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Prefazione di Reinhold Messner
Anno 1989. Ero a Punta Arenas, nel Sud del Cile, quando fui informato della morte di Jerzy Kukuczka. Pochi giorni prima era caduto sulla parete Sud del Lhotse. Una profonda tristezza e una grande perdita per l’alpinismo, nonché una immensa tragedia per la sua famiglia.
Ci eravamo visti spesso, la prima volta a Lukla, nelle montagne del Nepal. Era appena ritornato dal Lhotse, il suo primo ottomila. Poi a Kathmandu, al campo base del Makalu, sul Broad Peak. Come me, anche Jerzy, dopo arrampicate estreme nei Tatra e nelle Alpi, si era cimentato con le grandi montagne dell’Himalaya. Il primo ottomila lo tentò nel 1977. Fallì. Era il Nanga Parbat. Come per me, era la prima esperienza a quelle quote e come nel mio caso, essa lo cambiò.
Poi, tra il 1980 e il 1987 Kukuczka non è stato solo il più attivo, ma il più bravo alpinista di alta quota. Riuscì a scalare vie nuove, vie difficili, salite invernali, tutti gli ottomila. Anche grazie a lui l’alpinismo polacco raggiunse successi applauditi in tutto il mondo.
Dopo il suo ultimo ottomila, Jerzy, come me, sognava altre avventure. Aveva capito che una forma di vita estrema si era esaurita. Mentre mi preparavo per la traversata dell’Antartide, Kukuczka ha voluto rischiare un ultimo tentativo sulla parete Sud del Lhotse. Che sfida! Uno degli ultimi problemi dell’alpinismo moderno.
Nel 1975, dopo una spedizione giapponese fallita sulla parte sinistra della parete, con un forte gruppo di alpinisti italiani eravamo arrivati fin sotto la cresta sommitale. La vetta, però, era troppo lontana. Poi ci furono i tentativi degli jugoslavi, dei polacchi, dei francesi. Fallirono tutti.
Nella primavera del 1989 ho organizzato e accompagnato sulla Sud del Lhotse una spedizione con forti alpinisti di vari paesi che si diedero da fare sulla parte destra della parete. Io non intendevo salire: mi stavo preparando per la terza fase della mia vita, quella dei viaggi di avventura ed esplorazione a cominciare dalla traversata dell’Antartide.
Dopo la rinuncia della nostra spedizione, Jerzy Kukuczka si sentì stimolato per un ultimo tentativo. Spinto dagli amici, dalla stampa polacca, dal proprio orgoglio voleva tentare dove tutti, lui compreso, avevano fallito. Quella volta era disposto a spingere il limite di là di quanto raggiunto. Jerzy era esperto e poi aveva la capacità di soffrire, di aspettare e vincere. Nei canaloni superiori della parete Jerzy cadde, la corda si era rotta… Una vita piena e aperta a nuove frontiere era finita.
Penso spesso a Jerzy Kukuczka, in giro per il mondo, fra i deserti e il mare artico, fra le montagne di casa e quelle sacre di culture lontane; immagino le possibilità nascoste in quel grande uomo. Sono felice di averlo conosciuto. Purtroppo non ho avuto occasione di scalare con lui. La mia stima nei suoi confronti è rimasta viva come il ricordo, che ho voluto fortemente nel Museo della montagna a Bolzano, affinché anche le generazioni future sappiano di lui, delle sue esperienze, di uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi.
Quando Jurek completò la salita di tutti i quattordici Ottomila, gli inviai un telegramma di felicitazioni: “Non sei il secondo. Sei grande”. Lo confermo: grande e molto forte. Probabilmente il più forte fisicamente.
Reinhold Messner