Rock 'n' Roll on the wall

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Silvo Karo

ROCK’N’ROLL ON THE WALL Autobiografia di una leggenda

EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI



SILVO KARO

ROCK’N’ROLL ON THE WALL Autobiografia di una leggenda

EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI


INDICE Prefazione 7 Introduzione 11

LA GIOVINEZZA Masseria Zalokar

15

Più portato per il lavoro che per la scuola

21

GLI ANNI DELL’APPRENDISTATO E DEL SERVIZIO MILITARE Dalla classe scolastica a quella operaia

27

La scuola di alpinismo

35

La Polonia. Attraverso la cortina di ferro

41

Le première Chamonix

45

La Zajeda alla nord delle Šite con bivacco

49

Ammesso tra gli alpinisti

51

JLA – addio alla giovinezza

53

I TRE MOSCHETTIERI Una generazione felice

67

Il selvaggio West

71

Riscaldamento per la Patagonia

83

Cerro Fitz Roy. Hudičeva zajeda

95

Da Paklenica alle Alpi Giulie

105

Yalung Kang. La prima volta sull’Himalaya

111

Cerro Torre. Peklenska direttissima

119

Torre Egger. Psycho Vertical

135

La parete sud del Cerro Torre

147

California 171 La maratona di tre grandi pareti: Triglav-Travnik-Šite

177


RAPIDI E INTREPIDI Nubi nere sul fronte orientale

181

Il Bhagirathi III

185

L’indipendenza della Slovenia

207

Un abitante del vecchio continente in Yosemite

213

Johan

225

Il ritorno in Patagonia

227

Terza volta sul Fitz Roy

235

ULTRAMARATONE VERTICALI Più vecchio e più folle

243

Cerro Murallón. Sul ghiaccio patagonico

247

Le previsioni del tempo in Patagonia

255

Sit Start sloveno per il Cerro Torre

259

Aguja Poincenot

265

Trango Tower: sul granito del Karakorum

271

LA DISCESA Inventario alpinistico

279

Riconoscimenti 285 Ringraziamenti 288 Ascensioni e spedizioni principali

291

Glossario di termini alpinistici

294


Silvo Karo ROCK’N’ROLL ON THE WALL 6


PREFAZIONE «Solo ora, seduto al sicuro a casa, a sedicimila chilometri dalla Patagonia, riesco a ripensare a quel giorno di gennaio, alla situazione pazzesca in cui ci trovavamo mentre cercavamo di raggiungere la sommità della parete Sud del Cerro Torre: appesi a corde marce, con un vento selvaggio, bestiale, che ci faceva a brandelli. Momenti di pura disperazione, in cui il dilemma ‘essere o non essere’ trovava risposta soltanto nella nostra volontà di sopravvivere…». Questo è l’attacco dell’articolo firmato da Silvo Karo per Mountain Magazine, in cui racconta la sua salita dell’imponente parete Sud del Cerro Torre, assieme a Janez Jeglič, nell’ormai lontano 1988. Una delle big wall più difficili di sempre, tuttora irripetuta. Silvo nacque nel 1960 in un piccolo paese di contadini, non lontano da Lubiana. Secondo di quattro figli, si trovò nei campi fin da bambino. Mentre suo padre lavorava lontano da casa, sua madre badava alla terra. I figli, non appena erano in grado di muovere i primi passi, la aiutavano nel lavoro dei campi. In futuro, avrebbe attribuito il suo successo alla sua educazione: «Uno che lavora di buona lena sarà sempre un buon alpinista». L’alpinismo e l’arrampicata sono parte integrante dell’identità nazionale slovena. Salire sul Triglav, la montagna regina delle Alpi Giulie, è praticamente un rito di iniziazione obbligatorio per chiunque voglia dirsi sloveno. Silvo iniziò ad andare per roccette fin da giovanissimo, e si ritrovò ben presto coinvolto nelle attività del Club alpino locale, frequentandone i corsi e le escursioni. L’incontro con Franček Knez segnò un punto cruciale nella sua maturazione alpinistica. Franček, di qualche anno più grande, aveva un’energia e una visione che ai tempi erano senza pari. In seguito, avrebbe avuto un’influenza fortissima sia su Silvo che sul resto dell’ambiente alpinistico sloveno. Ben presto anche Janez Jeglič si ritrovò a far parte del gruppo, e i tre diedero il via a un sodalizio che nei dieci anni successivi sarebbe stato molto attivo. Vennero soprannominati “i tre moschettieri”. Nel 1981, in occasione di un viaggio di “scambio” alpinistico negli USA, i tre maturarono una consapevolezza più ampia di quelle che erano le loro potenzialità, allargando il loro orizzonte. Al rientro, Janez e Silvo guidarono fino alla vicina Trieste per comprare delle scarpette da arrampicata. Il commesso Prefazione 7


del negozio regalò loro un poster del Fitz Roy, in Patagonia. Nonostante avessero poco più di vent’anni e fossero a digiuno di esperienza sulle grandi catene montuose, decisero in quel momento che avrebbero scalato quel picco spettacolare. Franček si unì immediatamente al progetto, e pochi mesi dopo i tre avrebbero tracciato la loro prima via significativa in Patagonia. Avevano trovato il loro Eldorado, e presero a organizzare spedizioni in Patagonia ogni anno. Ne nacquero alcune delle vie più difficili della zona: la prima salita della parete est del Cerro Torre, una nuova via sulla parete sudest della Torre Egger, e la ciliegina sulla torta: la parete sud del Cerro Torre. Quest’ultima fu una maratona di tre mesi, scandita da ben diciassette tentativi, tutti a partire dalla base della parete. Silvo ricorda che, durante la camminata che li avrebbe riportati al campo base, «piano piano ci rendemmo conto di aver realizzato il nostro folle desiderio: avevamo salito la parete sud… mettendo da parte ogni falsa modestia, ero molto orgoglioso del fatto che Jim Bridwell, uno dei grandi pionieri di quelle montagne, giudicava la nostra via la più difficile di tutta la Patagonia!». Negli anni novanta Silvo cambiò il suo approccio all’alpinismo sulle grandi catene montuose, abbandonando l’utilizzo di corde fisse, a cui si era affidato nelle spedizioni precedenti. Da questa scelta scaturì quella che probabilmente è stata la realizzazione più importante nella carriera di Janez e Silvo: la ovest del Bhagirati III, nel 1990, una parete imponente, difficile, ad alta quota, salita in stile alpino in sei giorni. A metà degli anni novanta Silvo si dedicò a salite in velocità sulle pareti dello Yosemite, assieme ad Aischan Rupp, un giovane e talentuoso alpinista svizzero. Questa esperienza lo portò a pensare che sarebbe stato possibile affrontare una big wall con uno stile ancora più essenziale, portandosi dietro poco più di uno zainetto di materiale. La mentalità di Silvo, predisposta a cambiamenti frequenti di strategia, a stare al passo coi tempi, è sempre stata uno dei suoi maggiori punti di forza. Non è mai rimasto statico: la sua scalata si è evoluta e si è adattata ai cambiamenti dell’alpinismo e dei suoi obiettivi. Ho conosciuto Silvo grazie ad Aischan, e mi ricordo ancora vividamente del nostro primo incontro. Silvo era al massimo della sua forma: settanta kg di motivazione e risolutezza, poche chiacchiere e molti fatti. Nel corso degli anni successivi siamo riusciti a scalare assieme un buon numero di volte, nello Yosemite, in Patagonia e altrove. Arrampicare con lui mi ha sempre dato la sensazione di stare barando: ecco condensate in un sol uomo tutte le abilità specifiche per muoversi in montagna. Un primo di cordata eccezionale, anche sui tiri più difficili; un portatore in grado di caricarsi sulle spalle tanto Silvo Karo ROCK’N’ROLL ON THE WALL 8


quanto un esercito di sherpa; un’intera squadra di soccorso, in caso di necessità. Aveva l’energia di una locomotiva, e c’era qualcosa di rassicurante nel modo in cui piantava i chiodi: sembrava che la roccia chiedesse pietà. Le condizioni ambientali per lui erano ininfluenti: quando si poneva un obiettivo la sua determinazione era incrollabile. Non siamo sempre stati d’accordo su tutto, ma è sempre stato una persona trasparente, seria e pragmatica, un uomo di cui ho sempre avuto un enorme rispetto. Con il passare degli anni Silvo ha continuato a cambiare e adattarsi. La sua ultima spedizione di livello in Patagonia è stata nel 2005: agli albori dell’era delle “previsioni meteo su misura” ha aperto con Andrej Grmovšek due splendide linee in quella che oggi non è più una regione temuta per le condizioni impossibili. Come minimo, non si è più costretti a scalare nel mezzo della tormenta, e del resto Silvo ha già dovuto affrontare la sua bella razione di meteo infame. Forse il momento del suo ritiro non poteva capitare più a proposito. Le imprese della generazione slovena degli anni ottanta sono diventate leggendarie, e hanno ispirato alpinisti di tutto il mondo. Silvo, Janez e Franček hanno lasciato un segno indelebile su questo sport. L’inglese Paul Pritchard, in Deep Play1, riporta un aneddoto raccontato da Steve Gerberding. Steve è uno schivo guru dell’arrampicata in stile big wall. È stato il primo a raggiungere il traguardo di cento scalate su El Capitan, nello Yosemite, per lo più ripetendone le vie più dure. Un giorno Steve si imbattè in Silvo in un’affollata gastronomia dello Yosemite. Silvo era semplicemente in coda con in mano un sacchetto di bagel. Steve non riusciva a credere ai suoi occhi: si inginocchiò prostrandosi ai suoi piedi ed esclamando «Non siamo degni, non siamo degni!».

Rolando Garibotti luglio 2017

1. Disponibile in edizione italiana: Deep Play, Versante Sud, 2005, NdR.

Prefazione 9


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INTRODUZIONE Mai avrei pensato di poter scrivere un libro un giorno, anche perché non ne leggevo molti. E tantomeno sono entrato nel mondo dell’alpinismo per scriverne, né avevo la benché minima idea di quanto questa passione mi sarebbe durata. Dopo i primi anni a girovagare come un forsennato per le montagne ho iniziato ad accumulare esperienze, sebbene il desiderio superasse sempre il tempo a disposizione. Poi mi sono improvvisamente reso conto che ero ormai in giro per i monti da ben quattro decenni, il numero dei ricordi e delle fotografie aumentava giorno dopo giorno, la curiosità delle persone attorno a me cresceva. «Allora, quando ti decidi a scrivere qualcosa?» Ma io rispondevo con ostinazione che scrivere non faceva per me e che se anche avessi deciso di cimentarmi, sarebbe stata comunque un’operazione molto lenta. Del resto poi, di cosa avrei dovuto scrivere esattamente? Filosofi e stimati eruditi di ogni tipo hanno già trattato il tema dell’alpinismo nel dettaglio, anche la letteratura l’ha descritto egregiamente, mentre io sono per natura una persona pratica che allo scrivere preferisce il fare. Io che scrivo di albe e di tramonti con le loro infinite sfumature, della rugiada mattutina alla partenza, delle foschie serali, della quiete della montagna, delle setose stelle alpine…? No, non funzionerebbe, non sarei capace di riempire più di mezza pagina! Io che inizio a scendere nei dettagli sull’arrampicata? Ad esempio di come una volta riuscii a tirare fuori dalla cintura dell’imbrago, all’ultimo istante, con le mie ultime forze, un chiodo, e lo piazzai nella fessura iniziando a batterlo, quando questo maledetto improvvisamente mi sgusciò via dalle mani e io non potei fare altro che guardarlo inerme mentre cadeva, rendendomi conto in quel preciso istante di avere già un runout di dieci metri e mi spaventai così tanto da dover finire di arrampicare quel tratto senza protezione? Nemmeno così funzionerebbe, sarebbe una tragedia completa! Ma come dovrebbe essere allora un libro sull’alpinismo? Non ne avevo la più pallida idea. Ho così deciso di descrivere il nostro modo di vivere e di raccontare di tutto ciò che ci accadeva oltre all’alpinismo. In fin dei conti l’ambiente e la società ci hanno segnato profondamente lasciando un’impronta indelebile. Una persona cresciuta nei turbolenti Balcani – anziché in un qualche luogo quieto dove si nasce e si muore nello stesso Paese, con una valuta e un ordinamento statale unici – non potrà che essere un po’ diversa. La nostra generazione ha visto Introduzione 11


susseguirsi tre Stati, diverse valute monetarie e per ottenere l’indipendenza ha dovuto affrontare una guerra. Sebbene venissimo spesso additati nel mondo, soprattutto in Occidente, come gente priva di cultura, irruente, rozza e sgarbata, non ce ne preoccupavamo molto, alla fine ce la siamo sempre cavata. Se il mio angelo custode potesse parlare, direbbe: «Fermati, non ne hai avuto abbastanza?!». Le sue ali consumate e il suo corpo spelacchiato sono la prova di quanto non fosse affatto facile essere il mio compagno di viaggio. Ha perso parecchie piume nelle bufere della Patagonia, ma mi è stato un fedele accompagnatore. Nemmeno il mio corpo è più com’era quarant’anni fa, logorato dagli zaini pesanti, dagli sforzi, dai pericoli, dall’altitudine, dai bivacchi al freddo, dalle caverne nella neve, dalle tempeste. Avevo davvero bisogno di tutto ciò? Perché lo facevo? Semplicemente perché mi è stata mostrata la via tra i monti. L’ho imboccata e l’ho seguita, senza sapere quanto fosse lunga e ripida né cosa mi aspettasse durante il tragitto; ed è stato meglio così, perché altrimenti avrei svoltato prima. Ora che scendo verso valle con lo zaino vuoto in spalla e il passo pacato, porto dentro di me i ricordi – e alcuni ora sono qui.

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LA GIOVINEZZA

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Davanti alla casa di famiglia nel 1976. Dietro, da sinistra a destra: mio fratello Maks, mio padre Maks, mia madre Helena, la zia Štefka e io. Davanti: il fratello Ciril, la sorella Anica e le cugine Vida, Brigita, Erika, Marta e Nada. Foto: Arch. Karo

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MASSERIA ZALOKAR Poco sotto la chiesa gotica di San Nicolò sopra il villaggio Brdo pri Ihanu, in un luogo un po’ isolato, si erge la Masseria Zalokar, come era nota in paese. Mio nonno materno Peter Kokalj vi nacque nel 1901, si sposò poi con Terezija Grčar e dalla loro unione nacquero nove figli, di cui una era mia mamma. Erano tempi in cui si partoriva ancora a casa e madre natura si è ripresa le gemelline, morte poco dopo il parto. I due fratelli del nonno nel 1923 partirono per l’America, il resto della famiglia Zalokar fu ulteriormente decimato dalla seconda guerra mondiale. Lo zio Jakob non si era mai unito ai partigiani, eppure quando nell’ottobre del 1944 i domobranci, guardia territoriale slovena, furono attaccati nelle vicinanze di casa sua, fu fucilato nella sua casa di famiglia, con la scusa che fosse stato lui a tradirli. L’esecutore era un uomo di Dolsko che, una volta saputo di aver ucciso per falsa testimonianza un giovanotto di 19 anni, suo compaesano, si tolse a sua volta la vita. I familiari, tra cui anche mia mamma, furono esiliati a Goričane, la casa fu distrutta e depredata. Ma questo era solo l’inizio delle disgrazie, sebbene la fine della guerra fosse ormai vicina. L’altro zio, Peter, era nei partigiani. Nel settembre 1944 fu catturato dai tedeschi. Per un po’ di tempo fu rinchiuso a Begunje, da lì fu poi mandato in uno dei più terribili e grandi campi di sterminio della seconda guerra mondiale, Mauthausen. Morì a metà marzo del 1945, poco Masseria Zalokar 15


Sopra, Franček e Johan durante l’elaborazione sistematica di 200 metri di pareti dei picchi Gornja e Spodnja Vrbanova špica, per lo più in solitaria, solo di tanto in tanto abbiamo spiegato la corda. In due giorni abbiamo accumulato 19 vie nuove. Foto: Silvo Karo A destra, durante l’allenamento sulle Knezove skale, Šumberk za Bistrico. Foto: Arch. Karo

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Con Marjan FreĹĄer in sosta sulla nuova via Bergantova; Triglav, Parete Nord. Foto: FranÄ?ek Knez

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Via Couzy sulla Cima Ovest. Foto: Janez Jeglič

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In alto, Franček d’inverno sulla via Šlosarska ‘bagnata’; Triglav, Parete Nord. Foto: Silvo Karo Qui sopra, a sinistra, inverno sulla nord delle Šite lungo la via JLA. Foto: Janez Jeglič A destra, Johan in dry-tooling sulla via JLA sulla nord delle Šite. Foto: Silvo Karo

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A Paklenica con la Scuola di alpinismo nel 1978. Noi principianti ci limitavamo a guardare la grande roccia da lontano, mentre per noi c’era il Mali Ćuk, scalavamo pareti di III° grado o poco più con scarponi da montagna o scarpe di tela. Foto: Marko Grad


LA SCUOLA DI ALPINISMO A Domžale c’era un’antica pasticceria, molto famosa e anche unica, Pr‘ Lenčku, di cui il proprietario era Janez Lenček, il pluriennale presidente del Club alpino locale. Mi recai da lui per diventarne socio, sistemammo le carte direttamente sulla sua postazione di lavoro – il tavolo da pasticcere – scostò con il gomito i resti della pasta sfoglia, aprì il cassetto, prese una tessera nuova, la timbrò, la firmò e così diventai ufficialmente un alpinista. Era gentile, così gli chiesi se potevo lasciare nel loro cortile la bicicletta quando andavo da Brdo a Domžale, per poter poi proseguire con l’autobus fino a Lubiana. Naturalmente fu d’accordo e, prima che me ne andassi, lasciò cadere nel sacchetto qualche resto di pasta sfoglia e me lo porse. Era l’ottobre del 1977. Ogni sera pedalavo fino a Domžale e appoggiavo la bici da Lenček. Al ritorno da scuola davo sempre una sbirciatina dalla grande vetrata della pasticceria alle tortine, alle kremšnite (millefoglie alla crema e alla panna), ai negrettini e ad altre prelibatezze per appagare un po’ la fame degli occhi, mentre quella dello stomaco veniva placata più tardi a casa con rape acide e polenta di grano saraceno. Una volta venni colto di sorpresa da una locandina in vetrina che invitava a entrare nella scuola di alpinismo. Era proprio nel periodo in cui ero già piuttosto ispirato dalle montagne. Con il parroco Jože ci andavamo sempre più spesso, anche d’inverno. Ci eravamo anche già La scuola di alpinismo 35


Johan sulla via Comici-Dimai alla Cima Grande, la nostra prima ripetizione in libera di questa via leggendaria. Foto: Silvo Karo


RISCALDAMENTO PER LA PATAGONIA La Patagonia. Già il nome è bello, ma le montagne laggiù, nell’emisfero australe, lo sono ancora di più. Alla fine degli anni Settanta e inizi degli Ottanta leggevamo sulle riviste di alpinismo, negli articoli sulle Ande patagoniche, dei venti permanenti e molto forti, delle vette ricoperte da funghi di neve e di ghiaccio e della totale assenza delle previsioni del tempo in quei luoghi. Non mi sono mai interessati molto i libri che descrivessero le zone che andavo a scalare. Le persone sentono, vivono, descrivono il mondo circostante diversamente e non è detto che le mie sensazioni siano uguali a quelle di un altro, anche perché pure il freddo e il caldo vengono percepiti in modo diverso da ognuno di noi e se hai già in mano tutte le informazioni, l’esperienza concreta risulterà necessariamente meno intensa, perché tenderai a inseguire ciò che già conosci. Le montagne, le pareti mi hanno sempre attratto dal punto di vista visivo, e in base a ciò sceglievo le mie mete; non mi hanno mai affascinato i drammi scritti, per questo motivo non ho neanche mai scalato l’Eiger, dove dietro ogni angolo ti attende un capitolo e ogni chiodo ha una sua storia, e per di più questo monte – con tutto il rispetto storico nei suoi confronti – non è nemmeno così bello. Preferisco di gran lunga le montagne Riscaldamento per la Patagonia 83


il suo indirizzo. È bello trovare dall’altra parte del mondo persone che parlano la tua lingua e ti offrono un aiuto cordiale. Una volta scesi a Río Gallegos ci accoglie un forte vento e un’assenza di umidità. Bienvenidos a Patagonia! Durante il tragitto verso la città, sull’orizzonte cerchiamo invano con lo sguardo una montagna o almeno un colle che possa collegare questo paesaggio desolato, arido, monocromatico con il cielo sul quale viaggiano nubi imponenti che solo raramente rilasciano qualche goccia. Il tassista gira parecchio prima di trovare finalmente la casa di Herman Medved. Quando lo salutiamo, ci mette un po’ prima che la parola slovena torni a scorrere liberamente, poiché qui al sud non ha nessuno con cui parlare nella sua lingua. Il nostro obiettivo era quello di partire il prima possibile per arrivare alle pendici delle montagne, perché in questa pianura ci sentiamo un po’ persi, se pensiamo che solo qualche settimana prima volavamo su e giù per le Alpi Giulie… Cominciamo ad occuparci dell’organizzazione e di tutto il necessario per il prosieguo: trasportare l’equipaggiamento fino al punto di partenza e procurarci del cibo. A Franček cominciano a prudere le dita così fortemente che si attacca al recinto di mattoni sulla parte opposta della strada. Noi altri ci dedichiamo all’approvvigionamento dei viveri per un mese intero. Sugli scaffali è pieno di marche sconosciute, ci aiutiamo con un dizionario. Quante cose abbiamo scelto più a naso, prendevamo per lo più grandi confezioni e così acquistammo anche un enorme barattolo di marmellata, affinché potesse sicuramente bastare. Herman ci promise di cercarci il trasporto con un autista e che sarebbe venuto anche lui con noi. Quando vedemmo arrivare il chofer con la camionetta Chevrolet, capimmo ben presto che ci sarebbero stati problemi con lo spazio, e così noi tre moschettieri ci sedemmo dietro, sui bagagli. Río Gallegos dista circa 500 chilometri di strada in direzione ovest dalle montagne. Contavamo di arrivarci in un giorno, ma prima scoppia una gomma della macchina, poi inizia a perdere anche il serbatoio della benzina e così abbiamo dovuto pernottare a La Leona. I proprietari sono discendenti dei danesi che anni fa erano probabilmente venuti a cercare l’oro oppure avevano intravisto gli affari con la lana merino. Posseggono una modesta hostería a fianco del fiume omonimo che collega il Lago Viedma con il Lago Argentino, i due laghi maggiori dell’Argentina. Il giorno dopo, a fianco del lago Viedma, all’orizzonte inizia a stagliarsi a poco a poco la coda delle Ande sudamericane, avvolte nelle nubi scure. La camionetta macina chilometri imperterrita e noi tre sul carro aperto li sentiamo tutti, siamo pieni di sabbia e di polvere che ci entrano dappertutto, è una strada macadam, la polvere rotola dietro all’auto, si deposita su di noi, ce Silvo Karo ROCK’N’ROLL ON THE WALL 96


Cerro Fitz Roy (3405 m), la linea continua indica la via da noi aperta Hudičeva zajeda (Diedro del Diablo) nella parete est, mentre quella tratteggiata è la via Casarotto, con la quale abbiamo concatenato la nostra. Foto: Peter Skvarča

Cerro Fitz Roy. Hudičeva zajeda 97


Contavamo su condizioni climatiche più miti, poiché metà novembre nell’emisfero australe corrisponde più o meno alla nostra metà maggio, ma ci imbattemmo in un vero e proprio inverno. Le fessure, i camini, i diedri, tutto era ricoperto di neve. Franček sta ‘raschiando’ il primo tiro sulla via Hudičeva zajeda (Diedro del Diablo). Foto: Silvo Karo

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In alto, Johan e io durante la discensione da sotto la base del Fitz Roy, dove avevamo il bivacco in una caverna di neve che serviva da punto di attacco della parete. Sullo sfondo il lago Sucia. Foto: FranÄ?ek Knez In basso, durante le ascensioni e le discensioni con il maltempo avevamo ancora piĂš paura, poichĂŠ la camicia della corda si rovinava rapidamente e dovevamo pertanto fare continuamente i nodi sui tratti danneggiati. Johan durante la discesa. Foto: Silvo Karo

XIX


In alto, talvolta attaccavamo una parete quando questa era ancora ricoperta di neve, il che rallentava di parecchio la scalata. Johan sta affrontando il tiro n° 17 della via Psycho Vertical. Foto: Franček Knez Sotto, il 7 dicembre verso sera, nel gelido abbraccio del basco glaciale che ci aveva sorpreso per le sue dimensioni. Pareva non avere fine sebbene mancasse ancora poco alla cima. Foto: Silvo Karo

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Franček Knez nella sezione centrale della via Psycho Vertical. Foto: Janez Jeglič

XXVII


Johan al secondo giorno dell’ascensione lungo la parete del Bhagirathi III. Foto: Silvo Karo

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IL BHAGIRATHI III Corre l’anno 1990. È passato ormai un decennio da quando Johan e io abbiamo iniziato a scorrazzare assieme per le montagne, per i siti di arrampicata, nelle spedizioni ma anche nei sili, sui camini, tra i tralicci delle linee elettriche e su altre strutture sviluppate in altezza, racimolando qualcosina. E così nacque l’idea di andare quell’autunno in India a scalare la parete ovest del Bhagirathi III e poi di recarci anche in Nepal, dove ci saremmo uniti alla spedizione sloveno-triestina Alpe-Adria sull’Everest, il cui obiettivo era la traversata della montagna più alta del mondo (dalla Western Cwm alla Cresta Ovest, lungo il Couloir Hornbein fino in vetta e discensione lungo il Colle Sud). Due obiettivi più che eccellenti per dei preparativi abbondanti. Prima ancora di iniziare ad arrampicare, Johan era un ciclista assiduo e fece appassionare anche me a questo sport, così mi procurai una bicicletta. In verità io puntavo più sulla corsa, ma poi iniziammo ad allenarci assieme anche con le bici; la maggior parte delle volte pedalavamo sul Črnivec, un valico sul promontorio delle Prealpi di Kamnik, situato a un’altitudine di 900 metri. Da Domžale fin là e ritorno era proprio il giro giusto per un breve allenamento pomeridiano. Per monitorare i nostri progressi, facevamo ogni volta partire il cronometro sullo svincolo per Kamniška Bistrica (a Stahovica). Ben presto capimmo che l’allenamento sarebbe stato proficuo se avessimo Il Bhagirathi III 185


compiuto il tragitto sotto i 30 minuti, il che significava che bisognava spingere sui pedali piuttosto assiduamente. La pianura di quindici chilometri da Domžale era perfetta come riscaldamento. Ma quando a Stahovica l’orologio iniziava a correre, eravamo come due tori che si lanciano fuori dalla stalla. Circa a metà del percorso si trovava la trattoria Jurček e sapevamo di doverla raggiungere in meno di 15 minuti per arrivare in cima entro il tempo prestabilito. Avevo una bicicletta vecchia senza i pedali a clic, con un cestino e al posto delle scarpe ciclistiche indossavo direttamente delle vecchie Boreal Fire. Naturalmente più di qualche ciclista guardava stranito le mie insolite calzature che però non erano così importanti, ciò che contava veramente erano la potenza del cuore e dei polmoni. Dalla trattoria in poi le serpentine si infittivano, la pendenza aumentava, la peggiore era sempre la parte finale, non c’erano più tornanti ma una salita lunga e costante, mentre il tempo pareva scorrere via via più rapido. Generalmente passavamo di lì intorno al 29° minuto. Spesso ci allungavamo fino a Gornji Grad e ogni tanto facevamo un giro anche parecchio più lungo. Una volta sono andato da Domžale fino a Vršič e ritorno. Insomma, abbiamo pedalato parecchio per questa spedizione. Il 15 agosto, assieme alla spedizione Alpe-Adria, prendiamo il volo da Zagabria via Amsterdam e due giorni dopo all’alba atterriamo all’aeroporto Indira Gandhi di New Delhi. In India scendiamo in tre: la dottoressa Mojca Zajc, Johan e io, gli altri proseguono verso il Nepal. Il nostro obiettivo appare esageratamente sproporzionato se paragonato ai numeri della nostra mini-spedizione, il Bhagirathi III è infatti alto 6454, mentre la sua parete ovest, che intendiamo scalare in stile alpino, si erge in altezza per ben 1300 metri. Al termine della scalata partiremo per il Nepal, dove al campo base sotto l’Everest ci uniremo al gruppo Alpe-Adria. Per tutte e due le spedizioni abbiamo a disposizione due mesi e mezzo di tempo. Il gruppo dei Bhagirathi è composto da tre cime principali, denominate con i numeri da I a III, situate nell’Himalaya del Garhwal, per gli indù queste sono montagne sacre. I primi a salire il Bhagirathi III sono stati gli inglesi Colin Kirkus e Charles Warren. Anche il primato lungo il pilastro sud-ovest appartiene ai britannici, ai vicini settentrionali degli inglesi, gli scozzesi Allen Fyffe e Bob Barton che nel 1982 aprirono una via fino in cima. Solo due anni più tardi la montagna ricevette un tracciato nuovo anche sul versante sinistro dell’imponente parete ovest, qui ad avere successo sono stati i catalani Juan Carlos Aldeguer, Sergio Martínez, José Luis Moreno e Juan Tomás. Ma in mezzo a questi due percorsi si spalanca un’enorme muraglia di granito arancione che termina in una piramide rivestita di nero di un tipo di roccia ancora sconosciuto. Silvo Karo ROCK’N’ROLL ON THE WALL 186


Abbiamo alle spalle allenamenti intensivi e anni di esperienza in tutti i campi dell’alpinismo e nelle montagne patagoniche abbiamo portato a casa più di qualche trofeo, di cui l’ultimo, la parete sud del Cerro Torre, è ancora caldo. La parete ovest del Bhagirathi III è altrettanto estesa e strapiombante come quella del Torre, con la differenza però che madre natura l’ha spinta qualche migliaio di metri più in alto sopra il livello del mare. L’Associazione alpina della Slovenia, ovvero la sua commissione per le spedizioni alpinistiche extraeuropee, ha fornito sostegno finanziario a questa spedizione: facendo leva sul peso dell’Everest, ha ottenuto la sponsorizzazione da parte della SCT, che ha contribuito con 10.000 marchi tedeschi. Ottimo, almeno questa volta non abbiamo dovuto occuparci noi del denaro, come abbiamo invece sempre fatto per la Patagonia o per le altre mete. La calura asiatica e la mancanza di tempo ci inducono a lasciare la pianura indiana assieme all’ufficiale di collegamento già il secondo giorno dall’arrivo a New Delhi, ma i saluti di quest’uomo sono senza fine e dobbiamo così percorrere mezza città prima di poter finalmente partire, alle 22:30, alla volta di Rishikesh. Alle tre di notte il conducente ferma il furgone e dormiamo fino al mattino. Alle otto arriviamo a Rishikesh, una città sulle sponde dell’enorme massa di acqua del fiume Gange, i cui affluenti principali sono due lunghi corsi fluviali himalayani, Alaknanda e Bhagirathi, che si incontrano a Devprayag e proseguono il loro viaggio con il nome di Gange fino in Bangladesh, dove l’enorme massa d’acqua sfocia nel Golfo del Bengala sotto il nome di Padma. Quando arrivi in questa cittadina ai piedi dell’Himalaya, la prima cosa che ti viene da chiederti è che cosa fossero venuti a cercare alle pendici dell’Himalaya i Beatles nel 1968, all’apice della loro carriera; pare la meditazione trascendentale. Dopo una colazione frugale il furgone si inerpica su per i primi tornanti dell’altopiano himalayano. La strada inizia a trascinarsi all’infinito, non si vede la fine di queste interminabili serpentine e saliscendi. Alle tre del pomeriggio giungiamo a Uttarkashi. Ora ci starebbe a pennello un po’ di riposo, ma bisogna ancora sistemare tutto il necessario per poter poi riprendere il viaggio l’indomani mattina. Il 20 agosto all’alba iniziano a rombare i motori producendo un fumo nero che va a mescolarsi con la foschia mattutina. La stazione dell’autobus è un vero e proprio formicaio, le persone salgono sui veicoli, sui tetti sfrecciano le corde con le quali vengono fissate enormi quantità di carico, i conducenti pigiano e rilasciano il pedale del gas per testare il funzionamento dei motori, poiché da qui in poi non si scherza, la strada si inerpica ripida lungo le sponde del fiume Gange e termina nel paesino Gangotri, a un’altitudine di 3300 metri. Il Bhagirathi III 187


In alto, superato il tratto ricoperto di ghiaccio veniamo rallentati dall’arrampicata combinata, poiché ogni volta dobbiamo issare anche l’ingombrante sacco di trasporto. Foto: Silvo Karo In basso, il sesto giorno di arrampicata Johan e io raggiungiamo in tarda mattinata la vetta del Bhagirathi III. Il vento fa alzare un po’ la nebbia, così riusciamo almeno a decidere approssimativamente la direzione da prendere. In lontananza, in basso, scorgiamo il ghiacciaio Vasuki, seppur per un periodo brevissimo, ma questo ci basta per individuare la direzione nella quale scendere. Foto: Arch. Karo

Silvo Karo ROCK’N’ROLL IN THE WALL XXXIV


A sinistra, il quarto giorno di arrampicata approdiamo su una cengia un po’ più larga e per la prima volta dopo quattro giorni possiamo finalmente sederci comodamente. Anche se il terrazzino è confortevole, montiamo comunque la nostra dimora che ci offre anche un po’ di calore. Foto: Janez Jeglič

Sopra, quando Johan e io abbiamo scalato la parete ovest del Bhagirathi III, abbiamo lasciato il campo base Nan Dan Ban l’1 settembre e siamo tornati indietro il 7 settembre sera. Il giorno dopo ci siamo messi in marcia verso valle in direzione di Gangotri. Sullo sfondo si vede la nostra avventura di sette giorni già piuttosto ricoperta dal manto nevoso. Foto: Arch. Karo

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Leggeri e veloci era il nostro motto per la parete ovest del Fitz Roy, alla quale abbiamo aggiunto una variante nuova dal ghiacciaio Torre, entrando in parete senza l’attrezzatura da bivacco e con poco altro. Abbiamo davanti a noi una scalata di 2100 metri e quasi 3000 metri di discesa nella valle opposta. Foto: Arch. Karo

Silvo Karo ROCK’N’ROLL IN THE WALL XL


Sopra, il tramonto ci sorprende su una comoda cresta che si collega alla Supercanaleta, a un’altitudine di circa 3100 metri. Qui decidiamo ponderatamente di fermarci per il bivacco, visto che siamo operativi da ben 18 ore e sono le dieci di sera. Il posto per il bivacco era confortevole, peccato non avessimo nulla con cui bivaccare. Foto: Rolando Garibotti

A destra, Rolando sulla sella Brecha de los Italianos, dopo aver eseguito anche l’ultima discesa lungo la via Franco-Argentina, compiendo la traversata sul Fitz Roy. Foto: Silvo Karo

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Roy, al quale da questo punto in poi daremo costantemente le spalle, poiché lo sguardo e l’arrampicata sono ora puntati sulla lunga cresta seghettata che serpeggia fino in cima al Torre. Dapprima attacchiamo la sezione ripida che ci porta alla prima torre, ne seguono altre due, alla fine le chiamiamo tutte e tre Tri sestre (Tre Sorelle). Dopo averle scalate ci riposiamo su una discesa in corda doppia di 40 metri. Proseguiamo per una cresta lunga e più facile, passando accanto a una guglia pronunciata, alta circa 30 metri, che chiamiamo Torrissimo.

Il tracciato della via Sit Start sloveno per il Cerro Torre. Foto: Silvo Karo

Silvo Karo ROCK’N’ROLL ON THE WALL 260


Dopo un’altra corda doppia arriviamo ai piedi dell’ultimo grande pilone, la Punta Pereyra, nei pressi del Col de la Paciencia, luogo da cui è stata conquistata dallo sfortunato scalatore venezuelano Jose Pereyra, denominata in suo onore (nel 1997 avevo arrampicato assieme a lui nello Yosemite). Su una parete di 300 metri tracciamo una bella via di sei lunghi tiri di difficoltà massima di 6c+. Dalla sommità del Col de la Paciencia la scalata non è più impegnativa, solo qualche traversata e qualche discesa e dopo 11 ore riprendiamo un po’ di fiato e riorganizziamo l’attrezzatura. Qui incontriamo i nostri amici che stanno allestendo il bivacco in una grotta di neve. Ci invitano calorosamente a entrare, sostenendo che la caverna è grande a sufficienza per tutti, ma cosa possiamo fare ? Abbiamo già deciso di arrampicare non stop… Sono le cinque del pomeriggio e noi siamo già al primo tiro della via che passa lungo lo spigolo sud-est (la Via del Compressore). Scaliamo velocemente le prime lunghezze bagnate, poi le condizioni peggiorano. C’è sempre più neve, verglas e ghiaccio, a causa dei quali dobbiamo arrampicare con scarponi e ramponi ai piedi. Al calar del sole scaliamo il famigerato traverso con i chiodi a pressione. Poco dopo ci coglie la notte e il ritmo rallenta. Sebbene continuiamo a scalare con la lampada frontale, non è certo come farlo con la luce del sole. In alcuni punti abbiamo anche ‘sbagliato strada’ e il secondo di cordata ha dovuto patire parecchio il freddo sulla sosta, anche perché di notte il gelo e il vento erano aumentati. Arrivati nei pressi di Ice Towers, il vento si era rinvigorito ulteriormente e a causa del forte ululato facevamo fatica a comunicare. Le prime luci dell’alba ci colgono ai piedi della headwall. Il sole sorge in lontananza, ma ci vorrà del tempo prima che possa portarci un po’ di calore. Scaliamo il primo tiro con l’aiuto della lampada frontale, poi attendiamo con trepidazione la potenza del sole. Alle dieci del mattino ci trasciniamo sul plateau sommitale dove mi trovo a constatare sbalordito che il rigonfiamento gelato del fungo è completamente diverso da come lo era 19 anni fa, quando abbiamo potuto semplicemente passeggiare fino in cima. Questa volta dobbiamo invece spostarci parecchio più a nord e arrampicare gli ultimi 20 metri. Alle 10:30 siamo in vetta al Cerro Torre, soddisfatti come non lo eravamo da tanto tempo. Abbiamo chiamato il nostro tracciato Slovenski start za Cerro Torre ali Sedeči stolp za Cerro Torre (Start sloveno per il Cerro Torre o Sit Start per il Cerro Torre). Arrampichiamo fino in cima lungo la storica Via del Compressore. In tutto sono 1700 metri di dislivello per oltre 3000 metri di via, scalata in 28 ore. Gettiamo alcuni sguardi panoramici lampo in tutte le direzioni e poi Sit Start sloveno per il Cerro Torre 261


Il nome di Silvo Karo suscita nella maggioranza degli alpinisti di tutto il mondo una sorta di timore reverenziale. Come può una persona normale fare cose simili? Dopo più di trent’anni le sue vie più pericolose e impegnative rimangono tutt’oggi irripetute. Questa non è un’autobiografia di un uomo comune: è la storia di un lottatore che ha portato dall’altra parte qualcosa di prezioso. — Paul Pritchard, alpinista e scrittore

I protagonisti dell’era d’oro dell’alpinismo sloveno affrontavano le ascensioni con tale fervore che pare fossero dotati di capacità quasi sovrannaturali. Leggendo il libro scopriamo la gente, i sorrisi, i dettagli divertenti e l’intensità del periodo più fecondo dell’alpinismo attraverso la storia di vita di uno dei migliori in assoluto. — Kelly Cordes, alpinista e scrittore

La tanto attesa autobiografia di Silvo Karo è un’aggiunta più che benvenuta alla ricca tradizione della letteratura alpinistica slovena. L’entusiasmante assenza di compromesso nel mondo verticale è magnificamente controbilanciata dalla personalità fresca e umile dell’autore e dal suo stile leggero. — Bernadette McDonald, scrittrice

Silvo è sempre stato al passo con le tendenze del momento, elargendo al contempo con generosità alle giovani generazioni la sua ispirazione e la sua esperienza. Grazie al suo libro ora una cerchia più vasta di alpinisti promettenti farà sua una parte della vecchia saggezza (o forse follia?) alpinistica, incanalandola nelle nuove ascensioni. — Andrej Grmovšek, alpinista

Silvo Karo è ben lontano dai mediocri che raccontano la loro salita sull’Everest. È anzi uno dei veri eroi dell’alpinismo moderno: qui si tratta di storie di pareti tra le più difficili al mondo. — Colin Haley, alpinista

Nel libro è raccolto il maggior numero di storie leggendarie del periodo probabilmente più ricco dell’alpinismo sloveno. Entrambi sono ancora oggi per me un’enorme fonte di ispirazione. — Luka Lindič, alpinista

Attraverso l’immagine delle pareti puoi contemplare nove vite. — Franček Knez, leggenda dell’alpinismo

€ 19,90

ISBN 978 88 85475 878


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