Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A. P. Aut. n° MBPA/LO-NO/048/A.P./2019 Periodico Roc -NE/VR
in edicola il 20 marzo 2020
#07 | mar/apr 2020 8.00 €
EDIZIONI VERSANTE SUD
ROMA De Bello Climbico L’opportunista Sei vie e una stagione (della vita) Cento anni, o giù di lì Sperlonga Personaggi: Andrea Di Bari, Paolo Caruso, Alvise Mario, Antonella Strano, Luca Grazzini, Alessandro Marrocchi, Bertrand Lemaire, Laura Rogora e i giovani emergenti Nuove proposte Indoor. Palestre di Roma Falesie. Grotti Superstar, Subiaco e la valle dell’Aniene, l’altra Grotti Multipitch. Camicia e Sibillini Focus: Arrampicata, psiche e movimento. Pt 2 Ideas: pensieri di Luca Schiera Exploit: Hazel Findlay su Magic Line, 5.14c trad Il graffio: Richard Felderer
BIMESTRALE DI ARRAMPICATA E ALPINISMO
R O M A
Sperlonga T. Sciannella sulla Foresta di Sherwood, 6a+, Avancorpo di destra, Sperlonga. Foto: B. Vitale
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Sommario 004 Editoriale di R. Felderer, J. Larcher e E. Pesci
STORIA DI COPERTINA
006 De bello Climbico di Nando Zanchetta
008 L’opportunista. Ovvero confessione e pentimento di un peccatore di Nando Zanchetta 009 Sei vie e una stagione (della vita) di Alessandro Lamberti 018 Cento anni, o giù di lì... di Massimo Marcheggiani 026 Sperlonga. Un sogno infinito tra blu e grigio di Bruno Vitale
PERSONAGGI
034 Il fuoco degli anni Ottanta di Andrea Di Bari 038 Oltre la vetta di Paolo Caruso 042 L’arrampicata come meditazione di Alvise Ryuichi Mario 046 Ebbrezza d’arrampicata di Antonella Strano 048 Cosmogonia verticale di Luca Grazzini 050 Alessandro Marrocchi ITW di Laura Rogora 052 Un parigino a Roma (un romano di Parigi) di Bertrand Lemaire
FOCUS
082 A spasso con l’orco Camicia, parete nord, l’orco degli Appennini di Samuele Mazzolini 092 La magia dei Monti Sibillini Tra terremoti, regolamenti e divieti: la fine della libertà? di Paolo Caruso 098 Arrampicata, psiche e movimento. Pt 2/2 di Alberto Milani, Angelo Baroni, Eugenio Pesci 106 La passione del chiodatore. Pt 3/3 di Marco Tomassini
IDEAS
112 Pensieri random sull’arrampicata di Luca Schiera
EXPLOIT
116 Il risultato e il processo Magic Line, 5.14c trad. di Hazel Findlay
IL GRAFFIO
122 Discorsi sull’arte del posizionare gli spit Libro primo: La falesia di Richard Felderer
JOLLYPOWER
123 “Lavorato” e “a vista” di Alessandro Lamberti
VETRINA
126 Proposte prodotti
054 Tralasciando Laura (Rogora) Nuovi emergenti nel Lazio di Chiara Iacobini
PROPOSTE
056 Palestre di Roma e dove trovarle di Chiara Iacobini 058 Grotti Superstar di Emanuele Avolio e Alessandro Lamberti 070 Subiaco e la valle dell’Aniene di Andrea Frosoni e Domenico Intorre 078 L‘altra Grotti di Mirko Mercadante
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Editoriale Testo Richard Felderer, Jacopo Larcher e Eugenio Pesci
Sullo spigolo B. Moretti e L. Filocamo sul I° tiro dello Spigolo di Ferrante, 5c, Parete del Chiromante. Foto: B. Vitale
L’
inverno 2019-2020 sembra già sul punto di finire. Forse mai come quest’anno, soprattutto sul versante meridionale delle Alpi, ci sono state, negli ultimi vent’anni, condizioni particolari e insolite: prima neve durissima e ghiacciata, foriera di non pochi incidenti gravi, poi una completa assenza di precipitazioni, con secco perfetto, ottimo per prestazioni estreme su roccia, ma disperante in seguito, nel nuovo anno, entro una curiosa risalita termica, soprattutto per i cascatisti. Qui e là, primule e bucaneve si affollano sin da metà febbraio a testimoniare quello che in molti già sanno: i mutamenti climatici non sono un concetto proprio di un futuro possibile, ma la concreta realtà di un presente in atto e difficilmente prevedibile. Nel frattempo, mentre alcuni attendono scientificamente le Olimpiadi, ormai alle porte, come l’inizio di una nuova era, altri, sulla rete, sollevano pesanti dubbi sulla positiva influenza di queste ultime rispetto alla pratica alpinistica e dell’arrampicata. Invece, il numero 7 di «Up Climbing», accantonati, almeno per ora, questi massimi sistemi, scende nell’Italia centrale, per la seconda volta dopo il riuscito viaggio nelle Marche, sino a trovarsi di fronte al Colosseo: è infatti proprio dell’arrampicata a Roma e dintorni che vogliamo parlarvi oggi. È una storia antica, con solide radici alpinistiche, ma che poi si sviluppa con modalità molto originali e caratteristiche quando nasce l’arrampicata sportiva, partendo da Sperlonga, fra gocce taglienti, biliardini e mozzarelle, per arrivare ai temibili buchi di Grotti, fino al recente 9a+ di Ultimo tango a Zagarolo, liberato dal giovane Elias Iagnemma. Ma lasciamo la parola a qualcuno che se ne intende davvero di arrampicata romana, qualcuno come Nando Zanchetta, che ce la presenta qui in modo inusuale, eppur, tuttavia, molto consono ai personaggi, ai luoghi e alle tradizioni dell’universo verticale capitolino, attraverso un testo, forse tradotto dal latino, non si sa, o forse redatto poco alla volta, in lunghi anni di battaglie memorabili. Si volti pagina.
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Editoriale sottosezione
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Climbia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Caines, aliam Moderni, tertiam qui ipsorum lingua Tenentes, nostra Fortissimi appellantur. (Callo Giulio Cesare)
L
a Climbia nel suo complesso è divisa in tre parti: una è abitata dai Caini, una dai Moderni, la terza da quelli che nella loro lingua si chiamano Tenenti e nella nostra Fortissimi. Tutte queste popolazioni differiscono tra loro nella lingua, nelle istituzioni e nelle leggi, ma soprattutto nel grado che fanno. Non parleremo qui dei Caini, popolo nobile e dai costumi vetusti, conquistatore di vette e di distintivi da appiccicare sulla giacca in Goretex per rimorchiare le pischelle al Corso Principianti. Né parleremo dei Moderni, popolo numeroso e in continuo aumento, grande consumatore di volumi in poliuretano e di carta igienica se gli spit sono distanziati più di un metro. Celebreremo invece le storiche gesta dei Fortissimi del Latium, élite di uomini fieri, implacabili uccisori di gradi, arrampicatori ancor prima che umani, adepti al rito della omologazione della tacca e per questo, nel profondo della loro indole, immensamente coatti.
Di questa gloriosa schiatta fanno parte personaggi del calibro di Lucullus Andrea Barensis, Petrus Luigii Binii, Stephanus Finocchius detto “Incollator”, Alexander Marocchis detto “Ciclopicus”, Alexander Lambertus Bocconus detto “Iollium” e tanti altri. Cosa accomuna questo manipolo di temerari? Aver importato, applicato e sviluppato nella Climbia Lazialis, negli ormai lontani anni Ottanta, l’arrampicata così come la conosciamo oggi, alzando, e di tanto, il grado. Parlare di questi uomini, temibili guerrieri della reglette, profeti del monodito, cultori del bloccaggio statico, esegeti delle Superga, come questo numero di «UP Climbing» intende fare, non è mero atto celebrativo di un glorioso passato ma è invece operazione necessaria, per dare senso storico a quanti oggi, in gran parte del popolo Moderni, fanno le vie a vista dopo aver guardato il video su youtube, usano il papero dal primo all’ultimo spit, e pensano che arrampicare significhi lanciare dal volume verde alla zanca su in alto prima di cadere sul materasso. Questi uomini hanno fatto il salto quantico: partiti dalla nobile lotta con l’Alpe sono sbarcati sui lidi del monotiro, emblema di una rivoluzione minimalista, che elegge il puro gesto e il singolo passaggio a feticci da venerare e, a tutti costi, da liberare.
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Storia
De bello Climbico Testo Nando Zanchetta
Costoro hanno viaggiato, folgorati dalle videocassette di Patrick Edlinger, hanno fatto lunghi voli sulle placche mozzafiato del Verdon, hanno tirato alla morte i biditi di Buoux, hanno intuito possibili vie di salita a Sperlonga, a Ferentillo e a Grotti, hanno piantato spit a mano e posizionato rudimentali soste, hanno scavato buchi nelle cave di tufo, hanno salito placche improteggibili sulle Spalle, hanno inaugurato le climbing gym ante litteram. Petrus Binii, legato indelebilmente alla storia del Gran Sasso, si allenava sotto Ponte Rotto all’Isola Tiberina e sui mattoni nel fossato di Castel Sant’Angelo. Stefanus Finocchius, un visionario da sempre venti anni davanti a tutti, scavava tacche sotto gli archi in laterizio del ponte a Capannelle, incollava sassi e pezzi di mattone sotto al viadotto di Corso Francia, scavava a Sezze tiri durissimi e morfologici, fatti solo per lui, e creava Lammerda avvitando prese in resina sui tetti di Grotti. Gesti estremi e forieri di infinite diatribe, ma certo azioni di rottura, fatti per spostare l’asticella sempre più avanti e sempre più su. Il Di Bari sulle pareti di Leano, Sperlonga e Pietrasecca, viveva questo sport con caparbietà, arcigna competizione e infinite serie di trazioni contro lo
squallore delle periferie romane. Il Ciclope arrampicava statico. Applicava già in quel tempo nuovi metodi di allenamento, prima rudimentali e poi sempre più evoluti sostenendo, allora come oggi e certamente a ragione, che gli altri «non capiscono un cazzo». Jolly invece, vittima consapevole della sua figura di timido indolente della Roma bene, non faceva niente, ma liberava le vie spittate da altri senza mai nemmeno ringraziare. La ruota del tempo, il primo 8a del Lazio, poi quotato 8b dal secondo salitore, ha dovuto aspettare trent’anni per una ripetizione. Molti di loro vivono ancora in questo mondo, altri se ne sono allontanati, altri ancora non ci sono più. Molti altri guerrieri hanno contribuito alla conquista di questo impero tanto impalpabile quanto presente nella vita di tutti i climber romani e laziali, e sarebbe impossibile citarli tutti. Di certo, quando mettiamo il primo rinvio su una via di Sperlonga, Leano, Ferentillo, Grotti, Petrella o in una delle cento altre falesie dove hanno scalato questi pionieri, sentiamo, come tra le rovine dei Fori, che lì c’è la storia e che, come dicevano i nostri nonni, a quei tempi le tacche, come le donne, erano un’altra cosa.
Sperlonga T. Sciannella su Il linguaggio forbito della Rossa, 6b, Parete del Chiromante. Foto: B. Vitale
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Storia
L’opportunista
Ovvero confessione e pentimento di un peccatore Testo Nando Zanchetta
Don Nando: Figliolo, ti aspettavo. Jolly: Sì, Padre. Don Nando: Hai peccato di opportunismo, e molto. Jolly: Ne ho coscienza, Padre. Don Nando: Sai quanto costano un fix o una piastrina? Rispondo io: no, non lo sai, perché non ne hai acquistato nemmeno una! Jolly: Ha ragione, Padre. Don Nando: Ho fatto un rapido calcolo. Hai salito più di 200 vie sopra l’8a. Solo queste sono costate ai volenterosi che le hanno chiodate almeno 10.000 euro. Per non parlare del tempo e della fatica. Hai mai pensato di rimborsare i chiodatori? Jolly: No Padre Nando, non ho mai cacciato un euro, anche se di solito pagavo il caffè al bar. Don Nando: Non ti sembra un po’ poco? Hai mai ringraziato almeno? Jolly: No Padre, ero timido e impacciato e ora provo vergogna! Don Nando: Parliamo dei tiri liberati tanti anni fa… Chi ha chiodato Il ricordo del tempo? Jolly: Lo chiodò il Finocchi e andavamo a provarlo insieme. E un giorno l’ho fatto io. Ero un bastardo! Don Nando: Poi, hai peccato ancora? Jolly: Sì, tante altre volte e senza ritegno: La morte, Il corvo, Nada es para siempre e tante altre. Decine di
vie rubate al legittimo spittatore. Don Nando: Ma tu non hai paura dell’Inferno? Jolly: A quei tempi non lo temevo e non conoscevo il Maligno. Ma ora posso dire di aver conosciuto l’Inferno: il Signore mi ha già punito e non mi ha dato la forza di liberare Ultimo tango a Zagarolo. E solo ora vedo la finalità della volontà divina. Essere buono, ringraziare chi ha lavorato per me e lodare chi ha aperto i quinti dove porto i miei allievi da trent’anni, facendomi pagare. E poi, scalare, divertirsi tra amici e liberare le vie per piacere e non per ripicca. Ma lei lo sa, Padre: noi scalatori siamo tutti egoisti peccatori. Don Nando: Figliolo, se lo vuoi, puoi redimerti! Jolly: Sì Padre, voglio redimermi! Don Nando: Devi scrivere un articolo su «UP Climbing» dove confessi tutti i tuoi peccati, devi recitare venti Padre Nostro, trenta Ave Maria e devi chiodare cento tiri fino al 6b. Jolly: Non mancherò, Padre, soprattutto sulla questione dei 6b. Lei ha un trapano? Io non l’ho mai avuto... Don Nando: Sì, te lo presto, ma stai attento a non farti male! Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris, et Fixii, et Spitus Sancti.
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Sei vie e una stagione (della vita) Testo Alessandro “Jolly” Lamberti
Sono quarant’anni che rubo le prime salite delle vie più dure del Centro Italia ai legittimi proprietari. Talvolta chiodatori generosi me le hanno regalate, come il mitico Toffa, o Giordano Renzani, o Alfredo Smargiassi: le chiodavano per me, e oggi pubblicamente li ringrazio. Ma il più delle volte le ho rubate.
Ballando il tango Alessandro "Jolly" Lamberti, tentativo su Ultimo tango a Zagarolo, 9a/9a+, Grotti. Foto: Arch. Lamberti
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Storia Sei vie e una stagione (della vita)
C
Un tempo a Sperlonga Andrea D'Addazio nel 2018 durante la prima ripetizione di Il ricordo del tempo, 8b, fascia superiore, Sperlonga. Via leggendaria chiodata da Stefano Finocchi e salita da Jolly nel 1986. Foto: Arch. D'Addazio
on la scusa che la scalata è uno sport, e che pertanto non ci può essere una gara con un unico concorrente. O che in nessuno sport il tracciatore traccia per sé la prestazione che lui stesso definisce e quantifica. Balle, lo capisco oggi, dopo quarant’anni, che sono balle: il tracciatore si fa il culo, si sporca le mani, spende soldi, trova la linea, la “crea” ottimizzandone le proporzioni come un pittore sulla tela, consuma il suo tempo. E poi la scalata in falesia non è uno sport – non è solo uno sport. Il ricordo del tempo, uno dei primi 8b italiani, lo rubai a Finocchi nel 1986. E così anche Il corvo, il primo 8c dell’Italia centrale, e Input, Er Cid, sempre 8c, sempre sottratte a Finocchi che le aveva chiodate. La via più dura di tutte, invece, è stata un regalo, ma dopo vent’anni non sono riuscito ancora a salirla. Me la regalò Alfredo all’alba del 2000: Ultimo tango a Zagarolo. La provai per quindici anni senza riuscire, mi mancava un pelo: partivo appeso al primo spit, con il blocco iniziale già impostato, e arrivavo in catena. Una buona parte di questo percorso lo feci insieme a Stefano Finocchi, il più forte, il più creativo, il più simpatico degli scalatori romani. Quando decise di smettere, nulla fu più come prima. Ogni appuntamento era collegato a un baretto di riferimento, e in ogni baretto il Finocchi era amico del gestore: se si andava a Grotti c’era il Glicine di Settebagni, con la giovane e bella ragazza dai capelli lunghi neri. Quando andavamo verso Sperlonga cercavamo di evitare di vederci all’obelisco dell’Eur, perché lì si incontravano i Caini. Per Subiaco, Petrella e Pietrasecca l’appuntamento era lo stesso: il bar di via dei Fiorentini, poco prima del ponte con l’autostrada Roma-L’Aquila, dove abitava Loaldi. Poi c’era sempre almeno un’altra fermata a un altro bar: da Pietro a Ferentillo, da Guido il Mozzarellaro di Sperlonga, da Aldo “Il monco” di Grotti. Mentre Stefano a ogni sosta si beveva un doppio espresso nero e senza zucchero, io facevo il pieno di schifezze: goleador, gomme sfuse, gomme a sigaretta, gomme a pallina, galatine, haribo, girelle di liquirizia, bastoncini di liquirizia. Né io né lui eravamo soliti fare vie di riscaldamento e, quando avevamo una via da lavorare, partivamo direttamente sulla via in questione, fermandoci da spit a spit per rivedere i movimenti. Se non avevamo obiettivi, sceglievamo la via di grado più alto tra quelle che conoscevamo a memoria: a Petrella ci scaldavamo sull’8a di Spirito guida, a Grotti su Alto gradimento; al Moneta sul 7c di Voodoo Child. Già da tempo avevamo capito che era più facile (e si faceva più bella figura)
salire su un 8a imparato a memoria piuttosto che su un 7b poco conosciuto, così come sapevamo bene che, se c’era molta gente a guardare, si rischiava meno di perdere la faccia restando “appesi” tutto il giorno su un progetto molto duro.
ECCO ALCUNE VIE CHE “ HANNO SEGNATO LA STORIA
DELLA SCALATA NEL LAZIO. CE NE SONO ALTRE, MA QUESTE SONO LEGATE ANCHE ALLA MIA STORIA PERSONALE, E DI QUESTE RACCONTO. IL RICORDO DEL TEMPO Grado: 8b. Falesia: Sperlonga, fascia superiore. Chiodata: Stefano Finocchi, 1985. Prima salita: Alessandro “Jolly” Lamberti, 1986. Prima ripetizione: Andrea D’Addazio, 2018. Altre vie storiche da non perdere: Kajagoogoo, 7a, 1983; Polvere di stelle, 7b, 1984. Stagione migliore per provarla: tutte tranne l’estate. Ho ventun anni, c’è una via, alla fascia superiore di Sperlonga, che non è riuscita ancora né a Stefano Finocchi né a Andrea Di Bari e il cui nome è Il ricordo del tempo. Voglio fare quella via. È una creazione del Finocchi, che ora sta facendo il servizio militare, e io, infame, mi appresto a rubargliela, come un amico fedifrago che si scopa la fidanzata del compare che sta in guerra. Mi giustifico pensando che il Finocchi, quella via, l’ha abbandonata, anzi, che se l’è data per buona. Sono dodici metri di prese minuscole e taglienti: già staccare i piedi da terra sembra impossibile. Il “Dibbari” è occupato a provare La cura dei tendini, vuole salirla e dire che è quella la via più dura del Centro Italia. Ho il campo libero, sono tutti e due fuori gioco: il bamboccione sta preparando un colpaccio. È da Natale che la sto provando anche tre volte a settimana, quando trovo qualcuno che mi accompagna; ora che è fine marzo mi sento pronto. La prima volta mi è sembrata impossibile, non sono stato in grado di salire neppure un movimento: riuscivo a restarci attaccato soltanto se mi tenevo con entrambe le mani e i piedi puntati, ma non appena provavo a staccare un solo arto cadevo. Per fortuna, già allora conoscevo il segreto per lavorare una via: quello che sembra impossibile le prime volte,
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Storia Sei vie e una stagione (della vita) un giorno diventa possibile. Quello che riesce subito, invece, non rappresenta il tuo limite. Prova, riprova, spellati le dita, torna a casa sconfitto, poi prova ancora. Chiuso nella mia stanza, seduto sul letto, con la schiena addossata al muro, il libro di fisica sulle ginocchia e la penna Snappy verde tra i denti, penso e ripenso ai movimenti della via. La visualizzazione è così vivida e tridimensionale che mi sembra di salirla veramente: sulla punta delle dita sento pungere la roccia aguzza, il cuore accelera, le mani sudano. Ora che il Finocchi è via, che il Tantaillo ha finito la scuola e cominciato (lui sì, seriamente) l’università, per me è più difficile trovare qualcuno con cui scalare in mezzo alla settimana, ma quel giorno Angelo, detto “il Giraffone”, si è offerto di accompagnarmi, anche solo per farmi sicura e poter assistere al tentativo su quella che era ritenuta la via più dura di tutte.
IL GIORNO IN CUI SALII IL MIO “ PRIMO 8B, NON MI RESI CONTO
DI AVER SALITO UNA VIA COSÌ DURA. SUL GRADO DA DARE, ERO INDECISO TRA 7C E 7C+. PASSERANNO TRENTADUE ANNI PRIMA CHE QUALCUN ALTRO RIPETA L’IMPRESA. La mattina del 30 marzo del 1986, ci incontrammo all’obelisco dell’Eur alle nove in punto per partire, con l’Opel Kadett Coupé color ruggine di mio nonno, verso sud. Rinfrescati da una brezza tesa, evitammo la consueta sosta nella zona di Serena alienazione e ci avviammo direttamente verso la fascia superiore. Qui la roccia era ancora più pungente e talvolta le dita tenevano soltanto perché si conficcavano dentro quei minuscoli aghetti di calcare. Come era mia abitudine, non feci alcun tipo di riscaldamento e mi attaccai subito sul Ricordo del tempo, salendo fino in catena, ma fermandomi a riposare sui vari chiodi. Una volta tornato a terra, sentii che qualcosa non andava. Per la prima volta in vita mia conobbi l’ansia da superlavorato, in maniera così forte e fisica che ne rimasi sconvolto, come se fossi di fronte a un orrendo mostro che cercava di tirarmi in una grotta buia per divorarmi. Quella sensazione, che poi imparai a riconoscere e, molto più tardi, anche a sconfiggere, quel giorno mi comparve davanti all’improvviso, come un diavolo nero. Era simile alla paura degli esami, ma molto più concreta. Era un coltello che mi si infilava tra le costole quando
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Storia Sei vie e una stagione (della vita) L'ultimo tango! Elias Iagnemma, prima libera di Ultimo tango a Zagarolo, 9a/9a+, Grotti. Foto: L. Parisse
Volevo lasciare un segno indelebile, e mi stavo rendendo ridicolo con quella via incompiuta sulla parete di Grotti: dieci anni di tentativi nei quali molte volte ero arrivato vicinissimo a salirla. Poi mollavo, come se quella parete perennemente incompiuta rappresentasse, per me, una sorta di tela di Penelope che dovevo continuamente fare e disfare, altrimenti il giorno in cui l’avessi terminata sarebbe finito tutto, anche lo stimolo per continuare ad allenarmi. E così gli anni passavano, le persone che mi facevano sicura cambiavano, ma io era sempre lì, durante i mesi invernali, una volta a settimana, in genere il venerdì, con un paio di fedeli scudieri disposti a sopportare il freddo umido di quella falesia così inospitale in inverno – ma che solo in inverno concedeva la friction necessaria a una prestazione così importante. Il tempo passava, e anche un passaggio così congeniale per me – un tetto a biditi che terminava con un lancio da un monodito prima falange, piedi nel vuoto – diveniva ogni anno più problematico: se prima riuscivo a fare vari tentativi nello stesso giorno, ora, a quasi cinquant’anni, dopo appena un tentativo, tendini e muscoli si rifiutavano di stringere ancora, la forza calava e, improvvisamente, mi sembrava impossibile poter passare da lì. Ogni anno, pateticamente, mi ripromettevo di chiuderla, programmavo allenamenti mirati e durissimi (che poi non eseguivo), iniziavo pericolose diete ipocaloriche a base di sole proteine (niente verdure, niente zuccheri, niente carboidrati, solo bianco d’uovo o bresaola o fettina di pollo scondita: era l’unico modo, per me già così magro, di perdere velocemente tre chili), che però duravano una sola settimana. A dicembre cominciavo a provare quella via che, come ogni anno, all’inizio mi respingeva in ogni passaggio, come se a ogni stagione dovessi ricominciare da capo, perché i tendini e le dita dovevano ritrovare le sensazioni e abituarsi al dolore e ogni volta, quando ricominciavo, mi sembrava impossibile che l’anno prima fossi riuscito a salire quella parete con un solo resting. Quando, finalmente, avevo ritrovato tutte le sensazioni, e la via sembrava di nuovo voler cedere ai miei assalti, ormai mi ero stufato di timbrare il cartellino in quella falesia di merda, senza scalare altro che quella grotta angusta, e avevo perso l’allenamento su ogni altra cosa che non fossero quei cinque passaggi. Proprio quando avrei dovuto tirare fuori le palle e dare la zampata finale, trovavo delle scuse per non andare: intanto marzo era finito e con aprile arrivava il sole che rendeva impossibile tenere lo scivoloso piattone iniziale.
Quella via incompiuta rappresentava, per me, la possibilità di chiudere la carriera in bellezza, proponendo al mondo intero un grado per l’Italia ancora impensabile; se avessi liberato quella via, avrei potuto alimentare la mia gloria per molti anni, ma allo stesso tempo, proprio perché rappresentava una chiusura di carriera, una parte del mio inconscio mi impediva di salirla, in particolare quella parte che si rifiutava di invecchiare, di morire, quella parte che mi stava trascinando in una crisi di mezza età ancora più forte perché arrivata in ritardo, perché la mia fortunata fibra, che negli anni mi aveva sempre preservato da ogni tipo di infortunio, mi aveva illuso che tutto sarebbe potuto durare così per sempre. Ma ora non ce la facevo più ad attaccarmi a quel tetto, quella via mi stava sfuggendo per sempre, mi stavo avviando verso la fine della carriera senza essere stato ripagato di tutte quelle monete che avevo investito negli ultimi dieci anni dentro quella grotta.
QUANDO MI ARRIVÒ LA NOTIZIA, “ QUASI IN TEMPO REALE, CHE
ELIAS, FINALMENTE, ERA RIUSCITO A SALIRLA, NONOSTANTE FOSSERO PASSATI ORMAI ANNI DA QUANDO AVEVO SMESSO DI PROVARLA, UN PO’ DI RIMPIANTO MI ASSALÌ: SI CHIUDEVA UN CICLO E UN ALTRO IMPEGNO SI ANDAVA AD AGGIUNGERE, DEFINITIVAMENTE, ALL’ELENCO DEGLI ADEMPIMENTI INADEMPIUTI, PER PIGRIZIA, O PER INCAPACITÀ. Da un lato mi sentii sollevato – qualcuno ancora mi chiedeva «perché non vai a tentarla di nuovo?». Dal primo video Instagram notai che Elias non usava – se non per appoggiarcisi un attimo – il famoso monodito prima falange a cui io mi sospendevo completamente, quasi senza piedi, per andare alla presa buona di mano sinistra. Elias, più furbo e molto più forte, aveva trovato il modo di rovesciare l’appiglio sotto (che io prendevo con il dito medio e metà dell’anulare), per lanciare direttamente alla presa finale con la mano destra. Dopo si trattava solo di scalare, la via era terminata lì. Sul grado, quasi concordammo: se io l’avessi liberata, quel giorno d’inverno del 2005, avrei proposto 9a+.
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Storia Sei vie e una stagione (della vita)
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Storia Cento anni, o giĂš di lĂŹ... Personaggi In senso orario: Paolo Consiglio, bivacco in parete. Foto: Arch. Marcheggiani Germana Maiolatesi esce dal Paretone. Foto: Arch. Maiolatesi Paolo Caruso in apertura di Cavalcare la tigre. Foto: M. Marcheggiani Cristiano Delisi su Aficionados. Foto: F. Jacoacci
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Storia Cento anni, o giù di lì...
Personaggi In senso orario: Bini e Marcheggiani trent’anni dopo sulla Via del Vecchiaccio. Foto: Arch. Marcheggiani Emanuele Pontecorvo. Foto: Arch. Pontecorvo Massimo Marcheggiani. Foto: T. Cantalamessa Massimo Marcheggiani. Foto: F. Camilucci
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Personaggi Il fuoco degli anni Ottanta prestazioni, sempre e ovunque, anche quando non ne avevo voglia. La questione si fece pian piano di nuovo faticosa, certo non c’erano più segatura e polvere di cemento da respirare, non c’erano più datori di lavoro bastardi, profittatori e violenti, non c’erano turni di lavoro massacranti; tornare indietro sarebbe stato ridicolo oltreché suicida, ma cominciai a sentire che l’arrampicata, al di fuori di ogni convenzione in cui era inevitabilmente finita con le competizioni, sia in gara che in falesia, aveva una grande dote di bellezza fine a sé stessa; sentii forte il desiderio di poter arrampicare solo per il piacere di arrampicare, un piacere che si rigenera come fa la propria mente di fronte a un meraviglioso tramonto o tramite le mille cose belle da vivere proficuamente nella vita; perché si può benissimo vivere crescendo interiormente anche grazie alla cultura del piacere, non vivendolo superficialmente solo come bene di consumo, ma anche come mezzo di evoluzione. Sorella Luna Andrea Di Bari su Sister Moon, 8a+, Monte Moneta, marzo 1988. Foto: A. Perrone
anche alle competizioni ufficiali di arrampicata dal 1985 in poi, in abbinamento alle tante prime salite di vie nuove o ripetizioni di vie importanti lontane dalle nostre falesie di casa, arrivarono, così come i contratti di sponsorizzazioni e un’importante collaborazione con il più grande negozio specializzato a quei tempi nella capitale. Finalmente potevo vivere della mia passione. Ecco la cima della vetta, da cui si poteva avere una vista migliore, più profonda e limpida, da dove le prospettive diventavano più interessanti, gli orizzonti mutavano. Un finale felice? Sembrava di sì, al momento, ma con il passare degli anni sentivo che qualcosa era ancora in movimento dentro di me, nonostante fossi arrivato a destinazione dopo tanto lavoro, sacrificio e in alcuni casi anche grande sofferenza: il fuoco (dell’anima) continuava a cercare di modificare le cose e gli eventi in vista di altri obiettivi. Scrutando il mio animo mi feci alcune domande: in fin dei conti tutto quel tragitto faticoso, ma anche entusiasmante, cos’era in sostanza? Oltre al bisogno inconscio di emancipazione dalla figura di un padre duro, di una religione oppressiva, di una società in cui i valori si erano appiattiti, c’era l’immenso desiderio di libertà dagli schemi precostituiti. Avevo voluto quella bicicletta dorata e dovevo solo pedalarci sopra. Dovevo pur mangiare, pagarmi l’affitto di una casa, il carburante per le mie scorribande, ma col passare del tempo mi accorsi che quell’intimo desiderio di libertà aveva creato nuove sbarre fatte di regole, di giudizi altrui, di imposizioni; era come dover continuare a fare
DECISI CHE SETTE ANNI “ DI COMPETIZIONI ERANO
ABBASTANZA E CHE LA MIA ARRAMPICATA E LA MIA VITA DOVEVANO AVERE UN NUOVO RESPIRO, CON NUOVI STIMOLI E NUOVI ORIZZONTI. IL FUOCO CHIEDEVA DI ESSERE ANCORA ALIMENTATO, NECESSITAVA DI NUOVA LEGNA AD ALTO POTERE CALORIFICO DA ARDERE. Il percorso di quel magnifico decennio irripetibile stava per concludersi. Si prospettava, per me, la possibilità di ridisegnare e di vivere più armoniosamente il frastuono assordante, ma anche entusiasmante, di incontri, amori, scontri ed esperienze che erano stati la mia arrampicata di allora. La sete di libertà e della mia arrampicata, questa volta più lucida e ragionata, ma non per questo meno passionale, erano la nuova traiettoria, in cui cercavo di far confluire, per potenziarla ed ampliarla, tutte le altre esperienze, che si andavano delineando all’orizzonte. Assolutamente tutte verticali, tutte indirizzate verso nuove cime da cui poter scorgere nuovi orizzonti e nuove prospettive di luce.
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Proposte L‘altra Grotti
7c DIABOLIKA Primo settore realizzato, che nasce all’ombra, forse uno dei primi di Grotti, considerata sempre una falesia invernale per l’ottima esposizione al sole. Per me che ci vivo, sentivo il bisogno di vivere Grotti anche l’estate e tutto il giorno. Il settore si trova davanti alla Curva vecchia, dall’altra parte della valle, ed è caratterizzato da una grotta con molti “progetti” ancora da liberare e una placca leggermente strapiombante nella parte finale. Accesso: dopo l’abitato di Casette, direzione Grotti, in prossimità di un ponte svoltare in via Case Sparse, dopo 800 m parcheggio sulla destra: poi un evidente sentiero con cartello porta alla falesia. Settore realizzato con la collaborazione di Claudio “lu meccanico” e Andrea Di Bari.
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BIMBO MINCHIA MADE IN GROTTI MIND THE GAP LE FOLIES DE PIGALLE KEN SHIRO DIABOLIKA INCLINAZIONE VERTICALE COMO UN ANIMAL 416 BIS PUMPING IRON SIC 58 KINGS AND QUEENS FARGO WEST WORLD BOILING POINT LEVIATHAN SICARIO BATTAGLIA NEL CIELO NINE SONGS IL GIOCO DEL FALCO IL SALE DELLA TERRA
6c+ 7b n.l. Progetto n.l. Progetto n.l. Progetto n.l. Progetto n.l. Progetto n.l. Progetto n.l. Progetto n.l. Progetto n.l. Progetto n.l. Progetto 7c 7c 8a 7c 7c 7b+ 7b 6c+ 6c
Eleonora Ciancarelli su Tu n'c'hai sete. Foto: A. Smargiassi
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Proposte L‘altra Grotti
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BOB MARLEY Settore adiacente a Diabolika, anch’esso all’ombra. Settore che ho avuto la fortuna di attrezzare con Alfredo Smargiassi, uno dei più attivi chiodatori di Grotti e non solo, “padre” di quei tanti spit luccicanti che ho sempre ammirato, un visionario, un genio futurista con il trapano, amico e mentore. Il settore presenta vie molto lunghe, anche 40 metri, la chiodatura è ben spalmata nei metri: è da considerarsi come un settore del Verdon vecchia scuola. Accesso: a piedi per lo stesso sentiero per Diabolika in 2 minuti fino a un bivio segnalato, poi a sinistra per Bob Marley.
BOB MARLEY 1. STATE SERENI L1 2. STATE SERENI L2 3. IL CAMPAGNOLO 4. BIONDE DA CAPOGIRO L1 5. BIONDE DA CAPOGIRO L1+L2 6. A MANO ARMATA 7. BELLA MOI 8. DILLO ALLA LUNA 9. PORTATEMI DIO 10. BOMBA ATOMIKA 11. PURPLE HAZE 12. SMUNX PARADISE 13. TRAINING DAY 14. JAH ARMY 15. METODO BOB MARLEY 16. PORCA LA MADOSCA 17. ONE LOVE 18. JAM ROCK 19. THE SOUND OF SILENCE 20. A.A.A. ALFREDO 21. LA PRINCIPESSA DEL MARE 22. MESSICO GALEOTTO 23. MORE DA DIO 24. ER SAPATA 25. CHE BELLA COMPAGNIA 26. IL PENSATORE CALVO 27. ANVEDI COME BALLA NANDO
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Eleonora Ciancarelli su The Sound of Silence. Foto: A. Smargiassi
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Proposte A spasso con l'orco
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Gran Sasso Monte Camicia Parete nord MARSILII-PANZA (con variante terminale di uscita Mazzolini-Iurisci del 21-7-2007) (B. Marsilii, A. Panza; 1934) Difficoltà: TD-, V+ (R4). Sviluppo: 1200 m di dislivello; 2000 m di sviluppo (di cui 450 m circa di variante uscita). Esposizione: nord. Tempo: 10-12 ore. Nota bene: la valutazione d’insieme e le difficoltà tecniche riportate non sono indicative del reale impegno della salita, dovuto al carattere spiccatamente alpinistico, alla roccia friabile, alla lunghezza del percorso e all’orientamento e ai pericoli oggettivi.
[1] Pilastro Claudio Montevecchi, tracciato. [2] Le pietre di Luna, tracciato completo. [3] Marsilii-Panza, parte bassa. [4] Marsilii-Panza, parte alta. [5] Marsilii-Panza, tracciato completo.
AVVICINAMENTO Dal paese di Castelli (497 m) si prosegue in auto per Rigopiano. Dopo aver superato la Scuola d’arte di ceramica si attraversano
le piccole frazioni di San Rocco e San Salvatore fino ad arrivare a una curva a sinistra, nei pressi di Colle Rustico, dove inizia il sentiero che porta alla base della parete (770 m circa). Si percorre dapprima una faggeta su sentiero evidente, si attraversano una sella e un paio di fossi fino a quello principale, percorso dal fiume Leomogna, che si supera giungendo in breve alla Fonte di Signori (995 m). Da qui, per prati e boscaglia, si giunge velocemente al monumento dedicato a Piergiorgio De Paulis, da dove la parete nord del Camicia appare in tutta la sua maestosità (1 ora e 10 minuti circa); per via logica sul greto del torrente (o nevaio) si giunge all’attacco, alla quota di circa 1200 m (20 minuti). RELAZIONE Zoccolo Attaccare l’evidente sperone erboso posto al centro dell’anfiteatro, a destra di due cascate e a sinistra di un repulsivo e scuro diedro e risalire per via intuitiva la base dello zoccolo (erba ripida, 80-90 m) fino a un piccolo ripiano dove lo sperone diviene roccioso. Proseguire sulla destra per una ripida rampa erbosa (alberello isolato) per guadagnare lo “spigolo” dello sperone
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Proposte A spasso con l'orco
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stesso, che si risale fino al suo termine: 250 m in totale, erba ripida e rocce rotte. Giunti alla cengia sotto le rocce, non seguire la rampa ma puntare alle placche di roccia compatta e levigata sulla sinistra (variante tentativo “Bini”). Salire per 30-40 m (III+) e poi deviare a destra fino alla base di una parete più verticale, dove si vedono alcuni spit piantati da Pierluigi Bini. Seguire gli spit e, con due tiri di corda fino al V+ su roccia mediocre, giungere alla base di una parete verticale ed erbosa, che si risale seguendo un cordone fissato a due spit in cima allo sperone (45 m, erba e roccia friabile). Parte centrale Superato lo zoccolo si risale il pendio erboso, che presto diviene cresta e che termina a destra di strapiombi giallastri. Si traversa quindi a sinistra, prima in discesa e poi in salita, fino a trovare il punto “più facile” per rimontare una fascia di rocce sovrastanti (passo di V) e intercettare un’evidente rampa ascendente verso sinistra, che si risale per 100 m circa (difficoltà fino al III grado). Proseguire adesso in diagonale verso destra per cenge ghiaiose e ripidi risalti di roccia friabile (150 m, passi di IV+), fino a giungere su un terreno più
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ripido. Risalire quindi un diedro fino a un ripiano (25 m, passi fino al V-) e proseguire sul medesimo terreno per altri 100 m, sempre in diagonale verso destra, fino a intercettare sulla destra un ripido sperone erboso (II-III, passi di IV, roccia verticale e friabile). In cima allo sperone si è all’estrema sinistra della prima comba ghiaiosa (già visibile dalla base della parete), ossia al limite destro della via. Continuare adesso verticalmente fino al cosiddetto “corridoio erboso” (un’esile cengia di ghiaia ed erba che taglia orizzontalmente tutta la parete): questo tratto è particolarmente infido perché più verticale, con difficoltà continue e poche possibilità di protezione (due tiri di circa 50 m con difficoltà tra il IV+ e il V+). Traversare a sinistra lungo il “corridoio erboso” per tre lunghezze di corda (tratto non difficile ma non proteggibile) e, al suo termine, scendere su erba ripida un breve tratto e risalire con un tiro di corda (IV-) la parete soprastante fino a una rampa erbosa, che conduce a una forcella sulla destra. Salire la parete sulla sinistra e traversare lungamente ancora a sinistra (50 m, passo V-, poi più facile) fino a giungere su uno spallone erboso: qui termina la parte centrale della parete nord del Camicia e ci
si trova di fronte a un dedalo di canyon e risalti rocciosi. Parte superiore Superare l’alveo di due forre contigue e risalire le rocce di fronte fino ad arrivare a un pendio erboso (da qui in poi viene descritta la variante Mazzolini-Iurisci e non il percorso originale, che rimane più a destra). Continuare per il pendio verso sinistra, che presto diviene un ripido sperone erboso (120 m circa) e proseguire ancora per lo sperone stesso (che si fa man mano più ripido e roccioso) fino a una cengia, appena sotto le lisce placche del terzo Pilastro del Camicia, detto anche pilastro “Cantalamessa” (in onore del forte alpinista ascolano). Traversare a sinistra fino a dove queste placche muoiono, alla base di rocce a strati paralleli che formano un netto diedro. Scalare il diedro con due tiri di corda (50 m, dal IV al V su roccia da discreta a buona) fino a una cengia, dove si sosta sulla destra. Ritornare quindi a sinistra per superare un salto verticale (V+, roccia friabile a liste) che permette di raggiungere il filo di uno spigolo, e poi un diedro successivo, che in due tiri di corda permette di uscire dalla parete (IV+ e passi V+).
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Focus sottosezione
Arrampicata, psiche e mov imento
Testi Alberto Milani, Angelo Baroni, Eugenio Pesci
Pt. 2/2
Seconda parte del focus dedicato alle attività integrative utili al miglioramento della propria coscienza motoria: yoga, metodo Mézières, training autogeno, allenamento ideomotorio. Nella prima parte dell'articolo abbiamo raccontato le principali attività integrative all'arrampicata in ambito psicomotricistico e psicologico. Proseguiamo con una tavola rotonda, facendo alcune domande su queste discipline agli autori delle schede tecniche. Negli ultimi dieci anni il boom dell’arrampicata sportiva indoor ha fortemente mutato il panorama e la pratica generale della disciplina. In particolare appare evidente come gran parte dei neofiti si avvicini all’arrampicata senza avere alcuna cognizione dei rapporti fra allenamento specifico, teoria del movimento, aspetti psicologici inerenti all’arrampicata stessa. In base alla vostra
esperienza ritenete che questo tipo di conoscenze dovrebbero venire unicamente da allenatori e istruttori o ritenete che sia necessaria una autoeducazione di chi inizia a scalare seriamente, sia in palestra sia in falesia? Alberto Milani Per rispondere penso si debba partire da questo presupposto, cioè il boom che l’arrampicata ha avuto soprattutto nell’ultimo decennio e l’imporsi della pratica indoor come un qualcosa a sé stante, non più solo finalizzato allo scalare su roccia. L’arrampicata è uscita dalle cantine e dai garage, è accessibile a chiunque ed è diventata uno sport alla portata di tutti, come qualunque attività proposta in una qualunque palestra di fitness. Questo vale
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Focus anche per i più giovani: è normale vedere bambini introdotti all’arrampicata in alternativa al calcio, alla pallavolo o qualunque altro sport di massa. Questa premessa si collega alla domanda in relazione all’approccio dei nuovi praticanti. Un tempo, quando era ancora “underground”, l’arrampicata te la dovevi andare a cercare. C’erano poche palestre, pochi corsi e istruttori, spesso dovevi costruirti il tuo pannello privato e ti allenavi un po’ “a spanne”, seguendo gli arrampicatori più forti di te o le limitate indicazioni che trovavi sul poco materiale cartaceo disponibile. Per avvicinarti a questa disciplina dovevi essere predisposto, curioso, creativo, tutte caratteristiche che rendevano spontaneo ricercare nuovi metodi, strategie di allenamento, discipline alternative in qualche modo attinenti all’arrampicata, prospettive “inusuali” con cui approcciarsi ad essa. In altre parole, proprio in quanto arrampicatore, avevi una visione che già ti predisponeva a voler conoscere gli aspetti non solo metodologici ma anche culturali connessi alla scalata. Ora non è più così. Sempre più praticanti considerano l’arrampicata uno sport/attività fitness per tenersi in forma, per evadere dalla quotidianità un paio di sere a settimana, per divertirsi seguendo le lucine o i colori delle prese sotto le indicazioni di un istruttore che ti teleguida in ciò che devi fare. Le nuove palestre sono dei perfetti supermercati per questo “consumismo” e molti vogliono andarci spesso per “spegnere il cervello” e sentirsi gratificati fisicamente, con tutto già bello pronto e servito. Stop, pochi sbatti e tanto divertimento! Questa non vuole essere una critica, ma una semplice constatazione di come sia cambiato l’approccio all’arrampicata. Ovviamente, accanto a questa tipologia di praticanti, continuano a essere presenti molte persone che concepiscono l’arrampicata come un tempo, con tutta la curiosità e la voglia di conoscere che l’ha sempre caratterizzata. Tuttavia, è chiaro che non ci si può aspettare che scatti facilmente quella curiosità nel cercare quel “qualcosa in più” da chi vive l’arrampicata in modo “consumistico”, come puro passatempo. Quindi penso che spetti innanzitutto a istruttori, allenatori e gestori di sala adottare un’ottica che non sia solo commerciale ma che voglia anche diffondere la “cultura” dell’arrampicata in tutti i suoi aspetti, dalla storia alle metodologie di allenamento a tutte quelle discipline più particolari e alternative capaci di dare una prospettiva più ampia rispetto al tirare prese come scimmie. Molto probabilmente saranno in pochi a risuonare tra gli allievi… ma sempre meglio che niente! Quanto pensate che conti, nella formazione di un buon arrampicatore sportivo, la capacità di
gestire in proprio l’educazione al movimento e una cosciente valutazione dei propri limiti e delle proprie possibilità motorie e psicologiche? Ritenete che sia fondamentale, e se sì perché? Alberto Milani Ritengo che sia più che fondamentale per progredire! La chiave per il miglioramento in qualunque disciplina innanzitutto fisica è proprio l’essere coscienti e consapevoli di sé stessi, dei propri limiti, di ciò che siamo in grado di fare o non fare e da qui capire come affrontare i punti deboli per progredire. Questa capacità riguarda anche gli aspetti psicologici ed emotivi. Tuttavia, non può essere guadagnata seguendo ciecamente e passivamente le istruzioni di qualcun altro; bisogna ascoltare i suggerimenti per “percepire”, “sentire” e capire come reagiscono corpo e mente e trovare consapevolmente il modo per noi migliore di superare i limiti. Non è detto infatti che la soluzione sia la stessa per ognuno e questo l’arrampicata ce lo insegna tutti i giorni. Nonostante l’esistenza di alcuni schemi motori di base e di movimenti “fondamentali”, l’arrampicata rimarrà sempre qualcosa di variegato per l’infinità di fattori che entrano in gioco, a cui si aggiunge l’infinita varietà umana. Quindi senza l’ascolto di sé stessi e una continua presa di consapevolezza delle proprie abilità psicomotorie, prima o poi si arriverà a un punto in cui ci si fermerà al palo, non si riuscirà più a migliorare e non si sarà nemmeno in grado di capirne il perché.
Yoga Foto: Arch. Grippo
Quali pensate siano i pericoli di una preparazione basata solo ed esclusivamente sull’allenamento fisico centrato sul potenziamento della forza pura o della forza resistenza, e quindi slegato da una concezione psicomotricistica dell’arrampicata? Alberto Milani Alcuni studi scientifici che si sono focalizzati sull’arrampicata affermano che, indicativamente, il risultato finale è condizionato per un terzo dalle componenti fisiche (forza, resistenza…), per un terzo da quelle tecniche e per un terzo da quelle psicologico-mentali. Quindi questo dice già molto sul pericolo di una preparazione sbilanciata. Se lavoriamo solo su quel 30% di componenti fisiche è chiaro che anche in questo caso ci mancherà la maggior parte di quelle capacità che sono altrettanto fondamentali a determinare i nostri risultati in arrampicata. Basti pensare a quei principianti che sono già dotati di un buon livello di forza: all’inizio ottengono risultati migliori del loro amico meno dotato ma alla lunga il loro sviluppo tecnico-motorio sarà molto meno sollecitato e in pochi mesi la situazione si ribalterà! Mentre costoro sono ancora fermi a cercare di colmare serie lacune tecniche, il loro amico, che all’inizio ha
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Ideas Pensieri sottosezione random sull’arrampicata Arco Night Climb Foto: R. Felderer
Immagino che comunque non ci sia stato un vero e proprio sconvolgimento dell’alpinismo nell’ultimo secolo, più o meno come principio si fanno le stesse cose e con più sicurezza, ma, se si aumenta la difficoltà del terreno di azione, alla fine i rischi che si prendono sono sempre gli stessi. Le persone cercano sempre più sicurezza, nessuno vuole uscire di casa e rischiare di ammazzarsi, ma l’alpinismo è una delle poche cose che sfugge ancora in buona parte a questa regola: c’è chi va in montagna per allontanarsi una giornata dalla normalità, chi per pura passione e chi per qualsiasi altro motivo. Andare deliberatamente a mettersi nei casini è una delle scelte più libere che si possano fare rimanendo nei confini del socialmente accettabile, un confine che si sta stringendo sempre di più nel nome della sicurezza. Uno può partire e scegliersi il proprio percorso, magari il posto non è così importante ma la voglia di farlo sì, per questo lo spirito è rimasto lo stesso di quello dei pionieri, perché è nella natura umana voler scoprire cosa c’è intorno e farne esperienza. Se però tutti avessero l’ambizione di cercare cose nuove, il terreno a disposizione, che per quanto grande è limitato, prima o poi finirebbe. Quanto è giusto aprire nuove vie (montagna o falesia) andando a esaurire sempre più terreno per le generazioni future? Problema che nelle Alpi secondo me è già pressante,
mentre in zone più ampie come Himalaya o Patagonia si può fare ancora vera esplorazione. È questo che sarà sempre più difficile da trovare sul nostro pianeta, i terreni si stanno esaurendo velocemente. La questione successiva, che riguarda tutti invece, è quanto sia giusto viaggiare per scalare se si hanno già a disposizione posti vicino a casa. Dipende anche un po’ da dove si vive: per me ad esempio che vivo vicino alle montagne è meglio restare in zona, posso anche andare a piedi ad arrampicare e non ha molto senso spostarsi troppo. Mi chiedo solo, dato che l’arrampicata sportiva esiste da poche decine di anni ed esistono già falesie usate e abbandonate per l’usura già da diverso tempo, come sarà fra cento o duecento anni. Fortunatamente, per chi scala all’aperto, l’arrampicata sportiva è destinata a trasferirsi sempre di più al chiuso, e questa potrebbe essere almeno in parte una soluzione, ma la domanda è se abbia più senso chiodare nuovi posti per diluire l’afflusso in quelli già esistenti o se sia meglio sfruttare del tutto questi e tenere buoni quelli nuovi. Giustamente l’arrampicata sportiva si sta scollando sempre di più dalle sue origini e ha preso una direzione propria. Per molti che iniziano ora è una forma come un’altra di fitness, e per fortuna la roccia tanti non la toccheranno mai, però i numeri aumentano così rapidamente che a un certo punto le falesie semplicemente non potranno più accogliere tutti.
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Ideas Pensieri random Ideas sull’arrampicata sottosezione
L’ARRAMPICATA COME “ LA CONOSCIAMO ADESSO È
DESTINATA A SPARIRE, GLI SCALATORI SARANNO MOLTI DI PIÙ E IN MEDIA MENO PREPARATI SU COME MUOVERSI IN AMBIENTE NATURALE, QUINDI TUTTO ANDRÀ NORMATO PER EVITARE INCIDENTI, QUALCUNO DOVRÀ PRENDERSI LA RESPONSABILITÀ ANCHE PER LORO E CI SARANNO DEI COSTI DA SOSTENERE. In futuro sarà assurdo pensare a falesie senza infrastrutture dedicate (parcheggi, passerelle, bagni…), solo terra e roccia, e infatti alcune molto frequentate sono già così per limitare l’impatto degli scalatori sull’ambiente naturale: suolo, roccia, flora, fauna, acqua. Tantissime falesie sono su terreno privato e chiodate da semplici appassionati volontari, ma questo sistema non funzionerà più quando il numero degli utenti sarà troppo grande da digerire e gli interessi per alcune categorie troppo allettanti. Privati, Comuni o altri enti pubblici si sono accorti dell’arrampicata; in alcuni casi hanno aiutato lo sviluppo ma in altri casi le falesie sono state chiuse. Quello che si può e deve fare è capire questo cambiamento e non farci fregare.
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Il risultato e il processo Magic Line, 5.14c trad. Testo Hazel Findlay Traduzione Matteo Maraone
Se chiedete ai climber cosa amano dell’arrampicata, spesso parleranno di quanto sia utile per trovare i propri limiti e spostarli un po’ più in là. Ma a un certo punto del mio percorso mi sono accorta che questo limite, questo confine apparentemente netto, non può essere davvero tale: altrimenti sarebbe più facile individuarlo.
C Hazel Findlay Magic Line, 5.14c trad. Foto: J. Larcher
erto, mi sono messa diverse volte alla prova, ma ho sempre affrontato le sfide con la consapevolezza di essere in grado di venirne a capo, e una volta concluse mi sono accorta di poter scalare ancora più forte. Prima di Magic Line il mio limite non mi è mai sembrato una linea netta, una lama di rasoio, e nemmeno il ciglio di una falesia. Era più una distesa di colline, arrotondate e indefinite. O forse non lo stavo cercando con sufficiente determinazione. È stato con questo approccio mentale che mi sono
ritrovata, alla fine di novembre 2018, poco oltre la metà del MistTrail1, a Yosemite. A un centinaio di metri dalle cascate Vernal c’è un tiro trad, una sola lunghezza: è Magic Line. La fessura ha un andamento aggraziato, sinuoso: prima taglia il granito verso sinistra, per poi curvare verso destra, come l’impronta di un serpente sulla sabbia. E, come accade spesso con le cose belle, è una linea allo stesso tempo delicata e di grande impatto. Non è il solito ammasso di concrezioni calcaree. Questa linea ha classe. Al primo tentativo con la corda dall’alto sono arrivata al passo chiave, dove mi sono bloccata. Mi sentivo come nella mossa cruciale di una partita a scacchi: tutta la mia attenzione era rivolta alla ricerca di una soluzione. Riuscivo a immaginare un’intera sequenza di mosse possibili, ma nessuna era in grado di sottrarmi allo scacco. Prese per le mani, davvero poche. Appoggi per i piedi, inaffidabili. Giusto una manciata di sequenze di movimenti plausibili. Nonostante non riuscissi a scorgere una vera soluzione, mi godevo il piacere intrinseco nel cercare di piegare la logica e rendere possibile ciò che sembra impossibile. Quando sono andata via dalla falesia mi sentivo confusa. Ma forse è così che deve essere un obiettivo difficile da raggiungere. Magari rappresenta il lato migliore dell’implausibilità? Più tardi, quel giorno, la prima bufera invernale ha reclamato per sé la valle, scacciando i climber. Ho lasciato la California con in mente il sogno, forse ingenuo, di Magic Line. Un sogno
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Exploit probabilmente troppo poco realistico per potercisi dedicare a fondo, ma non impossibile al punto da doverlo dimenticare. In seguito, per via della rottura di una puleggia di un dito, non ho potuto scalare per quattro mesi.
ED ECCOMI NEL BEL MEZZO “ DELL’ALTOPIANO DELLA
MONGOLIA, CON MADELEINE COPE, LA MIA MIGLIORE AMICA. NON POTEVAMO ESSERE PIÙ LONTANE DA MAGIC LINE, SIA IN TERMINI GEOGRAFICI CHE PER LA QUALITÀ DELLA ROCCIA. «Ehi, Mads: che ne dici di allenarci tutta l’estate e provare qualcosa di duro e superfigo, come Magic Line?». Maddy ha un carattere solitamente ben disposto verso le mie proposte; e quando ha risposto «Sì», sapevo che diceva sul serio. Ho deciso quindi di dedicare l’intera estate alla preparazione fisica in vista di Magic Line. Ma da esperta di allenamento mentale ero ben consapevole che avrei dovuto migliorare anche diversi aspetti nel mio flusso di pensieri. Ho ripensato ad altri progetti: non sempre erano state esperienze gradevoli. In alcuni casi avevo lasciato che la pressione che sentivo avesse la meglio su di me. Ero diventata troppo negativa, intrappolata in un cortocircuito: volevo semplicemente che tutto fosse finito, volevo solo arrivare al “dopo”. Sapevo che se mi fossi addentrata fino alla soglia dei “miei limiti” la vera sfida sarebbe stata restare lucida, serena e accettare la sfida per quello che era, in ogni suo singolo tratto. Alla fine di ottobre del 2019 ho incontrato Maddy a Camp 4, e abbiamo risalito a piedi il MistTrail. Abbiamo salutato le cascate Vernal e abbiamo abbandonato il sentiero turistico per raggiungere la base di Magic Line: tutte le possibilità erano sul tavolo, e avevamo aspettative spumeggianti. Sono tornata alla partita a scacchi che avevo iniziato un anno prima, appesa alla corda dall’alto, ma questa volta avevo una compagna per aiutarmi a trovare delle soluzioni. Maddy ha un fisico un po’ diverso dal mio, ma siamo climber piuttosto simili, con gli stessi punti di forza e le stesse debolezze. È raro che una di noi riesca a fare più di dieci trazioni; ma abbiamo entrambe una buona tecnica di piedi, siamo snodate e abbiamo una certa abbondanza di assi nella manica, in termini di arrampicata. Magic Line è unica, soprattutto per il suo andamento. È una fessura, certo, ma non si può salire con tecniche
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BIMESTRALE DI ARRAMPICATA E ALPINISMO Marzo 2020. Anno II. Numero 7 Direttore responsabile Richard Felderer Coordinamento editoriale Eugenio Pesci Jacopo Larcher Redazione Tommaso Bacciocchi Roberto Capucciati Matteo Maraone Marco Pandocchi Damiano Sessa Copertina Alessandro "Jolly" Lamberti su Jollych, 8b+, Bronx, Grotti. Foto: © Luca Parisse Grafica Tommaso Bacciocchi
Impaginazione Stefano Vittori
Correzione di bozze Rachele Palmieri
Disegni Eugenio Pinotti
Hanno collaborato Emanuele Avolio, Angelo Baroni, Paolo Caruso, Andrea Di Bari, Richard Felderer, Hazel Findlay, Andrea Frosoni, Luca Grazzini, Chiara Iacobini, Domenico Intorre, Alessandro Lamberti, Bertrand Lemaire, Matteo Maraone, Massimo Marcheggiani, Alvise Ryuichi Mario, Samuele Mazzolini, Mirko Mercadante, Alberto Milani, Eugenio Pesci, Eugenio Pinotti, Laura Rogora, Luca Schiera, Antonella Strano, Marco Tomassini, Bruno Vitale, Stefano Vittori, Nando Zanchetta Versante Sud Srl Via Longhi, 10 – 20137 Milano tel. +39 02 7490163 versantesud@versantesud.it info@up–climbing.com © Matteo Della Bordella
Abbonamenti e arretrati www.versantesud.it Stampa Mediaprint srl – San Giovanni Lupatoto (VR) Distribuzione per l’Italia PRESS-DI-Distribuzione stampa e multimedia s.r.l. via Mondadori 1 – 20090 Segrate (MI) – Tel. 02 75421
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© Versante Sud 2020 Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione totale o parziale del contenuto della pubblicazione senza autorizzazione dell’editore. Registrazione al Tribunale di Milano n. 58 del 27/02/2019
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