UP CLIMBING #12 - GUGLIE, MONOLITI e CAMPANILI

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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. Aut. n° MBPA/LO-NO/048/A.P./2019 Periodico Roc -NE/VR

in edicola il 20 maggio 2021

#12 | mag/giu 2021 8.00 €

EDIZIONI VERSANTE SUD

STORIA DI COPERTINA La principessa delle candele del Bianco / Père Eternel / La Torre delle Giavine / Ihla v Patrii, Monti Tatra / Meteore / Il Cavall Bernat / Torre di Uli Biaho / Parmakkaya, Turchia / Sigaro Dones / Torrione del Cinquantenario / Usa Magic Towers / Torre Egger / Pedra Longa / Rocca dell’Aia / Miroglio 2 / Uia di Santa Lucia / Campanile di Brabante / Il Dillosauro / La Gusèla del Vescovà / Torri del Tigray, Etiopia / Old man of Stoer Personaggi: Wafaa Amer, vertical passion / Alessio Gazzetto ITW La rubrica della Ming: Il lato positivo Il graffio: Chiodature: libro secondo Vertical Tales: Home Run Jollypower: Si pensa con il corpo, non solo con la mente

BIMESTRALE DI ARRAMPICATA E ALPINISMO

GUGLIE, MONOLITI E CAMPANILI


Sommario 004 Editoriale di Eugenio Pesci e Richard Felderer 006 Quando a drizzarsi è la roccia! di Franco Brevini

STORIA DI COPERTINA

066 Miroglio 2 palestra Gianni Comino di Fabrizio Rossi 070 Uia di Santa Lucia, Piemonte di Fabrizio Rossi

018 La principessa delle candele del Bianco di Federica Mingolla

072 Campanile di Brabante 2252m, Monte Civetta di Manrico Dell’Agnola

024 Père Eternel, 3224m, Monte Bianco di Filip Babicz

080 Il Dillosauro di Richard Felderer

026 La Torre delle Giavine di Davide Borelli

084 La Gusèla del Vescovà 2365, Schiara, Dolomiti di Manrico Dell’Agnola

030 Ihla v Patrii, Monti Tatra di Filip Babicz

088 Torri del Tigray, Etiopia di James Pearson

032 Meteore, salendo sulla Torre dello Spirito Santo Arrampicarsi nei nostri sogni di Georgis Milias

094 Old man of Stoer Highlands, Scozia di Maurizio Oviglia

036 Il Cavall Bernat Montserrat, Spagna di Sasha Cegarra 040 Torre di Uli Biaho 6109m, Karakorum, Pakistan di Matteo Della Bordella 044 Parmakkaya, 2880m, Ala Daglar, Turchia di Maurizio Oviglia 048 Sigaro Dones 1980m, Grigna meridionale di Eugenio Pesci 052 Torrione del Cinquantenario 1743m, Grigna meridionale di Eugenio Pesci 054 Usa Magic Towers di Andrea Sommaruga 058 Torre Egger 2685m, Patagonia di Matteo Della Bordella 062 Pedra Longa, Sardegna Marinaio di Foresta di Richard Felderer 064 Rocca dell’Aia di Fabrizio Rossi

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PERSONAGGI

100 Wafaa Amer Vertical Passion a cura di Eugenio Pesci 106 Alessio Gazzetto ITW Un 8a molto speciale a cura di Eugenio Pesci

LA RUBRICA DELLA MING

108 Il lato positivo di Federica Mingolla

IL GRAFFIO

112 Chiodature: Libro secondo di Richard Felderer

VERTICAL TALES

114 Home Run di Alessio Conz

JOLLYPOWER

116 Si pensa con il corpo, non solo con la mente di Alessandro Lamberti

VETRINA

118 Proposte prodotti



Editoriale Testo  Eugenio Pesci e Richard Felderer

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a conformazione geologica delle montagne può essere interpretata in vari modi. Su questo spinoso argomento avevano già riflettuto Leonardo da Vinci agli inizi del XVI secolo e il celebre viaggiatore e teologo inglese Thomas Burnet a metà del secolo successivo. I due avevano un’opinione comune: che le montagne nascondessero il segreto minerale della nascita del pianeta. Se questa idea è evidente nei quadri di Leonardo, ritorna con tono scientifico negli scritti di Burnet che, reduce da un viaggio sulle Alpi, descrive le montagne come un caos originario, pieno di spuntoni, guglie e torri varie. Un vero e assoluto disordine. Da un lato, nella storia dell’immaginario delle montagne, l’Occidente, ma anche un po’ l’Oriente, hanno spesso identificato il cuore delle vette nelle distese glaciali e nelle nevi scintillanti ma, per opposizione, proprio al centro di quell’immaginario troviamo le “strane rocce” di forma turrita, rettilinea, contorta, tuttavia sempre slanciate ed impressive, che sorgono qua e là solitarie o riunite in famiglia, come aghi piantati sulla pelle del pianeta. Ed allo stesso modo l’alpinismo, accanto a regolari e resistenti salitori di ghiacciai e di pendii slavinosi, ha prodotto anche una seconda genia di spericolati e ginnici esploratori e cacciatori di pinnacoli di ogni tipo. Questa è fra i rocciatori quasi una razza a sé stante, pronta a scattare, con i cuoricini negli occhi, alla vista di ogni protuberanza verticale passibile di essere scalata librandosi al massimo grado nel vuoto, quasi nell’azzurro del cielo. Scalatori celesti, per una celeste nostalgia.

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A questi temi, curiosamente riuniti in un festival verticale costituito da rocce di ogni tipo, è dedicata la sezione monografica di questo numero di Up Climbing. Strutture che si prestano a considerazioni varie, che spaziano dall’erotico all’eroico, spingendo le suggestioni e i simbolismi verso gli ancestrali miti dell’altezza, delle dimore degli dei, della dialettica dei quattro elementi, per giungere infine alla ormai non più recente psicoanalisi freudiana. Ogni struttura è legata a una via, simbolo di questa relativa mania delle iper-vette, da quelle un po’ più comode e spaziose, a quelle ove si può stare solo in piedi in precario equilibrio, cercando di non precipitare verso la piatta terra. Dalle Alpi agli Stati Uniti, dalla Scozia alla Grecia, dall’Etiopia alla Spagna… Guglie, torri, campanili, aghi e candele si salutano qui chiamandosi per nome e raccontando la loro storia, minerale e umana, ma sempre molto esposta e verticale. Volutamente, abbiamo trascurato alcuni dei massimi esponenti di queste dinastie, per ragioni di spazio e di storie già note, ma abbiamo cercato di ovviare, mostrando almeno la loro immagine nella galleria iniziale. UP Climbing, inoltre, compie con questo numero due anni di vita: una gran bella avventura che continua, arricchendosi di temi, idee, luoghi e personaggi, attraverso gli scritti e le fotografie di tanti entusiasti autori e amici che hanno collaborato con noi dal primo numero uscito due anni fa. A loro, che ci teniamo particolarmente a ricordare nella pagina qui a fianco, e a tutti i lettori, va il nostro più sincero ringraziamento!


From climbers to climbers Quando si affronta una parete impegnativa, un blocco estremo o una cima inesplorata, la preparazione, l’impegno e la motivazione devono essere sempre altissimi. Proprio con questo approccio, due anni fa abbiamo dato vita ad Up Climbing, animati dalla voglia di coinvolgere appassionati, grandi interpreti e principianti dell’arrampicata, in un progetto che oggi, con 12 numeri tematici e due annuari da collezione, è diventato un appuntamento immancabile per tanti lettori. Inutile dire che tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’entusiasmo, la disponibilità e la competenza che tanti climbers hanno offerto alla nostra redazione, permettendoci di entusiasmare i climbers che attendono ogni due mesi una nuova uscita e che vogliamo ringraziare ancora una volta per averci portato a questo traguardo. In ordine strettamente alfabetico hanno scalato per noi, in apertura, Miriam Aloisio, Pat Ament, Luca Andreozzi, Roni Andres, Miquel Angel Apesteguia, Francesco Arbi, Andrea “Rouge” Armani, Emanuele Avolio, Sara Avoscan, Filip Babicz, Angelo Baroni, Gianfranco Bassani, Francesco Bassetti, Davide Battistella, Alessandro Baù, Lia Beltrami, Francesca Berardo, Josune Bereziartu, Marco Bernardi, Luca Bevilacqua, Marco Bigatti, Toni Bonet, Davide Borelli, Oreste Bottiglieri, Franco Brevini, Mara Budgen, Francesco Burattini, Pietro Buzzoni, Carlo Caccia, Fabrizio Calebasso, Mauro Calibani, Enrico Camanni, Oscar Cano, Matteo Cappa, Massimo Cappuccio, Nina Caprez, Paolo Caruso, Davide Catalano, Sasha Cegarra, Niky Ceria, Caroline Ciavaldini, Antonella Cicogna, Guido Colombetti, Claudia Colonia, Comune di Dorgali, Giorgio Confalonieri, Alessio Conz, Christian Core, Simone Corte Pause, Gianguido Dalfovo, Pietro Dal Prà, Stephanie Davis, Lorenzo De Bonis, Matteo Della Bordella, Manrico Dell’Agnola, Catherine Destivelle, Andrea Di Bari, Lena Drapella, Łukasz Dudek, Angy Eiter, Simone Enei, Robyn Erbesfield, Richard Felderer, Daniela Feroleto, Tazio Ferrari, Diego Filippi, Hazel Findlay, Andrea Frosoni, Lorenzo Frusteri, Andrea Gallo, Pietro Garanzini, Giuseppe Garippa, Janja Garnbret, Alberto Gibelli, Simon Gietl, John Gill, Maurizio Giordani, Alberto Gnerro, Alessandro Gogna, Walter Goller, Dmitry Golovchenko, Mathieu Goradesky, Luca Grazzini, Sara Grippo, Grivel, Giovanni Groaz, Michele Guerrini, Christoph Hainz, Margo Hayes, Ramón Hernández, Lynn Hill, Chiara Iacobini, Domenico Intorre, Luisa Iovane, Beat Kammerlander, Jan Kares, Davide Lagomarsino, Alessandro “Jolly” Lamberti, Fabio Lasagni, Enzo Lecis, Bertrand Lemaire, Chris Lepori, Marco Manfredini, Filippo Manca, Ugo Manera, Alessandro Manini, Matteo Maraone, Massimo Marcheggiani, Stella Marchisio, Heinz Mariacher, Alvise Ryuichi Mario, Manel Marquès, Luca Maspes, Jacek Matuszek, Samuele Mazzolini, Mirko Mercadante, Vittorio Messini, Andrea Migliano, Claudio Migliorini, Alberto “Albertaccia” Milani, Georgis Milias, Federica Mingolla, Giuseppe “Popi” Miotti, Alziro Molin, Uta Molin, Graziano Montel, Claudia Mura, Cristian Muscelli, Lorenzo Nadali, Marzio Nardi, Sandro Neri, Maurizio Oviglia, Vincenzo Pagnoncelli, Alberto Paleari, Antonio Palermi, Fabio Palma, Marco Pandocchi, Paolo Panzeri, Luca Parisse, Matteo Pasquetto, James Pearson, Simone Pedeferri, Edoardo Pedersini, Emanuele Pellizzari, Korra Pesce, Eugenio Pesci, Francesco Piacenza, Florence Pinet, Eugenio Pinotti, Francesco Poderini, Sam Porter, Emilio Previtali, Claudio Regazzoni, Daniel Rogger, Laura Rogora, Marcello Romagnoli, Marco Romelli, Fabrizio Rossi, Roberto Rossi, Dario Rota, Félix Sanchez, Nicola Sartori, Paolo Sartori, Severino Scassa, Piotr Schab, Martina Scheichl, Luca Schiera, Marco Scolaris, Davide Scornavacca, Enrico Serino, Andrea Sommaruga, Anna Stoehr, Antonella Strano, Dino Sturman, Eric Švab, Ignazio Tantillo, Aleksandra Taistra, Aris Theodoropoulos, Marco “Thomas“ Tomassini, Nicola Tondini, Mattia Vacca, Raffaella Valsecchi, Siebe Vanhee, Fabiano Ventura, Mirjam Verbeek, Roberto Vigiani, Sean Villanueva O’Driscoll, Bruno Vitale, Stefano Vittori, Alex Walpoth, Alfredo Webber, Nando Zanchetta, Barbara “Babsi” Zangerl, Maurizio “Manolo” Zanolla;

alla sicura (con un occhio alla macchina fotografica), A. Albicini, R. Alpigno, José Alvarez, Pat Ament, E. Anderson, Luca Andreozzi, S. Andriani, G. Antoniali, Roni Andres, Alice Arata, Roberto Armando, Baker Armstrong, G. Babbi, F. Babicz, Krysztof Babicz, Niccolò Balducci, A. Balley, Hervé Barmasse, Gianni Battimelli, L. Beccaria, Elisabetta Belmonte, Laura Benaglia, Pablo Benedito, G. Bergamaschi, P. Bergamaschi, Alessandro Bernardi, Matteo Bertolotti, Gianmario Besana, Marco Bigatti, Edoardo Bocchio Vega, P. Bongioanni, Robert Bosch, Boulderclassics, R. Bovard, H. Briscoe, B. Budel, M. Buso, P. Buzzoni, Giampaolo Calzà, F. Camillucci, J. Canyi, Roger Cararach, Tommaso Cardelli, L. Carmosino, Adriano Carnati, Davide Carrari, Valerio Casari, Marco Casi, Andrea Cattaneo, S. Cegarra, Lino Celva, Stephanie Chappaz, P. Chiesa, Jmmy Chin, E. Ciancarelli, Caroline Ciavaldini, G. Cignitti, J. F. Clemence, Elena Congia, Paolo Contini, G. Contini, A. Conz, M. Cramerotti, Mario Curnis, Andrea D’Addazio, Klaus Dall’Orto, D. Dal Mas, G. Danieli, N. Degasparis, Fabrizio Defrancesco, M. Degani, Carlos De la Fuente, M. Della Bordella, M. Dell’Agnola, Ray Demsky, Piotrek Deska, Silvano De Zaiacomo, A. Di Felice, Lorenzo Dignani, Raffaele Dinoia, Federico D’Isep, Marco Dragone, Lena Drapella, Kieran Duncan, Leonardo Dutto, Archivio E9, Robyn Erbesfield, Massimiliano Fabrizi, Simone Faldella, Roberto Fantozzi, Vittorio Fara, Richard Felderer, Daniela Feroleto, Tazio Ferrari, Benedetta Filippi, Fototonina, Eddie Fowke, A. Frosoni, M. Fumagalli, Ludovica Galeazzi, Marco Galli, Renato Gamba, Alessio Gazzetto, Leonardo Gheza, Stefano Ghisolfi, Lora Gill, Richard Goldstone, Sara Grippo, S. Jomoto, Odei Guirado Lopez, Scott Hailstone, Christoph Hainz, M. Hanslmayr/Red Bull Content Pool, Gerhard Horhager, Marco Iacono, Cristiano Iurisci, Marcus Ixmeier, F. Jacoacci, Wojtek Kozakiewicz, Franck Kretschmann, Hannes Kutza, Stefania Lovera, Luca Lozza, Read Macadam, Cleveland McCarty, Germana Maiolatesi, Massimo Malpezzi, Cameron Maier, J. Mair/ Alpsolut Transitions, Mario Manica, Fabrizio Manoni , Stella Marchisio, P. Marelli/Lagart, Evelina Mariani, Alessandro Marrocchi, Marco Marrosu, Sergio Martini, P. Masa, Ilaria Mattivi, Michael Meisl, Simone Mereu, F. Mich, T. Milias, Federica Mingolla, G. Mionske, Matteo Mocellin, E. Montanaro, Jerry Moffat, Franco Nicolini, Jan Novak, A. Nunziata, Miroslaw Ondra, Alberto Orlandi, R. Otegi, Maurizio Oviglia, Sara Oviglia, Yuri Palma, M. Pang, Luca Parisse, Andrea Parodi, Matteo Pavana, Roberto Pe, James Pearson, Maurizio Pellizzon, J. Perez Lopez Trivino/Red Bull Content Pool, A. Perrone, Eugenio Pesci, Gianni Plescia, Francesco Piacenza, Fabio Piccioni, Simone Piera, Lorenzo Poli, Emanuele Pontecorvo, Titus Prinoth, Ben Pritchard, Ivo Rabanser, L. Ravanel, Federico Ravassard, Judy Rearick, Michela Righi, Michael Ritter, Paul Robinson, Daniel Rogger, Stefano Romanucci, Fabrizio Rossi, J. Ruiz, Paolo Sartori, P. Savall, Alessio Scarlattini, M. Schaefer, Patrick Schwienbacher, Riccardo Scotti, Vittorio Sella/fondazione Sella ONLUS, A. Siadak, Narci Simion, Alfredo Smargiassi, A. Sommaruga, S. Staffetta, Marco Stavole, S. Steinberger, Heinz Steinkoetter, Bogna Sudolska, Kevin Takashi Smith, S. Tagliaferri, A. Theodoropoulos, Gianfranco Tomio, Lucio Tonina, P. Tournaire, C. Treadway, Mattia Vacca, Geremia Vergoni, M. Vettorato, Petr Vicha, S. Vidic/ Red Bull Content Pool, Beth Wald, Heiko Wilhelm, K. Wright, Hainz Zak, P. Zamolo, Roberto Zampino, H. Zanetti, Ivano Zanetti, Matteo Zanga , Luca Zardini, Claudia Ziegler, S. Zolli, Pier Giorgio Zuccaro.

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Quando a drizzarsi è la roccia! Testo  Franco Brevini*

C

’è un tipo di destinazioni alpinistiche che svettano nell’allegro culto di Priapo. Sparsi ai quattro angoli delle Alpi o del globo, torri, campanili, denti, guglie, sono tutti accomunati dal loro protervorizzarsi verso l’alto, con una simbologia che rientra a pieno titolo nell’immaginario fondativo dell’alpinismo, ma che a qualcuno potrà evocare associazioni meno nobilmente maliziose. E, siccome, per dirla con un dimenticato e forse rimpianto statista, a pensare male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca, anche in questo caso non c’è bisogno di evocare imbarazzanti lapsus freudiani per riconoscere in quelle bizzarre creazioni della natura degli osceni emblemi fallici, degni di figurare nel repertorio delle più accreditate mitologie della fertilità. L’aggettivo fallocratico ha goduto di una trista fortuna qualche decennio fa, quando l’ondata dei Nuovi Mattini stava sdoganando meno erettili stili

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di arrampicata. Sul banco degli imputati finì allora un’intera stagione dell’alpinismo, che aveva fatto dello slancio virile verso le dentate scintillanti vette il corrispettivo di quella logica di dominio, imposizione e conquista, che governava la cultura otto-novecentesca. Non per nulla il lessico di quell’alpinismo soggiogatorio era mutuato dal vocabolario militare: attacco, assalto, ritirata, lotta, conquista e così via. Oggi i toni si sono abbassati, l’arrampicata ha assunto movenze diverse, che a qualcuno potranno evocare l’esplorazione del corpo femminile, a qualcun altro la stessa gestualità dell’altra metà del cielo. Nonostante il rigurgito di machismo muscolare dell’ultimo trend della scalata sportiva su strapiombo, è nell’intera società che le azioni del maschile sono in franante ribasso. Ma forse, proprio grazie a questo, possiamo oggi rivolgerci a queste prorompenti mete arrampicatorie con meno enfasi trionfalistica,


vedendole solo come strabilianti risultati estetici messi a punto da un millenario lavorio geologico. E, per cominciare, potremmo osservare che in torri e guglie le logiche di formazione delle montagne sembrano attive alla loro massima potenza. Ci ricordano con l’evidenza impositiva del loro slancio che le vette si sono formate nei modi in cui opera anche la scultura: togliendo ciò che era di troppo. Quei miracoli rocciosi affidati a una statica da capogiro, dove la geologia sembra confinare con la follia – «grido di pietra» è stato battezzato uno di essi, con un enfatico scivolone un po’ Sturm und Drang –, non sono quasi mai le cime più alte. I punti di forza di questi imprevedibili edifici gotici sono altri. Piuttosto che con la quota, la loro sfida si gioca sulla stravaganza, sulle linee implacabilmente perfette, sul vuoto che quei totem hanno saputo fare intorno a loro. Naturale che magnetizzassero assai precocemente gli sguardi degli esploratori del pianeta verticale,

schiacciati da livelli di difficoltà che ci sarebbero volute due o tre generazioni, non si dice per superare, ma anche solo per affrontare. Ma su quelle rocce levigate e ariose, fossero il Dente del Gigante, il Campanile Basso, la Torre Egger o l’Aguja, si decideva la scommessa del nuovo alpinismo irriverentemente sportivo. Forse è l’oltranza di questo aereo gioco a rinnovare ancora oggi il fascino della scalata su questi giganteschi menhir. O forse in gioco c’è qualcosa di più misterioso, che affonda le sue radici nei misteri della pietra e del cosmo. Che l’alpinismo abbia a che fare con la geomanzia?

Gugliopoli Il versante SW della Grigna Meridionale, con lo storico rifugio Rosalba e una famiglia di torri minori, verso il Sasso Cavallo. Foto: I. Zanetti

* Franco Brevini insegna Letteratura italiana presso l'Università degli Studi di Bergamo. Alpinista, scrittore e giornalista per il Corriere della Sera, è fra i maggiori esperti italiani di storia e cultura delle montagne.

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Portfolio

Drone artistico Il Campanile di Val Montanaia. Foto: M. Dell’Agnola

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Portfolio

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La principessa delle candele del

Bianco

Testo  Federica Mingolla

Federica Mingolla, La vendetta del caduto, Chandelle du Tacul. Foto: Arch. Mingolla

La Chandelle du Tacul è un torrione di roccia compatta slanciato ed elegante, che si alza al bordo del ghiacciaio fra le basi del Clocher e del Trident du Tacul. Si trova in corrispondenza e a Sud del Petit Clocher, col quale è collegato da un’aerea cresta rocciosa. Tutto attorno si alzano pareti verticali di bel granito giallastro: ambiente fantastico, soleggiato e protetto, ideale per l’arrampicata. 19


Storia La principessa delle candele del Bianco

I

l nome (Chandelle, candela) deriva dalla sua forma stretta e allungata ed è solo una delle guglie granitiche che si affacciano al Cirque du Maudit, alcune già nominate poco prima e altre come il Capucin e il Pic Adolphe Rey con cui insieme formano i Satelliti del Mont Blanc du Tacul. Un vero e proprio paradiso per l’arrampicata per i tempi che corrono, dove lo spit è diventato sovrano e la nuova Skyway ha reso il Massiccio del Bianco più prêt-à-porter per tutti coloro che vogliono fare soprattutto delle uscite in giornata. I Satelliti ora sono visti come un’ottima scuola con cui confrontarsi in preparazione a salite più alpinistiche. Proprio per questo, non sono più un posto in cui cercare la vera e propria avventura esplorativa, ma un tempo che cosa rappresentavano per gli alpinisti?

LA CHANDELLE FU SALITA “ PER LA PRIMA VOLTA DA WALTER

BONATTI NEL 1960, FINO A QUELL’ANNO ERA RIMASTA INVIOLATA NONOSTANTE LA BELLEZZA DELL’AMBIENTE E L’OTTIMA QUALITÀ DELLA ROCCIA. Tra le imprese alpinistiche rimaste celebri molte sono da attribuire all’eclettica attività di Walter Bonatti, soprattutto nei quindici anni che vanno dal 1949 al 1956, quando fece parlare tutte le riviste specializzate delle sue ascensioni d’avanguardia con le quali apriva vie e superava problemi che sarebbero stati inconcepibili per la generazione precedente. Bonatti rivestì infatti il ruolo dell’innovatore, dell’alpinista in anticipo sui tempi destinato a costituire l’esempio, il capostipite di un filone. Nel periodo di fermento dell’immediato dopoguerra Bonatti, per la concezione e il modo di realizzare le vie nuove, si impose come il miglior alpinista della sua generazione. Le imprese da lui realizzate, spesso calcolate fin nei minimi particolari, costituivano lo specchio del suo stato emotivo: a 21 anni, nel 1951, ormai padrone delle tecniche di progressione in artificiale, diede inizio ad una nuova epoca per l’alpinismo nelle Alpi Occidentali, con la salita della parete est del Grand Capucin in compagnia di Luciano Ghigo; tre giorni di arrampicata e l’applicazione sistematica della progressione da chiodo a chiodo permisero di raggiungere la cuspide di questa stupenda freccia di granito, elevandola a simbolo dell’arrampicata moderna. Tre anni dopo si compiva la spedizione al K2, dove Bonatti, pur non raggiungendo la cima, diede prova di un’integrità fisica eccezionale.


Storia La principessa delle candele del Bianco Slanciata... La parte superiore della Chandelle. Foto: R. Felderer

Eppure l’amarezza dell’insuccesso lo indusse a mettere in discussione ogni valore in cui precedentemente aveva creduto, fino a convincerlo della necessità di portare a termine in solitaria un’impresa incredibile: il Pilastro Sud-Ovest del Petit Dru. Con questa ascensione Bonatti realizzò il meglio di se stesso, regalando alla storia dell’alpinismo una delle avventure più complete.

Francesco Civra Dano su La vendetta del caduto, Chandelle du Tacul. Foto: F. Mingolla

ORA, PER UN ALPINISTA “ ABITUATO A TALI TRAGUARDI,

CHE COSA POTEVA SIGNIFICARE LA SCALATA DI UN MONOLITO COME LA CHANDELLE?

Innanzitutto il fatto che la guglia non era mai stata salita da essere umano e conservava intatto il suo fascino misterioso, in secondo luogo la bellezza delle linee verticali, pure ed essenziali, e la roccia: un granito splendido sul quale si può provare solo piacere ad arrampicare. Non va dimenticato infine che queste guglie slanciate, le torri e i monoliti esercitano da sempre sull’uomo un forte stimolo alla conquista, coinvolgendo anche un fuoriclasse come Bonatti. Sebbene la salita della Chandelle non abbia contribuito ad aumentare la notorietà di un Walter Bonatti in fondo già famoso, rappresenta pur sempre un’affermazione professionale notevole. Attualmente molti aspetti dell’alpinismo sono cambiati: è in voga l’arrampicata sportiva, cioè la ricerca di un problema tecnico da risolvere nel modo più elegante e pulito, escludendo l’uso di ogni mezzo artificiale. Si arrampica senza zaino, leggeri, calzando le scarpette; la misura del vuoto prende il suo giusto valore, gli appigli si manifestano laddove una volta sembrava tutto liscio, il granito si erge elegante e accessibile grazie alle nuove protezioni veloci in commercio: i friends. Le fessure diventano la nuova frontiera grazie all’uso dei friends e il granito non tiene più segreti per gli arrampicatori della nuova generazione. Sospesi tra cielo e neve, ci si guarda attorno alla ricerca di nuove linee, sulla Chandelle in particolare non ne si vedono più dal lontano 1990. La scorsa estate, grazie alla guida alpina Francesco Civra Dano, questo è stato di nuovo possibile, facendosi strada sulle sottilissime fessure rimaste inesplorate della Chandelle e affrontando con occhio esperto le sue placche lisce. Una visione straordinaria su una guglia che era in realtà sotto gli occhi di tutti.

Come hai scoperto questa nuova linea, qual è stato il colpo di fulmine che ti ha finalmente fatto posare gli occhi su di lei? «La Chandelle probabilmente agli occhi di molti si considerava esaurita: la vedi lì piccola con le sue pareti limitate e pensi che non ci sia più niente da aprire se non qualcosa di estremamente difficile, come tutti gli itinerari che si sviluppano sulle pareti più lisce di granito verticale. A me l’idea di aprire delle nuove linee forzandole per non farle intersecare con altre già esistenti non mi interessava, piuttosto ho sempre preferito andare a ripetere delle vie già aperte, poco ripetute, se non addirittura abbandonate per provare a scalarle in libera e rispolverarle dai loro anni. Mi è capitato di passare sotto alla Chandelle diverse volte, sia con i clienti che da solo nei miei giri di perlustrazione e un giorno passando di lì ho visto una corda fissa che penzolava da un punto a circa 40 metri da terra. Subito non avevo capito bene da dove arrivasse, pensavo fosse una corda di un soccorso abbandonata oppure di qualche errore di calata come spesso accade su queste pareti più frequentate. Ho preferito comunque fare delle foto per poterle rivedere meglio a casa e zoomando bene dal computer ho poi capito che quella corda fissa era un tentativo di apertura di questa nuova linea che ho poi invece chiodato io. Una linea tra l’altro logica che segue quasi sempre fessure indipendenti che non intersecano mai gli altri itinerari presenti se non negli ultimi 10 metri di via che sono in comune con la Bonatti».

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Storia

Père Eternel, 3224m, Monte Bianco Testo  Filip Babicz

Il “Padre eterno” visto da W con la Via della pertica (in giallo), It will be forever (in rosso) e con lo spigolo SSW (in verde). Foto: F. Babicz

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ère Eternel è una guglia di granito, tra le più importanti e ricche di storia dell’intero massiccio del Monte Bianco. Deve la sua fama anche alla posizione centrale ben visibile da Courmayeur. Situata nella cresta Nord dell’Aiguille de la Brenva a quota 3224 m, può essere facilmente ammirata dalla vetta di Punta Helbronner, raggiungibile con la modernissima funivia Skyway che costituisce uno dei belvederi migliori sulla guglia. Ma l’interesse degli alpinisti per questi 40 metri di granito slanciato verso il cielo è nato molto prima della costruzione della funivia: per anni Père Eternel, chiamato precedentemente Le Capucin de la Brenva, dopo numerosi tentativi effettuati dalle guide di Courmayeur fu ritenuto impossibile da salire. Fu scalato per la prima volta nel 1927 grazie ad una tecnica ingegnosa: l’utilizzo di una pertica di legno lunga cinque metri, presa in un fienile di Dolonne. I maestri dell’opera furono quattro portatori di Courmayeur, soprannominati “La Banda dei Quattro”: Laurent Grivel, Arturo e Osvaldo Ottoz, Albino Pennard. L’ideatore della salita, con la testa da tempo rivolta a trovare la via d’accesso a quel “grosso pollice di granito inaccessibile” fu Arturo. La soluzione tecnica fu trovata da Laurent che nella forgia del padre realizzò il materiale necessario. Una volta sul posto i quattro alpinisti fissarono i chiodi nel legno, piantarono le staffe nella roccia e infine infilarono la base del palo nelle staffe. Il primo ad arrampicarsi sulla pertica fu Arturo. Il bastone risultò abbastanza lungo e sufficientemente robusto. Arturo salì, si mise in sicurezza e assicurò i tre compagni. Era fatta! I quattro portarono con sé una piccola bandiera di latta ben lucida con scritti i loro nomi e la data. La fissarono in cima dove i raggi del sole riflettendosi annunciarono a tutto il paese la loro impresa! Da allora la guglia è stata scalata numerose volte grazie alla pertica, che da quasi 100 anni permette agli alpinisti di posare il proprio piede in cima al Padre Eterno! Una via alternativa al percorso dei primi salitori è stata aperta nel 1942. Con un massiccio utilizzo delle tecniche artificiali di progressione Emilio Carlini, Isidoro De Lazzer e Arno De Monte aprirono un’audace scalata lungo lo spigolo SSW incontrando le difficoltà A1, con qualche passaggio in libera che raggiungeva il sesto grado. Un approccio in chiave moderna al Père Eternel è stato inaugurato nel 2004 da Arnaud Clavel e Mario Mochet. Al posto dei percorsi tradizionali di avvicinamento al monolito, molto lunghi e/o esposti eccessivamente alla caduta dei sassi, le due guide hanno optato per un itinerario più tecnico ma allo stesso tempo più sicuro e divertente. La via in questione si snoda lungo la parete Est dell’Aiguille de la Brenva e in otto lunghezze di corda con difficoltà fino al 6a conduce alla Brèche du Père Eternel, dove si incontra con l’itinerario originale. Questa via è stata aperta in omaggio a Papa Wojtyła e chiamata Giovanni Paolo II.


Storia Père Eternel Monte Bianco Filip Babicz in cima al Père Eternel. Foto: P. Bergamaschi

Successivamente, nel 2017, lo stesso Arnaud Clavel in compagnia di Pietro Picco ha chiodato a spit e liberato la via dello spigolo SSW aperto nel 1942. In questo modo, 90 anni dopo la prima conquista del Père Eternel, la sua vetta è stata raggiunta per la prima volta esclusivamente con la scalata libera senza mezzi artificiali per la progressione, superando difficoltà di 6b+. Un ulteriore tassello dell’esplorazione del Padre Eterno valdostano è stato aggiunto un mese dopo da me e Paolo Bergamaschi. Abbiamo chiodato una nuova via sulla parete Ovest, in mezzo ai due itinerari storici. La novità, di nome It will be forever, è una scalata entusiasmante sulle placche di granito giallastro. Le difficoltà sono decisamente maggiori e raggiungono il 7b con una ciliegina sulla torta: un passo chiave molto delicato appena sotto la vetta... una grande esposizione garantita! Ciò che però mi incuriosiva da tempo era il percorso dei primi salitori e la mitica pertica: «da anni mi chiedevo se il passaggio chiave, fino ad allora superato sempre con ausilio del bastone di legno, fosse scalabile in libera».

DOPO L’APERTURA DELLA VIA “ IT WILL BE FOREVER HO PROVATO

IL PERCORSO CLASSICO SENZA PERÒ MAI TOCCARE LA PERTICA. HO DOVUTO FARE UN PO’ DI ACROBAZIE DATO CHE LE PRESE SI TROVAVANO IN PARTE A DESTRA E IN PARTE A SINISTRA DEL BASTONE ISSATO IN PARETE, MA CE L’HO FATTA!

Ho arrampicato la via dei primi salitori a vista e completamente in libera, sfruttando i vecchi chiodi da mina solo per l’assicurazione. A mio parere l’itinerario originale scalato in questo modo potrebbe raggiungere il grado di 6c+». ACCESSO Dalla stazione intermedia della funivia Skyway al Pavillon, prendere il sentiero per il Belvedere della Brenva. Dopo aver superato il primo tratto che costeggia il pendio, iniziare ad alzarsi per prati e pietraie in direzione dell’evidente Ghiacciaio d’Entrèves. Risalire il ghiacciaio fin sotto la verticale della Brèche du Père Eternel, dove i primi spit indicheranno l’attacco della via Giovanni Paolo II. I primi tre tiri sono verticali e portano ad una fascia di parete appoggiata. I seguenti due si svolgono in obliquo verso destra e portano sotto la parete finale sotto la Brèche. Infine le ultime tre lunghezze, ancora abbastanza sostenute, portano alla base del monolito finale. A questo punto optare per uno dei tre itinerari tracciati: Spigolo SSW (6b+, in verde), It will be forever (7b, in rosso) oppure per la via Normale “della pertica” (5c e A0, in libera 6c+, in giallo).

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La parete Est della Torre di Uli Biaho, la via americana passa a sinistra del diedro centrale. Foto: M. Della Bordella

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Storia

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Torre di Uli Biaho 6109m

Karakorum, Pakistan Testo  Matteo Della Bordella

«Questa salita significa molto per me. Ma potrò ancora scalare i 5.12 senza le dita dei piedi?» «Rilassati Ron», rispose John. «Adesso torniamo giù al nostro bivacco, domattina ri-scaliamo questi tiri ed arriviamo in cima» The obvious line: Uli Biaho, di John Roskelley, American Alpine Journal, 1980

ono queste le parole che precedono il giorno in cui quattro alpinisti americani (John Roskelley, Kim Schmitz, Bill Forrest e la star dell’arrampicata di Yosemite Ron Kauk) mettono, per primi nella storia, i piedi sulla cima della Torre di Uli Biaho (6109 m), nel 1979. Una salita che segue una linea logicissima («obvious line», la definì Roskelley), nel bel mezzo della parete Est, dieci bivacchi in amaca per 1200 m di parete, dove le principali difficoltà non sono state solo quelle tecniche (6b e A4) e ambientali, ma anche i pericoli oggettivi legati all’esposto canalone di accesso. Nell’estate del 1987, sul trekking di rientro dalla salita del Gasherbrum II (8035 m), le linee sinuose, l’esposizione soliva e le poche informazioni disponibili sulla Torre di Uli Biaho, stimolano la fantasia e la voglia di avventura di Maurizio Giordani, il quale, l’estate successiva, decide di tornare in Karakorum, con l’obiettivo di tracciare una via sul Pilastro Sud di questa montagna. Con lui ci sono Maurizio Venzo, Kurt Walde e la compagna Rosanna Manfrini. Il quartetto scopre un avvicinamento meno diretto rispetto al canalone degli Americani, ma più lungo e molto complesso, ed in due giorni di arrampicata traccia un elegante itinerario di 800 m sul pilastro Sud. Maurizio, che non ha ancora trent’anni, compie poi anche una salita solitaria sulla Torre di Trango, dimostrando la sua grande polivalenza su ogni terreno alpinistico, dalla roccia difficile, alle big wall, fino all’alta quota. Le celebri Torri di Trango sono dirimpettaie alla Torre di Uli Biaho, la quale però non è parte di questo gruppo, anche se la sua forma slanciata e i pochi chilometri di distanza fanno sì che spesso venga annoverata come una di esse. Inoltre, non bisogna far confusione con l’Uli Biaho Peak, alto circa 6417 m, ad oggi ancora inviolato. A dispetto di un numero relativamente consistente di salite sulle due Torri di Trango (ovvero la Grande Torre di Trango e la Nameless Tower), le salite sulla Torre di Uli Biaho ancora oggi si contano sulle dita di una mano: nel 2006 venne aperta una via da Kopold e Kmaric sulla parete Nord-Ovest e ancora due vie nuove nel 2013, ma nessuna di queste cinque vie totali è mai stata ripetuta. L’avvicinamento alla parete di roccia finale è da ogni lato complesso e pericoloso, ed ha costretto alla rinuncia molte cordate. Nel 2013 io ed i miei compagni, abbiamo impiegato più di tre settimane, tra tentativi, rinunce, errori di valutazione e di gestione della cordata, prima di riuscire finalmente a mettere le mani sul grezzo granito dorato della Torre. La via aperta nel luglio di quell’anno da Silvan Schupbach, Luca Schiera ed io, penso si possa

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Storia Sigaro Dones Sulla via Colombo al Sigaro. Foto: P. Buzzoni

aperture dei migliori arrampicatori lecchesi: Rizieri Cariboni e Gigi Vitali, il 4 settembre 1932, per una via diretta e oggi superclassica, molto esposta; l’anno prima Cassin e Giovanni Riva, il 26 luglio, in pieno caldo estivo, per un itinerario ombroso e freddo, difficile e scorbutico, che Cassin volle dedicare al padre, emigrato in Canada e lì tragicamente scomparso in un incidente sul lavoro. Per finire con una terza via, poco a destra della Rizieri, aperta il 18 agosto del 1939 da Alfredo Colombo (lui e il fratello, che avevano una casa di famiglia poco sotto il rifugio Carlo Porta al Pian dei Resinelli, erano noti nell’ambiente come “i piccioni”) e Luigi Valsecchi, con difficoltà di sesto grado e artificiale. Se si tolgono alcune varianti a questi itinerari, sul Sigaro non restò molto spazio, nei decenni seguenti, e la struttura vide un’ultima nuova salita, compiuta da Marino Marzorati (eccellente arrampicatore ancora oggi in ottima attività, dotato di notevole tecnica), Ezio Tanzi e Davide Corbetta, il 15 agosto 1982, lungo un itinerario chiamato Gasomania, con difficoltà di 6b, con un passaggio basale in fessura larga che già Cassin aveva salito decenni addietro per allenamento, come mostra una nota fotografia dell’epoca.

A PARTIRE DAL PRIMO DOPOGUERRA, IL SIGARO DONES DIVENTA UNA META PRIVILEGIATA FRA LE GUGLIE INFINITE DELLA GRIGNA MERIDIONALE: IN EFFETTI HA TUTTO QUELLO CHE IL ROCCIATORE MEDIO CERCA SU UNA VIA DI MODESTO SVILUPPO: BEI PASSAGGI, SENSO DEL VUOTO, MAGNIFICO PANORAMA. Se in origine le vie sul Sigaro erano protette solo a chiodi normali, la richiodatura di alcune di esse con fittoni resinati (non ad esempio la Cassin) le ha rese meno impegnative e alla portata di molti, considerando però sempre che si è in montagna e non in una falesia, e che la Grigna, in particolare, è una montagna esigente e decisamente permalosa.

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Fra le vie presenti probabilmente la Rizieri è quella più divertente e consigliabile, a chi si muova bene su classiche difficoltà di quinto e sesto grado. Per i più determinati esiste anche una variante d’uscita assai estetica e interessante, esposta e con difficoltà di 6a+, aperta da Ivo Mozzanica e Armando Canova nel 1972, ed in seguito richiodata con fittoni resinati da Marco della Santa, storica guida alpina lecchese, scomparso al Nibbio per un banale incidente. VIA RIZIERI 5c (5b e A0) 110 m Materiale: 12 rinvii, fettucce da sosta. Eventualmente due o tre friends medi. Due corde. Dal rifugio Carlo Porta al Pian dei Resinelli si segue il sentiero della cresta Cermenati, fino alla palina segnaletica che indica, dopo circa 40 minuti di cammino, deviazione verso destra per il canalone Porta. Raggiuntolo in circa 15 minuti, lo si risale per traccia e roccette, arrivando presso uno spiazzo ove si trova una lapide, poco a sinistra della base dell’evidente Sigaro, visibilissimo lungo il precedente percorso. Il primo tratto della via è esposto ad Ovest, e quindi freddo al mattino: regolarsi di conseguenza. L1 (4a, 35 m): Si supera la scaglia staccata e il non banale passaggino d’attacco sulla parete, continuando per belle fessure appigliate. L2 (5c, 30 m): Ci si alza diritti poi a destra lungo un bel sistema di fessure con arrampicata divertente e continua: resinati e chiodi. L3 (5b, 40 m): Per fessurina si sale a una cornice e si traversa (delicato) a destra: da qui o si gira lo spigolo e si continua diritti fino in cima, 3c, oppure, meglio, subito dopo il traverso ci si alza a un visibile resinato e si supera la bella parete terminale (variante Mozzanica) con arrampicata tecnica e di soddisfazione: 5c e un breve tratto di 6a+. Discesa: poco sotto la cima, ove è presente una croce in ferro, si trova, verso nord, la catena di calata (restare legati). Da essa, con una divertente doppia di 45 metri nel vuoto (non per principianti), si raggiunge la forcella del Sigaro, a metà del canale che lo separa dal primo Magnaghi (da qui eventualmente si può salire quest’ultimo per la bella via Vitali, 6b, resinati, utili friends). Dalla catena presso la forcella, con una doppia di 35 metri nel canale (qualche pericolo di caduta sassi), si ritorna alla base.


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Storia

Campanile di

Brabante 2252m Monte Civetta Testo  Manrico Dell’Agnola

Trinità verticale Calata in doppia dal Campanile di Brabante. Foto: M. Dell’Agnola

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Erano ancora gli anni Sessanta, quando da bambino godevo della tranquillità dei Prati di Pelsa e dei Piani della Lora. Di solito erano giocose passeggiate che spesso, date le discutibili doti atletiche di mio padre, nel tentativo di raggiungere il Rifugio Tissi, terminavano in quel luogo idilliaco proprio lungo il sentiero; un prato verdissimo sotto grandi sassoni chiari al cospetto della slanciata parete Ovest della Torre Venezia.

A

quel punto a noi bambini non pareva neanche vero poter giocare ai piccoli alpinisti scalando le pareti bucherellate di quelle montagne in miniatura, alte comunque abbastanza per rompersi l’osso del collo. Mia madre e mio padre erano agordini ed in quel periodo videro la vita di molti amici strappata da quella che per loro era un’inutile quanto pericolosa passione, quindi la montagna in famiglia era considerata come un luogo bellissimo per scampagnate e picnic, ma la roccia e le scalate erano viste come il diavolo. Ero piccolo, ma ricordo ancora il piacere di trasgredire tirandomi su quegli appigli e di sbeffeggiare da sopra le crode fratelli e cugini, che di solito non avevano il coraggio, o il buon senso, di imitarmi, seguito solo dalle urla isteriche di mia madre spaventata a morte e che mi implorava di scendere, mentre all’ombra, sotto il versante Nord del masso più grande, distesi a terra i plaid e svuotati gli zaini, il resto del gruppo cominciava già a stappare le prime bottiglie. Il trucco era quello di far finta di prendere il sole dal lato opposto del blocco, ed approfittando del clima goliardico dei genitori e degli zii, svignarsela con fratelli e cugini alla ricerca di un po’ di avventura. Era lo stesso schema


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Storia Il Dillosauro Accesso: Dalla Marina di Tertenia proseguire verso sud in direzione Porto Santoru, fino quando la strada non diventa impossibile per una macchina normale (con un buon 4x4 si può proseguire). C’è un bello spiazzo sulla destra dove lasciare le macchine. Proseguire per una mezz’oretta fino a superare l’evidente bastionata del Jurassic Park e, dopo aver superato l’alveo di un torrente in secca, prendere a destra una traccia inizialmente non evidentissima nella fitta vegetazione. Seguirla per altri 15 minuti fino a quando bisogna puntare a nord (ometti) verso la parete, che di solito si aggira da sotto: se si va un po’ alti si raggiunge direttamente, ma per traccia un po’ più difficile. Calcolare circa 50 minuti dall’auto. STANOSAURO Bella via aperta da Enzo Lecis nel 1994; tre tiri (6c con 6b obbligato ma non traumatico, S1+). Purtroppo gli spit del secondo tiro sono decisamente arrugginiti a causa della vicinanza col mare, ma poco conta: per fare la foto ai vostri amici dovete percorrerla fin quasi alla cima del secondo tiro (il primo è in comune con Dillosauro), appendervi a un crostino di ruggine e aspettare pazientemente l’arrivo dei vostri prodi amici riflettendo sulla fragilità della condizione umana. Scattare quando palesano falsa felicità ed euforia. Necessario grandangolo. Se siete felici possessori di drone, potete dimenticare questa relazione. DILLOSAURO Meravigliosa linea di due lunghezze, aperta da Enzo Lecis nel 1994. L1: 6c; L2: 6b. Sviluppo: 50 metri. S1+. Spit buoni (2021). Calata in doppia. Le foto dalla cima in 3D con la GoPro Max non rendono abbastanza, ma non sono male.

Il Dillosauro in versione integrale. Foto: R. Felderer

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Storia Old man of Stoer L’Old Man di Stoer si trova nelle Highlands, sulla costa Nord-Ovest della Scozia, tra i piccoli agglomerati di case di Stoer e di Culkein. È costituito da arenaria compatta, di colore rosa porpora, e di buona solidità. A differenza del suo gemello sull’Isola di Hoy, questo stack è meno alto ma non è collegato alla terraferma, nemmeno con la bassa marea se non in condizioni particolari in primavera. È necessario dunque raggiungerlo a nuoto oppure con una tirolese, spesso lasciata in posto ma non sempre in buone condizioni. Dimenticatevi ogni ancoraggio su spit, come sarebbe da noi, al massimo c’è qualche chiodo, e per giunta arrugginito! ORIGINAL ROUTE Sviluppo: 75 metri. Difficoltà: 5c (obbl.) - VS 5a (gradi inglesi). Esposizione: Est (periodo ideale: estate).

Cecilia Marchi di fronte al mare nordico, in cima all’Old Man. Foto: M. Oviglia

Materiali: dieci rinvii, due corde da 60 metri, una serie di friends sino al 3BD raddoppiando i medi, qualche nut, fettucce. Primi salitori: T. Patey, B. Robertson, B. Henderson, P. Nunn, 1966.

Accesso generale: Da Inverness raggiungere il bellissimo paesino costiero di Ullapool (numerosi ristoranti e B&B). Guidare verso nord su una strada che attraversa paesaggi altamente scenografici. Dopo una cinquantina di km la strada diventa molto stretta e a senso alternato, obbligando a rallentare spesso procedendo con cautela. Continuare seguendo le indicazioni sino al faro, accanto al quale si parcheggia. Avvicinamento: Seguire una strada sterrata o la costa verso nord. Riportarsi sul ciglio e seguire dei vaghi sentierini sul prato sino ad arrivare di fronte alla torre, da qui piuttosto impressionante (un’ora dal parcheggio). Proprio di fronte alla torre individuare il punto più debole della scarpata dove scende un esposto sentierino (molta attenzione con bagnato, nessun ancoraggio per eventuale doppia). Seguirlo con cautela superando in disarrampicata dei salti (II) sino ad arrivare alla tirolese, da una parte ancorata su uno spuntone, mentre dall’altra su chiodi. Traversare il braccio di mare (molto meglio con bassa marea, si evita di bagnarsi: informarsi su internet dell’ora della bassa marea). L1 (5a, 23 m): Dalla tirolese salire un metro ad una fessura orizzontale, traversare orizzontalmente a sinistra, quindi diritto sino ad un terrazzo (sosta su nuts). La prima parte del tiro può essere bagnata. È possibile seguire una variante diretta di 6b (E1). L2 (5c, 23 m): Salire una fessura strapiombante molto bella da sinistra a destra, poi traversare delicatamente a sinistra ad un pianerottolo. Superare un blocco all’esterno sino ad una grotta (sosta su cordone). L3 (4c, 12 m): Traversare a destra in piena esposizione sulla parete Est sino ad un gradino alla base di una larga fessura (sosta su friends). L4 (5a, 20 m): Salire la fessura a buone prese, poi per blocchi tendendo a sinistra facendosi strada tra i gabbiani e gli uccelli marini sino in vetta. Discesa: con una doppia da 55 metri. Bibliografia: Classic Rock. Great British Rock Climbs di Ken Wilson; oppure in rete esiste un PDF che raccoglie tutti gli stack inglesi: www.ukclimbing. com/articles/pdf/Orkney.pdf * Articolo rielaborato da una precedente pubblicazione in rete su Planet Mountain nel 2016.

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Wafaa Amer, bouldering Foto: C. Ziegler-La Sportiva

Sei di recente uscita da un infortunio, ma i progetti e i desideri rimangono: quali ambizioni hai per il futuro, hai qualche meta ben definita, tecnica o anche solo di puro divertimento arrampicatorio? In realtà sono ancora infortunata e sto aspettando alcuni risultati per capire come procedere con la ripresa. I miei sogni però sono ancora lì che aspettano che io mi rimetta per realizzarli. Ho in mente due progetti che ho già provato per capire le prime sensazioni. E non vedo l’ora di rimettermi per mettere la corda nelle loro catene. Speriamo... Per puro divertimento, invece, vorrei provare a fare un po’ di vie lunghe in montagna. L’ambiente di Finale Ligure, di cui oggi sei una delle protagoniste, è sicuramente assai particolare rispetto ad altri: che cosa ti piace di questa location verticale e naturale? La roccia di Finale mi piace in modo particolare, perché ovunque io abbia scalato, in qualche modo, anche nei passaggi difficili, sono sempre riuscita a trovare qualcosa di piccolo da tenere. Poi trovo che sia una roccia molto educativa: ti insegna a usare bene i piedi, a muoverti proprio come lei vuole. In futuro pensi di dedicarti anche ad un’attività di arrampicata in montagna o ritieni che la falesia sia la tua dimensione privilegiata? In realtà sì, mi piacerebbe... Ci ho pensato molte volte, non voglio limitarmi solo alla scalata in falesia, perché so da amici che spesso fanno vie lunghe in montagna che è un’altra attività, che potrebbe darmi davvero molta soddisfazione. Perciò aspetto che mi porti in montagna qualcuno di esperto! Ci sono delle arrampicatrici di oggi o di ieri a cui vorresti somigliare, tecnicamente o per spirito, e che consideri delle vere icone, a tuo modo di vedere? Non credo di voler somigliare a nessuna: penso che sia bello sentirsi ispirati da qualche scalatrice, ma è altrettanto bello apprezzare se stessi per quello che si è. Ad ogni modo, una scalatrice che ho sempre considerato una vera icona è Catherine Destivelle, lei mi piace molto.

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Personaggi Wafaa Amer

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Il graffio Chiodature: Libro secondo Testo  Richard Felderer

S

upponendo che una linea sia stata chiodata alla perfezione, volevo aprire una breve parentesi su cosa reputo opportuno venga fatto in ottica di mantenimento a medio e lungo termine della falesia. La prima cosa, ovvia ma non troppo, è quella che le persone di buono spirito dovrebbero avere la saggezza di chiodare vicino a casa, o in un posto facilmente raggiungibile (dove hanno una seconda casa, ad esempio). A meno che non decidano di chiodare con tasselli del 10 in inox 316 o superiore, ma questo capita di rado al chiodatore vacanziero ed estemporaneo. Lo dico perché ho visto, soprattutto nei luoghi di villeggiatura, falesie aperte da volenterosi “turisti”, ma poi lasciate nell’oblio perché non frequentate o perché nella zona non c’è nessuno intenzionato a manutenere il sito. Il che si trasforma in un disagio ma anche un rischio per chi viene dopo, magari qualche anno dopo, perché le soste invecchiano (oltre a consumarsi) e le protezioni anche, e nessuno si prende la briga di controllare ed eventualmente sistemare quello che è stato fatto: un po’ per pigrizia, un po’ per non rischiare di offendere nessuno, un po’ perché fare manutenzione a una falesia non dà soddisfazione all’ego e ruba tempo e soldi! Detto ciò, che suonerà antipatico ma pratico, vorrei affrontare uno dei punti che mi stanno a cuore: le soste. Che, per chi ha qualche lustro di scalata alle spalle, evocano ricordi contrastanti, spesso legate a momenti di paura. Proprio pochi giorni prima di scrivere queste righe un amico,

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dopo aver “pulito” un tiro da secondo, si appende in cima e, vista la sosta, mi dice: «Calami piano ma in fretta!». Chi ha un po’ di esperienza ha già capito! In ogni caso, il primo motivo per cui vorrei affrontare l’argomento è dovuto a come sta evolvendo e cambiando l’utenza della falesia, con l’avvento di nuove e abbondanti legioni di indoor climbers. Questi, e sono tanti, non sono abituati a fare la “manovra”, ovvero a passare la corda in un anello chiuso, slegandosi e rilegandosi come da procedura classica. Classica, appunto: non moderna. I “moderni” passano la corda nei moschettoni contrapposti della sosta indoor e si fanno calare! E non è mia intenzione esprimere giudizi, questo è un dato di fatto. Già ho avuto lunghe discussioni, e pur comprendendo le motivazioni di chi è contrario alla mia presa di posizione, il fatto che (soprattutto nelle falesie con molti tiri facili) vi sia una nuova e forte presenza di neofiti di tutte le età, è una realtà di cui prendere atto: non possiamo fare finta di niente. Come pure il fatto che la “manovra” sia intrinsecamente una procedura che fa aumentare moltissimo il rischio, è un’altra questione oggettiva. Al di là della matematica, potete anche cercare un riscontro umano: provate a pensare a vostro figlio di dodici anni la prima volta che arriva in catena, deve allongiarsi, slegarsi e rilegarsi. E ditemi che non vi viene un infarto! Ergo, la mia posizione è semplice: nelle falesie nuove e per neofiti, sui tiri

facili di quelle “normali”, i chiodatori dovrebbero, a mio avviso, prevedere un sistema di calata che eviti la “manovra”. Sia questa una sosta con moschettoni, moschettoni contrapposti (secondo me esagerato, ma se te lo puoi permettere ben venga) o, soluzione usata ad esempio al Sasso Remenno, con i Chiper Europe della Raumer. Soluzione che caldeggio per comodità ed economicità (n.b.: Raumer non mi dà una lira per dire ciò, anzi, uso attrezzatura di altra marca, prima che qualche malpensante possa avere dei pensieri...), in quanto con una manciata di euro si cambia l’ancoraggio eventualmente consumato senza fare altri fori o lavori particolari. Bastano due minuti e una chiave del 17. La cosa brutta è che anche i ladri ci mettono due minuti, e purtroppo di pezzenti che fanno queste cose ce ne sono anche tra di noi! Ovviamente, e lo do per scontato, non parliamo neanche di soste fatte con spit collegati da cordoni, catene rubate al cane, maillon da mezzo millimetro marci e altre amenità dalle quali (purtroppo) ci siamo calati per anni con conseguente e non rimborsato aumento della calvizie! Quindi, cari amici chiodatori o aspiranti tali, questo è quanto penso in poche righe, e mi piacerebbe avere anche un feedback sulle vostre opinioni ed esperienze personali, per procedere in questo discorso e arrivare a una coscienza e conoscenza condivisa e possibilmente unanime sulla questione. Scriveteci su FB per esprimere la vostra!


Luca Danieli Ph. Christian Varrone

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La rubrica della Ming Alessio Gazzetto ITW

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La Sportiva Kubo Riaprono le palestre e se ancora siete indecisi sulla scelta di una nuova scarpetta, Kubo di La Sportiva è la scelta giusta per chi si dedica all’arrampicata indoor sia boulder che lead, ideale per chi ricerca comfort e versatilità. La tomaia è sfoderata in microfibra e pelle scamosciata, la chiusura a doppio strap contrapposto è rapida e precisa, il tallone di nuova concezione integrato nella suola offre miglior grip e maggiore protezione, sensibilità ed elasticità, il puntalino è integrato nel bordo punta e tutto è stato pensato per facilitarne la risuolatura. www.lasportiva.com

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BIMESTRALE DI ARRAMPICATA E ALPINISMO Maggio 2021. Anno III. Numero 12 Direttore responsabile Richard Felderer Coordinamento editoriale Eugenio Pesci Samuele Mazzolini Alberto Milani Redazione Tommaso Bacciocchi Roberto Capucciati Matteo Maraone Marco Pandocchi Damiano Sessa Copertina Amer Wafaa su Hyaena, 8b a Finale Ligure Foto: © Andrea Gallo Grafica Tommaso Bacciocchi

Impaginazione Francesco Rioda

Correzione di bozze Fabrizio Rossi

Disegni Eugenio Pinotti

Hanno collaborato Filip Babicz, Davide Borelli, Franco Brevini, Sasha Cegarra, Alessio Conz, Matteo Della Bordella, Manrico Dell’Agnola, Richard Felderer, Alessandro Lamberti, Georgis Milias, Federica Mingolla, Maurizio Oviglia, James Pearson, Eugenio Pesci, Fabrizio Rossi, Andrea Sommaruga Versante Sud Srl Via Longhi, 10 – 20137 Milano tel. +39 02 7490163 versantesud@versantesud.it info@up–climbing.com

(© Paolo Sartori)

Abbonamenti e arretrati www.versantesud.it Stampa Aziende Grafiche Printing srl – Peschiera Borromeo (MI) Distribuzione per l’Italia PRESS-DI-Distribuzione stampa e multimedia s.r.l. via Mondadori 1 – 20090 Segrate (MI) – Tel. 02 75421

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