Riccardo Bee - Un alpinismo titanico

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R A M P I C A N T I

EDIZIONI VERSANTE SUD


2014 Š VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati 1a edizione Marzo 2014 www.versantesud.it ISBN 978-88-98609-08-6


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R A M P I C A N T I

Marco Kulot Angela Bertogna

RICCARDO BEE UN ALPINISMO TITANICO

EDIZIONI VERSANTE SUD



A Carlotta



Prefazione di Flavio Faoro

Avevo frequentato il corso roccia nella primavera del 1982, al Cai di Feltre. Si sa, tra feltrini e bellunesi non c’è mai stato grande feeling e, assurdamente, quei trenta chilometri erano spesso un muro di diffidenza e incomunicabilità. Però di questo Riccardo Bee avevo già sentito parlare anch’io, dagli istruttori e dai racconti di qualcuno più esperto. Uno fortissimo, si diceva, che in cordata con altri bellunesi e soprattutto da solo aveva già fatto proprio nelle Dolomiti di casa molte salite difficilissime. Quando si è agli inizi di una passione è facile costruirsi dei miti, delle leggende, e un po’ Riccardo Bee era così anche per noi giovani (beh, io non ero proprio giovanissimo…) che guardavamo ai “sestogradisti” – come si diceva allora – come dei veri e propri superman, in grado di superare difficoltà che noi non osavamo nemmeno provare nella palestra di roccia di Fonzaso, alta sopra il paese, dove andavamo per le lezioni pratiche. Poi, alle otto di mattina del 3 gennaio 1983, alla ripresa del lavoro nel municipio del Comune di Arsié, dove ero stato assunto per qualche mese, il Gazzettino aperto sulla scrivania di un impiegato aveva una delle poche pagine di cronaca – era un lunedì, e il giornale era quasi tutto dedicato allo sport - segnata da un grande titolo su due righe: “Il bellunese Riccardo Bee si sfracella sulla Messner”. Renato Bona, credo allora caposervizio della redazione di Belluno, scriveva un

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lungo articolo raccontando le ultime ore e la caduta di Riccardo. E si avvertiva, in quella pagina, la partecipazione emotiva del cronista, la sua vicinanza al caduto, il dolore che provava. Sentite come inizia: “Lutto per l’alpinismo internazionale: si è sfracellato dopo un 'volo' di un centinaio di metri sulla Via Messner, Riccardo Bee, ingegnere bellunese di 35 anni, considerato tra i venti più forti scalatori del mondo”. Non vi dico come mi sentii, come ci sentimmo tutti, allievi e istruttori del corso roccia, alla lezione successiva, nella antica e un po’ scura sede di Porta Imperiale del Cai di Feltre. Non è per raccontare questo, però, che scrivo queste pagine. Voglio invece farvi notare una cosa che emerge già da queste poche righe de Il Gazzettino. Bona scrive che è un lutto per l’alpinismo “internazionale” e che Riccardo Bee era uno dei venti più forti scalatori del mondo. Iperboli da giornalismo sensazionalistico? Provincialismo che ci fa ritenere importanti e famosi per assenza di confronto? Non credo proprio. Perché, vedete, Riccardo Bee aveva dimostrato su pareti a un’ora di macchina da casa quella grandezza che altri avevano raggiunto solo in Himalaya, o sulle Ande, o – almeno – sulle grandi Alpi Occidentali. Pensate, uno che in tutta la sua carriera alpinistica ha scritto pochissimo, pubblicato niente o quasi, evitato la ribalta delle conferenze, delle fotografie sui giornali, della radio e della televisione, uno così arriva a essere considerato uno dei venti scalatori più forti del mondo. Evidentemente, c’è sotto qualcosa. E questo qualcosa, si capisce subito, sono i fatti. Le imprese. Le idee realizzate. Come si sa, l’ambiente dell’alpinismo è severo. Se uno è un mistificatore, se si fa grande di cose non vere (sacri-

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legio!) o di cose “meno” vere (gravissimo!) o di cose non solo sue (ridicolo!), prima o poi si scopre. Anzi, più spesso prima che poi. È successo per tanti, anche molto noti e osannati, e poi messi in croce una volta scoperti i misfatti. Ecco, per Riccardo Bee è avvenuto proprio il contrario: uno che di tutta la sua attività in montagna ha lasciato solo una cartellina con pochi fogli e qualche fotografia, uno che ha messo in difficoltà perfino i famigliari, non solo i biografi, per ricostruirne la carriera, uno così aveva fatto capire a chi sa davvero che cos’è l’alpinismo quanto fosse forte e capace. Di quanta energia interiore fosse padrone. Quali idee innovative, audaci, rischiose avesse realizzato e quanti progetti audaci avesse ancora davanti. Tra tutte le sue scalate vorrei ricordarne qui una di una assurdità sublime, una che dà davvero l’idea di come Riccardo Bee fosse in una dimensione “altra” dell’alpinismo, un ponte ideale tra l’alpinismo classico e il Nuovo Mattino, che già muoveva passi importanti sulle Alpi Centrali e Occidentali ma che in Dolomiti si scontrava con i limiti ideologici di una tradizione rigida e spesso rinchiusa in un orizzonte ristretto. Mi riferisco alla prima ascensione della Via delle Zurle lungo un camino di melàfiro, sulla parete Sud del Piz Serauta in Marmolada. Nel libro che avete tra le mani è descritta bene, gli autori hanno lavorato con entusiasmo e precisione. Leggete con attenzione quelle pagine: Riccardo sale da solo in cinquanta (!) ore di arrampicata un camino di nera roccia vulcanica profondo anche quaranta metri, tra muschi, colate d’acqua, sfasciumi, roccia marcia e…buio, tanto che accende la frontale anche di giorno per veder dove salire. Ve lo immaginate? Al-

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tro che le pareti calde di Yosemite o del Verdon, o le placche assolate della Val di Mello, dove in quegli anni l’arrampicata correva con balzi da Usain Bolt verso gradi che allora non si osava nemmeno pronunciare. Lui stava lì dentro, da solo, al buio, a salire un camino che non aveva mai preso in considerazione nessuno, superando difficoltà… Boh, come si fa a dare un grado a un ambiente così? Maurizio Giordani nella sua bella guida della Marmolada edita da Versante Sud la definisce “Arrampicata estremamente impegnativa e rischiosa, in ambiente orrido e imponente”. Ma non basta: poco tempo dopo Bee salì, lungo la stessa parete, anche un altro uguale camino, tracciandovi la via Direttissima. Ecco, Riccardo Bee era questo. “Era uno che aveva l’avventura dentro” mi ha detto il fratello Adriano, “uno che doveva mettersi in gioco, scoprire il limiti suoi e della natura, provare la sua forza e il suo coraggio. L’alpinismo gli ha dato proprio quello che cercava, un terreno magnifico dove realizzarsi, rivelarsi a se stesso, costruirsi come uomo”. È dunque un libro di grande valore questo che avete tra le mani: prima di questo lavoro la breve vita di Riccardo e le sue tante imprese erano una collana di episodi spezzati, di aneddoti, di vicende raccontate da narratori diversi, non sempre limpidi nelle loro rievocazioni. Anche questo libro in fondo risente un po’ della difficoltà di raccontare una storia omogenea, un insieme di vicende complesse e poco conosciute, una personalità fortissima e non facile come quella di Riccardo Bee. Ma questo volume è prezioso anche perché riunisce per la prima volta le testimonianze di alcuni dei suoi amici e compagni di scalate, uomini che dopo decenni ancora

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ricordano con affetto e entusiasmo le avventure vissute in compagnia di Riccardo. Sono testi molto belli, un omaggio importante a un ragazzo che fu amico di tanti che oggi, dopo decenni, non possono certo dimenticare, oltre ai fatti che raccontano, lo spirito magico e folle che li animava. Basterà allora questo libro per poter dire di aver definito la figura di uno dei grandi dell’alpinismo dolomitico, di un professionista affermato, di un insegnante, di un marito e di un padre? No, ovviamente, non basterà. Ma resta un contributo prezioso, una storia finalmente raccontata in tutti i suoi capitoli, con i suoi intrecci di passioni e di giovinezza, di entusiasmi e di difficoltà. Anche se – ne siamo sicuri – la vastissima attività di Riccardo Bee e la sua ritrosia nel raccontare imprese che realizzava solo per se stesso faranno sì che da qualche parte, su qualche nascosta parete dell’Agner, dello Schiara o della Marmolada, qualcuno un giorno, tentando quella che crede una prima ascensione, troverà un vecchio chiodo, di cui nessuna relazione parla, e si chiederà, invano, chi mai lo avrà piantato.

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Nota degli Autori Il dialetto bellunese che abbiamo riportato nei dialoghi, in concreto non esiste. È frutto della fantasia per soddisfare il nostro obiettivo che era quello di rendere più poetiche, ironiche e, per quanto possibile, aderenti alla realtà le scene che abbiamo rappresentato. E il dialetto, secondo un comune sentire, è proprio la lingua più intima, quella con la quale si possono far intuire cose che normalmente non si raggiungono con la lingua ufficiale. Ma il dialetto stretto presenta dei vocaboli o delle strutture alle volte poco comprensibili a chi non lo parla abitualmente. Perciò abbiamo scelto un “bellunese italianizzato” che allarga la platea dei lettori, facendo immediatamente comprendere le frasi, senza bisogno di rimandi a noiose note a piè di pagina. Questo era il nostro intento, scusateci la profanazione.

Marco Kulot, nato a Trieste nel 1987, professionista iscritto al Collegio Nazionale Guide Alpine e… papà di Carlotta. Alterna la sua passione alpinistica di scalare le montagne con la lettura e la conoscenza delle imprese dei più forti alpinisti. Nella sua biblioteca entrano quindi le vie di Riccardo e la sua figura di alpinista leggendario. Ne rimane talmente colpito che vuole scoprire qualcosa di più su quello che è stato detto e scritto su di lui. Nell’estate 2013, per entrare maggiormente in sintonia con l’alpinismo praticato dall’insigne bellunese, ripete assieme all’amico Leonardo Comelli il Pilastro Bee all’Agnèr. www.liberamentemontagne.it Angela Bertogna, di professione travet, risiede in pianura per necessità ma coltiva il suo unico sogno: trasferirsi in montagna. Frequentatrice metodica dei sentieri alpini della sua regione, il Friuli Venezia-Giulia e di quelle limitrofe, la entusiasmano soprattutto le casere dismesse, i bivacchi, i ruderi che talvolta si riescono a intuire sotto la spessa coltre di ortiche dei siti un tempo abitati e ormai abbandonati. Non è mai stata alpinista (non ne avrebbe mai avuto il coraggio) ma chissà, forse in un’altra vita, le si presenterà l’opportunità. Ama leggere ma soprattutto raccontare cose di montagna. Qualsiasi cosa, purché abbia una dimensione che vada oltre all’orizzontale. Questo è il suo primo lavoro.

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Prologo Le Uniche Verità della Vita Se tutti i fatti della vita, esprimessero un’unica e assoluta verità e gli uomini nel raccontarli (i fatti) si attenessero a essa (la verità), non per un forte dovere morale, ma semplicemente perché così è stato strutturato il mondo, allora questo libro, forse non avrebbe ragione d’esistere. Ma poiché i fatti dell’umanità hanno molteplici versioni a seconda di chi li racconta, ci siamo chiesti, ad esempio, se della vita di Riccardo Bee, bellunese, alpinista estremo degli anni 70/80 è stato raccontato tutto e se quel che è stato detto può definirsi la sua verità oppure una di quelle innumerevoli verità che prendono le sembianze delle bocche, delle facce, o meglio ancora dei pensieri di chi le racconta. Che non sia stata raccontata la sua vita, se non in modo marginale, è un dato di fatto. Il suo nome generalmente è stato accostato a quello di qualche altro, uomo o montagna che fosse, per esaltarne innanzi tutto l’altro. Del resto Riccardo era giovane e aveva ancora tanti e tali progetti che non era certamente giunto il tempo delle memorie. Ma che quanto è stato scritto su di lui, presenti le caratteristiche di quella verità assoluta di cui si accennava sopra, non lo sapremmo dire con certezza. Per questo vogliamo raccontare la sua vita senza pretesa alcuna di svelarla noi quella verità. Cercheremo solo di provare a raccontare le imprese, i progetti, le gioie e forse anche le delusioni, di Riccardo Bee da un punto di vista che potrebbe, e sottolineiamo il condizionale, essere il suo.

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L'Università. Arrampicatore e Ingegnere Meccanico Tu vedi delle cose e chiedi: perché? Ma io sogno di cose che non ci sono mai state, e che forse non ci saranno mai, e dico: perché no? Wolfgang Güllich, Action Directe

Riccardo scelse ingegneria meccanica. Dapprima si trovò un po’ in imbarazzo a causa della matematica. Lì c’era “analisi” e lui non l’aveva studiata in precedenza. Ma poi quando iniziarono le materie tecniche, che erano in linea con il piano di studi delle superiori, partì in quarta e senza scervellarsi più di tanto, cominciò a portare a casa risultati alquanto soddisfacenti. Durante il periodo degli studi visse a Padova, ma era uno spirito libero, abituato ai profumi dei boschi e ai panorami allargati. La vita frenetica e caotica della città lo infastidiva. All’università ci andava regolarmente in bicicletta. Un giorno Gianni, che viaggiava su un autobus, vide uno che leggeva tranquillamente un giornalino, pur pedalando in mezzo al traffico. «Ma guarda quello» pensò. Poi, osservandolo meglio, si accorse che era suo fratello Riccardo, il quale aveva una capacità straordinaria di sapersi isolare, quando d’intorno c’erano solo caos e trambusto, e di continuare a fare le cose per cui serviva la massima concentrazione. Alla mensa dell’università, ad esempio, dopo aver finito il pranzo, in quella gran confusio-

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ne, odorosa di minestra e polpette, si metteva a fare gli esercizi, quelli pieni di formule, quelli che se salti un passaggio sei bello che fregato. In quegli anni iniziò e maturò la sua passione per la montagna, le scalate, le grandi imprese rischiose, alle quali dedicò tutto il tempo che reputò adeguato, sottraendolo, a quello principale (o secondario, a seconda dei punti di vista) dello studio per diventare ingegnere. Comunque alla laurea ci arrivò in tempi regolamentari. Con giacca e cravatta e quel sorriso sempre un po’ ironico, bello e giovane di un’età in cui aveva già fatto esperienza delle cose che riteneva importanti, si era lasciato fotografare nell’atrio dell’Università di Padova, davanti al manifesto di laurea, quel poster dove i compagni di studi raccontano in modo satirico le virtù e le debolezze dell’amico appena laureato, “Rampegador del cazzo” avevano tracciato sul manifesto alle sue spalle quella banda di mascalzoni. Anzi al posto dell’ultima parola c’era un disegno eloquente. Arrampicatore. Era già il suo sostantivo. Quello per cui avrebbe sofferto la fame, la sete, il freddo oppure il caldo, a seconda delle stagioni. Quello che lo avrebbe definito. «C’era anche Bee, l’altra sera.» «Sì, ma quale dei Bee?» «El rampegador» Ma che ne sapevano i compagni dell’attività arrampicatoria di Riccardo? Sapevano, certamente, che una mattina all’Università non si poteva andare a lezione perché il portone era ancora ermeticamente chiuso. Una marea di studenti stava impaziente ad aspettare,

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confabulando fra loro sulle ragioni di tale chiusura. Arrivò Riccardo e vide quella folla di studenti. Guardò in alto e vide che c’era una finestra. Gli venne un pensiero tutto d’un guizzo. Come poteva permettere che una cosa importantissima come lo studio fosse così brutalmente preclusa a causa di un portone che non si apriva? Guardò di nuovo la finestra, questa era aperta. Accanto passava una grondaia che scendeva fino a terra. Attaccò ad arrampicare su per la grondaia, giunse fino al tetto, si avvicinò alla finestra, con un salto entrò dentro e pochi minuti dopo aprì i portoni dell’Università fra gli applausi dei compagni. Quando si dice amore per lo studio, forse è a uno di questi episodi che ci si riferisce… Oppure, quell’altra volta, che si era appassionato al deltaplano. Un deltaplano in lega di alluminio di circa trenta chili. Volare a quel modo, allora, era una cosa nuova e non serviva conseguire nessun attestato di idoneità. Riccardo fece alcune prove al campo scuola, capì subito come doveva agire sulla barra di controllo, spostando il proprio peso. Si sentiva pronto per la grande avventura. Salì al Col de Roanza e poi al Cargàdor, la località d’arrivo di una vecchia teleferica che serviva la malga Pian de i Fioc, sotto il Serva. Partì planando da quel pulpito. Sentirsi andare sull’onda del vento e poter dirigere la propria traiettoria fu un’emozione unica. Molto più facile di quello che credeva. La seconda volta che ci provò fu, invece, un’emozione addirittura eccezionale, perché, oltre a provare l’ebbrezza del volo, sperimentò anche l’atterraggio imprevisto su di un enorme abete, dove finì incagliato con le robuste ali del deltaplano! Scese incolume dall’albero grazie alle

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proprie doti di arrampicatore e ritornò il giorno dopo a riprendersi il velivolo. Ma questi erano scherzi, giochi del destino, inezie. Riccardo sentiva il bisogno di agire attraverso qualcosa che avesse a che fare con lo sport ma che nello stesso tempo lo superasse. L’azione sportiva era solo la base, la struttura portante che reggeva l’intera esperienza. Ma quest’ultima doveva espletarsi con una forte dose di rischio, e comportare, da parte sua, degli interventi diretti a mezzo di scelte razionali. Razionalità, coraggio, potenza fisica, rischio dosato e, per quanto fosse possibile, controllato, erano quel mix necessario a fare di un’azione sportiva un evento emozionante. Poco importa se si fosse trattato di canoa, deltaplano, sci di fondo, corse in montagna, marcelonghe, nuoto o motocross. Trovando qualcosa che poteva incuriosirlo, Riccardo veniva preso da una smania di sperimentarlo e, dopo averlo sperimentato, facilmente lo abbandonava se gli pareva metodico e ripetitivo. In questo modo praticò diverse discipline sportive ma nessuna gli diede quello che andava cercando. E quindi con la stessa facilità con cui le intraprese così facilmente le abbandonò. Solo da un anno andava anche in val Gallina ad allenarsi nella palestra di roccia. La prima volta lo portò Adriano, il fratello più giovane che già arrampicava. Era il 1972. Arrivati sotto la via scelta come banco di prova, una via a due tiri di corda con un piccolo passaggio obbligato sotto un tetto sporgente, Riccardo ascoltava Adriano che gli spiegava le manovre di corda.

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«Quando si arrampica, ci sono due diverse manovre di corda. Una serve per assicurare il primo di cordata, l’altra è quella che si adopera quando ci si deve calare.» Così spiegò sommariamente Adriano, evitando di dire che entrambe venivano effettuate a spalla. Tanto, sarebbe stata una cosa superflua, un’inutile pedanteria, perché l’unico modo conosciuto di fare sicura era quello. Per quanto al salire, Adriano non pensava affatto che si potesse insegnare una progressione su roccia. A lui, nessuno mai aveva accennato a una tecnica di progressione. Ci si doveva soltanto appressare al muro verticale e salire come l’istinto avrebbe proposto. Riccardo osservò attentamente come Adriano fece un bel nodo ad asola con la corda e lo collegò tramite un moschettone all’imbrago. Poi, si tenne ben saldo sui piedi, tenendo la corda come gli aveva raccomandato, mentre Adriano saliva. Seguì impaziente i suoi movimenti, sforzandosi di capire come faceva ad avanzare su quei pochi appigli che riusciva a vedere da sotto. Adriano intanto raggiunse il punto di sosta. Finalmente toccava anche a lui tastare la roccia. Partì e arrivò indenne accanto al fratello, poi guardò Adriano salire il secondo tratto della via, superare quell’ostico tetto e arrivare al punto di calata. Toccò allora di nuovo a Riccardo che, arrivato al fatidico tetto, cercò di aggirare l’ostacolo senza, tuttavia, riuscire a superarlo. Iniziò intanto a piovere a dirotto e Adriano era tutto bagnato. Ma Riccardo, riparato dal tetto, provava e riprovava quel passaggio difficoltoso di cui non riusciva ad avere ragione. A un certo punto Adriano cominciò a spazientirsi, aveva iniziato a grandinare e Riccardo non si decideva a mollare.

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«Qua non salta fora nient, no l’è fat par rampegar», pensò Adriano e cominciò a tirare la corda con tutta la forza che aveva per agevolargli la salita. Riccardo finalmente arrivò in sosta e non disse una parola, ma l’indomani tornò da solo in Val Gallina e, senza corda, rifece la via superando il passaggio. Da quel giorno in cui Riccardo andò in Val Gallina, anche se sperimentò l’alpinismo addomesticato delle palestre di roccia, capì che la sua dimensione più vera doveva essere in quel mondo verticale, nei castelli di pietra o negli abissi rocciosi dove l’alpinismo si esprimeva in azioni che andavano oltre allo sport, donando grandiose emozioni. «Quando arrampico mi sento come un ragno. La roccia è il mio ambiente naturale. Sulla roccia mi sento libero e sicuro.» Così disse una volta Riccardo a Piero Rossi, che gli chiese quali sensazioni provasse durante le salite. Nel 1973 cominciò ad arrampicare in montagna, non soltanto nella palestra di roccia. Era tutta un’altra cosa la montagna. Grandi spazi, grandi emozioni. E poi quel senso del vuoto che riusciva a dominare, le manovre di corda, complesse e tuttavia necessarie. E tutti quei chiodi: lunghi, larghi, piccoli, piatti, e il modo corretto di posizionarli. Anche quella era materia di studio e di sperimentazioni. Solo che a quei piccoli aggeggi di metallo veniva affidata la sicurezza in caso di volo. Non era lecito sbagliare. La prima via fu la Micheluzzi-Castiglioni al Piz Ciavazes nel gruppo del Sella. Finalmente il VI grado in una parete. Ci andò con Miotto, Gianneselli e Garna.

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Gianneselli disse che Riccardo arrampicò molto bene e soprattutto in quell’anno, parole sue, “prese le misure”. Ovvero si confrontò con la roccia, stabilendo quali fossero le sue possibilità e i suoi limiti. Poi fu la volta del tentativo di salita sul Pelmo per la parete Sud-ovest. Tentativo fallito perché preso troppo alla sbuferada, così disse Riccardo. E, sempre nello stesso anno millenovecentosettantatrè, le sue due prime ascensioni sulle montagne di casa: una sulla Pala Alta, con una cordata di cinque persone e un tempo molto avverso, tale da costringerli a un bivacco in parete e un’altra sul Nason, entrambe nel gruppo dello Schiara. Tutto questo per un rampegador che si stava preparando alla tesi di laurea, non era niente male, ma l’idea che gli venne subito dopo fu un colpo di genio. Erano passati sì e no dieci giorni dalla sua festa di laurea quando Riccardo fece una di quelle pensate che non stava più nella pelle. Più ci pensava e più gli sembrava l’idea giusta per dare l’abbrivio alla sua attività alpinistica. Si trattava solo di dimostrare una forte dose di coraggio unita a una punta di temerarietà. Tutto sommato, forse, tale ideazione fu una cosa più facile di quello che poteva sembrare, perché lui, dell’uno e dell’altra, ne aveva da vendere.

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Il Burèl - Atto I. La Faccia di quelli Veri Il brutto è fidarsi, questa è la questione, quando sotto c’è un abisso. E tutto quello che dicono, per darsi importanza, “tecnica della roccia”, son balle, perché non occorre andare a studiare acrobazia per fare montagne difficilissime ma solo coraggio e sangue freddo. Dino Buzzati, Lettere a Brambilla

Alle volte, il Burèl gli compariva innanzi, quando lasciava vagare liberamente i pensieri in cerca di pareti da scalare. Era spaventoso con quella parete Sud-ovest che precipita in Val de Piero per circa un chilometro e mezzo. Era quello un baratro che aveva solleticato la fantasia dei più forti alpinisti. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, qualcuno però riuscì a scalarlo. La via prese il nome di Via Centrale, ma era più conosciuta come Italo-polacca. Gli italiani, che per primi l’avevano salita, erano i bellunesi Gianni Gianeselli e Giorgio Garna, che Riccardo conosceva bene perché ci arrampicava assieme. Anzi, lui citava Garna come un maestro perché nella scalata, diceva, aveva adottato certi accorgimenti dove la tecnica era più importante della forza muscolare. Riccardo aveva in mente quella prima salita. In quel periodo gli alpinisti polacchi erano di casa allo Schiara, e non solo su esso. Si accampavano con grandi tende, dove ammassavano anche grandi quantità di scatolette di carne, e poi partivano in perlustrazione delle pareti. La prima scalata, dalla banca centrale alla cima di

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Indice Prefazione di Flavio Faoro

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Prologo 13 Infanzia 14 Perito Metalmeccanico 22 L'Università 26 Il Burèl - Atto I 33 Il Matrimonio 41 Il Burèl – Atto II 54 Il Pelmo 59 Monti del Sole 63 Pizzocco 68 Lo Spiz di Lagunaz 71 La Via Federica 77 Le Moto 81 Il Burèl. Atto III 85 Il Burèl. Atto Finale 90 Antelao 97 102 Tàmer di Dentro L'Addio allo Schiara 105 Torre Trieste, Via Dell'Oro-Giudici-Longoni 109 L’Attività Professionale 114 Marmolada 119 Agnèr, Pilastro Bee 123 Agnèr. Il Gran Diedro che non c’È più 127 Soprannomi per l’Ultima Via sul “Gigante di Pietra” 131


La Via Adelchi alla Croda del 7° Alpini di Adelchi Liera

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Avventure “Normali“ con Mio Fratello Riccardo 144 di Adriano Bee I Camosci del Nevegal di

Sergio Dalla Bernardina

Le Marele di

Giorgio Tosato

Dieci Domande a Flavio Appi

156 164 181

Quella Volta che Abbiamo Salito lo Spiz di Lagunaz 185 di Stefano Gava Seppie Conse di Sandro Neri

193

Finalmente Liberi di Leo Comelli

205

Elenco Cronologico delle Salite

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Ringraziamenti

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«C’è un modo di far resuscitare le vie già percorse, facendo aumentare la loro importanza – pensò Riccardo – Si tratta solo di rifarle, aumentandone il grado di difficoltà. Ad esempio ripetendole durante la stagione invernale.» E così ideò la Via italo-polacca alla parete Sud-ovest del Burèl, quando d’intorno vi sarebbero stati neve, ghiaccio e slavine, apparentemente per aumentarne il grado di difficoltà e di pericolosità, ma in sostanza per legare il suo nome all’abisso. La via-viaggio, come qualche alpinista ha definito le vie del Burèl per la parete Sud-ovest, era stata, tuttavia, approvata nella stessa giornata in cui era stata proposta.

Finito di stampare nel mese di marzo 2014 da Monotipia Cremonese - Cremona per conto di Versante Sud s.r.l. - Milano

e 19,00 978-88-98609-08-6


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