, a quaranta metri da terra, completamente solo e sperduto in una desolata falesia del Galles. Improvvisamente sono travolto da una sensazione di incredibile euforia. Niente al mondo ha più importanza, niente se non ciò che sto facendo qui, ora. Sento di avere il controllo assoluto, sono soltanto felice e rilassato. Ogni cosa è perfetta. Naturalmente il dente di roccia terrà, è il mio destino. Non dimenticherò mai questo momento. Senza problemi proseguo fino a raggiungere una serie di prese migliori, e da lì continuo leggero fino alla cima della parete. Pur avendo solo vent’anni, so che questo è un giorno speciale. Venticinque anni dopo ricordo ancora ogni dettaglio, ogni sensazione provata quel giorno. Era come se mi trovassi su un sentiero. Ho avuto un’infanzia Solo 9
straordinaria e sono sempre stato molto legato ai miei genitori e ai miei due fratelli. A scuola faticavo nelle materie tradizionali, e adoravo invece le discipline sportive, le uniche in cui riuscissi a ottenere buoni voti. La mia vita era uguale a quella di tanti altri. Poi, a quindici anni, qualcuno mi portò a scalare, e niente fu più come prima.
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I PRIMI PASSI La signora Pyper mi aveva espulso dalla classe. Ancora una volta ero stato cattivo, e la maestra mi aveva spedito in corridoio. I raggi del sole entravano obliqui dalla finestra, rimbalzando sul legno lucido dell’armadio. Sentivo gli altri bambini in classe ripetere la lezione. Anch’io volevo essere lì dentro con loro, ripetere insieme a loro, pur sapendo che non avrei comunque capito. Difficilmente riuscivo a capire. Guardai il pavimento in parquet, con i tasselli di legno incrociati diagonalmente, e cominciai a saltellare avanti e indietro cercando di non calpestare le linee tra un tassello e l’altro. Vorrei che non mi avesse espulso dalla classe. Vorrei non essere stato cattivo. Vorrei capire la lezione. Ma non ci riuscivo, tutto qua. Trascorsi la mia infanzia a Bushby, un minuscolo paese appena fuori Leicester. Stavamo in campagna, in una grande fattoria ristrutturata: papà, mamma, Simon, il mio fratello maggiore, Toby, quello minore, e io. Tutto attorno c’erano campi coltivati, ruscelli e foreste in cui adoravo perdermi. Dai quattro agli otto anni frequentai la scuola materna Duncairn. Regolarmente a Natale, Pasqua e fine anno i miei genitori ricevevano una relazione sui miei progressi. Quei documenti, che conservo gelosamente, rappresentano ancora oggi una lettura affascinante. I primi passi 11
Jerry effettua la prima ripetizione di The Prow (E7), la classica di Ron Fawcett a Raven Tor, nel Peak District (1982). Foto: Greg Lucas
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GLI ANNI DI STONEY Finita l’estate in Galles, ero di nuovo a fare l’autostop, questa volta diretto verso la casa dei miei, a Leicester. Non appena varcai la porta, mia madre mi disse che puzzavo da far schifo e mi costrinse a farmi un bagno. Pensai che stesse esagerando, ma quando uscii dalla doccia e rientrai nella camera dove avevo buttato i vestiti, il tanfo mi fece quasi vomitare. Ai miei genitori, sollevati nel vedermi tornare a casa sano e salvo, raccontai con entusiasmo tutto quel che era successo in quei due mesi, le vie che avevo scalato, la salita di Strawberries, gli incontri con Pete Livesey e Dougie Hall. Non so quanto mi stessero realmente ascoltando, so solo che continuavano a sorridere dicendo che doveva essere stata proprio una bella vacanza. Quando invece cominciai a parlare del capanno, della sporcizia e dei ratti, la cosa sembrò destare improvvisamente la loro attenzione, oltre a provocare un’evidente reazione di disgusto. Finalmente arrivarono i risultati dei miei esami: in totale ero riuscito a prendere sei voti accettabili, e la cosa riempì i miei di orgoglio; anch’io ero molto soddisfatto, soprattutto considerando la mia severa condizione di dislessia. Dopo la scuola avrei voluto iscrivermi al college e studiare per diventare Guardia Forestale, ma i risultati che avevo ottenuto non erano abbastanza alti. Venne così il momento in cui i miei genitori mi chiesero Gli anni di Stoney 51
«Ehi». «Ma tu non sei… Jerry… Mullett… Mufflett…?». Evidentemente la voce di Supercrack, Psycho e Genesis si era sparsa velocemente, arrivando addirittura fino a lui. La storpiatura del mio nome era palesemente intenzionale. «Sì, infatti. Il nome comunque è Moffatt. Jerry Moffatt». «Quello che è. Buona giornata, ragazzi». Detto questo, si fece strada tra me e Chris e poi, di tutte le vie a Joshua Tree, di tutte le migliaia di linee della falesia, salì slegato proprio quella che ci stavamo preparando a scalare. Arrivò su senza una goccia di sudore, poi scomparve dall’altra parte della parete, lungo il sentiero. Quando toccò a me, arrivai in cima coi conati di vomito per la fatica. John Bachar, la leggenda. Nelle settimane che seguirono avrei imparato a conoscerlo molto bene, finendo per scalare assieme a lui parecchie vie. Era un personaggio straordinario, intelligente, divertente, e capace tanto di gesti di enorme generosità quanto di atteggiamenti davvero irritanti. Negli anni successivi avrebbe pagato di tasca sua per aiutarmi nella riabilitazione dopo il mio infortunio e poi, qualche tempo dopo, in preda a un attacco di frustrazione avrebbe staccato a martellate la presa chiave di uno dei miei migliori problemi di sempre. Per aiutarmi a migliorare mi avrebbe svelato tutti i trucchi dell’arrampicata, segreti che si era guadagnato con anni di dura gavetta, mentre al tempo stesso non mi avrebbe mai rivelato come salire un blocco su cui stavo penando. Una volta, ad esempio, stavo provando senza successo uno dei suoi problemi a Cap Rock. Quando John arrivò, gli chiesi qualche consiglio su come muovermi. «Questo è davvero duro, John, come l’hai salito?». Silenzio. «Allora? Qual è l’appoggio migliore per i piedi?». Si ostinava a tacere. «Cos’è, non vuoi dirmelo?». John sosteneva di aver ereditato questa caratteristica da John Gill: mai rivelare a nessuno come si sale un blocco, ma lasciare che ci si arrivi da soli, perché anche quello fa parte della difficoltà del problema. Continuai a provare diversi approcci, senza nessun miglioramento. Per tutto il tempo John se ne rimase lì, in silenzio, a guardarmi smanacciare malamente su quelle prese. Non potevo crederci. Qualche giorno più tardi tornai a quel blocco con Mike Lechlinski, un amico di John. Jerry Moffatt TOPO DI FALESIA 86
John Bachar mostra la tallonata ‘segreta’ sul boulder Pumping Monzonite a Joshua Tree. Foto: Arch. Moffatt
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«Ah, sì» disse Mike. «John l’ha salito con un tallonaggio su quello spigolo». Provandolo in quella maniera riuscii facilmente a venirne a capo. Più tardi quella stessa settimana ero di nuovo lì, questa volta con Chris, che mi aveva sentito parlare del blocco e aveva dunque voglia di provarlo. «Ehi Jerry, come si sale questo blocco? Non riesco a capire bene il movimento». «Mi spiace Chris, ma non posso dirtelo». «Cosa?!». Non glielo dissi. Che idiota. Quella fu l’unica volta che litigammo sul serio in sei mesi e mezzo di scalate insieme. Scusa Chris. Ripensando a quei tempi, ricordo benissimo tutti i blocchi e le vie salite, ma la cosa veramente speciale di Joshua Tree, l’aspetto senza dubbio più incredibile della mia permanenza in quel posto, era la semplicità della vita. Non avevamo una macchina, ma ogni settimana riuscivamo a trovare un passaggio fino in città, a un’ora circa di distanza, dove potevamo fare scorta d’acqua. Altrimenti ce ne stavamo nel parco per tutto il tempo, oppure al campeggio, o in parete. Ci svegliavamo un’oretta dopo l’alba per lasciare che il sole allontanasse il gelo della notte, poi mettevamo l’acqua a bollire e facevamo colazione. Mentre il giorno si scaldava scambiavamo quattro chiacchiere, facevamo un po’ di stretching e qualche trazione. Poi andavamo a scalare, a volte in gruppo, o in coppia, altre volte ognuno per conto proprio per un po’ di free-solo. Alla sera rientravamo e ci preparavamo la cena, allestendo un fuoco attorno al quale ci sedevamo. Il resto della serata lo passavamo con una tazza di tè in mano, chiacchierando e guardando la legna bruciare. Questa era la nostra serata tipo, ricordo di aver trascorso ore intere semplicemente a fissare la fiamma ardere o ad ammirare il cielo notturno. La volta celeste sopra Joshua Tree ti lascia senza fiato, è così piena di stelle da far venire i brividi. Il parco è davvero un posto meraviglioso, puro e incontaminato. È un deserto di collinette dal profilo frastagliato coperte di enormi massi di granito color rame, e pareti rocciose sparse tutt’attorno che creano un panorama complesso e affascinante. I tozzi alberi di Joshua, da cui il posto prende il nome, sono ovunque. Rimanemmo lì per tre mesi, al termine dei quali conoscevo la zona come le mie tasche, ogni arbusto, ogni blocco. In alcuni angoli nascosti si trovavano ancora resti di pitture indiane, e a volte mi capitava di trascorrere l’intera giornata a vagabondare tra quei sassi, assorto nei miei pensieri, alla ricerca di cose da scoprire. C’era un bel gruppetto di scalatori al tempo, tra cui un tale di nome John Long, uno dei più famosi climber americani degli anni settanta. Era Jerry Moffatt TOPO DI FALESIA 88
appassionato di scalate in notturna, e alla luce della luna ci portava spesso lungo fantastiche vie poco impegnative, oppure su linee esposte nella parte alta della falesia. Seduto poi insieme a noi in cima alla parete, ci raccontava storie e aneddoti. Era un intrattenitore nato, davvero divertente e intrigante, nonostante quel che raccontasse fosse difficilmente credibile. Magari erano un po’ esagerati, ma non importava, quei racconti erano davvero avvincenti, e non a caso John sarebbe poi diventato uno dei più grandi scrittori di montagna degli Stati Uniti. Chris e io continuavamo ad allenarci sulle classiche della falesia, diventando ogni giorno più forti, ma soprattutto abituandoci sempre di più al granito di Joshua Tree. Un giorno dissi a Bachar che avevo intenzione di provare Equinox. Con qualche consiglio da parte sua, speravo di farcela in meno di tre giorni. «No amico, la devi salire al primo tentativo, flash». Flash? Ma se lui ci aveva messo tre giorni per salirla con la corda dall’alto, e Yaniro anche più tempo per liberarla da primo? «Te lo dico io, Jerry, si può salire al primo giro». L’idea mi aveva catturato, e così decisi di provare a salirla flash. Sapevo di non essere pronto in quel momento, ed ero consapevole che se volevo rendere quella via realmente possibile avrei dovuto portare la mia scalata a un livello superiore. Ero comunque certo di potercela fare. Avevo ancora molto tempo da trascorrere a Joshua Tree e, cosa ben più importante, avevo John Bachar. Fin da subito avevo capito che John era una di quelle persone dalle quali si possono imparare un sacco di cose. Oltre a essere uno scalatore fuori del comune, John aveva un approccio molto analitico verso la propria arrampicata. Leggeva libri sull’allenamento, sulla dieta, sui tipi di movimento, insomma su qualsiasi cosa potesse in qualche modo influenzare il suo modo di scalare. In questo senso era un vero pioniere, il primo ad adottare questo tipo di approccio per l’arrampicata. Divorava pagine su pagine, ne assimilava tutti i concetti per poi applicarli alle proprie esigenze. E ora, con il suo aiuto, mi sarei potuto allenare affinando la tecnica fino a raggiungere il livello di cui avevo bisogno. Per prima cosa, John mi parlò della dieta. Io ero abituato a mangiare qualsiasi cosa mi riempisse la pancia al minor costo, e cioè noccioline, pane a fette, salsa al curry, ketchup, riso bianco e focaccine ammuffite. Niente frutta, né verdura. L’alimentazione di John era invece molto salutare, basata su una dieta quasi esclusivamente vegetariana. Mi diede un libro chiamato Diet for a Il sogno americano 89
potevo sentire gli applausi, le urla di incoraggiamento, l’ammutolire improvviso della folla. Da quei rumori avevo capito che entrambi i miei due rivali avevano fatto bene, ma che non erano riusciti ad arrivare in cima. Se volevo essere certo di portare a casa la vittoria, dovevo arrivare in catena. Ero elettrizzato al pensiero di giocarmi la finale davanti a tutta quella gente. Un giudice entrò: era il momento. Quando uscii dalla stanza, dalla folla si levò un fragoroso applauso. Salutai con la mano, per poi incamminarmi alla base della via e legarmi alla corda. Mi allontanai di qualche passo per studiare la linea, proprio come mi ero allenato a fare. Era strapiombante, con imponenti sezioni dall’aspetto boulderoso su microtacche. Perfetta per il mio stile di arrampicata. Visualizzai Jerry combattere appiglio dopo appiglio, fino in cima. Poi cercai di sentire Jerry combattere appiglio dopo appiglio, fino in cima. Ero nervoso, e sentivo l’adrenalina correre all’impazzata nelle mie vene; ma mi ero preparato a quel tipo di sensazione, e grazie al libro sapevo cosa aspettarmi. «Puoi cominciare» mi disse un giudice. Feci qualche passo avanti, e attaccai. Da subito iniziai a salire focalizzandomi su quel che facevo, ogni movimento controllato, la determinazione assoluta. Ciononostante nella parte bassa per poco non venni giù. Non persi comunque la concentrazione, e continuai a macinare metri fino a raggiungere una presa sotto a un grosso strapiombo. Un bel po’ sopra, un appiglio buono. Scrollai le braccia, cercando di prepararmi. Avevo visto da subito che si doveva per forza lanciare. Dopo l’esitazione nella prova precedente, questa volta non avrei commesso errori simili. Lo sguardo inchiodato sulla presa buona più su, caricai il movimento, mi concentrai, e lanciai con tutta la forza che avevo in corpo. La mia mano raggiunse la presa, stringendola come una tenaglia. Persi sia i piedi che l’altra mano, e mi ritrovai a sbandierare appeso soltanto alla presa buona. Accoppiai immediatamente, e in qualche modo riuscii a riposizionare i piedi in parete. Il pubblico esplose. Sentendo quel boato capii immediatamente che Simon e Didier dovevano essere caduti prima di quel movimento. Avevo vinto. Ma non mi lasciai distrarre: il mio unico pensiero era quello di arrivare in catena. Caricai nuovamente un piede, mi allungai con l’altra mano e ripresi a salire gli ultimi metri. Ho rivisto più e più volte la mia prestazione in televisione, e devo ammettere che sembro abbastanza tranquillo sull’ultima sezione. Beh, non lo ero affatto: ero gonfio da morire, le braccia mi si stavano per staccare. L’ultimo movimento consisteva nel rinviare la corda tenendo la catena con l’altra mano, e devo dire che se fosse stato anche solo due centimetri più in alto non ce l’avrei mai fatta. A fatica riuscii a passare la Jerry Moffatt TOPO DI FALESIA 218
Il trionfo alla Coppa del Mondo di Leeds nel 1989. In un articolo per Grimper del 1994, il tre volte Campione del Mondo François Legrand avrebbe poi scritto: “Il mio solo dispiacere è che Jerry abbia smesso di gareggiare nel 1990. Era un rivale ambizioso e leale, una cosa davvero rara nel mondo delle competizioni. Forza Jerry, torna a gareggiare, e facci soffrire come a Leeds nel 1989!”. Foto: Eric Whitehead
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corda nella catena, dopodiché sfogai tutta la mia gioia con un urlo liberatorio. Il mio primo pensiero fu che avevo salito la via flash, e solo quando sentii la folla urlare e gridare il mio nome, mi concessi la consapevolezza della vittoria. Da quel momento in poi i ricordi sono molto sfocati: vengo calato a terra, scoppia un grosso applauso, qualcuno mi si avvicina e mi fa qualche domanda. Una volta realizzato ciò che avevo fatto, non stavo più nella pelle dalla gioia: avevo vinto, avevo davvero vinto. Tutta quella fatica, quei sacrifici, alla fine avevano dato il loro frutto. Avevo battuto i più grandi atleti del mondo, avevo trionfato in una gara straordinaria di fronte al pubblico di casa. Ce l’avevo fatta finalmente, dopo tanto tempo. Il libro, tutto sommato, aveva funzionato. Leeds fu senz’altro uno dei momenti più importanti della mia carriera: la gara era stata trasmessa in televisione, e tutti le riviste avevano dedicato pagine e pagine alla mia vittoria. Ero finalmente riuscito a dominare il mondo delle competizioni. Avevo una formula magica, e sembrava funzionare. Quel giorno segnò l’inizio di una carriera agonistica di grande successo. Dopo Leeds, nel 1989 vinsi ancora a Colonia e a Madonna di Campiglio, arrivando invece secondo a Lione, La Riba e Bardonecchia. Venne indetta una Coppa del Mondo a circuito, in cui i vari campioni si sarebbero misurati in una serie di competizioni in diversi paesi. Il più delle volte, per piazzarsi bene in quella coppa era necessario viaggiare in continuazione verso posti sperduti e poco interessanti per cercare di accaparrarsi un minuscolo premio. In pratica, un gran spreco di tempo. Cominciai invece a interessarmi all’ASCI, la Association of Sports Climbers International, un’organizzazione che sceglieva i dieci eventi agonistici più importanti dell’anno, come ad esempio quello più popolare o quello con maggior premio in denaro, e assegnava punti ai vari scalatori in base alle loro prove in tali gare. I punti venivano conferiti secondo i migliori cinque piazzamenti delle ultime dieci gare cui un atleta aveva preso parte. Servendosi di questi risultati l’ASCI stilava poi una classifica che veniva utilizzata per convocare i migliori atleti del momento ogni qualvolta si presentava una nuova importante manifestazione, che coincideva spesso con una gara su invito con grossi premi in denaro. Alla fine del 1989, in cima a quella classifica c’era il mio nome. Nel 1990 continuai a partecipare alle competizioni internazionali, e verso la fine dell’anno venni a sapere che si stava avvicinando un evento importante: la gara annuale a Bercy, vicino a Parigi, il cui premio in palio per il Jerry Moffatt TOPO DI FALESIA 220
vincitore ammontava a 5000 sterline. Per allenarmi dovevo lavorare molto su vie sportive, e a quel tempo il posto migliore era ancora la Francia: era giunta l’ora di mettersi in viaggio verso Buoux. Il tempo instabile rendeva difficile allenarsi tutti i giorni, ma nonostante la pioggia riuscii in qualche modo a seguire la mia tabella. Al campeggio vivevo dentro a una roulotte, e ascoltavo spesso la stazione French Fun Radio, che di tanto in tanto passava notizie sulla gara a Bercy. Ogni volta che sentivo quello spot, il nome dei miei grandi rivali strombazzava fuori dalle casse: «Jacky Godoffe… Marc Le Menestrel… Jibé Tribout… Stefan Glowacz…». Ehi…dov’è finito il mio nome? Sono io quello che dorme in un caravan e sputa sangue tutti i giorni! D’accordo, allora vedremo chi vincerà stavolta. Rimanemmo soltanto io e Jibé in finale; il francese si batté fieramente, ma alla fine, anche se di poco, fui io quello che riuscì a spuntarla. Da Bercy feci rotta verso Briançon. Anche qui mi ritrovai ultimo nella zona di isolamento; gli altri atleti avevano già gareggiato, ma nessuno era riuscito a risolvere un orribile movimento dentro a un diedro a metà circa della via. Tutto sembrava far pensare a un pareggio, ma quando toccò a me, superai il passo duro e arrivai in catena, vincendo la competizione. Più tardi, mentre me ne stavo andando, Jibé mi si avvicinò nel corridoio. Era visibilmente deluso dalla propria prestazione. Come tutti gli altri, era venuto giù sul diedro. Si fermò proprio davanti a me, mi guardò dritto negli occhi e disse: «Sì Jerry, è vero. Per il momento sei tu il migliore». Poi si girò, e se andò. Non dimenticherò mai quell’istante. Di tutti gli scalatori al mondo, sentire quelle parole venire proprio da Jibé fu come ricevere un’investitura da cavaliere. Per quanto visibilmente amareggiato dalla propria prova, era riuscito a trovare il coraggio per venire a parlarmi in quel modo. Lentamente cominciava a spargersi in giro la voce che fossi io il migliore, e la cosa mi rendeva incredibilmente euforico. L’ultima grande gara si sarebbe tenuta a Saint Jean de Maurienne, tra Grenoble e Chamonix. Erano previste cinque diverse discipline in altrettante giornate di prove: roccia a vista, artificiale a vista, lavorato, boulder e speed-climbing. Anche i premi in palio erano notevoli: cinquecento sterline per ogni gara, più tremila per il vincitore complessivo. Con tutte quelle prove, chiunque avesse trionfato a Maurienne doveva per forza essere il miglior scalatore del mondo. Mi allenai come un disperato, affamato come non mai di vittoria. La competizione fu massacrante. Arrivai primo nella gara a vista, mentre La mentalità vincente 221
100 cc che viaggia a ventimila giri al minuto, ma ti trovi praticamente a livello dell’asfalto e senza nessuna scocca di protezione, eccetto il telaio tubolare ribassato. Oltretutto, se spingi davvero a tavoletta puoi raggiungere un’accelerazione pazzesca; insomma, correre su uno di quei missili è un’esperienza da brivido. In quel periodo stavo provando una nuova e impegnativa via a Raven Tor, quella che poi sarebbe diventata Evolution. Durante uno dei miei tentativi ero caduto a pochi movimenti dalla fine, e sapevo quindi di esserci molto vicino. Il giorno seguente decisi di fare recupero e portai il mio kart al circuito Three Sisters di Wigan per farmi un giro. C’è un tratto strepitoso, caratterizzato da un leggero dosso seguito da una rapida chicane. Ogni volta che lo affrontavo, lasciavo istintivamente andare il pedale dall’acceleratore; a ogni giro provavo a schiacciare a tavoletta, ma finivo sempre per sollevare il piede di qualche millimetro. Quella volta, dopo qualche giro, mi costrinsi a tenere il piede giù, forzai il mio stesso istinto di sopravvivenza e finalmente arrivai al dosso alla massima velocità, il pedale del gas completamente schiacciato. Improvvisamente, davanti a me, una donna vestita di bianco. Che diavolo ci fa quella qui?! Persi il controllo del kart, andai a toccare prima il muretto laterale per poi sbandare contro l’altro lato della pista, finendo catapultato in aria. Il kart atterrò nell’erba fuori dal circuito, piantandosi con le ruote davanti. Atterrai di testa e il mio casco andò a sbattere violentemente contro la spalla: frattura scomposta della clavicola. Proprio come per Liquid Ambar, ero fuori per qualche mese, ed Evolution avrebbe dovuto aspettare per almeno un altro anno. Dopo quella volta smisi di andare in go-kart, ma ancora oggi non saprei dire chi fosse quella donna in bianco. Per uno come me, che aveva fatto dell’arrampicata una vera professione, gli sport di velocità si stavano rivelando troppo pericolosi: per rilassarmi per bene avevo bisogno di qualcosa di più tranquillo. Uno scalatore professionista non può allenarsi tutto il giorno, soprattutto ad alti regimi, e così si ritrova spesso con parecchio tempo libero. Da questo punto di vista, il golf sembrava essere la risposta perfetta: nessuna clavicola fratturata, nessun atterraggio di testa, nessuna sbandata a centossenta all’ora. In fin dei conti di trattava di un modo estremamente piacevole di trascorrere qualche ora con i propri amici, che si integrava perfettamente con le pesanti sessioni di allenamento in palestra. A quel tempo non c’era sport migliore da affiancare all’arrampicata. Oggi gioco ormai da quindici anni, mi piace da morire, e ho raggiunto un handicap di gioco di sette-otto punti. Mi sono iscritto all’Hallamshire Golf Club, il migliore della zona; si trova appena fuori Sheffield, e guarda proprio la brughiera del Jerry Moffatt TOPO DI FALESIA 288
Prese minuscole e lunghi dinamici su Evolution (8c) a Raven Tor. Foto: Steve Lewis
Peak District. Quando da ragazzino dormivo in camera da Noddy, a Broomhill, andavo spesso a correre da quelle parti, proprio attorno al campo da golf. Dietro la seconda buca c’è una piccola area boulder chiamata Bell Hagg, dove ogni volta mi fermavo per fare il traverso avanti e indietro con le mie scarpe da corsa, prima di tornare al campo e da lì verso casa di Noddy. Ho tantissimi ricordi splendidi di quel periodo, e ancora oggi mi capita di incontrare ragazzi che attraversano il green della prima buca, crash-pad in spalla, diretti a Bell Hagg. Niente potrà mai sostituire l’arrampicata, o prendere il suo posto nella mia vita, ma da quando ho deciso di smettere la mia grande passione è diventata il surf. Nel 1991, in America, dopo aver liberato Stick It e The Force, mi lesionai Il prossimo movimento 289
seriamente il tendine di un dito, e per qualche tempo fui costretto a rimanere fermo. Avevo un amico, un fotografo di nome Kevin, che viveva a La Jolla, vicino a San Diego. Oltre a essere uno scalatore incallito, Kevin era anche appassionato di surf, e mi invitò a stare da lui per qualche tempo. Mi trovavo di fronte a una scelta: tornare in Inghilterra con un tendine rotto e trascorrere la piovosa estate davanti alla televisione, oppure andare a fare surf nelle soleggiate spiagge della California? Fu davvero una decisione difficile. San Diego era un posto da sogno. Kevin viveva in una splendida casa in riva al mare, proprio davanti a una popolare spiaggia chiamata Windansea. Solitamente, appena alzati, ci andavamo a sedere sugli scalini del porticato a guardare il mare mentre Kevin suonava la chitarra. Dopodiché, con tutta calma andavamo al bar a far due chiacchiere davanti a una tazza di caffè, tirando avanti fino all’ora di pranzo. Affamati, andavamo a cercare un posto dove mangiare, finendo quasi sempre in un ristorante gestito da un amico di Kevin che preparava deliziosi piatti di pesce fresco. Quindi saltavamo in macchina verso qualche spiaggia per controllare le onde. Facevamo il giro di tutta la zona per poi tornare regolarmente nel primo posto che avevamo visto. Per tre settimane, giorno dopo giorno, questa fu la nostra routine. Quando smisi di scalare mi resi conto che parecchi dei miei vecchi compagni di falesia, proprio come me, erano passati alla tavola. Nel mondo dell’arrampicata se vuoi raggiungere un buon livello devi allenarti costantemente, e quando gli impegni familiari o di lavoro cominciano a farsi troppo pressanti, molta gente non riesce più a mantenere i livelli cui era abituato, e inizia a sentirsi frustrato quando poi va in parete. Per molti dei miei amici in questa situazione, il surf rappresentava qualcosa di nuovo, e offriva loro le stesse emozioni e le stesse gratificazioni provate i primi tempi con l’arrampicata: l’aria aperta, il brivido, l’abilità, il gruppo di amici, il paesaggio. Era perfetto. Molti di loro andavano spesso a surfare nella costa est dello Yorkshire, e così cominciai ad aggregarmi. Laggiù il tempo può essere davvero tremendo, acqua gelida e onde enormi; insomma, un’esperienza abbastanza intensa. Il primo giorno andai con Gavin, un vecchio amico, che mi portò in una zona vicino a Scarborough. Era una giornata di tempesta, spazzata da violente raffiche di vento e da una pioggia rabbiosa. Mentre ci incamminavano giù verso il mare, incrociammo un ragazzo che tornava dalla spiaggia; portava la propria tavola, spaccata in due, e perdeva sangue da un taglio sotto all’occhio. «Non posso credere che alla tua prima esperienza tu venga quaggiù con me, Jerry. Sei forte, amico!». Raggiungemmo il promontorio roccioso, sferzato da spaventose onde Jerry Moffatt TOPO DI FALESIA 290
nere. Ripensavo alla frase di Gavin, chiedendomi cosa avesse voluto dire. Lo capii una volta preso il largo, ma ormai era troppo tardi, e trascorsi così il resto del pomeriggio a cercare di evitare le onde. Da quella volta cominciai ad appassionarmi seriamente al surf, finendo col praticarlo sempre più spesso. Non sono un fenomeno, ma me la cavo, e miglioro di giorno in giorno. A volte può fare paura, ma questo è uno degli aspetti che più amo di questo sport. Non scorderò mai la mia prima onda perfetta, la forza dell’acqua che cerca di inghiottirmi mentre sfilo via leggero. È una sensazione unica, come se il tempo stesso si congelasse attorno alla tavola; chiunque l’abbia provata anche solo una volta sa bene cosa intendo. Ho girato il mondo e visitato alcune tra le destinazioni surfistiche più spettacolari del pianeta, ma credo che le scogliere a nord di Whitby rimangano le mie preferite. Ho ancora molti ottimi amici lassù, e raramente mi lascio sfuggire un weekend di surf se le previsioni meteo sono buone. Potrei anche andare da solo, e quasi sicuramente in acqua incontrerei qualcuno che conosco. A dire il vero in quella zona le condizioni possono diventare assai spiacevoli, per cui sono pochi i surfisti che si arrischiano fin là. Non ci sono vincitori, e non ci sono vinti: te ne vai lì, da solo o con qualche amico, e cerchi di prendere qualche onda. Molte delle migliori giornate che ho trascorso in quella spiaggia sono state caratterizzate da condizioni atmosferiche atroci. Ma una volta che sono in acqua, a ridere come un matto con qualche amico, è come tornare a Stoney Middleton: semplicemente fantastico. Una cosa tuttavia non mi dispiacerebbe cambiare, la temperatura dell’acqua. Oggi vado a Whitby almeno due volte a settimana, gioco regolarmente a golf, e quando capita una di quelle fredde giornate invernali senza una nuvola in cielo, mi regalo qualche ora di blocchi o free-solo. Cerco di fare dello sport quasi tutti i giorni, ma soprattutto cerco di essere a casa quando Lily e Barnaby tornano da scuola. La maggior parte degli amici che frequento ora non sanno neanche cosa sia l’arrampicata, ma io so che se oggi sono quello che sono, se posso dire di avere avuto una vita straordinaria, è solo e soltanto grazie a questo sport. Sono molto orgoglioso di quel che ho raggiunto, anche se non mi piace troppo guardarmi indietro. Oggi, però, rivedo quel ragazzino neanche ventenne dai capelli ricci che guarda dritto nella telecamera di un giornalista americano e dice: «Cosa mi piace di questo sport? Bruciare gli altri scalatori, lasciarli indietro». E mi domando sono davvero io quello?
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… Quando ero piccolo tutti i miei compagni sembravano avere già le idee chiare sul proprio futuro: «Voglio essere un dottore, come papà» oppure: «Io farò la maestra, come mamma». Io non ero da meno e così, quando mi chiedevano cosa avrei fatto dopo la scuola, avevo già pronta la risposta: «Sarò un topo di falesia». Nell’arrampicata, dove non ci sono Olimpiadi, medaglie o trofei per le vie più dure, fare una prima ascensione assoluta è fondamentale. Un nuovo problema è come un monumento, una testimonianza di abilità e determinazione scolpite nella roccia per sempre.
€ 19,90
ISBN 978 88 55470 551