Fulvio Scotto - Scarason

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R A M P I C A N T I

Fulvio Scotto

Scarason

EDIZIONI VERSANTE SUD


2012 © VERSANTE SUD S.r.l. Via Longhi, 10 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati 1a edizione Febbraio 2012 www.versantesud.it ISBN 978–88–96634–66–0


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R A M P I C A N T I

Fulvio Scotto

SCARASON Il mito alpinistico delle Alpi Liguri Presentazione di Annibale Salsa Prefazione di Alessandro Gogna

EDIZIONI VERSANTE SUD


La parete dello Scarason (foto Canu) Scarason 4


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L‘autore durante l‘apertura della Via Diretta, sul passo chiave al terzo giorno in parete. (foto A. Parodi) Scarason 12


Introduzione Un libro sullo Scarason? …perché? Forse perché per molti alpinisti della mia generazione ha rappresentato quasi un mito di difficoltà e di avventura. Forse perché c’è un particolare coinvolgimento emotivo personale. Forse perché è stata la passerella su cui sono sfilati alcuni dei più bei nomi dell’alpinismo sudoccidentale dell’ultimo mezzo secolo. Forse perché di altre cime e pareti delle nostre montagne si era già scritto e si sapeva quasi tutto mentre del Marguareis e dello Scarason in particolare, in fin dei conti si sa poco, a parte che “si tratta di una parete repulsiva di roccia marcia”. Si forse si poteva fare un libro sullo Scarason per tutti questi motivi, tutti insieme in interazione tra loro… Al primo posto ho messo il mito… Negli anni settanta quando Alessandro Gogna pubblicò il suo libro autobiografico Un alpinismo di ricerca, dedicò a questa montagna un numero di pagine quasi esagerato per una parete di soli quattrocento metri… Gogna è un alpinista affermato a livello europeo con importanti e famose ascensioni nelle Alpi e fuori di esse che vengono raccontate nel libro, ma da nessuna traspare alcunché di paragonabile alle emozioni, alle paure, al coinvolgimento che trasudano dal lungo racconto della prima ascensione della parete dello Scarason, da lui realizzata in sei giorni con Paolo Armando nel 1967. Sono cinquantacinque pagine che si leggono tutto d’un fiato! Cosa pensarne allora? Ma se Gogna, che è anche amico di Messner, e che fa cose così importanti sul Monte Bianco, al Badile, sul Cervino, in Dolomiti, se lui è stato così travolto da questa avventura, ma allora che “roba mostruosa” è questo Scarason… Ma il mito era nato, anche se in forma latente, già prima, scaturendo dalle scarne pagine di chi aveva avuto occasione di osservare la parete. Giacomo Guiglia, nel 1932 sulla Guida invernale e alpinistica delle Alpi Liguri scriveva: “Rocce Scurason: presentano lisce pareti di roccia che offrirebbero campo a interessanti tentativi di arrampicata. Specialmente impressionante la erta parete della q.2352. Nel centro delle pareti si scorge un foro, probabilmente sbocco di una di quelle gallerie che formano il misterioso mondo sotterraneo della selvaggia regione delle Carsene.” Sandro Comino, decano e custode dei segreti alpinistici del Marguareis tra gli anni trenta e gli anni cinquanta invece, così la dipinge nella prima edizione della Guida alpinistica del Marguareis pubblicata nel 1963 a didascalia di un’immagine della parete: La parete nord di Cima Scarason ancora inviolata, e si dilunga con qualche

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parola in più nel testo “una parete formidabile e impressionante di quattrocento metri, fortemente strapiombante, ancora inviolata.” Maggiormente vi pensa e ne parla Armando Biancardi, prolifica penna torinese che, in antagonismo con i monregalesi si sentiva lui pure “alpinista del Marguareis”. Il mito nasce e si alimenta spesso da voci che scorrono di bocca in bocca arricchendosi man mano di particolari e di aneddoti di dubbia origine… Così, si iniziò addirittura a vociferare di tentativi di campioni dolomitici di quegli anni, Armando Aste, Cesare Maestri…e si condiranno queste voci anche di ritirate e fughe “con le pive nel sacco”…storie, chiacchiere, che troveranno forse terreno fertile tra un bicchiere di vino e una sigaretta di una serata in rifugio… Così il mito Scarason aveva iniziato a nascere e “fermentare” nella fantasia alpinistica dei primi protagonisti… Il coinvolgimento emotivo personale? Presto detto: da quando ho iniziato ad andare in montagna, crogiolandomi nelle letture dei “sacri testi” di Bonatti, Buhl e subito dopo con Un alpinismo di ricerca di Gogna, quella era diventata la parete per eccellenza delle mie montagne. Quando, dopo qualche anno di vagheggiamenti, ho incontrato il compagno con cui farne una ripetizione il mio entusiasmo toccò l’apice. Già dalla mattina dopo la salita, ne sognai e ne studiai, per cinque anni, una via mia, più diretta, che percorresse in centro la parete puntando verso la vetta. La sua realizzazione, con giorni di ansie, paure, bivacchi, mi parve il massimo che potessi mai realizzare e mi faceva sentire un po’ mia questa parete… Il terzo motivo che ho citato, Scarason importante passerella di personaggi, è un dato di fatto. La sua parete è stata terreno di gioco per pochi. Dal 1967, anno della prima salita, sino a fine secolo scorso, alle soglie del duemila, solamente trentuno sono in totale gli alpinisti che l’hanno salita. Essi aumentano improvvisamente a quarantasei (… arrivano i francesi…) se consideriamo i suoi primi quarant’anni di storia alpinistica. I nomi di qualcuno di essi dopo quelli di Gogna e di Armando? In ordine cronologico ne citiamo alcuni: Gianni Comino, Marco Bernardi, Guido Ghigo, Isidoro Meneghin, Sandro Nebiolo, Enrico Manna, Stephane Benoist, Marc Gamio, Yannick Graziani, Patrick Berhault, Patrick Gabarrou… gli alpinisti della domenica hanno girato alla larga… Quindi un libro sullo Scarason si prestava a incontrare alcuni dei maggiori personaggi del nostro alpinismo e ad approfondirne la conoscenza. Così più che parlare della storia della parete abbiamo in molti casi divagato a lungo, rischiando di “perdere la via”, di perdere cioè il filo del discorso per parlare dei protagonisti. Li ho voluti presentare perché tutti degni di un primo piano e ho raccontato

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della loro vita alpinistica, anche se lontano dal nostro Marguareis. In questo modo, a causa delle mie divagazioni, la storia dello Scarason è diventata un po’ l’occasione per qualche scorribanda di più ampio respiro nell’ambiente alpinistico della seconda metà del secolo ormai trascorso. Mi è parso in questo modo di poter dare un piccolo contributo a quella che è stata e resterà la storia degli uomini che sulle rocce un po’ marce ed erbose di questo angolo delle Alpi Liguri hanno dato via libera al gusto per l’avventura e talvolta hanno inseguito un sogno… L’uomo che, in una normale condizione di vita, abbia perso la capacità di sognare, solamente assorbito dal razionale e dalla concretezza del quotidiano, ha perso, penso, il gusto di vivere le emozioni più profonde…

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La Grande Avventura di Alessandro Gogna e Paolo Armando Genova è una città di mare, schiacciata dalle onde contro le ripide pendici dell’Appennino. Però come abbiamo già visto dalle prime pagine di questo libro, proprio nel capoluogo ligure si riscontra una radicata tradizione alpinistica. Alla metà degli anni sessanta, stanno muovendo i primi passi due dei maggiori alpinisti italiani del periodo successivo, Gianni Calcagno e Alessandro Gogna. Quest’ultimo in particolare sarà uno dei protagonisti principali della nostra storia. Alessandro ha in più occasioni raccontato un aneddoto sulla nascita del suo amore per la montagna, la prima scintilla di un interesse che con gli anni diverrà la grande passione di una vita. Da ragazzino, durante una vacanza a Bieno Valsugana si imbatte in un cartellone dipinto a mano, come usava allora, che riproduceva tutti i sentieri della zona circostante. Affascinato dalla recondita promessa d’avventura che gli trasmette questa rappresentazione delle montagne intorno, Alessandro se lo copia integralmente, e a colori (!), su un foglio di carta da disegno. Nel 1960 Alessandro, quattordicenne, trascorre le vacanze estive in Dolomiti con la famiglia. Il papà non presta molta attenzione alle montagne e agli scalatori, la mamma invece gli è compagna in qualche escursione. In particolare si fa trascinare fino in cima al Piz Boé. Per Alessandro questa ascensione costituisce una vera conquista, che lo fa sentire protagonista e lo carica di entusiasmo. Ma è soprattutto l’anno successivo, con un gruppo di amici di famiglia e una guida, che riesce a partecipare a una escursione, che costituiva per lui il sogno di una intera estate, la vetta di Punta Penia in Marmolada, lungo la via ferrata. Alessandro non era mai stato così in alto. Sono queste, per lui, avventure galvanizzanti che lo orientano, già a quell’età, su un percorso che, pur attraverso periodi di profonda crisi esistenziale negli anni della giovinezza, lo porterà a una scelta di vita interamente basata sull’alpinismo. Alessandro scopre quindi l’arrampicata, cominciando dai monti dell’Appennino dietro Genova che trova descritti in una minuscola guida di Euro Montagna, Palestre d’arrampicamento genovesi. Inizia con un tentativo ai torrioni di conglomerato del Castello della Pietra, poi scopre un monolite di una decina di metri e quasi se ne innamora: è il Campaniletto di Sestri o Pria Meüia. Da solo e con vari compagni

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vi fa inutili tentativi per scalarlo, con rocamboleschi accorgimenti di loro ideazione. Poco dopo, nell’estate del 1962, torna in vacanza in Dolomiti e sale, da solo, al Catinaccio e alla Roda di Vael per le vie normali. Sono itinerari con difficoltà di secondo grado o poco più ma c’è all’intorno una certa esposizione, la qual cosa lo galvanizza ulteriormente. Tornato a casa, sempre da solo, riesce finalmente a salire la Pria Meüia, terzo grado! Nel giro di una settimana ci torna due volte con un amico, salendo anche una via più difficile. Alessandro ormai ha rotto il ghiaccio e si sente un alpinista! L’Appennino genovese diventa l’abituale terreno di gioco e di avventura tra il ’62 e il ’63. Con diversi amici Alessandro si impratichisce sempre più nel gioco dell’arrampicata: alla Pietragrande, al Groppo Rosso, alla Baiarda, sui Torrioni di Sciarborasca o al Bric Camulà, oppure ai Massi di Cravasco. Una naturale scuola di arrampicata che lo forma, non tanto a superare grandi difficoltà quanto, e ciò sarà fondamentale per il suo alpinismo futuro, a muoversi con disinvoltura su ogni tipo di terreno. Infatti si tratta di posti, oggi per lo più dimenticati, dove la roccia non è sempre il massimo della qualità o per dirla con le parole di Gianni Calcagno, “posti dove o diventi buono o vieni di sotto.” Proprio con Calcagno, Alessandro vivrà alcune delle prime importanti avventure. La prima volta si erano trovati, nell’aprile del 1964, con altri amici del CAI, durante un’uscita della scuola d’alpinismo, a Rocca Maia nel solito Appennino, salendo alcune brevi vie di quarto e quinto grado. Calcagno, di tre anni più grande, godeva già di una certa considerazione nell’ambiente locale. I due diventano amici e compagni di cordata. Arrampicano insieme, prima nelle “palestre” genovesi e poi anche sulle prime montagne. Seguono poi numerose salite nelle Alpi Marittime e qualche uscita negli altri gruppi più importanti quali il Bianco e le Dolomiti. Gianni Calcagno, classe 1943, aveva perso il padre in età giovanissima. Tirare avanti non era facile e in casa c’era bisogno di un aiuto, per cui già da ragazzino si era trovato a lavorare, per contribuire al bilancio famigliare. L’arrampicata, o per meglio dire l’alpinismo, era per lui e per il fratello Lino, la breve fuga del fine settimana dopo faticosi giorni di lavoro. I mezzi erano modesti, ma l’entusiasmo e soprattutto la determinazione erano tali da permettere ugualmente di raggiungere risultati di rilievo. Alessandro Gogna invece è uno studente, dapprima iscritto alla facoltà di ingegneria e poi, dopo un ripensamento, a giurisprudenza. Allo studio gli è facile sottrarre il tempo libero per quella grande passione che riempie i suoi pensieri e la sua vita. Entrambi sono

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affascinati da un tipo di alpinismo selvaggio, col quale, diceva Calcagno “andare a sbattere le corna” da qualche parte, in una sorta di lotta con l’ambiente alla ricerca di sensazioni forti. La salita aveva valore se comportava fatica in un contesto che per loro era costituito da una montagna permeata di un alone che vivevano come misterioso, in cui fare ogni volta una scoperta, magari in inverno. Uno dei motti di Calcagno era “Chi non s’accoppa diventa buono.”4 Nel 1964 Gogna si trova a sfogliare la guida alpinistica del Marguareis scritta da Sandro Comino e come sua abitudine ne copia, a mano su un quaderno, le relazioni alpinistiche che gli possono interessare per future ascensioni. Così com’era già capitato a Mimo Folli, nota la foto dello Scarason, definita “la parete inviolata”, e questa fa da stimolo per la sua già prorompente voglia di avventura. L’anno precedente era stato al Marguareis, per il Canale dei Genovesi, scorgendo attorno tutta una serie di bellissime pareti di aspetto dolomitico. Il fatto che ce ne sia una ancora inscalata a metà anni sessanta, gli appare come una sfida da non perdere. Si rende però perfettamente conto di non essere ancora all’altezza del problema. Molto realisticamente decide che al momento sarebbe prematuro e che sia meglio “crescere” ancora un po’. Alessandro nei mesi di luglio e agosto è di nuovo in Dolomiti, ove arricchisce la sua esperienza con numerose classiche ascensioni su terzo e quarto grado con qualche passaggio sul quinto, scalando varie volte in solitaria. Rientrato a Genova, a fine di quell’estate del ’64 realizza, nel Gruppo del Prefouns nelle Alpi Marittime, quella che lui stesso considera la sua prima ascensione di quinto grado in montagna. Si tratta di una via di Giovanni Guderzo alla parete est della Punta Maria, di cui effettua la prima ripetizione con tre amici tra i quali Gianni Calcagno. Una settimana dopo, il 20 settembre, Gogna si trova per la prima volta a scalare una via di roccia sui calcari del Marguareis, la Diretta alla Nord della Cima Bozano aperta nel 1940 da Comino e Biancardi. L’anno seguente, 1965, lui, Gianni e Lino Calcagno si spostano spesso fino in Grigna ad allenarsi in quella storica palestra che presenta esposizioni e varietà di itinerari che non hanno confronto con l’Appennino genovese. In breve dal quinto salgono al sesto grado. In quel periodo frequentano sistematicamente le valli cuneesi. Ancora nel Prefouns, il 20 giugno Gogna e Calcagno realizzano la prima salita della cresta nord ovest del Tablasses. Un mese dopo, nuovamente insieme, alcune vie nuove: alla Punta Mafalda, al Gran Gendarme del Giegn, al Cayre di Prefouns, alle Guglie del Lago 4 - Intervista di F. Scotto su Montagne Nostre n. 123/1990.

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Negrè. Ripetono inoltre quasi tutte le mitiche vie di Guderzo, aperte a metà anni cinquanta. Alessandro scala in solitaria la Est della Punta Maria, poi con i soliti amici effettua la prima ripetizione alla Est della Punta Giovanna. In particolare di quest’ultima, non sapevano quasi nulla, solo di un passaggio difficilissimo che c’era all’attacco. Loro pensavano che là dove Guderzo era salito in staffe, sarebbero passati in libera… ed eccoli invece costretti a farsi le staffe con i cordini per poter passare… Agosto: solite vacanze in Dolomiti con oltre una ventina di salite, alcune con passaggi anche di sesto grado. Rientrato a Genova, a metà settembre Alessandro effettua una ascensione solitaria sul calcare, non sempre sano, delle Alpi Apuane. In meno di cinque ore sale la via Oppio-Colnaghi sulla severa parete nord del Pizzo d’Uccello. È sicuro di sé e arrampica anche sui passaggi di quinto grado senza sentire il bisogno dell’autoassicurazione. L’anno seguente coglie altri numerosi successi su livelli via via superiori e a fine stagione ripete la via Buhl, aperta da Brandler e Hasse sulla Parete Rossa della Roda di Vael, una delle moderne vie dolomitiche in cui si è ricorso anche all’artificiale a pressione. Ormai Alessandro ritiene di potersi presentare alla sfida dello Scarason. Chiede a due amici genovesi che vanno al Marguareis con una gita sociale del CAI, di scattargli qualche foto della parete. Ma nella notte ha piovuto e lo Scarason appare impressionante, tutto striato da colate d’acqua. Dalle foto, si intuisce comunque che la parete è solcata da fessure e da profondi camini. Alessandro si convince allora a tentare l’avventura e inizia con il farsi preparare ben quarantacinque cunei di legno. Trovare un compagno non è facile. Gianni Calcagno non può assentarsi per più giorni dal lavoro e questa non è certo una via risolvibile in giornata. Per fortuna però, nel 1966, al rifugio S.E.M. al Pian dei Resinelli in Grigna, Gogna conosce Paolo Armando, studente anche lui. “Abbiamo iniziato a parlare, direi quasi…ad annusarci… come fanno i cani…e alla fine ci siamo scoperti simpatici!” Paolo, che ha quattro anni più di Alessandro, è di famiglia torinese ma frequenta l’Università a Milano, ormai prossimo alla laurea in architettura. Paolo si era trasferito nel capoluogo lombardo, abitandovi per diversi anni, e proprio lì aveva iniziato ad arrampicare. Ritornato poi a Torino aveva faticato alquanto a inserirsi nell’ambiente alpinistico locale, in verità piuttosto chiuso. Alessandro e Paolo arrampicano insieme per la prima volta al Nibbio, storica palestra della Grigna, salendo l’8 maggio del 1966 la Via Comici (Via dei diedri). Si ritrovano l’anno successivo per fare insieme la prima invernale dello spigolo sud est del Dente del Gigante.

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È l’inizio di un’amicizia che diviene, nei mesi successivi, sempre più solida scoprendo tra loro, entrambi studenti, in un momento storico in cui sta per esplodere il “sessantotto”, numerose analogie di pensiero. Armando è un giovane assai promettente. Ha del talento e soprattutto è una “bella testa”, anche lui un “alpinista di ricerca” con idee innovative, anche se non possiede il tipico “fisique du role” del protagonista. Corporatura esile, occhiali che gli danno un’aria da giovane dedito più ai libri che alle avventure estreme. A dispetto di ciò si lancerà in un tentativo alla temibile parete est delle Grandes Jorasses che contava all’epoca una sola ripetizione. Ironicamente così lo caratterizza Gogna: “Paolo era veramente…un bastardo!… nel vero senso della parola…una di quelle persone talmente buone d’animo che fuori devono continuamente manifestare aggressività ed essere pungenti nei confronti degli amici cercando sempre di attizzare e di provocare. Ma io ero piuttosto refrattario a questo genere di atteggiamento, anzi gli rispondevo per le rime, ma non abbiamo mai litigato in tutto il periodo in cui abbiamo arrampicato insieme.” Ed ecco come lo descrive, sulla rivista Scandere del 1988, Ugo Manera che lo aveva conosciuto quand’era tornato a vivere a Torino: “Paolo era un biondino dall’aspetto delicato, che a prima vista passava per un tipo tranquillo, persino un po’ timido. In lui si nascondevano in realtà una personalità vivace, un carattere battagliero e uno spirito pungente e polemico. Particolarmente critico, a volte sarcastico, si mostrò nei confronti dell’ambiente alpinistico torinese dell’epoca, con un accanimento che con ogni probabilità trovava ragione nel modo in cui Paolo era approdato tra gli scalatori della città della Mole. Quando si trasferì a Torino pensò che fosse sufficiente recarsi nella sede del CAI per trovare subito nuovi amici con i quali andare in montagna. E invece, con grande delusione, si dovette confrontare con un giro chiuso, che non lo degnò della minima attenzione. Fu così che Paolo, sentitosi respinto, per reazione assunse un atteggiamento critico e provocatorio.” Legò invece con alcuni giovani, Alfredino Marengo, Claudio Sant’Unione e Gian Piero Motti. Il sarcasmo di Paolo viene colorito nei ricordi di chi l’ha conosciuto da vari aneddoti su scherzi o pungenti frecciate polemiche nei confronti dell’elite alpinistica torinese. Sempre dallo scritto di Ugo Manera ne estrapoliamo un paio. “A compagni non molto esperti più volte giocò lo scherzo del lucchetto. Questo consisteva nell’usare un lucchetto a scatto, invece del moschettone, per il collegamento della corda di cordata a un chiodo. Quando il secondo arrivava al chiodo non poteva liberare la corda dal lucchetto chiuso, per cui doveva slegarsi, sfilare la corda e rilegarsi.

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Fessura Brown alla Blaitiere: Paolo supera la fessura con un compagno, ma non completa la via e ridiscende. Ad Alberto Re, Gian Carlo Grassi e Guido Machetto, a loro volta diretti alla Brown, dichiara che la fessura non è poi così difficile, ed è perfettamente attrezzata con grandi cunei. I tre provano e riprovano senza riuscire a passare. Convinti di essere stati vittime di uno dei soliti scherzi di Paolo, lo accusano di aver tolto in discesa i cunei. La risposta è canzonatoria: il problema non è il numero dei cunei, ma la capacità arrampicatoria…ne nasce ovviamente una polemica. D’altronde era consuetudine di Paolo lo sminuire esageratamente il valore di una via celebre da lui percorsa. La Nord del Cervino era all’epoca ancora uno spauracchio tra gli scalatori italiani. Paolo (che la salì con Gogna nel 1967 in quattordici ore e trenta – nda) ritornò affermando che in fondo si tratta di una salita di terzo grado con un po’ di neve sopra. Ma in privato confessò a Sant’Unione di aver trovato ben lungo.” Solo dopo l’invernale al Dente del Gigante Alessandro propone a Paolo di andare a “fare” questo Scarason, una sconosciuta parete che promette difficoltà superiori a quelle normalmente considerate. Le mire di Armando erano orientate su altre montagne ben più famose, ma il progetto calza con quelle che sono le sue aspirazioni alpinistiche. Così si fa convincere facilmente pur senza conoscerla. L’entusiasmo di Gogna è stato contagioso. Nel mondo alpinistico è un momento di riflessione e di dibattito sulla valutazione delle difficoltà in arrampicata. Gogna pensa di poter trovare sullo Scarason il sesto superiore, Armando ipotizza che magari vi si possa arrampicare alla scoperta del settimo grado… di certo qualcosa di veramente grande. Nel suo libro, di imperdibile lettura, Un alpinismo di ricerca (dall’Oglio, 1975), pietra miliare della letteratura alpinistica di quegli anni, Gogna dedica un lungo capitolo all’avventura dello Scarason. Da esso, con il suo consenso, attingeremo direttamente alcuni brani dei più significativi per lasciare il racconto di quell’avventura alle sue stesse parole. Scrive Gogna: “Arrampicare sul settimo grado era la sua fissazione e voleva a tutti i costi vedere se fosse possibile arrampicare su difficoltà ancora superiori alle massime, già da tempo riconosciute tali. Non che fosse convinto, voleva solo provare e ci scherzava sopra. Invece io ero convinto che su quella salita avremmo conosciuto il sesto superiore.” A primavera i due riescono finalmente a partire per la loro avventura. Con loro c’è anche l’amico Fredino Marengo, per dare una mano a trasportare l’abbondante e pesantissimo materiale. Siamo a inizio stagione e il Vallone del Marguareis è ancora innevato. I tre amici salgono il pomeriggio del 22 aprile e, dal Gias Sottano di Sestrera, possono finalmente scorgere in, lontananza, la parete. Nell’ombra che

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precede la sera, racconta Gogna, essa appare “tetra e opprimente. Lo sognavo un incontro così violento. Pensavo che sarebbe stato bello vederla così, con le tinte più fosche.” Gogna, Armando e Marengo raggiungono la minuscola costruzione del Gias Balmas ormai all’imbrunire. Consumano una cena piuttosto frugale a lume di candela e si coricano sul tavolato cosparso di paglia. Marengo dorme senza preoccupazioni, ma per gli altri due la notte è piuttosto agitata. La mattina seguente, all’alba, salgono verso la parete e, giunti nella conca sottostante, la possono finalmente osservare sopra di loro, illuminata dal sole. “È proprio bella e affascinante. Quattrocento metri, rispetto alla grandi pareti di mille, sembrano pochi, ma a nostro avviso presentano un tale concentrato di difficoltà, difficilmente riscontrabile altrove. L’impressione che la parete ci voglia cadere addosso è qui vera più che mai. La repulsione che ispirano quelle placche gialle e nere, quelle strisce, le chiazze d’erba verticali, ci fa vedere la parete con grande rispetto e timore. Riusciremo a passare?” Gogna e Armando osservano con attenzione lo Scarason per la prima volta dal vero. Esso è solcato da due evidenti sistemi di fessure e loro, contrariamente a quanto avevano fatto Tardito e Folli, scelgono quello di destra. Questo, pur se molto strapiombante in partenza, appare continuo fino in cresta offrendo le maggiori possibilità di riuscire. L’altro sistema, più a sinistra, seppure abbia il pregio di essere più diretto, è interrotto da placche che, valutano, probabilmente non risolvibili senza chiodi a pressione… e loro, pur avendoli con sé, sono decisi a non usarne. “Ma anche con i chiodi a pressione chi ci poteva garantire di trovare roccia adatta, e non zone troppo marce? Decidiamo quindi di attaccare a destra, ma anche qui i punti interrogativi sono tanti. Dapprima la fessura, strapiombando, obliqua a sinistra per circa 180 metri, poi a destra per altri 200 metri, e infine prosegue verticalmente per 100 metri fino in cresta. Molte sono le interruzioni, gli strapiombi dall’aria impossibile, i collegamenti problematici. Il colore è poco rassicurante; placche compatte si alternano a tratti orrendamente sfasciati.” L’inizio della fessura si presenta orrido, strapiomba di quattro metri sui primi quindici, ma soprattutto è larga e marcia con un mucchio di pietre incastrate e instabili. Fortunatamente Armando individua una variante alternativa di attacco, un diedro obliquo dalla sommità del quale, con una traversata artificiale a sinistra si può rientrare nella fessura. Attacca deciso. “La scena è buffa. Vedere un ammasso di chiodi e moschettoni tintinnanti che si trascina dietro tre corde. I primi movimenti sono impacciati, si deve arrampicare sul lato destro del diedro. Subito però si scopre che bisogna già usare i

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chiodi, altrimenti non si può progredire. Il primo chiodo, piantato a tre metri dalla neve, dà il segnale del vero inizio della lotta.” Paolo sale faticosamente nel diedro, un po’ in artificiale e un po’ in libera e al suo termine deve iniziare a traversare a sinistra in strapiombo. “Dicono che l’arrampicata artificiale sia meccanica e quindi facile. Per me non v’è niente di più sbagliato. E come prova io farei vedere a quelle persone come arrampica Paolo in artificiale. Quello che sta facendo adesso è contro tutti gli equilibri, dimostrazione di bravura e di ardire. Miracolosamente un altro chiodo entra. È veramente incredibile, io avrei proprio detto che di lì non saremmo passati. Messa la staffa, Paolo vi sale con attenzione; e ricomincia il faticoso lavoro di chiodatura. Ora è ancora più in posizione strapiombante, pianta altri due o tre chiodi in posizioni inverosimili, su roccia friabile. Lo sentiamo ansare dicendo che aveva raggiunto la zona di arrampicata libera. Sale sull’ultimo gradino della staffa, cerca di fare il passaggio, ma rinuncia, perché si sente stanco. Gli diciamo di scendere, e così molto attentamente ritorna indietro e quando arriva all’inizio della traversata lo caliamo giù di peso.” Armando ha percorso circa venti metri. Aiutato dalle corde che, carrucolando dall’alto lo aiutano a salire, Gogna gli dà il cambio. Fin dal primo istante si trova subito impelagato tra strapiombi friabili, con le dita piantate spasmodicamente dentro zolle erbose, e una chiodatura aleatoria se non del tutto improponibile. Salivazione azzerata, indecisione, panico, quasi terrore nel partire dalla staffa per tentare un passo in libera su roccia che si sgretola. Tutto ciò senza poter capire se sarà possibile ristabilirsi in qualche modo in equilibrio, e con sotto qualche metro di corda libera prima che sia rinviata in un chiodo peraltro totalmente inaffidabile… “Davanti a me c’è una zona arrampicabile sì, ma si vede subito che è all’estremo delle difficoltà. Comunque, cerco di togliere il piede dalla staffa, aiutandomi con una specie di cengetta spiovente per le mani, su cui, prevedo, dovrò mettere anche le ginocchia. Ma sento che se facessi un movimento di più volerei, perciò non mi arrischio e cerco disperatamente, mentre le mani cominciano a tremarmi, il gradino della staffa. Finalmente lo trovo, e mentre vi introduco lo scarpone, sento un rumore di sassi che cadono. Li ha smossi il mio piede mentre cercava il gradino. Sotto non si riparano neanche, tanto c’è lo strapiombo. La roccia qui diventa decisamente friabile. Se prima lo era già, però ci si attaccava ai chiodi, ora ci si deve attaccare agli appigli che si staccano. Affannosamente metto un chiodo in una fessura. Non tiene niente, però mi può aiutare a fare il passaggio. Devo stare attento a sollecitarlo in una sola direzione, senza sbagliare di un solo grado l’angolazione, altrimenti esce e io

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vado giù. Sposto il peso sul piede sinistro, trattenendo il respiro; mi si sgretola in mano l’appiglio precedente: ho un attimo di smarrimento perché l’equilibrio è compromesso. Riesco a rimanere lì appiccicato. Non riesco a disincagliarmi da questa posizione e ho la gola che mi brucia. Sento un vago senso di malessere. Sono ben lontano dall’esaltazione che certa letteratura alpinistica attribuisce a chi sta facendo qualcosa di stupendo e sta rischiando il massimo. Trovo un buchino, che mi sembra più profondo di quello che si direbbe. Infatti vi metto, con la sinistra, un chiodo grosso e lungo, su cui mi posso abbandonare completamente, distrutto dalla fatica e dalla tensione. Poco fa la prima cosa che avrei fatto, avendone la possibilità, sarei sceso in corda doppia: e ora che sono qui, ancorato a questo ottimo chiodo… Però lì a sinistra c’è una fessurina… ma no, è cieca! Però, e se… L’unica è tentare. Con le mani sono alla terra e all’erba, che mi butta in fuori e mi riempie gli occhi di polvere. Mi devo tenere solo con la sinistra e non ce la faccio più. Stringendo i denti, lascio la staffa e di scatto mi trovo sopra, tremo. Pianto tre chiodi e metto le staffe. – Sono arrivato! – urlo.” Sono già passate le ore 13. Una intera mattina per attrezzare e salire una sola lunghezza di corda! Quasi terrorizzato anche lui, Armando, sale verso Gogna appeso in una vaga nicchia. “Ma qui i chiodi si staccano! Tieni, tieni!” Finalmente dopo quasi un’ora di patimento, Paolo arriva a sua volta alla sosta. Alfredino alla base della parete è totalmente allibito e forse per paura di assistere a una tragedia decide che è il momento di salutarli e di rientrare. Riparte Armando per la seconda lunghezza, continuando a lottare con difficoltà di arrampicata e di chiodatura. In più di tre ore riuscirà a salire di ben (!) dodici metri… quindi decide, per oggi, di fermarsi. Alle 17,15 ritorna alla sosta sottostante e, piazzata una corda fissa, i due scendono pendolando nel vuoto fino alla base della parete. Lasciano tutto il materiale e tornano alla malga. La fredda notte primaverile trascorre in un’atmosfera di mestizia. 24 aprile. La mattina si riparte dopo aver sorseggiato un poco di tiepido té. Giunti alla base della parete, si attaccano alle corde lasciate la sera prima, che pendono nel vuoto lontano dalla roccia e le risalgono con la tecnica dei nodi prusik, fino alla nicchia della prima sosta. Il sole comincia a scaldarli. Recuperano il pesante zaino del materiale, poi Armando ripercorre i dodici metri attrezzati il pomeriggio precedente. Sono le 9,30. Nuovamente si ripete la lotta, come il giorno avanti contro la roccia friabile e strapiombante che non accetta chiodi sicuri. Un po’ in libera e soprattutto in artificiale, lentissimo, Paolo guadagna metro su metro, quasi centimetro su centimetro “… un punto problematico, una chiodatura a sinistra, lontanissimo,

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difficilissimo. Per chiodare così lontano Paolo ha bisogno che gli tenga la corda in maniera particolare. Il chiodo non è gran che, ma vi sale sopra ugualmente. Poi è la volta di un cuneo, fissato in un posto assolutamente privo di fessure piccole. Altri chiodi, ognuno dei quali ha una sua storia, ognuno dei quali richiede intuito, abilità, fatica; e il risultato non è mai soddisfacente: o ballano, o sporgono troppo, o la roccia intorno si muove. Con un miracolo di equilibrio, Paolo è riuscito a martellare un chiodo all’altezza degli scarponi e vi si è appeso in staffa. Silenzio. Non lo sento sbuffare, ma me lo immagino, con il sudore che gli cola dalla fronte, di sotto al casco e gli impiastriccia gli occhiali… Ora è all’inizio di una rampa erbosa, quasi verticale, obliqua a sinistra che non offre possibilità di risalita. La rampa sarà alta circa cinque metri e larga mezzo metro. Paolo con robuste martellate aggredisce la terra e l’erba alla ricerca di rocce e fessure. Subito dopo (per me che sono venti metri più in basso), il cielo si oscura e vedo il nevaio sottostante diventare nero. Poi vedo volare intere zolle, che piombano sul pendio con rumori sordi ma alla fine al rampa è vinta. Infatti alcune fessure hanno avuto la compiacenza di mostrarsi e Paolo le ha subito riempite di chiodi. Piedi nelle staffe, mani che si avvicinano a una lama staccata. Basta che lui la tocchi appena, che questa ha un sussulto. È in bilico! Il suo superamento è problematico e Paolo è ormai distrutto psicologicamente. La lama assume dimensioni disumane, fuori del comune. Tutto è eccezionale; niente ha più la realtà consueta. – Alessandro, qui c’è un mostro! – mi urla tutto eccitato. Io provo una sensazione strana, come se il mostro malefico ci fosse davvero e ci impedisse di realizzare il nostro sogno.” Per sette ore (!) Armando si impegna nell’apertura di questa seconda lunghezza di corda, mentre il compagno infreddolito, lo assicura, appeso ai chiodi della sosta. Nel frattempo ha iniziato a nevischiare e si è alzata la nebbia. Gogna si offre di dargli il cambio, ma Armando non riesce a chiodare in modo sicuro, ed essendo spostato lateralmente rispetto alla verticale, non può calarsi a corda doppia. Lentamente scende in arrampicata. “Stiamo vivendo qualcosa di grande; la montagna ci sta respingendo brutalmente. Io sono scosso da brividi più prolungati di prima, e sono tutto intorpidito. Non si vede più niente, la nebbia ci ha completamente fasciati. Piano piano recupero le corde, seguendo gli ordini secchi di Paolo, che vuole a tutti i costi che sia una ritirata e non una fuga. Con la neve che mi turbina in faccia, con il compagno demoralizzato, decido di andare a vedere anch’io il “mostro”. Sento che se ci fermiamo adesso, forse domani non torneremo più su. Ci mancherà la carica. La forza per proseguire la dobbiamo recuperare stasera. Se no la via per noi è finita. Finita dopo 50 metri su 400. Paolo si ritira in buon ordine,

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sempre assicurandosi nella maniera più conveniente, con una lucidità che mi sorprende. Ora è qui accanto a me. Ha i capelli, biondi, tutti scomposti, con alcune ciocche lunghe che gli spiovono sulla fronte, bagnate e sudate. Gli occhiali appannati e sporchi di terra, le mani sbucciate. Lo assicuro ai chiodi.” Gogna prende tutto il materiale del compagno, compresi i chiodi a pressione e, anche se l’ora è ormai piuttosto avanzata, si alza a sua volta, con determinazione, sulla lunghezza aperta dall’amico. Non è una arrampicata, è un corpo a corpo estremo con la parete, una lotta primordiale che abbrutisce e che solamente chi conosce questo genere di ambiente può tentare di immaginare. Ogni passo, ogni movimento è una storia a sé e l’attenzione è tutta concentrata in quei pochi decimetri su cui ci si sta muovendo, tutto il resto della parete, della lunghezza di corda, non esistono. Vento, nevischio e nebbia turbinano creando un’atmosfera da tregenda. “Mi sporgo al massimo verso sinistra, la mano destra che tira un cordino fissato all’ultimo chiodo e il piede destro sull’ultimo gradino della staffa. Lo sforzo è massimo. Non mi interessa la neve che mi sputa in faccia il vento, non mi interessa l’ora tarda, non sento neppure Paolo che da sotto mi ripete che non è il caso. Sono attimi terribili, momenti che si ricorderanno tutta la vita.” A un certo punto sembra non resti altro da fare che piantare un chiodo a pressione. Ma Gogna non è molto esperto di questo tipo di chiodatura. “L’unica è piantare un chiodo a pressione e vedere di fare il passaggio in libera, rischiando di volare. Prendo il perforatore e comincio a martellare senza pietà. Sotto, Paolo che m’istruisce su come fare il buco. Dopo circa trenta colpi il buco si spappola, perché si spezza un intero blocchetto di roccia. Comincio a non poterne più e così ancora colpisco sul perforatore, più a destra, in modo da poter passare con la staffa. Il buco questa volta riesce; metto il chiodino dentro, lo ribatto, e vi affonda dentro subito: non terrà. Sono rabbioso. Trovo una scaglietta per le dita. Mi sollevo in un miracolo d’equilibrio e frugo con gli occhi sulla roccia. C’è una fessura! Prendo un chiodo, subito dopo essere sceso da quella posizione, insostenibile per più di cinque secondi, e, alla cieca, cerco la fessura; la sento. Martellare il chiodo è difficilissimo; la mano non mi regge… Tre o quattro volte scendo e salgo, freneticamente martellando sul chiodo prima di abbandonarmi giù con le braccia morte. Il chiodo è piazzato, sembra anche buono. Ci metto la staffa e salgo sopra. Il chiodo a pressione mi ha umiliato. Se non li avessi avuti dietro non mi sarei precipitato a usarli e avrei visto prima quella fessura. Meno male che, anche se di stretta misura, l’onore è ancora salvo. D’ora in

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poi prima di fissarne anche uno solo, m’imporrò di fare una vita come quella che sto facendo adesso.” Ma il passaggio non è ancora risolto. Sono ancora lunghi momenti di tensione e di paura, per guadagnare in tutto pochi metri. Così fino al tardo pomeriggio. Poi è meglio pensare a scendere, per non rischiare di farsi sorprendere dal buio. Gogna si cala fino alla solita prima sosta, vicino ad Armando, e quindi entrambi si calano alla base. “Siamo abbrutiti, con i volti ispidi, sporchi di terra, gli occhi con agli angoli del terriccio, il naso che ci cola. Ma dentro ci sentiamo i padroni di questa parete, che anche per oggi non è riuscita a buttarci via.” Tornano ancora una volta alla capanna. Cenano con quanto gli resta, per recuperare almeno in parte le energie spese per quelle due lunghezze di corda al limite delle loro possibilità e della tensione nervosa. Quindi cadono, stanchissimi, in un sonno pesante. 25 aprile: terzo giorno d’arrampicata, tempo bellissimo. Risalgono nuovamente le corde fisse e si ritrovano immediatamente sullo stesso palcoscenico. Comincia Armando sul tratto attrezzato il giorno precedente e, superando un ultimo tratto nuovo, riesce a raggiungere una nicchia ove può finalmente attrezzare la seconda sosta della via. Infine recupera lo zaino e fa salire il compagno. La fessura giallastra prosegue strapiombando diagonalmente verso sinistra. Tocca a Gogna che, dopo un paio di metri in arrampicata libera su uno spigoletto di roccia compatta, riprende con il difficile lavoro di attrezzatura in artificiale. In alcuni punti la spaccatura si allarga leggermente, permettendo l’uso di qualcuno dei numerosi e ingombranti cunei di legno che si trascinano dietro. Poi nuovamente passi in strapiombo friabile e fessure cieche. È un continuo manovrare di corde, per passare al primo di cordata il materiale più adeguato, i chiodi giusti o i cunei. Così, un’ora dietro l’altra, in un persistente stato di massima tensione nervosa, trascorre la mattinata. “I corvi mi gracchiano intorno. Pianto un chiodo, ma la fessura si rompe e per poco non mi cade sulla testa un blocco. Ne pianto un altro più sicuro. Ora sono sotto lo strapiombo giallo. Due cunei e un chiodo, mezzora ciascuno, mi fanno affacciare all’orlo dello strapiombo. Sono già le 14,30 e di comune accordo decidiamo di scendere. In tre giorni non abbiamo neanche fatto tre tiri di corda completi, ma non importa. Torneremo e vinceremo questa parete, a costo di impiegare un giorno per tiro.” Non è certo una ritirata. Nonostante i tre giorni durissimi, i due alpinisti sono ben convinti di continuare. Dalla conca innevata alla base della parete, alzano lo sguardo, e sono quasi presi da un senso di sgomento nel confrontare il breve tratto salito rispetto a quanto ancora resta da fare. “Le difficoltà le avevamo volute noi e ora che le

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abbiamo, non ci tireremo certo indietro. Siamo convinti che la salita che ci attende non segnerà una tappa solo per noi, ma per l’intero alpinismo. Una salita che non verrà più ripetuta per molti anni. Una via che neppure i chiodi a espansione potrebbero risolvere, non la si trova certo tutti i giorni.” Scendono a Pian delle Gorre, già rassegnati a dover rientrare in parte a piedi e in parte con mezzi pubblici, poiché l’auto l’ha presa Marengo per tornare a Torino. Ecco però che spunta il papà di Armando il quale, avvertito appunto da Marengo, sta andando a vedere dove si è cacciato il figlio. Armando torna a casa con suo padre e Gogna, grazie a un passaggio alla stazione ferroviaria di Mondovì, arriva a Genova nella notte. Sono trascorsi solo pochi giorni e i due sono nuovamente in parete, decisi a tirar dritto fino in cima senza più ridiscendere. Questa volta dietro le insistenze di Armando, sono saliti a dormire al rifugio Garelli, ma alle 3,30 di notte son già fuori a pestar neve. Sono le 5,30 dell’alba, molto fredda, del 30 aprile quando arrivano all’attacco. Tutto il materiale lasciato è al suo posto, ci sono i cunei di legno e c’è, penzolante nel vuoto, la corda, che era rimasta incastrata. I due ripartono dalla prima lunghezza, salendo in arrampicata. Inizia Gogna che si sente impacciato e insicuro, poiché ben conscio delle difficoltà e degli ostacoli che troverà sopra di lui. Giunge alla nicchia, recupera prima gli zaini e poi il compagno. Armando sale il secondo tiro e quindi Gogna il terzo, riuscendo a concludere, con una azzardata uscita in libera da uno strapiombo, anche la parte finale, che avevano lasciato incompiuta. Riesce anche ad attrezzare uno scomodo punto di sosta, appeso, con un piede su una staffa. Nuovamente recupera uno zaino, che vola pendolando nel vuoto, poi sale Armando a cui tocca continuare verso l’alto, andando a lottare contro un enorme cespuglio secco che ostacola il passaggio nella fessura. Si ripetono le scene di tensione del precedente tentativo: “Dopo un metro e mezzo, Paolo, costella la parete di chiodi: sei in un metro quadrato. Un cordino, abilmente disposto, collega il tutto, ma io non ci ballerei tanto sopra. Ancora una volta temiamo di non passare e per la prima volta vedo nell’immaginazione due corpi legati alle stesse corde precipitare nel vuoto, strappando via tutti i chiodi.” Dopo un’ora Armando è riuscito a percorrere un metro e mezzo dalla sosta (!), in precario equilibrio sull’ultimo gradino di una staffa. Palmo a palmo si avvicina al cespuglio contorto, che come un mostruoso animale, sembra stare a guardia della fessura. Riesce a passare oltre. “Sale per tre metri, poi si arresta per due ore. Due ore interminabili per mettere un chiodo neppure passabile. Questo tiro sta diventando disumano. Paolo non lo vedo più, ma sento il

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rumore dei chiodi e vedo lo scorrere lento delle corde. Sei ore è stato Paolo su questo tiro e finalmente urla che posso mandargli su il primo zaino. Lo lego al cordino e lo zaino sale diritto al cespuglio, in cui inevitabilmente si incastra.” Quando arriva a sua volta in sosta, Gogna trova Armando infreddolito in mezzo alla neve, incastrato in una nicchia della fessura che si è trasformata in camino. Qui sarebbe impossibile bivaccare, quindi prosegue direttamente. Finalmente c’è un tiro, almeno in parte arrampicabile, che porta nel punto in cui la strapiombante fessura iniziale, da obliqua a sinistra, inizia a piegare verso destra. La lunghezza seguente è nuovamente per Paolo, che riesce a proseguire in maniera più dinamica, nonostante un passaggio artificiale in traverso. Non passa molto tempo che dalla sosta, da dove lo sta assicurando, Gogna sente un urlo di gioia: “Alessandro, c’è una grotta formidabile!” Sono le 18 e 30. L’insperata sorpresa di trovare una simile sistemazione per la notte, dopo giornate intere passate sospesi nel vuoto, rinsalda il loro morale. “Pensavamo ormai di bivaccare su staffe, e questa grotta, di cui non immaginavamo neppure l’esistenza possibile, arriva proprio a puntino. Arrivo al buco in cui si è infilato Paolo. Dentro c’è parecchio sterco di corvo, ma tutto sommato non è malaccio. Il fondo è un po’ in pendenza, ma ci potremo sistemare decentemente, e poi cosa vogliamo di più. Non è tardissimo e decidiamo di proseguire e attrezzare ancora un tiro nel diedro.” Segue ancora una lunghezza arrampicabile, con passaggi continui di quinto e quinto superiore, fin presso un pilastrino a punta, sul quale sarà possibile ristabilirsi. Ma la corda è finita e sta facendo buio. Sarà per il giorno dopo. Nel ridiscendere alla grotticella, ove il compagno lo aspetta in sosta, Gogna si incasina nelle manovre di corda, e deve anche slegarsi. Ma riesce comunque a tornar giù lasciando una corda fissa per la risalita dell’indomani. “Entrati definitivamente in grotta, Paolo fa il tè con la poca neve che siamo riusciti a racimolare sotto il buco. Il pasto è assai magro, perché prevediamo un altro bivacco. Non ci rimane che sistemarci per la notte. Io ho il sacco piuma e giacca a vento imbottita. Paolo il duvet. Gli darò la mia giacca per mettersela sulle gambe. Io in maglione, dentro il sacco, non starò poi male. Ci accucciamo vicini uno all’altro, mentre, guardato per l’ultima volta l’orologio, cerchiamo di dormire. Siamo stanchissimi e ci addormentiamo.” La mattina dopo, primo maggio, sia Gogna che Armando, risalgono abbastanza velocemente sfruttando la corda fissa, quindi si innalzano alla sommità del pilastrino. Qui c’è posto per una sola persona, in equilibrio sopra un vuoto da capogiro. Il tempo intanto si è guastato e tira un vento molto forte. Sopra di loro un muro grigio verticale, oltre il quale una fessura strapiombante, erbosa e friabile, conduce

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in obliquo a destra. Essa porta a un grottone verticale che, come una enorme canna fumaria, perfora una barriera di strapiombi, lasciando intuire già da sotto un foro luminoso nella sua parte superiore. Paolo dapprima prova in staffe su un chiodino inaffidabile. Poi entrambi studiano di provare con una piramide umana, salendo l’uno sulle spalle dell’altro. Gogna in equilibrio sul pilastrino, assicura Armando che gli sale prima sulle spalle con le ginocchia, quindi con i piedi, e infine gli sale sulla testa in piedi sopra il casco! “Scende, risale. Dieci minuti su e giù. Sopra non c’è la più piccola fessurina. Ancora in piedi sulla mia testa. Tutta la costruzione oscilla, anche per via del vento. D’un tratto non sento più il peso: ed ecco Paolo con le punte dei piedi su un appoggetto. Sta tremando violentemente. Come ha fatto a passare non si sa. Quell’appoggio infatti era l’unico che avesse a disposizione ed era all’altezza delle sue mani. Scimmiescamente, ma è passato. Sesto. Il tremolio cessa un po’. C’è un buco: cinque chiodi entrano dentro, prima di ottenere una discreta solidità. Staffa.” La prosecuzione è nuovamente del genere della prima lunghezza, roccia marcia, ciuffi d’erba, pietre che cadono appena sfiorate e chiodi da schifo. Alla fine, dopo una lotta convulsa per l’intero sviluppo della fessura, Armando riesce a raggiungere la base del grottone verticale, ove attrezza un punto di sosta. Sono le 12 e 30 e ha impiegato ben cinque ore per questa lunghezza di corda. Ora può recuperare gli zaini che pendolano paurosamente nel vuoto, per venti metri, e quindi fa salire anche Gogna. “Ci guardiamo in faccia. Non sarà più grossa di noi questa faccenda?” Sulla lunghezza all’interno della canna fumaria è come arrampicare in grotta, fino al piccolo foro superiore che permette di uscire alla base di un diedro dall’aspetto finalmente più facile, forse solo perché la roccia si presenta di qualità lievemente migliore. Una lunghezza per Armando, poi un’altra più breve per Gogna fino a un terrazzino. Sono le 17 e 30. Si può proseguire ancora. Nuovamente una piramide, questa volta sulle spalle di Armando, poi ancora passaggi da paura su roccia marcia e cadente, con le mani aggrappate a ciuffi d’erba gelata. È ormai buio quando Gogna raggiunge un albero, un pino contorto, lo scarason. Vi si appende sulle staffe. Gli sembra di scorgere delle cenge erbose a poca distanza e, recuperato Armando, lo spinge ad andare avanti. Ma le cenge non ci sono. La tensione li porta a litigare violentemente. A questo punto è Armando che vuol proseguire ancora e poco oltre, ironia della sorte, una cengetta la trova per davvero! Gogna lo raggiunge nell’oscurità totale, recuperando gli zaini. “Organizziamo il bivacco. Dopo aver piantato i chiodi necessari, scegliamo i posti. Ci sono due piccolissimi

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terrazzini, su cui si può stare seduti. sono distanti due metri e uno è un po’ sopra all’altro. Da mangiare, presto, se no qui crepiamo di fame. Cena magrissima, roba come un pezzo di cioccolata a testa e pochi biscotti con un po’ di marmellata. Facciamo il tè con la neve e stavolta non è nauseabondo come quello fatto con la neve sporca del bivacco precedente. Abbiamo soprattutto sete. Berremmo volentieri tanto vino. Facciamo un secondo tè, che beviamo semifreddo e pochissimo dolce, perché nello stesso tempo è finita la bombola e lo zucchero. Ci ritiriamo a dormire. Sulla pianura padana infuria il temporale. Entro nel mio sacco piuma, legato alle corde, per non scivolare nel sonno. Paolo di sotto ronfa, la sua posizione è migliore. D’altronde io, col sacco, sono più al caldo. Ma poi dormo un’ora anch’io. Verso le 2,30 ci svegliamo. Fa più freddo. Scendo vicino a lui. Ci si starà più male, ma almeno si può cantare. Cantiamo senza tregua, montagna, alpini, beat, fino all’alba, assai livida ma con promessa di un po’ di sole.” Quando si accende la luce del terzo giorno, il 2 maggio, riescono a vedere dove si trovano: su un pulpito, sotto uno strapiombo. Per colazione dividono l’ultimo pezzo di cioccolato. Armando prova a passare sulla destra, ma è davvero un passaggio duro. Ridiscende, prova a sinistra verso un grande camino e dopo le ultime difficoltà, aggrappato alle solite rocce erbose, riesce a raggiungerne la base. Gogna entra nel grande camino. Finalmente un ottimo chiodo “canta” in una fessura. Ancora su, nella profonda spaccatura, in cima alla quale si vede il cielo. Il tempo però peggiora, purtroppo, sempre più. La corda è finita, ma Gogna può attrezzare una buona sosta. Ora nevica e la roccia si incrosta di bianco; arriva anche la nebbia, che avvolge tutto, togliendo ogni visuale. Recuperati gli zaini arriva anche Paolo. Prosegue: ancora camino, ma questa volta non difficile, poi l’urlo liberatorio portato via dal vento impetuoso che spazza la cresta: “Siamo fuori!”. Sull’altro facile versante, quando anche Alessandro esce dalla parete, il tempo, verso sud ovest sembra più clemente. Sono le quattordici e trenta. Gogna e Armando si danno la mano e si abbracciano. “L’inviolata parete dello Scarason” non è più tale. Che i due giovani non siano alpinisti di secondo piano, e che non abbiano esagerato nei toni del loro racconto, lo confermeranno presto. Nell’inverno successivo, insieme a Calcagno e agli svizzeri Darbellay, Bournissen e Troillet si aggiudicano la prima invernale della Cassin alla Nord Est del Badile, uno dei più evidenti problemi invernali delle Alpi in quel momento. Ma già subito dopo lo Scarason, anche galvanizzati da questa importante realizzazione, corrono insieme sulla Nord del Monviso, Nord del Cervino e poi nell’estate si concedono una intensissima vacanza alpinistica in Dolomiti con numerose salite

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tra cui spiccano la Carlesso alla Torre Trieste, la Cassin e la BrandlerHasse in Lavaredo, il Philipp in Civetta. Quindi Alessandro, l’8 luglio successivo (1968) correrà, senza bivaccare, sullo Sperone Walker alla parete nord delle Grandes Jorasses, realizzandone la prima salita solitaria, una delle sue imprese più belle. Queste ascensioni lo proiettano nel firmamento dell’alpinismo. Seguono poi negli anni una serie interminabile di imprese notevoli: il Naso di Z’Mutt sulla Nord del Cervino, lo spigolo della Marmolada di Rocca e quello della Brenta Alta e tante altre, in totale circa centocinquanta prime ascensioni. Meno fortunate le sue spedizioni Himalayane negli anni settanta. Nel ’73 l’Annapurna ove gli amici Miller Rava e Leo Cerruti perdono la vita sotto una valanga. Nel 1975 il Lhotse e poi il K2. Su questa spedizione sarà autore, a quattro mani con Reinhold Messner, di un volume insignito del Premio Bancarella Sport 1981. Nel continente americano, nella mitica Yosemite Valley in California, Gogna si aggiudica la prima salita italiana della via Salathè al Capitan nell’ottobre 1978. La via allo Scarason resterà comunque per lui una delle avventure più emozionanti e significative della sua carriera di alpinista. Alessandro Gogna è anche un abile fotografo e soprattutto scrittore di montagna. Sono sue, oltre al già citato Un alpinismo di ricerca, numerose altre opere letterarie di cui molte relative alla storia dell’alpinismo. Il suo primo libro era stato nel 1969 Grandes Jorasses Sperone Walker (Tamari, Bologna). Su questo filone merita una citazione Sentieri verticali (Zanichelli, 1987) riedito poi, ampliato, nel 2007 con il titolo Dolomiti e Calcari di Nord–est, storia dell’alpinismo nelle Alpi Orientali. Sarà anche curatore per Zanichelli, della collana Guide Montagna. Notevole intuizione negli anni ottanta, sia libraria che concettuale, in questo forse anche frutto dell’amicizia con Gian Piero Motti, Cento Nuovi Mattini, la rivisitazione in chiave moderna (si parla beninteso della grande rivoluzione che ha sconvolto il mondo dell’arrampicata all’epoca) delle principali falesie (le ex “palestre di roccia”) dell’Italia settentrionale, vagabondando in un lungo viaggio per queste con, a rotazione, una folta schiera di giovani amici, tutti arrampicatori ai massimi livelli: Marco Marantonio, Gabriele Beuchod, Guido Merizzi, Ivan Guerini ecc. Il libro è corredato di belle e innovative foto d’arrampicata, che propongono inquadrature all’epoca poco convenzionali e con giovani dal look sicuramente alternativo, in atteggiamento dinamico. Quest’opera costituisce, per la generazione d’allora, la documentazione, sia nel testo che nelle immagini, e anche la consacrazione editoriale di quella stravolgente trasformazione in

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atto all’epoca. Essa, scaturita all’inizio dal fenomeno poi denominato del Nuovo Mattino in Piemonte e da movimenti analoghi in altre regioni, aveva avviato nel decennio precedente una rivoluzione nella concezione dell’arrampicata. Questa è divenuta in quegli anni un vero fenomeno di massa con l’affermarsi della scalata fine a se stessa, ormai svincolata dalla visione propria dell’alpinismo classico che la vedeva relegata nella funzione di allenamento per le ascensioni da affrontare in montagna. La pubblicazione di Cento nuovi mattini segna una pietra miliare poi duplicata con l’altro, successivo, lavoro editoriale di Mezzogiorno di Pietra, viaggio analogo in un meridione d’Italia, isole comprese, tutto da scoprire. A fine anni ottanta Gogna sarà inoltre uno dei fondatori di Mountain Wilderness. Diverso, e purtroppo destinato a una precoce fine il percorso di Paolo Armando. Egli tornerà nel Marguareis due settimane dopo lo Scarason per un tentativo allo spigolo della Tino Prato con Ilio Pivano che ripeterà poi in tre ore e mezza nel settembre 1969 con Fredino Marengo. Quello stesso anno torna nelle Alpi del Sud per la quarta ripetizione della Direttissima Ughetto-Ruggeri Sud al Corno Stella. Altre salite significative, oltre alla grande invernale al Badile già citata, ricordiamo una via nuova al Forquin de Bioula nel Gran Paradiso e un’altra sulla Nord del Sassolungo in Dolomiti. Paolo perderà la vita, insieme al compagno Andrea Cenerini, nell’agosto del 1970 nel tentativo di aprire una via nuova sulla parete nord del Greuvetta nel Monte Bianco. La sua avventura alpinistica più significativa resterà la via sullo Scarason di cui abbiamo raccontato in questo capitolo.

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Indice

Presentazione di Annibale Salsa

7

Prefazione di Alessandro Gogna

9

Introduzione

13

Marguareis e Dintorni

16

Anni 40 e 50. Alpinismo Esplorativo

22

I Primi Corteggiamenti

27

I Primi Tentativi

34

La Grande Avventura di Alessandro Gogna e Paolo Armando

50

Tra Alpinismo Classico e Nuovo Mattino

68

La Prima Ripetizione nel 1978

74

alla

1980: Tentativo Solitario Via Gogna di Sergio Savio

88

La Solitaria Invernale di Marco Bernardi

97

Due Guide Monregalesi Sulla Via Gogna

104

in

1981: Tentativo di Via Nuova, Diretta, Solitaria di Sergio Savio

112

1982: la Prima Volta senza Bivacco

118

1983: la Quinta Salita

126

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1985: Tentativo alla Grande Pala Centrale

131

La Ripetizione del 1986

142

L’Avventura della Via Diretta

146

Un Solitario sulla Diretta

166

Le Visite si Fanno più Frequenti

177

il

Lucien Berenger: Avventure Sotto e Sopra Marguareis. e Prima Salita Francese

179

D’inverno sulla Via Diretta

187

I Monregalesi

197

sulla

Via Diretta

1993: Prima in Giornata della Diretta

205

La Solitaria di Riki Maero alla Gogna

211

Ciao Ricky, la Via Nuova del 1997

220

1999: La Sesta Salita della Via Diretta

240

9 Giugno 1999, Doppia Impresa Francese

245

L’Aieul: la Via Francese allo Scarason

257

La Prima Volta di Patrick

273

Inverno 2001: La Grande Cordata

290

Via Gogna, 2004: Prima Salita Italiana in Arrampicata Libera

310

Le Ultime Salite

328

Dalla Storia alla Cronaca

335

Post Scriptum

337

Cronologia dei Tentativi e delle Ascensioni

338

Scarason 343


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