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Prefazione
Una volta si chiamavano palestre, un nome un po’ volgare, sudato, per dire che la Montagna era un’altra, quella vera, candida, con la croce sulla cima, poi per fortuna è arrivato il Nuovo Mattino e nessuno viene più a chiederti se hai scalato una montagna con la cima o una parete che porta a un prato, un bosco, un rifugio. Sì, perché quest’estate mi è capitato anche quello: di scalare un dirupo strapiombante e di uscire praticamente sul piazzale del rifugio, tra turisti e alpinisti schiamazzanti, con i rinvii in una mano e una birra bionda nell’altra. Indimenticabile. Ma non era in Piemonte, e qualcosa vuol dire, perché la caratteristica della nostra regione e di nessun’altra in Italia è un arco alpino interminabile, circa quattrocento chilometri di creste disegnate nel cielo, e una altrettanto significativa fascia di rocce di media quota, come una cintura, che separano la pianura delle alte valli, o le uniscono, secondo il punto di vista. Per questo si chiama Pie-monte, perché i monti ti vengono in casa, ma non il Monviso, il Gran Paradiso, il Rosa e le altre cime illustri, bensì pareti, dirupi e alture dai nomi niente affatto famosi, ma ugualmente uniche e affascinanti. Posti degni della nostra passione senza stagioni. La bella scelta di vie lunghe presenti in questo libro – così tante, così varie, così diverse – non sarebbe possibile altrove, per esempio nei massicci calcarei in cui prevalgono gli altipiani. Invece tra la Val Pellice e la Valchiusella si estende quella fascia rocciosa, unica e indistinguibile per chi non la viva davvero, che consente ai pie-montesi di scalare a pochi chilometri dalle città senza stancarsi quasi mai, cambiando ogni domenica ambienti e panorami, stagioni e visioni, fantasie e storie. Non è una distribuzione puntuale di falesie o settori, piuttosto una linea continua di terreni esplorabili e scalabili, che appena sembra interrompersi riparte fedele a se stessa, ma mai identica. Si tratta di quella cintura di gneiss, simile al granito con molte varianti morfologiche, che collega il piede delle valli, le attraversa, le cuce insieme, e dalle rocce piuttosto elevate dell’Ostanetta scende ai risalti della Val Pellice, taglia la Val Chisone all’altezza del Bourcet, si abbassa alla storica Rocca Sbarua e ai Tre Denti, si ripresenta tra la Val Sangone e la fascia rocciosa di Borgone, in Valle di Susa, per diventare sempre più importante tra le valli di Lanzo e dell’Orco, all’ombra del Gran Paradiso. Certo ci sono splendide eccezioni – non perdetevi il Diedro Giallo alla Parete dei Militi: non ha niente da invidiare una grande via dolomitica –, ma sono appunto eccezioni che confermano la nostra la regola. In una parola: gneiss. Anche se Briançon è vicina, anche se in Valle di Susa il calcare non manca, chi comincia a scalare sulle rocce della cintura pinerolese, torinese ed eporediese è figlio dello gneiss e della tecnica granitica, ma deve imparare ad adattarsi alle varianti: la grana grossa dei cristalli dell’Ostanetta, le fessure dure e nette del Bourcet, le placche e i rovesci della Sbarua, eccetera. Poi ci sono i serpentini, che offrono sorprese. Sulla parete del Pis in Val Pellice la roccia è grigia, rugginosa, direi poco invitante, e invece si scala su buchi netti e divertenti come quelli del calcare. Ma se parliamo di colori, lo gneiss torna a imporsi per la sua gamma quasi infinita di tagli e tonalità. Provate a scalare i pilastri dei Tre Denti o della Sbarua in una limpida sera d’inverno: sognerete di essere su un pilier del Monte Bianco con Giusto Gervasutti che vi accompagna gentile e complice, condividendo il vostro entusiasmo estetico. Buone scalate a tutti.
Enrico Camanni