Verona Verticale
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a cura di Claudio Migliorini
Testo Massimo Bursi
Storia
Eugenio Cipriani in arrampicata sulla Placca d'argento nel 1984.
Foto: Arch. E. Cipriani
Beppe Vidali in apertura a Castel Presina.
Foto: Arch. B. Vidali
Dal 1935 al 1978 l’arrampicata a Verona era esclusivamente concentrata a Stallavena salvo sporadici tentativi in altri siti. A Stallavena i più forti alpinisti veronesi quali gli accademici Milo Navasa, Claudio Dal Bosco, Giancarlo Biasin assieme a Franco Baschera avevano aperto gli itinerari più significativi.
Sembra strano ma tutti i siti che oggi abbiamo, tutte le splendide vie della Val d’Adige, erano, fino a pochi anni fa, un terreno completamente sconosciuto.
L’ARCO È TESO (1973-1982)
All’inizio degli anni Settanta i giovani alpinisti (tra i quali i più rappresentativi sono Gerardo Gerard, Claudio Filippini, Sergio Faccioli, Andrea Taddei, Franco Sgobbi, Lorenzo Avesani, Beppo Zanini, Angelo Recchia, Lino Ottaviani, Angelo Seneci, Gianni Rodighiero, Silvio Campagnola) si sentono in un vicolo cieco, alla ricerca di un cambiamento.
Nel 1973, a Stallavena, alcuni giovani alpinisti, scarponi ai piedi, vedono arrivare un militare, mai visto prima, che indossa una tuta da ginnastica su un paio di scarpe da tennis con suola liscia: nessun paio di scarponi. Questo ragazzo, di nome Flavio Ghio, magro e snodato, si lancia in passaggi mai visti e provati prima.
È un fulmine a ciel sereno che rompe la noiosa monotonia dell’alpinismo veronese.
I giovani scoprono che Ghio ha aperto, l’anno prima, la via dei Fachiri sulla Cima Scotoni con Enzo Cozzolino e apprendono che, dietro questa apparente facilità, ci sono ore ed ore di allenamento giornaliero e di diete, tanto è vero che a Trieste, la loro città natale, vengono chiamati “i fachiri”.
Gli stimoli lanciati da Ghio influenzano alcuni giovani alpinisti più vicini a questa linea di pensiero: i tempi sono quasi maturi per un cambiamento dell’alpinismo veronese, che intravede un’evoluzione dal paradigma dell’alpinismo classico al paradigma atletico-sportivo dell’alpinismo attuale.
In questi primi anni Settanta il grande cambiamento che si è intrapreso anche a Verona è stato il passaggio dagli scarponi alle scarpe da ginnastica e l’accantonare le staffe per tirare i chiodi direttamente in virtù del maggiore allenamento.
Pochi anni dopo, siamo nel 1978-79, i giovani nuovi scalatori si aggregano in un gruppetto spontaneo ed autodidatta chiamato “i Nani”: hanno nuove idee, praticano un alpinismo libero dai vincoli della tradizione, fra questi senz’altro spicca la figura di Bruno Bettio, l’immancabile Beppo Zanini e i fratelli Stefano e Cristiano Tedeschi. Questi ragazzi vivevano le falesie in funzione delle vie spesso di rilievo sulle Dolomiti e sulle Alpi.
Il momento magico dei Nani è quando approdano alla Chiusa di Ceraino, dove trovano pareti vergini di stupendo calcare in un ambiente naturale affascinante. Ceraino rappresenta il salto tecnico e psicologico di questa generazione, che finalmente rompe con l’alpinismo tradizionale.
La rottura è tecnica poiché a Ceraino predominano le lisce placche di calcare, uno stile molto diverso dall’arrampicata “dolomitica” di Stallavena, una roccia dove il chiodo tradizionale deve essere sostituito con lo spit. Beppo Zanini ricorda che la scoperta di Ceraino avvenne in un pomeriggio estivo del 1978, quando iniziò il primo breve tiro del futuro Scoglio Rufus Gli anni successivi, fino al 1984, furono un periodo particolarmente felice poiché videro l’apertura di molte vie classiche, inclusa la splendida Carmina Burana, quasi sempre ad opera del clan di Beppo Zanini coadiuvato dall’emergente Bruno Bettio e da Stefano Tedeschi.
“GLI ITINERARI DI QUESTO PERIODO NACQUERO QUASI PER GIOCO: SPESSO SI SALIVA UN TRATTO DI VIA, SI SCENDEVA, SI RIPRENDEVA TEMPO DOPO, OPPURE SE NE INIZIAVA UNA NUOVA, CONCLUDENDOLE A DISTANZA DI ANNI. LE VIE OLTRE AD ESSERE APERTE DAL BASSO CON LIMITATISSIMO USO DI SPIT, PRESENTAVANO TRATTI DI PLACCA CON LUNGHI PASSAGGI OBBLIGATI.
8 Storia Verona Verticale
La voce dei protagonisti dell’arrampicata nel veronese
a cura di Claudio Migliorini Testo Massimo Bursi
Le falesie, le vie a più tiri insomma il mondo verticale si è sviluppato grazie alle esplorazioni, alle chiodature, al coraggio e alle performance di diversi arrampicatori appartenenti a diverse generazioni.
Si va dalle prime avventure targate anni Ottanta per arrivare ai giovani leoni del 9a di oggi, ed è interessante notare come siano cambiati i tempi, le attrezzature, le modalità di allenamento ma la passione, l’entusiasmo ed il rispetto per le rocce siano rimasti immutati.
EUGENIO CIPRIANI
Eugenio, classe 1959, è una figura molto rilevante per l’ambiente veronese: appassionatissimo esploratore del verticale, scalatore che ha realizzato dal 1978 ad oggi oltre 800 vie nuove su tutto il nord-est delle Alpi spingendosi fino ai Balcani e alla Grecia, è un profondo conoscitore delle geografie dell’ambiente alpino.
Grazie inoltre alla sua professione di giornalista ed editore con oltre una sessantina di titoli, che spaziano dalle guide, ai volumi geografici, storici e fotografici, ha certamente contribuito a far conoscere ed apprezzare i gioielli verticali, molti dei quali in precedenza pressoché sconosciuti.
Eugenio inizia ad arrampicare nell’inverno 19761977 e un suo scritto originale risponde molto bene alla domanda “che tipo di arrampicata si praticava a Stallavena (e, più in genere, in tutte le palestre di
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Eugenio Cipriani in Val Galina nel 1983.
Storia
Foto: Arch. E. Cipriani
roccia) prima dell’avvento dell’arrampicata sportiva?”
“Fino alla prima metà del 1970 a Stallavena vi erano solo 25 vie in tutto! Tante di più in effetti non servivano. In primo luogo perché gli arrampicatori erano infinitamente inferiori di numero rispetto a oggi. In secondo luogo perché quelle 25 linee offrivano tutto quello che occorreva ad apprendere l’arte e poi metterla da parte per tirarla poi fuori al momento giusto in montagna. Presentavano difficoltà comprese fra il II e il VI inferiore ma con una discreta abbondanza di percorsi di V e artificiale. Quasi tutte erano state aperte dal basso dai migliori alpinisti veronesi del momento. Le vie più frequentate offrivano un’arrampicata libera fra il terzo e il quinto grado, protetta da chiodi ben piantati ma distanziati fra loro così da predisporre i frequentatori alle chiodature lunghe delle vie dolomitiche. Sino ai primi anni Ottanta la bastionata rocciosa che sovrasta Stallavena non era considerata una “falesia” bensì una “palestra di roccia” dove ogni salita simulava un’ascensione in montagna. Si arrivava alla base delle rocce vestiti come in montagna e quindi con pantaloni alla zuava e camicia di lanetta a scacchi. Qualche spregiudicato, soprattutto in primavera avanzata, osava presentarsi in maglietta, ma veniva trafitto dallo sguardo di disapprovazione dei “veci”. Ai piedi facevano bella mostra gli immancabili scarponi di cuoio con la suola Vibram rigida, che solo negli anni Settanta verranno rimpiazzati con pedule più leggere ma sempre a suola rigida. Con essi si andava alla base delle rocce, si arrampicava e si scendeva. In pratica le calzature si indossavano dall’inizio alla fine della seduta d’arrampicata e non come oggi che è tutto un “cava e metti”. Le vie d’arrampicata si sviluppavano dalla base alla sommità della parete per un intero tiro di corda, di solito intorno ai 30-40 metri. Non esistevano catene di calata e quindi non si praticava la moulinette, “francesismo” diffusosi solo a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. In conseguenza di ciò il primo di cordata recuperava il compagno su un grosso chiodo, solitamente cementato e con anello, situato presso il bordo superiore della parete. Quando il secondo raggiungeva il capocordata quest’ultimo, sempre assicurato, superava la breve balza finale e raggiungeva la sommità dove recuperava nuovamente il compagno (uso il maschile perché le donne che arrampicavano erano mosche bianche). A questo punto il rituale prevedeva una robusta stretta di mano come al termine di una “vera” scalata. Poi, corda a tracolla, si tornava per sentiero alla base della parete, dove si sceglieva un nuovo percorso e si ricominciava daccapo.”
Eugenio quale è il tuo contributo lasciato al mondo verticale veronese?
Ritengo si sia trattato di un contributo essenzialmente culturale in quanto sono stato il primo a scrivere sia delle strutture in Valpolicella che in Val d’Adige e, più in generale, di tutto il territorio collinare e montuoso della provincia di Verona sia attraverso guide sia con articoli su giornali e riviste tanto nazionali quanto internazionali. Prima di queste mie pubblicazioni vi era solo una guida relativa a Stallavena!
E poi, mosso da un innato spirito esplorativo, ho scovato tanti nuovi siti d’arrampicata. In alcune aree ho svolto un lavoro sistematico come al Cubo, alla Placca d’Argento, al Trapezio o alle Torri della Valpolicella. In molti altri siti, Ceredo in primis, ho invece fatto semplici esplorazioni con apertura degli itinerari più logici.
Quali sono i rischi legati al futuro dell’arrampicata veronese?
Il principale rischio è quello della insostenibilità ambientale. Tessari, ad esempio, è oggi una mina pronta ad esplodere. È indubbio che internet e i social siano in grado di moltiplicare le potenzialità di un sito fino a renderlo ingestibile in pochissimo tempo. Quando vedo corsi di roccia provenienti da più città e regioni frequentare Tessari durante il fine settimana o arrampicatori che senza rispetto parcheggiano e fanno picnic fra le vigne penso che si rischi di abusare troppo della pazienza degli abitanti di Tessari. Ho inoltre fortissime riserve sulle “operazioni Bolsonaro” cioè sulla malsana pratica di ricavare itinerari medio-facili disboscando intere porzioni di parete: è ovvio che per quanto la si “bonifichi” si tratterà sempre di roccia molto delicata ed è altresì ovvio che con queste operazioni si va a peggiorare un ecosistema. Insomma dobbiamo tutti darci una calmata: dovremmo mettere un po’ da parte la smania di cercare la via nuova a tutti costi, impegnarci piuttosto a frequentare maggiormente ciò che già esiste, magari risistemandolo laddove occorre. Sappiamo benissimo, ad esempio, che le bellissime e numerose vie del monte Cimo sono poco frequentate: perché allora incaponirsi ad aprire vie sempre negli stessi posti e a pochi metri di distanza le une dalle altre?
Secondo te hanno senso le associazioni di arrampicatori?
Pur essendo io da sempre estraneo al mondo dell’associazionismo, credo che se l’associazionismo riuscirà a rendere l’arrampicata meno impattante per l’ambiente, allora l’associazionismo sarà una buona cosa; non altrettanto buona sarà invece se servirà
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Storia
Chili di sogni... di Marco Zanchetta
Alzo lo sguardo dalla tastiera e, per la prima volta dopo venti giorni, sono solo in casa, qui a Mondello. Il tanto atteso giorno di riposo è arrivato e lo sfrutto per dipingere queste giornate siciliane, non su tela come Simone o con carta e penna come Jonathan, ma a ritmo di tasti.
Sembra ieri il nostro sbarco a Palermo con la macchina carica di corde, fix, trapani e, soprattutto, progetti, aspettative e sogni. Sogni che, uniti alla prima cena impegnativa, mi hanno accompagnato tutta la notte fino al giorno dopo: il mio compleanno, il migliore di sempre: cannoli a colazione, chiodatura dal basso della mia prima via e apericena da “Verde”? (dopo un mese non ci ricordiamo ancora il nome!).
Passiamo due giorni a scalare nella falesia del cuore di Jonny a ritmo di “Lipstick” e canticchiando “che fretta c’era, maledetta primavera…”, ormai le nostre colonne sonore. La mitica parete di Atlantide non delude per qualità della roccia, esposizione, tiri lunghi dalla chiodatura pepata, il tutto arricchito da un accesso non banale e da un bel falò sopra i tetti del capoluogo. Ogni giorno è un’avventura nuova. Lezioni di chiodatura si alternano a pulizia di sentieri e perlustrazioni di pareti tanto belle che sembra impossibile non vederci brillare spit. Al contrario luccicano gli occhi di Simone incantato da tante possibilità, sembriamo bambini nel giorno di Natale. Tornare alla luce delle frontali è ormai un rito che si conclude davanti ad una birra al bar o a casa, circondati da facce sempre nuove. I ragazzi che scalano qui sono tutti alla mano, gentili e bramosi di sentire gli sviluppi della Grotta
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Marco Puleo su Via del Campo,7c+, al Settore Aracnobob's.
Foto: M. CaminatiCourtesy Rock Experience
degli Svizzeri e della grande grotta alla sua sinistra. I racconti si trascinano fino a tardi tra enormi piatti di pasta, l’immancabile “dolcino” e amari che evaporano come per magia.
Quando arriva Giacomo (Regallo) gli diamo un altro cantiere da seguire: una nuova via lunga sta nascendo sulla nord dell’Addaura, Monte Pellegrino. Anche in questo caso è il mio battesimo ed è stato bellissimo. Quattro giorni per chiodarla dal basso: pulire, sistemare l’accesso, scalare e dare un nome alla via: “Il Ragno e la Principessa”. Lascio a Giacomo il racconto e spiegazione del nome…
La casa a Mondello, fulcro di questa “comune”, ha raggiunto l’apice ai primi di marzo con l’arrivo di Max, Pala, Tasca e Motta con al seguito altri trapani, il mitico soffiatore e tanta voglia di chiodare gli ultimi tiri di un nuovo settore. AracnoBob’s è la falesia che più mi ha conquistato per le sue vie estremamente lunghe (il nodo in fondo alla corda è d’obbligo!) e così esposte che sembra di spiccare il volo direttamente nel mare sottostante. Nel realizzarla e nello scalarci abbiamo sentito di far parte di una comunità bella, animata dalla voglia di crescere insieme e dar valore alla ricchezza offerta da madre natura. Il nome della falesia esprime questo arancino misto di Nord e Sud, in quanto ripieno di Ragni di Lecco e Bobos, piccolo ma forte e motivato gruppo di scalatori siciliano. Manca ancora una settimana al traghetto di rientro (che mi è toccato posticipare con tanta sofferenza...), non ci restano che una manciata di fix delle centinaia che avevamo e ancora qualche energia per liberare i tiri chiodati.
La stanchezza si fa sentire ma la motivazione è sempre alta e ci spinge a sopportare l’anomalo freddo di quest’anno: anche in Sicilia esiste l’inverno e il sole ci ha sempre sbeffeggiato ironico in lontananza mentre scalavamo in ombrose ed umide grotte, rifugio di pecore selvatiche. Non riesco ad esprimere tutto quello che ho provato in queste giornate spaziali, per le quali devo ringraziare tutti i compagni di avventura. Custodisco l’elenco nella mia testa, nel cuore e nello zaino.
Ognuno mi ha insegnato qualcosa: come piantare un fix e cambiarlo se sbagliato, come riconoscere le erbe spontanee, come mangiare la brioches col gelato e come dare tutto per chiudere un tiro…
Un grazie infinito va inoltre a questa terra stupenda che ci ha assorbito a pieno e conquistato per il mare, la roccia, i cannoli, le panelle, la caponata e il popolo che ne custodisce le ricette.
Lascerò questa terra con qualche chilo in più sulla pancia per le birre di troppo e, spero, anche nelle braccia, grazie a trapano e martello. Poi qualche chilo di ferraglia in meno in macchina e qualche chilo di sogni e progetti per il futuro. A presto!
Il ragno e la principessa di Giacomo Regallo
Il ragno e la principessa è una via di sette tiri, con difficoltà fino al 7c+ e 6c obb. Necessari una serie di friend e 10 rinvii.
Perché il ragno? Perché è biologicamente progettato per arrampicare, perché è il simbolo del gruppo alpinistico che ha contribuito alla nascita di questa via.
Perché principessa? Perché tra poco più di un mese, magari quando voi lettori leggerete queste righe sarà già successo: nascerà Julia, la mia prima figlia.
“Negli antri di queste pareti a picco sul mare, si aggirano miliardi di ragni.
Passano la loro giornata a fare su e giù infilandosi nei buchi e nelle fessure della roccia.
Tessono complicate tele per catturare le prede e si
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ATTREZZATURA
Tutto trad, dal monotiro, alla facile cresta fino alle grandi pareti con oltre 10 tiri, (anche oltre 20 tiri in rari casi come sull’ Helvetestinden), questo è il regno per chi ama l’arrampicata clean, dei nuts e friends.
In parete non si troverà niente, neanche sulle soste, quindi regolatevi con l’attrezzatura da portare, sia lungo il tiro ma anche per attrezzare due soste, inoltre alcune fessure sono abbastanza regolari, magari facili da proteggere ma che accettano principalmente protezione della stessa misura.
Quindi almeno doppia serie di friends, nuts ed eccentrix, cordini, una decina di rinvii, abbondanti moschettoni a ghiera per attrezzare due soste e naturalmente il casco. Raccomandate le mezze corde da 60 m o più, comode nelle lunghe calate ove previste. Per chi non è avvezzo all’arrampicata in fessura i guantini possono essere una buona soluzione per
gli incastri dolorosi, lo stesso vale per le scarpette, ideali quelle da fessura o con una buona protezione in gomma sulla parte alta.
I tempi di salita potrebbero risultare un po’ più lunghi rispetto al previsto, dato che si devono attrezzare di volta in volta tutte le soste.
In un viaggio alle Lofoten, soprattutto se sei un climber, devi andare almeno una volta al Klatter Cafè, lo storico punto di ritrovo dei climbers delle isole, oltre ad essere un ristorante che serve delle buone pietanze norvegesi e anche fornito di una libreria di montagna. Questo è il luogo ideale dove conoscere altri climbers e bere una birra dopo una bella salita, inoltre le pareti corredate di foto d’arrampicata e “composizioni artistiche” con friends e ramponi ti faranno sentire ancora in parete, e poi assaggia ameno una volta il famoso baccalà norvegese.
88 Focus Norvegia Isole Lofoten, i Caraibi dell’Artico
Helvetestinden Wall
Foto: M. Cappuccio
COME ARRIVARE
L’arcipelago delle Lofoten è collegato via terra da nord, lungo la strada E10 che si connette nei pressi di Narvik dove corre la lunga arteria E6 che percorre la Norvegia da sud a nord. Invece via mare si raggiungono le isole con dei traghetti che partono regolarmente da Bodo, Bognes e Skutvik, soluzione che fa risparmiare un bel po’ di chilometri per chi viaggia in macchina (info orari e costi su www. visitlofoten.com). Ma il mezzo più utilizzato per raggiungere le Lofoten è sicuramente l’aereo: i due aeroporti sono a Svoalver e Leknes, qui volano i voli della Wideroe (www.wideroe.no) che partono da Bodo, a sua volta ben connesso con voli da Oslo.
Per muoversi sulle isole è fondamentale avere un mezzo proprio, quindi se si arriva in aereo è raccomandato noleggiare una macchina in aeroporto, ci si può rivolgere ad una agenzia locale risparmiando un po’
(http://lofotenrentalcar.no). E’ molto facile orientarsi alle Lofoten, perché essenzialmente ci su muove lungo la E10, che attraversa le isole maggiori da nord fino all’estremo sud fino alla cittadina di A. Come in tutta la Norvegia è altamente raccomandato di rispettare i limiti di velocità e di non bere alcol alla guida, i controlli sono frequenti e le multe salate.
DOVE ALLOGGIARE
Le Lofoten sono delle isole turistiche molto visitate e quindi offrono varie soluzioni dove è possibile alloggiare; dall’albergo di lusso al campeggio. L’alloggio caratteristico di queste isole è rappresentato dai rorbur (le case rosse dei pescatori norvegesi), poste solitamente in luoghi molto spettacolari sulla costa e costruite a volte su palafitte di legno. Ancora oggi in alcune località, soprattutto al sud, i rorbur destinati agli alloggi turistici sono limitrofi a quelli
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Norvegia Isole Lofoten, i Caraibi dell’Artico
Svolvaergeita Foto: M. Cappuccio Stian Bruvoll su Rock ‘n’ Roll Ridge Foto: M. Cappuccio
Apecchio, fino a raggiungere il paese di Piobbico. Superato l’abitato di Piobbico, proseguire per qualche chilometro, oltrepassare una grossa cava sulla destra e parcheggiare poco dopo sulla destra, appena al termine di un ponte sul fiume. Le Rocche sono ben visibili a sinistra, mentre a destra resta evidente la bella parete sud della Balza della Penna.
ACCESSO ALLE PARETI
Attraversare il ponte (in direzione Piobbico) e imboccare il sentiero che parte al suo termine sul lato sinistro. Salire in direzione delle pareti (corse fisse) e giunti al primo bivio svoltare a destra in salita. Al bivio seguente tenere la sinistra e poi la destra al successivo, fino a giungere al settore basso della falesia delle Rocche. Continuare superando il settore alto e proseguire piegando verso destra fino alla base della parete (20-30 minuti).
PERIODO IDEALE
Immerse in un contesto selvaggio e solitario, queste pareti strapiombanti sono esposte a ovest ad una quota di circa 600 m e pertanto sono frequentabili preferibilmente nelle mezze stagioni o durante le belle giornate invernali, quando il sole arriva verso mezzogiorno. Sono invece da evitare i mesi di gennaio e febbraio, troppo freddi, così come tutto il lungo periodo estivo, durante il quale è invece possibile scalare sul versante Nord-Est (via “I giorni delle cicale”), in ombra dalle 10.30 del mattino e raggiungibile dalla forcellina fra il primo ed il secondo pilastro (corda fissa).
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Focus Marche Rocche Multipitch
Focus Marche Rocche Multipitch
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Michele Garzanti durante l’apertura de La pozione Foto: S. Mazzolini
Raffaele Mercuriali in apertura su Malefica
Foto: Andrea Gamberini
L'infaticabile Eros Rossi al lavoro Foto: S. Mazzolini
Per tenerti all’asciutto in montagna in tutte le stagioni e in un’ampia gamma di condizioni climatiche diverse Patagonia propone Calcite Jacket, un guscio in GoreTex leggero ma resistente e, soprattutto, facilmente comprimibile, quindi facile da trasportare e sempre a disposizione quando serve. Realizzata con tecnologia Paclite® Plus, tessuto esterno in 100% poliestere riciclato e con cuciture Fair Trade Certified™ eu.patagonia.com
Rock Experience
Silex
Silex di Rock Experience è un capo ultra tecnico risultato della stretta collaborazione con il gruppo dei Ragni di Lecco. Una giacca ibrida termoregolante, leggera e traspirante. L’imbottitura HolesNet è stata posizionata sulla parte anteriore del corpo dove grazie alla sua particolare struttura con fori permette una circolazione ottimale dell’aria e la fuoriuscita del vapore acqueo. Maniche, schiena, fianchi e fodera del cappuccio sono invece realizzati con filato Octupus che assicura leggerezza, comfort e termicità extra grazie alla sua costruzione a sezione ottagonale. Inserti sottomanica elasticizzati e forati tramite tecnologia laser assicurano inoltre una migliore traspirazione, regolazione della temperatura e libertà di movimento. I polsini sono realizzati in doppia lycra che troviamo anche sul bordo del cappuccio per renderlo avvolgente sopra il capo e proteggere da vento e freddo. Silex è riponibile nella sua tasca sinistra così da permettere il minimo ingombro quando non indossato. rockexperience.shop
Ande Ande
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Per chi, oltre ai materiali, è attento anche allo stile, E9 propone 80’s la giacca uomo che richiama i capi vestiti dai surfisti degli anni ’70. Realizzata con quadro misto lana e dettagli in velluto all’esterno, offre un’ottima tenuta del calore grazie alla soffice e calda pelliccia “teddy” all’interno. Il design minimal si arricchisce di quattro ampi tasconi sul fronte, per avere quel che serve sempre a portata di mano. www.e9planet.com
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Ortovox Safety Kit
Per chi attende la stagione invernale per spostarsi dalla roccia al ghiaccio, Ortovox propone il miglior set di sicurezza da avere con sé durante gli approcci alle cascate: Diract Voice, la Light e la pala PRO Light non si era toccati dal pensiero di essere equipaggiati per situazioni di soccorso, oggi la consapevolezza è un dato di fatto ed ecco che il Diract Voice efficace e funzionale, è anche leggero grazie ad una batteria al litio integrata. Anche la sonda è leggera, ma è anche compatta con gli elementi di soli 37,5 cm. così come la pala, super efficiente e affidabile in caso di necessità. In soli 885 grammi batteria inclusa e ingombro al minimo tutto quel che serve per scalare responsabilmente.
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