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L’eterna attualità di un’umanissima leggenda

Jerzy Kukuczka nasce a Bogucice, quartiere di Katowice, il 24 marzo del 1948 da una famiglia di Górali, montanari dei Beschidi, provenienti dalla piccola località di Istebna, trasferitisi nel centro della Slesia come tanti altri, per cercare lavoro e un’esistenza migliore.

All’età di un anno fa temere i genitori per la prima volta: ammalatosi, gli vengono prescritte alcune medicine. Il miglioramento tanto atteso non arriva e, come se non bastasse, il bambino dorme per tre giorni filati, mandando la famiglia nel panico. Corsa all’ospedale, analisi, visite… Alla fine la verità viene a galla: lo sciroppo per il bambino era stato preparato in farmacia, dove l’avevano poi messo dentro ad una bottiglietta già usata per sonniferi e mai lavata…

Essere figlio di Górali gli permette fin dai primi anni di vita di andare a passare le vacanze in montagna a Istebna, dai nonni, divertendosi ad osservarli durante il lavoro sui campi e con le bestie, per la gioia del nonno che se lo porta dietro ogniqualvolta si muove per fare un qualche lavoro. Come tutti i nonni cerca di accontentarlo in tutto e quando il piccolo Jurek chiede di fare un giro a cavallo, il nonno non ci pensa due volte e lo sistema sul dorso dell’animale. La cavalla, però, parte a tutta velocità verso la stalla, dove c’era il suo puledrino, tra le urla del nonno che grida a Jurek di tenersi forte. Il bambino, però, continua a saltare sulla schiena dell’animale che arriva fin quasi all’entrata nella stalla, dove viene fermato dal provvidenziale intervento di un vicino di casa che, resosi conto della situazione, riesce a fermare il cavallo prendendolo per le redini. Fosse entrato in stalla, il bambino sarebbe andato a sbattere contro il soffitto, e probabilmente si sarebbe fatto male.

Istebna e le origini di montanaro dei Beschidi segnano la sua crescita, per tutta la vita il villaggio natale dei suoi sarà sempre il suo buen retiro, il luogo cui poter sempre fare ritorno per sentirsi a casa da ogni punto di vista.

Per i ragazzi della Slesia, uno dei passatempi preferiti era andare a giocare agli indiani nelle piccole miniere abbandonate che ribattezzano “le Alpi”. A un certo punto però i suoi coetanei spostano i loro interessi su tutt’altro, dedicandosi anche già ai primi innamoramenti, mentre lui continua a fare il “conquistatore delle Alpi”. A scuola eccelle in geografia e in educazione fisica, si

rivela un ottimo organizzatore per tutti i tipi di giochi e di imprese, diventando leader riconosciuto della sua classe, anche se questa caratteristica gli costa non poche lavate di capo e parecchi scappellotti perché i severi docenti slesiani, qualsiasi cosa capitasse all’interno della classe, indipendentemente dalla colpa, lo scelgono immancabilmente come capro espiatorio cui affibbiare le punizioni.

In seguito si iscrive all’istituto tecnico professionale di Katowice e riesce poi a trovare un lavoro nel campo dell’impiantistica, continuando peraltro a seguire i corsi serali e potendo così lavorare e studiare allo stesso tempo. Come sport, inizialmente si dedica al sollevamento pesi, cui sembra naturalmente dotato: non particolarmente alto, robusto e forte, potrebbe essere lo sport che fa per lui. Peccato, o forse per fortuna, non va d’accordo con gli allenatori di quella disciplina e ben presto passa dal bilanciere a corde e piccozza. Per lui è una sorta di ritorno alle montagne cui è sempre stato legato fin da giovanissimo. Come tutti inizia con le passeggiate che presto si tramutano in escursioni, quindi in giri sugli sci in inverno. Ancora non aveva mai sentito parlare di arrampicata quando una domenica di settembre un suo carissimo amico, Bolek Pawlas, lo invitò ad andare alle Skałki, le “paretine”, l’equivalente di ciò che in zona alpina o dolomitica di sarebbero chiamate palestre di roccia (o adesso falesie) a bassa quota. Queste formazioni rocciose non mancano in quella zona, dallo Jura di Cracovia e Częstochowa a Podlesice, ed è lì che per la prima volta conosce le pareti e il gusto dell’arrampicata. Da quel momento tutto il resto cessa di esistere e ha inizio la sua avventura, quella sua passione per la montagna che durerà più di vent’anni. Nel 1965 entra a far parte del Club Alpinistico Scout di Katowice, dove svolge attività di turismo evoluto (come si diceva allora) e organizza manifestazioni che hanno a che fare con l’ambiente dell’arrampicata e della montagna, come lunghe escursioni, campi invernali, arrampicate su roccia e speleologia.

Nel 1966 entra a far parte del Club d’Alta Montagna di Katowice e in primavera, assieme ai compagni, partecipa ad un corso d’arrampicata sul Morskie Oko, nei Tatra. Qui sale la sua prima via, la classica al Mnich, ascensione effettuata con materiale fatto da lui stesso, ma sotto gli attenti occhi di ottimi istruttori come Janusz Kurczab e Kazimierz Liszka. Proprio sui Tatra inizia ad arrampicare in coppia con un altro giovane appassionato di montagna, Piotr Skorupa, assieme al quale riesce a salire, tra l’altro, il pilastro della Kazalnica e la variante R22 al Mnich. I due vanno così forte da riuscire a qualificarsi per il cosiddetto campus di selezione, il che potrebbe loro garantire un posto per partecipare al campus centrale, quello che si sarebbe diretto verso le Dolomiti e le Alpi.

Nel 1968, diciannovenne, termina gli studi superiori ed ottiene il diploma di perito tecnico elettricista. Non fa però a tempo a terminare la scuola che a lui come al suo amico Piotr arriva via posta la cartolina per il servizio di leva che in quel periodo dura due anni. Indossa la divisa, ma inizia da subito a soffrire la mancanza delle montagne. Le prova tutte, da uno sciopero della fame durato sei giorni nella speranza, vana, che il medico potesse dichiararlo malato o non idoneo, ad una richiesta di colloquio con un generale che, in caserma per passare in rassegna l’unità, fa sapere che chiunque voglia parlare con lui potrà farlo. In tutto il battaglione l’unico a mettersi in lista per il colloquio è lui, per il panico totale dei suoi superiori. Il povero generale viene travolto dai racconti della sua passione, dell’arrampicata, delle montagne e del fatto che vorrebbe il trasferimento ai paracadutisti o alle truppe di montagna per essere più vicino al suo ambiente. Tutto inutile, da parte del generale non ottiene il sostegno sperato e tanto meno comprensione.

Riceve comunque sempre numerose lettere da parte dei suoi conoscenti e riesce ad essere informato su quanto gli altri vanno facendo in montagna e riesce rapidamente a capire come far passare il tempo. Decide quindi di occuparsi della propria forma fisica e inizia ad allenarsi in parecchie discipline. È solo nell’autunno del 1970 che può finalmente congedarsi, così come anche il suo amico e collega Piotr Skorupa.

Può finalmente tornare in montagna e ricomincia subito a prepararsi alla stagione invernale con Piotr. Questo allenamento porta già a febbraio del 1971 i primi frutti con la prima ascensione invernale del cosiddetto Fungo sulla parete nord del Mięguszowiecki Szczyt Centrale assieme a Danutą Gellner-Wach, Janusz Skorek e Zbigniew Wach.

Obiettivo dichiarato e decisamente ambizioso è la salita della direttissima della Kazalnica sui Tatra, un exploit che faceva gola a tutti i migliori scalatori del momento. Il 22 marzo attaccano la parete, ma il tempo peggiora repentinamente e si rendono conto che la parete è stata attaccata anche da un’altra cordata con Wojtek Kurtyka. Aspettano una giornata, poi, il 26 marzo, l’incidente: Piotr Skorupa perde la vita cadendo per 260 metri.

La tragedia, seguita dai giorni di dolore, i funerali, l’incontro con la famiglia dell’amico scomparso gli causano un periodo di depressione dal quale cerca di uscire dopo due settimane tornando nei Tatra, dove tra il 16 e il 18 aprile del 1971 con Janusz Skorek, Zbigniew Wach e Jerzy Kalla effettua la prima invernale della Kurtykówka al Mały Młynarz. Il 22 luglio riesce poi nella prima ascensione polacca della Via dei Ragni alla parete nord della Volia Veža nei Tatra slovacchi con Janusz Skorek e Marian Piekutowski.

Nell’estate di quello stesso anno passa qualche tempo in Bulgaria a ripetere le principali vie alpinistiche esistenti e dove riesce ad aprire una via nuova sul Rila.

Nel marzo del 1972 Jurek è in un ristorantino a festeggiare con alcuni amici il suo compleanno. In quello stesso locale c’è una bella ragazza, di nome Cecylia. Gli sguardi si incrociano e da lì nasce la prima scintilla, cui segue il primo appuntamento. Un incontro che Cecylia, o meglio Celina, diminutivo con cui tutti gli amici si rivolgono a lei, definisce sempre “davvero dolce e affascinante”. I due iniziano a fare coppia fissa e lui non perde l’occasione per rendere lei partecipe della sua passione, delle montagne, tant’è che inizia spesso a portarla a “fare serata” al Club d’Alta Montagna, dove Celina si trova ben presto a conoscere l’ambiente degli alpinisti, i suoi amici e il mondo della montagna, rendendosi fin da subito conto quanto significassero le montagne per quel ragazzo così appassionato e che passava ogni momento libero ad allenarsi in falesia. Capisce da subito che per nulla al mondo avrebbe mai rinunciato a loro.

Il 1972 è l’anno della consacrazione di Jurek come alpinista in patria e al di fuori della Polonia. Tra il 3 ed il 6 gennaio sale in prima invernale la direttissima alla parete nord-est del Mały Młynarz con Tadeusz Gibiński e Zbigniew Wach, mentre il 23 e 24 giugno apre una via nuova al Gran Camino del Mały Młynarz con Danuta Gellner-Wach, Zbigniew Wach e Janusz Skorek,

Dopo i successi sui Tatra, si trasferisce in Dolomiti, dove effettua una prima assoluta sul pilastro della Cima del Bancon e soprattutto sale sulla Torre Trieste, dove in precedenza dei polacchi avevano tentato di aprire una via nuova, ma senza risultato. Jurek tornerà invece a casa dopo essersi messo in tasca la prima ascensione della Via dei Polacchi, realizzazione per la quale in patria sarà premiato con la medaglia di bronzo per aver compiuto una “impresa sportiva eccezionale”.

Vale la pena ricordare questa salita perché rende appieno il carattere del futuro grande alpinista himalayano: durante l’ascensione, fatta assieme a Zbyszek Wach, voleva provare a scattare una foto al suo compagno di cordata, quando a questo si stacca da sotto i piedi un masso che va a colpire in pieno Jurek all’anca, facendogli perdere i sensi. Zbyszek si cala fino a lui e si rende conto che il masso gli ha portato via un bel pezzo di carne. Jurek però non ne vuol sapere di interrompere la salita e, pur ferito, continua a salire una via che, per essere completata, richiederà poi alcuni giorni. Ridisceso assieme al compagno, arriva in qualche modo all’ospedale, dove i medici rimangono sbigottiti

e si chiedono tutti quale miracolo gli abbia permesso di sopportare una simile ferita così a lungo… Una sorta di preannuncio delle sue caratteristiche di tenacia, durezza, resistenza e indistruttibilità.

Nell’inverno del 1972/73 parte dalla Polonia un gruppo di alpinisti, diretti verso le Dolomiti, con l’intenzione di effettuare una via sul Civetta e tra questi c’è anche Jurek. Una volta arrivati scoprono che la via che avevano in mente era già stata salita. Qualcuno, a un certo punto, dice che a poca distanza da lì ci sarebbe la parete sud della Marmolada, dove c’è una via bella, lunga e difficile, che portava a una delle tre vette della Marmolada, quella d’Ombretta, proprio il tipo di via che sembra fare al caso loro. Anche in quell’occasione Jurek non si fa mancare nulla, compreso un bel volo mentre stava salendo da primo… Alla fine, però, entra ulteriormente nella storia dell’alpinismo, portandosi a casa la prima ascensione invernale della via dell’Ideale.

Nell’estate di quel 1973 parte per le Alpi. A Chamonix si trova con Wojtek Kurtyka e con Marek Łukaszewski, col quale aveva già scalato. Assieme a lui effettua il 18 luglio la prima polacca della via Aureille-Fentren alla Aiguille du Moine, mentre il 22 luglio sempre con lo stesso compagno effettua la prima salita polacca alla Via dei Parigini a La Pelle, nel Vercors. Il 6 agosto, con M. Łukaszewski, B. Kozłowska e J. Kurczab sale poi la via Major alla parete est del Bianco. Tra il 12 ed il 14 agosto, infine, con M. Łukaszewski e W. Kurtyka sceglie come meta una via allora ancora mai salita sul Petit Dru. La scalata durerà quattro giorni, in condizioni difficilissime, tra torrenti di acqua a causa della pioggia. Bagnati come pulcini fino alle ossa, torneranno comunque alla base felici per quella prestigiosa via nuova.

L’inverno seguente riparte per la Francia, stavolta diretto verso il Delfinato. Il gruppo, però, non risulta essere per nulla amalgamato e, complice il maltempo, fa presto rientro in patria con le pive nel sacco.

Questa gita nel Delfinato, peraltro, costerà non poco all’astro nascente dell’alpinismo polacco: Hernyk Furmanik, capo di una spedizione diretta alla scoperta dei monti dell’Alaska e del Canada, non apprezza il fatto che Kukuczka vada in Delfinato invece di partecipare alla preparazione della spedizione e lo mette fuori squadra, per il totale scoramento da parte di Jurek. Per fortuna a Furmanik i fumi dell’arrabbiatura passano ben presto e Jurek si ritrova a poter partire con il resto del gruppo, per una spedizione in grande stile, con tanto di “divisa ufficiale” con maglioni, camicie, scarpe uguali e soprattutto con la partenza via nave per un viaggio di un mese dal porto di Gdynia, sulla cui

banchina si affollano i parenti degli scalatori in partenza e, tra loro, anche Cecylia-Celina.

La meta della spedizione è il Denali-McKinley con i suoi 6190m di altitudine, vetta che viene raggiunta con una salita effettuata tra il 20 ed il 26 luglio del 1974 lungo il fianco occidentale della parete meridionale. Jurek non è però al massimo della forma, ha problemi con l’altitudine e spesso si sente male. Fa fatica a tenere il passo dei compagni, inizia a rimanere indietro, colpito sempre più spesso da mal di testa, nausea e vomito. Il tempo buono sembra incoraggiarlo, ma quando arriva al pianoro sotto la vetta è allo stremo delle forze. Riesce comunque, anche se da ultimo, a salire in vetta, totalmente esausto e con vistose macchie nere sotto agli occhi.

Si rende così conto di essere uno che ha un processo di acclimatamento più lungo degli altri, ma i cui effetti risultano allo stesso tempo durare molto di più. Il giorno dopo arriva un brusco e improvviso peggioramento delle condizioni meteorologiche e per due giorni lui e i compagni rimangono bloccati ad alta quota, in un igloo improvvisato, con pericolo di congelamenti sempre più accentuato. Si accorge infatti della perdita di sensibilità ai piedi e, solo dopo due giorni di marcia, il secondo dei quali senza sosta alcuna, riesce ad arrivare davanti al medico, il quale ne decide l’immediato trasporto all’ospedale. Per lui e per un altro amico la spedizione termina lì. In Polonia le notizie arrivano col contagocce. Si sa che Jurek ha forti congelamenti, ma che ben presto dev’essere dimesso e che è necessario far trovare un’ambulanza all’aeroporto di Varsavia. Il giorno dell’arrivo Celina è a casa ad aspettarlo con dei fiori, in compagnia della madre di Jurek e di altri parenti, non senza una certa angoscia. Sensazione che peraltro lascia lo spazio allo stupore non appena lo vedono entrare in casa sulle stampelle…

Per Jurek inizia il periodo della riabilitazione nella speranza di salvare un alluce congelato, ma dall’Alaska arrivano cattive notizie: la spedizione si era trasferita sul Monte Saint Elias ed era rimasta vittima di una valanga caduta durante la salita. Il capo spedizione Henryk Furmanik e uno dei partecipanti, Krzysztof Tomaszewski, non ne erano usciti vivi. Jurek rimane profondamente colpito e lo stato di depressione viene acuito dal fatto che la riabilitazione non sembra dare gli effetti sperati, tant’è che alla fine all’ospedale gli prospettano l’amputazione del dito del piede, con la logica conseguenza dell’impossibilità di scalare su roccia per il resto della sua vita.

Visto che non può dedicarsi alle montagne per qualche tempo, Jurek decide che è arrivato il momento di fidanzarsi ufficialmente con Celina e di fare le

cose per bene. Quanto meno di provarci. Arriva la sera in cui si deve presentare a casa dei futuri suoceri per chiedere la mano dell’amata e si presenta con l’anello, un mazzo di fiori e una bottiglia “giusta” per il futuro suocero. È però così goffo e imbarazzato che come prima cosa consegna il mazzo di fiori alla sua futura cognata invece che alla futura moglie. Celina, che ama raccontare questo particolare, conclude sempre la narrazione con la frase “e già mi è andata di lusso che abbia consegnato l’anello alla persona giusta…”.

Le nozze, ovviamente, si tengono a Istebna, tra i monti Beschidi. Il 24 giugno 1975 Jurek e Celina diventano marito e moglie nella piccola chiesetta in legno della frazioncina di Kubalonka. Alle nozze partecipano tutti i compagni della spedizione in Alaska con mogli o fidanzate.

Il viaggio di nozze porta Celina nei Laghi Mazuri… Con la sorella. Sì, perché nel frattempo Jurek aveva ricevuto un invito ad andare nelle Alpi e, dato che il dito ormai gli permette di fare quasi tutto, sorride alla moglie e parte per le Alpi Occidentali, dove tra il 3 e il 4 agosto apre assieme a Wojtek Kurtyka e Marek Łukaszewski una via nuova sulla parete di Punta Hélène alle Grandes Jorasses.

Questo aneddoto, che Celina Kukuczka ama raccontare agli amici e durante le conferenze, non deve far pensare che Jurek ponesse la moglie e la famiglia in secondo piano. Va ricordato che siamo nella Polonia degli anni Ottanta del ventesimo secolo, in un periodo in cui oltrepassare i confini era difficilissimo. Uscire all’estero era un privilegio e nelle famiglie si rinunciava a tutto pur di far uscire dai propri confini un figlio o un marito che potesse poi tornare e avere valuta forte e soprattutto raccontare come fosse la vita al di là della cortina di ferro.

Il 1976 lo vede conseguire il patentino di istruttore di alpinismo di seconda classe e poi, nell’agosto di quello stesso anno, partire per la sua prima spedizione in Hindu Kush. Anche in quell’occasione l’acclimatamento si rivela particolarmente problematico, tant’è che mentre lui è ancora a letto colpito da una tonsillite fastidiosa, i suoi compagni sono già in movimento verso la vetta prescelta, il Kohe Tez (7015m).

Quando Jurek inizia a sentirsi meglio, sulla vetta del Settemila stanno ormai arrivando lungo una via nuova, Marek Łukaszewski, Janusz Skorek e Grzegorz Fligiel. Per acclimatarsi più rapidamente Jurek sale in solitaria il 1 agosto il Kohe Awal (5800m). Subito dopo parte in fretta e furia perché i suoi tre compagni, durante la discesa, hanno un incidente e necessitano di aiuto. Dopo aver aiutato il medico e i soccorritori, decide di convincere i compagni a dargli un’opportunità di salire in vetta, riuscendo nell’impresa.

Il 1977 segna per Kukuczka la sua prima partecipazione a una spedizione diretta a un Ottomila, per la precisione il Nanga Parbat. Le condizioni meteorologiche e il pericolo di congelamento troppo alto per i partecipanti costringono Kukuczka a tornare indietro con gli altri quando alla vetta mancano ormai solo cento metri. Pur con il dispiacere di non avercela fatta, Jurek riesce a dimostrare agli ambienti alpinistici, dove da tempo si vociferava della sua inadeguatezza all’alta quota, di essere stato in grado non solo di acclimatarsi a dovere, ma di essere anche stato il migliore e più forte di tutta la spedizione.

Nel 1978 lo vediamo tornare in Hindu Kush, dove con Tadeusz Piotrowski e M. Wroczyński apre una via nuova sul Tirich Mir orientale (7692m), giungendo in vetta il 9 agosto. Lungo la via di ritorno, poi, assieme al Piotrowski conquista anche l’ancora inviolato Bindu Ghu Zom (6340m) lungo la difficile cresta ovest. In questa occasione il direttore sportivo della spedizione è proprio lui e durante i venti giorni passati in quell’area riesce a far salire in vetta ben sei persone, circostanza della quale, come ci racconta la moglie Celina, è sempre andato orgoglioso.

Arriviamo così al 1979, anno in cui ha inizio la sua decennale storia d’amore con l’Himalaya, con l’ascensione del Lhotse. Sale lungo la via classica in compagnia di Andrzej Czok, Andrzej Heinrich e Janusz Skorek nel quadro della spedizione del Club d’Alta Montagna di Gliwice. La salita ha luogo senza utilizzo di bombole d’ossigeno, che peraltro vengono invece usate durante il sonno a campo quattro all’altitudine di 7800m. A coronare poi la gioia di quell’anno, a dicembre, proprio nel giorno di San Silvestro, è la nascita del suo primogenito, Maciej.

Il 19 maggio 1980 tocca all’Everest, suo secondo Ottomila, che sale lungo una via nuova sul pilastro sud assieme ad Andrzej Czok, con parziale utilizzo dell’ossigeno (peraltro finito durante il tentativo di attacco alla vetta). Jerzy Kukuczka è ormai una stella ampiamente conosciuta nel firmamento dell’alpinismo polacco e si sta avviando a scrivere a lettere cubitali il proprio nome nella storia. In un certo senso la salita all’Everest arriva al momento giusto: in una Polonia in cui la vita si fa di giorno in giorno più difficile a causa della difficile congiuntura politica e sociale, a Jurek risulta non sempre facile gestire scalate, spedizioni in alta montagna e lavoro in fabbrica. A intervalli regolari riceve minacce di licenziamento, soprattutto a causa delle sue continue assenze e della quantità eccessiva di permessi che gli vengono concessi. Dopo

il grande successo sull’Everest, però, tutto sembra cambiare e in quella stessa fabbrica che inizialmente voleva farlo fuori, quegli stessi operai e quella stessa dirigenza al suo ritorno lo accolgono tutti insieme quasi come un eroe, con cartelli e festeggiamenti.

Nel 1981, a febbraio, parte per un nuovo viaggio, stavolta in Nuova Zelanda, in compagnia di Krzysztof Wielicki e Ryszard Jan Pawłowski. L’esperienza permette loro di mettersi in saccoccia l’apertura di vie nuove al centro della parete sud e della parete ovest del Malte Brun, 3199m, la vetta più alta della catena omonima, seguite dalla traversata di Hicks, Dampier e Green Saddle.

Il 15 ottobre di quello stesso anno Kukuczka, nuovamente in spedizione, sale il terzo Ottomila, il Makalu, lungo una via nuova, in stile alpino al fianco nord-ovest e poi per la cresta nord, prima salita solitaria in Nepal, senza uso d’ossigeno.

Nel 1982 il fenomeno polacco sembra ormai inarrestabile ed inanella una serie di salite che definire visionarie ed avanguardistiche è ancora oggi riduttivo: il 30 luglio sale il Broad Peak, suo quarto Ottomila, lungo la via classica in stile alpino e senza far uso di ossigeno assieme a Wojciech Kurtyka, salita peraltro illegale perché non prevista e senza permesso da parte delle autorità. L’ascensione altro non era stato che l’acclimatamento per l’obiettivo di quella spedizione, ovvero un tentativo alla sud del K2, dalla quale tornarono invece alla base dopo aver raggiunto all’incirca quota 7400m.

Il sodalizio con Wojciech-Vojtek Kurtyka si impone nuovamente all’attenzione del mondo alpinistico nel 1983, quando il 24 giugno i due salgono il Gasherbrum II est (7772m), prima ascensione assoluta. Il 1 luglio salgono il Gasherbrum II lungo una via nuova, prima ascensione lungo la cresta sud-est, in stile alpino senza uso di ossigeno. Infine il 23 luglio il Gasherbrum I, via nuova lungo la parete nord-ovest sempre in stile alpino e senza uso di ossigeno, aggiungendo, tra l’altro, altri due Ottomila alla collezione.

L’anno successivo vede ancora momenti di successo: sempre assieme a Vojtek Kurtyka riesce nell’impresa di effettuare la traversata di tutto il massiccio del Broad Peak, mettendo così a curriculum la salita del Broad Peak Centrale (8011m) il 16 luglio di quell’anno e il giorno successivo l’ascensione alla vetta principale, il tutto in stile alpino. Di ritorno da quella spedizione al Broad Peak ed al Gasherbrum IV, lungo la strada per il Masherbrum La, trova il tempo per una prima assoluta, in solitaria e senza uso di ossigeno, in perfetto stile alpino, al Biarchedi (6759m).

Il 1984, che per la Polonia ed i Paesi del realismo socialista realmente si avvicina a quanto paventato nell’omonimo e ben conosciuto racconto di Orwell, porta per Jurek un’altra enorme soddisfazione, ovvero la nascita del secondogenito, Wojciech, chiamato in casa, come da usanza slesiana e soprattutto dell’area dei Beschidi, Vojtek. Una gioia che porta Jurek a sentire spesso il peso della sempre minore presenza in famiglia, in vista dei sempre più frequenti impegni alpinistici. Come ama raccontare Celina Kukuczka, il fatto di dover stare lontano da casa così spesso gli procurava grossi rimorsi di coscienza, ma sentiva che le montagne non gli lasciavano altra scelta e cercava di porre rimedio alla sua assenza portando da quasi tutto il mondo tutti i regali possibili, giocattoli per i bambini e le cose più disparate che all’epoca in Polonia ancora non c’erano. Negli occhi dell’amore della sua vita non manca mai un sorriso quando definisce tutto ciò una specie di corruzione che di solito andava ad accompagnare la promessa che tutto quell’andirivieni sarebbe terminato presto e che non appena avesse raggiunto il suo scopo si sarebbe dedicato alla famiglia come si deve.

Il 1985 lo vede più lanciato che mai alla conquista della maggior quantità possibile di vette ambite possibilmente lungo vie nuove e la progressione delle sue realizzazioni è impressionante, soprattutto per chi tenga a mente le condizioni di disagio oggettivo che dovevano affrontare gli scalatori polacchi nel reperimento dei materiali alpinistici se paragonati ai colleghi “dall’altra parte della cortina di ferro”. Non è peraltro superfluo ricordare, però, che era proprio quello stesso “sistema” a offrire vie di fuga e possibilità di aggiramento che Kukuczka e i suoi compagni non mancarono di sfruttare a favore del proprio desiderio di “scrivere il proprio nome nella storia”, come ama ripetere un altro grande dell’alpinismo polacco, Krzysztof Wielicki, quando ricorda l’amico scomparso.

Il 21 gennaio di quell’anno sale dunque il Dhaulagiri, in prima invernale, assieme ad Andrzej Czok, senza far uso di ossigeno. Il 15 febbraio è la volta del Cho Oyu, salito in invernale lungo la parete sud assieme a Zygmunt Andrzej Heinrich, sempre senza far uso d’ossigeno. A luglio di quello stesso anno tocca poi al Nanga Parbat, dove Kukuczka apre una via nuova lungo il pilastro sudest in compagnia di Carlos Carsolio, Zygmunt Andrzej Heinrich e Sławomir Łobodziński senza far uso di ossigeno.

Il mese di ottobre di quel 1985 lo vede ancora in spedizione, questa volta diretta al Lhotse, dove tenta l’apertura di una via nuova, raggiungendo l’altitudine di circa 8100m prima di essere costretto alla rinuncia.

Il Lhotse… La moglie Celina ama raccontare un piccolo aneddoto, un po’ per far capire come fosse Jurek e un po’ perché è possibile intravvedere, per chi ami farlo, un po’ di segnali del destino in quanto stava accadendo a quello scalatore ormai riconosciuto a livello mondiale, che si divideva tra i colleghi con cui effettuare lavori in altezza di manutenzione alle fabbriche slesiane, che non disdegnava di fare la sua parte anche nelle fila di Solidarność, di cui era militante, e che faceva il possibile per non far sentire la propria mancanza a casa, dove ogni suo rientro era una festa.

È dunque ottobre del 1985 e Jurek è alla base di quella montagna, divenuta poi un’ossessione per l’alpinismo forse più che lo stesso K2. Come molti polacchi anche Kukuczka è molto credente e ama ripetere che senza la fede che gli dà la forza e una forte convinzione non riuscirebbe a muoversi in Himalaya, dove in più occasioni durante le scalate sente la presenza e la protezione dell’Altissimo, che ama pregare in solitudine, proprio quando è nel cuore delle montagne. Come da tradizione ha anche le sue superstizioni, per esempio non vuole mai arrampicare il giorno 13…

Durante quella spedizione alla sud del Lhotse, dunque, a un certo punto si rende conto che gli è sparito il piccolo crocefisso d’argento della collanina che portava al collo, regalo di sua madre. Il pensiero di aver perso quel crocefisso non gli dà pace, non riesce a star fermo, continuava a cercarlo in mezzo alle cose… Un giorno, poi, al campo base, mentre è intento come suo solito a scrutare la parete, come per miracolo, smuovendo col piede il ghiaino vede spuntare il piccolo crocefisso… In quell’occasione sente di essersi tolto dal petto un macigno che gli impedisce di respirare. Come sottolinea poi Celina ogniqualvolta racconta questo piccolo aneddoto, forse era un segno, una premonizione di quanto sarebbe avvenuto esattamente quattro anni dopo proprio su quella montagna.

Il 1986 segna un’ulteriore accelerazione: ormai è chiara ed evidente la “sfida” che si è aperta tra i due “eccelsi” degli Ottomila, ovvero Jerzy Kukuczka e Reinhold Messner. Non è solo una rivalità sportiva, è qualcosa di più: c’è il mondo d’Oltrecortina, della cosiddetta Europa dell’Est, bramoso di iscrivere il proprio nome nella storia a dispetto delle difficoltà materiali imposte da un regime cervellotico e ormai alla canna del gas e dall’altra parte il super-tecnologico occidente che ha saputo creare il mito degli Ottomila e il suo uomo che ormai viene riconosciuto come il più grande alpinista del mondo. Come però sarà poi Kukuczka stesso a sottolineare durante alcune interviste, parlare di “sfida” tra i due è una forzatura. Impossibile negare che sia esistita una

rivalità, una concorrenza, ma per poter parlare di sfida in termini sportivi sarebbe stato necessario partire nello stesso momento, nelle stesse condizioni, eccetera… Tutte circostanze assolutamente improponibili per chi sale le montagne.

Al di là di queste parole, comunque, soprattutto per chi segue quanto sta avvenendo tra Himalaya e Karakorum in quegli anni, il sapore della sfida all’ultima vetta c’è tutto. Kukuczka procede senza soste e l’11 gennaio del 1986 lo vediamo salire il Kangchenjunga, in prima invernale con Krzysztof Wielicki, senza ossigeno, dal versante sud.

A luglio è di nuovo in azione, questa volta sul K2, dove apre una via nuova in stile alpino e senza uso dell’ossigeno sul pilastro centrale della parete sud in compagnia di Tadeusz Piotrowski. Una spedizione dall’esito comunque molto amaro: durante la discesa, il suo compagno perde la vita.

Il 16 ottobre del 1986, nel frattempo, Reinhold Messner salendo il Lhotse completa la sua personale raccolta delle vette alte Ottomila metri. Il fatto di non essere stato il primo probabilmente da un lato disturba Jurek, ma dall’altro gli dà di certo forza e pungoli ulteriori per continuare la sua corsa alla “corona” lungo vie nuove, più difficili e possibilmente salendo in invernale.

A novembre di quello stesso anno lo troviamo sul Manaslu, dove effettua la prima ascensione del Manaslu Est, in stile alpino e senza ossigeno, e il giorno successivo raggiunge la vetta principale lungo una via nuova, sempre in stile alpino, il tutto in compagnia di Artur Hajzer.

Arriva così il 1987, anno della consacrazione definitiva: il 3 febbraio, in compagnia di Artur Hajzer, sale l’Annapurna, prima invernale dal versante nord senza uso di ossigeno. Ad agosto è in azione sullo Yebokalgan Ri (7365m) che viene salito lungo la cresta occidentale, arrivando fino a circa 7000m con gli sci per quella che alla fine risulta essere la prima ascensione, in stile alpino e senza uso di ossigeno.

Il 18 settembre, infine, sempre con Artur Hajzer sale lo Shisha Pangma Ovest (7950m circa), prima ascensione assoluta e subito dopo, quello stesso giorno, la vetta principale dello Shisha Pangma, andando così a completare la Corona dell’Himalaya e del Karakorum, secondo uomo al mondo a riuscire nell’impresa. Per l’occasione, tra i tanti riconoscimenti, alla storia è passato il messaggio inviato da Messner, al cui interno era scritto semplicemente: “Non sei il secondo, sei un grande”.

La popolarità è all’apice, ma assieme al piacere di avere raggiunto gli eccelsi obiettivi che si era posto, Kukuczka deve affrontare anche gli aspetti negativi

portati da quella che oggi siamo soliti definire “esposizione mediatica” e soprattutto dai “doveri scritti e non scritti” verso gli sponsor e verso i media stessi legati al mondo dell’alpinismo. Come ama ripetere Celina, a Jurek ha fatto piacere non tanto il successo, quanto la strada seguita per arrivarci, lungo la quale ha potuto dimostrare tutto il suo carattere, una determinazione unica e un coraggio notevole dentro a un fisico dalla resistenza e dalla capacità di sopportazione leggendarie.

Come a ogni obiettivo raggiunto, però, il problema diventa subito identificare quello successivo. Jurek non sfugge a questa regola: ha ormai veri e propri sponsor, soprattutto in Italia, dove ha un seguito nutritissimo, ma deve rimanere sulla cresta dell’onda e deve trovare nuove sfide alla sua altezza. Nel frattempo incontri, serate, presentazioni… Organizzazione di spedizione in patria e rapporti con gli alpinisti stranieri, una popolarità forse inaspettata e che spesso lo imbarazza, lo stordisce e lo disturba.

Nell’ottobre del 1988 riesce a tornare in spedizione, assieme al Club d’Alta Montagna di Katowice per il quale funge anche da capo spedizione. In quell’occasione con il fido Artur Hajzer apre una via nuova da Sud all’Annapurna I Est (8010m) e viene meno al suo superstizioso proposito di non andare mai a scalare il giorno 13.

La vera sfida rimane ora quella già iniziata nel 1985, con la parete meridionale del Lhotse e nel 1989 si dà attivamente da fare per chiudere anche quella pratica. La spedizione, però, fin da subito sembra essere accompagnata da cattivi presagi: parecchi dei suoi compagni rinunciano a partire, ancora scossi dalla tragedia da poco avvenuta sull’Everest, dove erano rimasti vittime di una valanga cinque scalatori polacchi.

Nulla sembra andare come deve, c’è sempre qualcosa di storto, non riesce ad essere tranquillo, è una spedizione mal organizzata, troppo in fretta, eppure parte, probabilmente nella speranza che tutto sarebbe andato a finire bene grazie alla sua buona stella che sempre l’aveva accompagnato…

Quando parte per la spedizione, come al solito, attende che i figli siano a dormire, per sentire meno il dolore del distacco. In quell’occasione Celina lo vede particolarmente nervoso… Le sue ultime parole alla moglie sono queste: “Bada ai ragazzi, torno presto”.

Il 24 ottobre del 1989, mentre sta salendo la parete sud del Lhotse assieme a Ryszard Jan Pawłowski, Jerzy Kukuczka cade, la corda non tiene e continua la sua caduta verso l’abisso.

Celina quel mese di ottobre è particolarmente nervosa, ha brutti presentimenti. Una bella giornata di quel mese autunnale, poi, sente suonare alla porta. Guarda fuori e vede i compagni e gli amici di sempre, a testa bassa. Capisce che Jurek non sarebbe più tornato.

A livello letterario, a chi piace lasciarsi andare ai sogni, potrebbe magari far piacere pensare che Jurek, come altri grandi leggende dell’alpinismo, stia ora continuando libero dai vincoli della caducità umana le sue scalate su vette conoscibili solo a chi ha già fatto il passo verso la Grande Incognita. A chi è ancora sulla terra rimane però solo il ricordo di una leggenda e alla famiglia il dolore e due figli piccoli da far crescere nel ricordo di un padre straordinario.

In soli 41 anni di vita, dunque, Jurek Kukuczka riesce a scrivere il proprio nome nella storia dell’alpinismo, dell’esplorazione e dello sport con un curriculum tale da rendere indelebile l’inchiostro di quella sua firma. È stato infatti lui il secondo uomo al mondo dopo Reinhold Messner a completare la Corona degli Ottomila, ovvero la salita di tutte le quattordici vette di Himalaya e Karakorum di altezza superiore agli ottomila metri, il tutto in meno di otto anni tra il 1979 ed il 1987. Sugli Ottomila da lui raggiunti ha inoltre aperto undici vie nuove, record ad oggi ancora da battere. La sua via sul K2, peraltro, non è mai stata ripetuta. Sette di quelle salite, tra le quali quella al K2, sono state effettuate in stile alpino. È stato il primo uomo in grado di salire nello stesso periodo invernale due Ottomila. In invernale, peraltro, di Ottomila ne ha conquistati quattro, tre dei quali in prima invernale assoluta (il Dhaulagiri I, il Kangchenjunga e l’Annapurna). Il Cho Oyu l’ha invece salito assieme a Zygmunt Andrzej Heinrich tre giorni dopo la prima invernale effettuata da Maciej Berbeka e Maciej Pawlikowski il 12 febbraio 1985. Tra il 1985 ed il 1986, per la precisione tra il 21 gennaio 1985 ed il 10 novembre 1985 è riuscito a portare a termine sei salite a Ottomila, tre delle quali in prima invernale e tre con l’apertura di vie nuove di altissima difficoltà, come quelle al Nanga Parbat e al K2. Da ultimo, va ricordata come exploit straordinario e visionario la sua salita in solitaria al Makalu seguendo una via assolutamente nuova.

La sua vita, riassunta in questo libro che è quasi una autobiografia, è uno spaccato di vita personale e allo stesso tempo un documento storico della situazione socio-culturale della Polonia fino alla caduta del Muro di Berlino e alla conseguente disgregazione dei regimi “comunisti” o, per maggior precisione, dell’antiutopia del socialismo reale. Un momento che Kukuczka non fa

in tempo a vivere. Forse anche questo fatto ha maggiormente cristallizzato la sua leggenda, consacrando un simbolo dell’alpinismo e della società polacca in quel preciso periodo storico, iniziato negli anni Settanta e terminato appunto con la caduta del regime di Jaruzelski. Un ventennio che ha creato una generazione di grandi scalatori, gente che voleva solo scrivere la storia raggiungendo il cielo come e meglio degli altri, ragazzi pronti a dimostrare il proprio orgoglio sulle montagne più alte durante i periodi più freddi.

Pregi e difetti, momenti epici e contraddizioni di questo movimento e di quella società si ritrovano all’interno di un libro che ancora oggi, a trent’anni dalla scomparsa del suo autore, risulta essere di estrema attualità e di assoluta godibilità per i lettori, in particolar modo per quelli italiani. Jurek, infatti, come abbiamo già sottolineato, era molto vicino all’Italia, dove aveva parecchi amici ed estimatori e dove tenne parecchie serate, conferenze e incontri. Compresa una presenza al Trento Film Festival nel 1989, unica volta in cui lo scrivente era riuscito a stringergli fugacemente la mano…

Proprio a Trento, in occasione dell’edizione del Film Festival nel 2019, chi scrive ha avuto l’onore di partecipare come conoscitore della Polonia e come traduttore a una serata a lui dedicata curata da Sandro Filippini, con la partecipazione di Hervé Barmasse, di Krzysztof Wielicki, di Fulvio Mariani e soprattutto di Celina Kukuczka. Una serata in cui, a “sorpresa”, ha portato il proprio omaggio Reinhold Messner. Quello stesso Reinhold che, quando gli ho chiesto di scrivere qualcosa per questa nuova edizione del libro, mi ha preso in parola e mi ha consegnato per la pubblicazione, a mo’ di conclusione di quella che circa vent’anni prima era stata la sua prefazione al libro, esattamente due righe, pesanti come macigni e con le quali mi avvio alla conclusione di questo omaggio introduttivo a una personalità tanto leggendaria quanto squisitamente umana. Ricordando infatti di aver mandato a Kukuczka il famoso messaggio dopo la salita dell’ultimo, quattordicesimo Ottomila (“non sei il secondo, sei un grande!”), la leggenda sudtirolese chiede di riportare quanto segue:

Anni fa gli avevo scritto: “Non sei il secondo. Sei grande”.

Lo confermo: grande e molto forte. Probabilmente il più forte fisicamente.

Luca Calvi Milano, dicembre 2021

Jerzy Kukuczka durante la salita del K2. Foto: Archivio Jerzy Kukuczka

IL MIO MONDO VERTICALE

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