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Prefazione di Simone Moro

Kathmandu 5 dicembre 2003 ore 23:48. Fu proprio in quella città che iniziai a scrivere questa riflessione.

Da lì sono cominciate molte delle spedizioni di Jerzy Kukuczka e mi piace l’idea che da quei luoghi sia partito anche il mio scritto. Chissà fino a che punto è casuale che io allora mi trovassi in compagnia di quattro alpinisti polacchi e che stessi per tentare una scalata a una cima di 8000 metri che ancora attendeva il suo primo salitore d’inverno. Probabilmente se Jerzy fosse vivo sarebbe stato lì con noi o forse l’avrebbe già salita e aggiunta al suo palmarès.

Avevo sfogliato questo libro per la prima volta proprio lì, nella capitale nepalese, alcuni anni fa, mentre passeggiavo per le vie di Thamel in attesa di partire per il campo base di qualche montagna. Era la versione inglese ed ero rimasto sorpreso di non averlo mai visto sugli scaffali delle librerie di casa nostra, tradotto nella nostra lingua. Dopo tutto Kukuczka era molto conosciuto anche da noi come alpinista e anche come testimonial di una ditta italiana di materiale d’alpinismo. Lo si era potuto incontrare anche in occasione di alcune sue conferenze tenute proprio nel bel paese, ma chissà per quale motivo a noi erano giunte solo le sue gesta e non le parole che aveva messo nero su bianco.

Da qualche tempo, finalmente, il libro c’è. Kukuczka si presenta subito con umiltà parlando dei suoi iniziali limiti personali, delle forti difficoltà di lavorare e contemporaneamente affrontare le alte quote e questo permette di entrare in confidenza e amicizia con un uomo “come tanti”. Ci sentiamo infatti un po’ come lui e magari affiorano nella memoria quei momenti difficili vissuti in montagna o nella vita che magari avevamo accantonato per orgoglio come fossero episodi ormai superati e di cui quasi ci vergognavamo un po’.

Apprendere che un grande campione ha iniziato faticando e arrancando, ci comunica un messaggio forte: quello che la determinazione e il rifiuto di ogni falso alibi possono portare a essere addirittura un numero uno.

Kukuczka rimane però un uomo schietto, che comunica senza convenienze e in modo diretto. Le sue taglienti opinioni sugli alpinisti occidentali “che come le automobili che producono sono perfette ma sulle strade perfette” (che siamo insomma delle “schiappe” in condizioni veramente dure e difficili), non lasciano spazio a molte interpretazioni.

Forte e lungimirante è anche la riflessione sul sovraffollamento di alcune vie normali alle grandi montagne e l’importanza di poter cercare e trovare solitudine. Suggerisce, proprio come fa da tempo anche Messner e molti di noi, di ridurre il numero dei permessi.

Con il passare delle pagine e con l’attenzione che a volte viene catturata dagli aspetti puramente alpinistici, risulta subito incredibile come il secondo uomo della storia che ha salito tutti gli Ottomila, sia riuscito a farlo in così breve tempo e in quelle condizioni economiche. Con il budget di una normale spedizione “occidentale” lui ha dimostrato di saperne fare quattro o cinque e ci racconta come è stato possibile e difficile sopportare gli sprechi e le furberie di certe persone.

Questo libro non è solo una sequenza di spedizioni e di singole avventure vissute. Ci sono spesso riflessioni e analisi introspettive che escono fluide tra una cima e l’altra, tra un campo alto e quello successivo. Il rapporto con la famiglia, gli impegni assunti, le opinioni altrui sono spesso i temi dei suoi pensieri. Ha lottato anche lui con le opinioni e le malelingue dei soliti invidiosi e incapaci al confronto.

Kukuczka parla anche del suo “avversario” Reinhold Messner, ma dalle sue parole non si coglie una vera e forte rivalità, bensì una più saggia e matura stima, la stessa che lo spingeva a emularlo e a tentare di superarlo con la realizzazione di vie nuove e prime invernali. È proprio del grande freddo che diverrà re incontrastato.

Non a caso mentre mi stavo accingendo a tentare lo Shisha Pangma in invernale sapevo che gli altri sette Ottomila scalati in quella stagione erano stati tutti opera di polacchi… Le altre sette vette che rimangono rischiavano di essere ancora bottino loro, o di qualche altro alpinista dell’ex URSS se noi “schiappe” non ci fossimo svegliati e fossimo usciti dalle “strade perfette”.

Dai suoi racconti emergono in maniera impressionante il numero di bivacchi estremi che ha saputo affrontare e ai quali è sopravvissuto. A volte prima ancora di giungere all’epilogo dei vari tentativi di salita in vetta ci si prepara a leggere dell’ennesimo bivacco a cui spesso ne segue subito un altro il giorno successivo.

In questi epici racconti fa spesso capolino la morte che numerose volte, purtroppo, è stata protagonista indesiderata nelle scalate di Kukuczka. Alcuni arriveranno addirittura a considerarlo uno “iettatore” per la sequenza sbalorditiva di quattro spedizioni consecutive con quattro morti. Non è mai passato nè fisicamente nè moralmente su quei cadaveri, e il fatto che abbia continuato a fare alpinismo non lascia intendere insensibilità o noncuranza. Jerzy

Kukuczka si rivela infatti un uomo di fede. Ci racconta il Natale, le sue preghiere, le sue lacrime e quanto diversa è questa immagine di uomo rispetto al cliché dei moderni “fuori classe”…

Un libro dunque utile, arrivato probabilmente nel momento giusto e che affianca l’immagine pulita e amata di un altro grande alpinista scomparso, Anatolij Bukreev. Molte sono state infatti le analogie che ho trovato in questi due mostri sacri dell’alpinismo; grandi uomini prima che grandi alpinisti.

Anche se ho conosciuto decisamente meglio solo il secondo dei due, ho apprezzato questa loro voglia di essere e mostrarsi comunque dei “semplici”, a volte quasi degli ingenui.

Di questo libro e di loro non rimarranno solo l’elenco delle vie nuove, delle prime invernali, delle traversate e delle cime vergini raggiunte, ma l’immagine di un sentimento e di una personalità che vorremmo avere anche noi.

Le capacità per agire e saperlo fare le dobbiamo invece guadagnare e Kukuczka ce lo ha insegnato, perché dai primi traballanti passi si può arrivare a quelli che restano nella storia, anche solo della nostra.

Simone Moro

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