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IL CONFINE È IL LUOGO DOVE (SE PASSI) ACCADE QUALCOSA

PAOLO BILL VALENTE


Ad alta voce | Stille Post 700xM Un’azione letteraria Sei autrici e autori, tre di lingua italiana e tre di lingua tedesca, accompagnano con i loro racconti, scritti appositamente per quest’azione, i lettori per vie e luoghi simbolo di Merano, per la storia, recente e antica, di questo luogo, raccontando la vita – o almeno una parte di essa – di persone e personaggi per i quali la città del Passirio ha svolto un ruolo importante. Ad alta voce | Stille Post 700xM vuole proporre uno sguardo letterario sulla città di Merano che permetta di avvicinarsi a questo luogo attraverso le sue storie: inventate e reali, sorprendenti e impreviste. Elisabeth Hölzl arricchisce questa collana con le sue immagini di interni meranesi.

Paolo Bill Valente è nato a Merano dove vive. Scrittore e giornalista, ha svolto numerose ricerche sulla storia della sua terra plurilingue, portandone in luce alcuni aspetti nascosti o rimossi. Attualmente è direttore della Caritas della Diocesi Bolzano-Bressanone. In ambito narrativo ha pubblicato tra l’altro Di là del passo, racconti, Edition Raetia 2003; La città sul confine, racconti, Edizioni OGE, Milano 2006; Diario del maestro di Cordés, Edizioni alphabeta 2013; Leggende meranesi, Edizioni alphabeta 2014


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Un’azione letteraria di Eine Literaturaktion von


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Un’azione letteraria | Eine Literaturaktion

Ad alta voce | Stille Post | 700xM con il contributo di | mit Unterstützung von

Deutsche Kultur

Cultura italiana

Valente, Paolo Bill: Il confine è il luogo dove (se passi) accade qualcosa © 2017 Paolo Bill Valente Edizioni alpha beta Verlag, Meran/Merano www.alphabetaverlag.it | www.edizionialphabeta.it books@alphabeta.it All rights reserved Cover: Elisabeth Hölzl Impaginazione/Umbruch: A&D Stampa/Druck: Cierre Grafica, Caselle di Sommacampagna (VR) ISBN 978-88-7223-283-5


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IL CONFINE È IL LUOGO DOVE (SE PASSI) ACCADE QUALCOSA PAOLO BILL VALENTE


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Alzano i fiumi la loro voce, alzano i fiumi il loro fragore. Ma più potente delle voci di grandi acque, più potente dei flutti del mare, potente nell’alto è il Signore Salmo 92

La montagna ha piedi nell’acqua. Immobile all’apparenza, non ha radici, ma piedi. La roccia cade a strapiombo nella gola. Puoi sentirne il tonfo a ogni istante. Vuoi traversare lo specchio d’acqua? Si può fare. Il tratto è breve. Pochi passi che racchiudono innumere stagioni, cento e cento generazioni, sogni come maree. Onde che inghiottirono cadaveri. A migliaia. Il giorno in cui le due terre si incontrarono, l’acqua ha messo mano al suo lento, inesorabile scavo lungo la fessura che resta. È la crepa che si apre a ogni bacio, a ogni abbraccio e dopo la lotta. Ecco un mare che nessuno traversa a cuor leggero. Per andare di là c’è un pezzo di legno lanciato d’azzardo come una zattera. Non è sicuro che tu possa salirvi. O che ti lascino gettare gli ormeggi, una volta giunto all’altra riva. Sei uno straniero. Anche loro sono stranieri, però hanno le chiavi del portone e ogni altra risposta. Ti faranno entrare a precise condizioni. Non è casa loro, ma le chiavi ce l’hanno nella borsa. Ti diranno 5


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che cosa devi e che cosa non devi fare, prima ancora di chiedersi chi sei e che cosa vuoi. Dovrai identificarti. Conosci bene la lingua dei documenti. Possono guardarti i piedi, se vogliono capire. Allora vedrebbero chi sei. Dai tuoi sandali consumati. Sei uno che cammina. Uno che si porta dietro poche cose e le custodisce nel cuore. Dirai loro dei capelli neri di tua madre? Nessuno ti ascolterà. Tuo padre morì prima che tu nascessi. Lei te ne ha parlato a lungo. Ma tutto questo è lontano. Dai giorni della tua partenza c’è distanza di anni. Hai cercato e conosciuto il silenzio. Hai traversato la notte infinite volte, senza mai farti turbare dalle prime avvisaglie dell’aurora. Hai esplorato le ore del giorno senza toccare cibo. Hai abbandonato il mondo, per amore, nel fiore degli anni. Quando quel tizio ti rubò la mula, hai superato la notte vegliando, senza curarti della fatica. Finché l’alba non ti riconsegnò la bestia e la riconoscenza di un uomo fratello. Ricordi? La sera in cui ti si parò davanti Adalberto, ladro e assassino, non ti desti pace fino a che non riuscisti a sottrarlo all’impiccagione, già decisa, già eseguita. Chiedono del tuo nome. Racconterai dei capelli corvini della donna che ti ha messo al mondo? Parole. Solo un riflesso di ciò che tu davvero sei. Il tuo “io sono” non si lascia scrivere nero su bianco. Tu stesso, per capire di te, non vai forse a interrogare gli antenati? Non costruisti casa presso la loro tomba? Avresti voluto ritirarti in quei loculi. Sapevi già allora che il viaggio ti avrebbe portato a varcare tutti i confini, il primo e l’ultimo dei quali quello tra la vita e la morte. Tra la morte e la vita. 6


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L’antenato che insegui è colui che, morto, vive. È su quel fondamento che intendi ora imbastire la tua esistenza. Scavi nelle cose. Più vai nel profondo e più i tuoi occhi si orientano in alto. Quando prendesti congedo da mamma (capelli di corvo) e abbandonasti la terra degli avi, qualcosa è rimasto lì, qualcos’altro l’hai messo nella sacca. Ora nessuno spazio potrà esserti casa per sempre. Abiti il tempo. Temi pure che, una volta morto, sepolto nel luogo che avrai scelto per il riposo eterno, nemmeno allora ti lasceranno in pace. In quel giorno qualcuno vorrà riportarti nel paese da dove (secondo loro) sei venuto. La prima volta eri fuggito dal chiasso. Dall’ansia di soffocare sepolto sotto montagne di parole vane. Evasione dalle cose inutili che ti impoltronano e ti ingrassano come un vitello. Ti si offrivano ricchezza e potere, tu cercavi solo quiete e pace dentro. Perciò avevi salutato, eri partito, avevi percorso miglia e miglia. Una volta raggiunta la meta, odorosa e impossibile, eri dovuto tornare sui tuoi passi. Ti rimandarono indietro. Con molte ragioni buone e pie. Ti parve necessario, qualche stagione più tardi, rimetterti in cammino, perché la tua casa, dicevi, si era trasformata in una specie di barca sbattuta dalle onde. Allora tanto valeva buttarla sull’acqua, la navicella, e salpare l’ancora. Avevi cercato un’altra strada, meno trafficata. Più volte, lungo il sentiero, avevano cercato di impedirti di continuare il viaggio e solo a fatica eri riuscito a portare i tuoi sandali e il tuo bastone da pellegrino fino ai colli della capitale. 7


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In quei giorni, quando varcasti il confine, il tuo nome rimase impresso nei loro registri. Quando fossi ricomparso sulla frontiera, avresti dovuto fare i conti con i loro steccati. Con le loro barricate. Nella capitale ti convinsero che quello non era il posto adatto a te. Avresti dovuto riprendere di nuovo il largo. Questa volta il passaggio non sarebbe stato facile. A volte la frontiera la si varca senza accorgersene. Altre volte ti s’innalzano davanti muraglie invalicabili. La frontiera è il deserto, che tu conosci, nel quale ogni riferimento è perso. Non ti orienti più e sei nelle mani dei banditi. Sono loro che sanno la strada e ti tengono al laccio. Ti nutrono finché gli servi. Ti spogliano dei tuoi beni e della vita. I compagni, le donne, i figli scompaiono dietro le dune alla prima tempesta di sabbia. Non hai fiato per chiedere della loro sorte. Ti si è chiuso il cuore. Tutto quello che vi conservi tu stesso, tu stesso non lo vedi più. Hai cercato la frontiera, l’hai voluta passare. Ora è il suo turno di comandare. Ti cancella, ti frusta a raffiche di sabbia e le spine ti strappano la carne come un flagello. Il tuo sogno è diventato incubo, i tuoi progetti un vacuo miraggio. Ti tengono vivo fortuna, forza fisica, mortevita degli antenati. L’aroma silvano dei capelli di tua madre. Sai che la prossima frontiera è fatta di acqua. Il deserto è un inferno, il mare è regno incontrastato del nulla. L’acqua la tocca chi poi muore. Non siamo marinai, noialtri, siamo gente che cammina. L’acqua ci fa paura. Per lasciarci salire su quel pezzo di legno bisogna che ci spingano con le cattive. Quando ti volti e vedi la terra che 8


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si allontana come fai a non piangere? Il destino di chi fugge è fuggire sempre. La meta è mai raggiunta e la sosta serve a raggranellare il denaro da consegnare al prossimo Caronte. Adesso che ti aggrappi alla sponda ti vengono dei dubbi. Ti affacci. L’acqua è tumultuosa e fa paura. I flutti son tentacoli che ti tirano giù. I vortici sotto lo scoglio proveranno a risucchiarti nell’abisso. Non sei un marinaio. Sei uno che ama sedere silenzioso nella foresta. Uno che cammina. Che corre, se necessario. Il bastone del viandante ti ha difeso dai lupi e dai cani, ma ora non ti servirà. Guai a te. Se lo mostri lo scambieranno per un’arma e ti colpiranno. *** La storia comincia quando Corbiniano, di ritorno da Roma, fu fermato dalle guardie bavare nella terra tra i monti. L’ordine era stato diramato da tempo fino ai punti d’accesso della Venosta e dell’Engadina. Il vescovo errante entrò a Maia, lasciandosi alle spalle il territorio longobardo. Appena varcato il confine, così l’ingiunzione, avrebbe dovuto essere preso e condotto a Frisinga, alla corte del duca Grimaldo che lo attendeva impaziente come Erode attese (lui invano) i magi. Ecco come andò l’arrivo di Corbiniano a Merano. Si era attorno all’anno del Signore 720, ai tempi di Carlo Martello maggiordomo dei franchi, del longobardo Liutprando, re d’Italia, titolare della corona di ferro e del trono di Pavia. All’epoca di Grimaldo, duca dei bavari con 9


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sede a Frisinga, figlio e successore del duca Teodone. Erano gli anni di Gregorio papa e di Bonifacio, apostolo della Germania. La città di Merano ancora non c’era. La conca che si apre all’incontro tra le valli dell’Adige, di Venosta e di Passiria era detta Maia. Il nome Mairania1 compare la prima volta, a quanto ci è dato sapere, in un documento dell’857 e si riferisce a un terreno, forse un campo circondato da paludi. Non si tratta di un centro abitato. È il territorio acquitrinoso che si estendeva tra Lagundo (nome che non a caso deriva da ad lacumina, cioè appunto: su terreno paludoso) e l’attuale Merano. La piana di Maia era traversata, fin dai tempi della Roma imperiale, dalla via Claudia Augusta, che saliva da meridione e proseguiva per la Venosta. Il percorso preciso non è noto se non in alcuni punti, ma certamente un ramo della strada risaliva la valle a mezzacosta sul lato sinistro, attraversava la regione ove ora si estendono Maia bassa e Maia alta (già allora e da diversi secoli zona di insediamento) per approdare al fiume, ai piedi di monte 1 Merano deriva probabilmente il suo nome da “terra mairana”, ovvero terreno appartenente a una fattoria padronale altomedievale (maioria, localizzata tra l’attuale Merano e Lagundo) (cfr. K. Finsterwalder, Der Name Meran, in “Schlern”, 1974, pp. 31-33), forse un vasto campo che si estendeva a ovest della futura città (detta quindi poi an der Meran). Altre interpretazioni, meno attendibili, fanno derivare il nome di Merano da “Mario” (Marianum, proprietà di Mario, cfr. C. Battisti, I nomi prediali in -anum, in “Archivio per l’Alto Adige” 1952, p. 94) o da “mara” (zona di detriti, morena, cfr. C. Stampfer, Geschichte von Meran, 1889, p. 24). Il nome Maia proverrebbe invece dal latino majus (maggio) (E. Kühebacher, Die Ortsnamen Südtirols und ihre Geschichte, Bolzano 1991, pp. 231-232): la città o la terra di maggio.

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Sanzeno. Lì, ai tempi di Corbiniano, si ergeva la fortezza, il “Castrum Maiense”, un borgo fortificato sotto il controllo dei bavari e poi, qualche anno dopo, dei longobardi. La via Claudia proseguiva sul monte di Merano fino a Tirolo, sfiorava l’antica chiesa di san Pietro e poi avanti fino al capoluogo della Rezia, Augusta Vindelicorum. Corbiniano era entrato nel territorio dei bavari e stava salendo al Castrum Maiense quando gli si fecero attorno le guardie della fortezza incrociando le lance. Gli dissero che non lo avrebbero lasciato passare, a meno che egli non si fosse recato dal duca loro signore che lo attendeva a Frisinga. Gli fecero intendere che si trattava di un privilegio. Al di là delle Alpi la sua fama risaliva al periodo colà trascorso ai tempi del suo primo viaggio a Roma e ai buoni rapporti con Teodone, padre di Grimaldo, ormai defunto. Corbiniano è colui che, secondo la leggenda, ammansì l’orso che aveva osato sbranare il suo mulo. Certamente non era tipo da farsi intimidire da quattro sbirri. Depose il bastone del viandante a lato della via e si rifiutò senz’altro di eseguire l’ordine ducale. Per questo lo obbligarono a rimanere a Maia contro la sua volontà, fintanto che non fossero tornati i messaggeri inviati alla corte bavara a chiedere istruzioni. La frontiera sulla quale si arresta il cammino di Corbiniano è Maia stessa. Quel giorno non si volle respingerlo, ma impedirgli il transito. Avrebbe dovuto fermarsi. Sulla frontiera ci si identifica. Devi chiederti chi sei, dove vuoi andare, che cosa intendi portare con te. Ma puoi anche restarci, sulla frontiera, e respirarne le contraddizioni. È 11


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quello che fece Corbiniano una volta compreso che il suo viaggio (la sua fuga?), per il momento, s’interrompeva. Del resto non era fuggito proprio alla ricerca di un luogo di pace, per potersi dedicare alla preghiera e alla meditazione, dove poter vivere lontano dalla schiavitù delle ricchezze e del potere? Non aveva marciato per settimane fino alla Città eterna allo scopo di restarvi per sempre, rinchiuso nei vani di un monastero, accanto alle urne dei primi martiri? Davanti a Gregorio, con le lacrime agli occhi, aveva urlato quanto disprezzasse gli ori e gli onori, al punto da non aver mai voluto nemmeno un bracciante al suo servizio. Con la voce rotta dal pianto aveva confessato al papa che da quando questi l’aveva unto vescovo, si era persa la sua pace. La sua pacifica solitudine. Chiedeva solo di potersi ritirare nella cella di un romitaggio o che gli si donasse un pezzo di terra da coltivare con le sue mani, nella foresta di qualche valle lontana da tutto e da tutti. Il papa lo aveva ascoltato, la sua sincera umiltà lo colpì intimamente, ma era infine rimasto sulle sue: il bene che egli avrebbe voluto coltivare nell’isolamento andava invece portato alla gente e distribuito al di là di tutti i confini. Costretto a Maia dalle guardie bavare, Corbiniano non si perse d’animo. Pensò che se le cose stavano andando in quel modo bizzarro, vi si dovesse riconoscere un intervento diretto del Cielo. Proprio tra i declivi di Maia trovò, almeno per poco, quanto aveva domandato (invano) a Gregorio. Boschi di faggi e betulle tra i quali perdersi nel nascondimento, oasi di silenzio rotto solamente dallo scroscio dei ruscelli e dal borbottio delle folaghe, terre scure da coltivare a frutteto e a vigneto. 12


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Sapeva bene, Corbiniano, che non avrebbe goduto in eterno di quella briciola di paradiso. Capiva che, come gli era stato detto a Roma, finché non avesse raggiunto la meta, la sua sarebbe rimasta una vita di strada. Alla ricerca del punto di passaggio che ti consenta, al momento giusto, di andare oltre. A Maia quel punto c’è. È il luogo attorno al quale orbita tutto il resto. Ai piedi della rocca scorre invisibile la frontiera che unisce e separa mondi, storie, continenti. Scendendo da sudest alla base del Castrum, tra te e la rocca si apre e si stringe la gola del fiume. Se ora fissi lo sguardo sulla verticalità della parete, se lo immergi nel profondo delle acque verdi, se sei uomo della frontiera qualcosa in te resterà avvinto alla roccia e si scioglierà nel gorgoglio dei flutti. L’uomo di Dio era partito da lontano. Dal nord del regno dei franchi. Era figlio di Corbiniana, così detta per la sua chioma d’un nero corvino. Il padre Waltekis morì prima del nono mese ed egli non lo conobbe mai se non per i racconti di lei. Nacque sulla frontiera tra la vita che nasce e la morte che sferra improvvisa i suoi colpi. Crebbe avvolto dagli spigoli della lingua paterna e dal dolce sussurro di quella materna. Quando si vede la luce sulla frontiera si vuole sapere che cosa c’è di vero dall’una e dall’altra parte. Fuggire dal mondo – questo dissero di lui – significava dare spazio a interrogativi e cercare possibili, pur parziali frammenti di verità. Ma poiché la verità – se è vera davvero – attrae quanti vanno cercando l’uomo intero e, dal canto suo, impedisce la quiete, Corbiniano, per trovare la pace si vide costretto a fuggire sul 13


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serio. Si era convinto che solo il papa in persona potesse avere per lui l’agognato responso. La parola del pontefice piovve inattesa: lo consacrò vescovo e lo condannò così al servizio perpetuo di pastore. Anche quando, anni dopo, era sceso nuovamente a Roma a chiedere al papa di farlo tornare a essere un signor Nessuno, Gregorio lo aveva ascoltato con cuore paterno, ma poi lo rimandò a pascolare il suo gregge al di là delle Alpi. Così lacerato nell’intimo si affacciava ora alle acque mosse della gola di Maia e lì, sul confine, fu avvolto dal dubbio. L’acqua, in quel luogo, è tumultuosa, fa paura. I flutti sono mani pronte a tirarti giù. I vortici che lambiscono la roccia ti vogliono risucchiare nell’abisso. Corbiniano non è lupo di mare. È però uomo di frontiera e sa che il fiume, in quel punto preciso, tiene aperta una ferita. Sa che l’esile ponte di legno è solo un tentativo tra i tanti, messi in atto dalla Storia, per ricucirne i lembi e rimarginarla (la ferita). *** I fiumi dividono, sulle mappe, una regione dall’altra. Delimitano un regno, un paese, una contea. È uso di geografi e conquistatori tracciare confini seguendo il procedere di un corso d’acqua. Certi fiumi sono adatti alla navigazione e al trasporto, altri alla pesca, all’irrigazione e alla fornitura di acqua potabile. Torrenti che alimentano laghi o li svuotano goccia a goccia. Fiumi che danno un nome alla terra che attraversano (che poi qualcuno cancella), alla valle che hanno scavato oppure alla città che lambiscono. 14


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Fiumi che finiscono per diventare frontiere ce ne sono a dozzine. Però quello che scorre alle falde della rocca di Sanzeno non è un confine per pura convenzione. È confine davvero, uno di quei confini che non si possono cancellare, rimuovere o spostare. Dice pure, già col suo stesso nome, che cosa si può ed è necessario fare quando si incontra una frontiera di questo tipo: passarla. Andare oltre. Non c’è dubbio che il nome “Passirio” (Passer in tedesco, Passiro, -nis nel latino medievale) derivi dal latino passus che sta all’origine del verbo passare, vocabolo che certo non ha bisogno di essere spiegato. Il ragionamento sul suo significato si completa se messo in relazione ad altre lingue europee, come lo spagnolo e il francese (pasar, passer, ma lo stesso tedesco passieren), per le quali “passare” vuol dire “accadere”. Il confine è dunque il luogo, sulla strada e nella vita, dove (se passi) accade qualcosa. Corbiniano, affacciato alla gola di Maia, comprese bene che la frontiera narrata da quel fiume andava “passata”. E che c’era bisogno di farlo “passo per passo”. Non per dovere, non per inerzia, ma per scelta. Un passo alla volta. Il passaggio è atto di volontà. Costruire il ponte sul fiume era stata un’azione consapevole. Un azzardo, per molti versi. È vero che quello è il punto in cui le due sponde sono più ravvicinate, ma la gola incute terrore, soprattutto quando incombe la piena. E la piena sarebbe arrivata puntuale, inesorabile, devastante, sette secoli più tardi.

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Un passo dopo l’altro Corbiniano salì sul ponte di legno. Respirò l’aria frizzante e umida. Poi avanti, sotto le mura del borgo fortificato. Passo dopo passo raggiunse la cima del colle. Proprio lì sul confine tra mondi, storie e continenti, si era voluta collocare la cappella dedicata a san Zeno veronese e, dentro quella, si custodiva la tomba di Valentino. Vescovo itinerante (pure lui) delle due Rezie, Valentino era vissuto nel quinto secolo dell’era cristiana, all’epoca delle grandi migrazioni. Missionario a Passavia, era stato cacciato da quella popolazione refrattaria al suo messaggio. Senza popolo e senza patria, si era infine ritirato esule a Maia, sulla frontiera, dove era morto intorno al 475, al crepuscolo dell’Impero d’Occidente. La sua fama aveva traversato i secoli ed era giunta, come un’eco lontana, fino a Corbiniano che lo considerava uno di quegli antenati capaci di gettare una scialuppa tra vita e morte, tra il non esserci più e l’esserci ancora e per sempre. Non a caso Valentino, cacciato in malo modo dalla città dei tre fiumi, aveva scelto di tornare al punto di partenza. La frontiera non è mai una meta. È l’inizio, il luogo del transito (del passaggio). Per Valentino la frontiera di Maia fu porta spalancata a nuova vita. Che poi (forse proprio per sua diretta disposizione) fosse interrato in cima alla roccia che si butta a perpendicolo nella gola del fiume, non abbisogna di ulteriori considerazioni. Corbiniano, dopo aver vagato nei dintorni montuosi della fortezza maiense, per sé e per la sua solitudine scelse un luogo appartato, d’indubbio fascino – perché 16


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nascosto e impervio – segnato dal corso di due ruscelli, raggiungibile solamente attraverso un sentiero assai stretto2. Il figlio di Corbiniana, in quei giorni di primavera, maturò l’intima convinzione di voler chiudere il suo viaggio alla rocca di Maia, sulla linea del fronte, a tenere aperto con Valentino il varco tra mondi, tra storie e continenti. Intanto l’ambasciata che si era mandata al duca fece ritorno a Maia. Grimaldo pregava cortesemente Corbiniano di rendergli visita al palazzo di Frisinga. Tuttavia se il vescovo errante non avesse accondisceso all’invito con le buone, lo si sarebbe dovuto trascinare a corte con le cattive. L’uomo di Dio lasciò a Maia parte del bagaglio e si fece condurre dal duca senza opporre ulteriore resistenza. Grimaldo avrebbe fatto meglio a lasciarlo dov’era. Corbiniano, giunto nel capoluogo bavaro, non volle nemmeno incontrarlo se prima il duca non avesse sistemato una situazione che, secondo gli usi matrimoniali del tempo, appariva disdicevole e persino incestuosa. Grimaldo, alla morte del fratello Teodaldo, aveva preso con sé la cognata Pilitrude. Non lo aveva fatto per amore, quanto piuttosto per una questione di espansione territoriale, ben sapendo che la legge e la tradizione non erano dalla sua parte. Men che meno avrebbe potuto contare sulla benedizione del pastore. Ma queste son cose d’altri tempi che non occorre capire. Ciò che assomiglia ai tempi nostri è che Pilitrude – emula della più 2

Chiamato allora “Cainina”, è l’odierna zona di Caines. 17


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nota Erodiade – tramò per uccidere il vescovo. Anch’essa agiva non per amore di Grimaldo, ma perché soggetta al fascino mortifero del potere. Prima però che i suoi piani omicidi si potessero attuare, Corbiniano si rimise in strada, varcò le Alpi passo dopo passo e tornò a Maia dove visse, questa volta, da profugo. Non ci fu verso di farlo tornare a Frisinga se non dopo la morte violenta di Grimaldo e il ratto di Pilitrude da parte dei franchi di Carlo Martello. Fu Ugoberto, il nuovo duca, a richiamare Corbiniano a Frisinga dove egli trascorse gli ultimi anni della sua lunga, travagliata, indesiderata missione. Tuttavia non è di Corbiniano che qui si vuole narrare. Delle sue opere e dei suoi atti prodigiosi scrisse a sufficienza, già a suo tempo, Arbeone, terzo vescovo di Frisinga (ma, come sembra, nativo di Maia). Qui s’intende invece parlare della frontiera. Corbiniano, da parte sua, non tornò più, in vita, sulla rocca di Maia. Ma otto giorni prima di morire inviò a Pavia un cugino, affinché incontrasse re Liutprando e ottenesse da lui il permesso di essere sepolto – almeno questo! – accanto al confessore di Cristo Valentino. In quegli anni – siamo attorno al 730 – il territorio di Maia non è più terra bavara ma longobarda. Mentre l’ambasciata era in cammino per Pavia, Corbiniano mandò un messo pure al duca Ugoberto, col compito di riferirgli con precisione quali sarebbero stati il giorno e l’ora della sua morte imminente e che, una volta defunto, l’avrebbero dovuto ricondurre alla cappella del Castrum.

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Non si vuole narrare di Corbiniano, qui, ma è bene sapere come egli visse i suoi ultimi istanti. Quel giorno gli prepararono un bagno, si lavò come d’abitudine e si lasciò sistemare i capelli. Come quando ci si appresta a un appuntamento importante. Poi indossò i paramenti e celebrò la messa. Lui stesso si diede il viatico, sacramento del passaggio. Viatico: ciò che serve per mettersi sulla via. A questo punto il vescovo versò un bicchiere di vino, ne bevve alcuni sorsi, poi si segnò e morì come ci si addormenta. O forse si addormentò soltanto. Secondo la tradizione fu l’8 di settembre. La cassa contenente la salma di Corbiniano fu dissotterrata il trentesimo giorno e trasportata a Maia, come da lui ardentemente desiderato. Si dice che il corpo continuasse a mostrarsi come quello di una persona viva e che cessò di sanguinare dal naso solo una volta arrivato a destinazione. Quasi fosse chiaro che non ci sarebbe stato altro luogo adatto al passaggio che non la frontiera su cui si ergono la rocca e la cappella di Zeno e Valentino. Persino da morto dovette fare i conti con le guardie di confine. Questa volta furono quelle longobarde a incrociare le lance sul sentiero. Non vollero credere, alle porte di Maia, che quella fosse la vera salma di Corbiniano. Pensarono si trattasse di un’astuzia dei bavari per riprendere possesso del castello maiense. Trattennero il corteo funebre, finché non arrivò da Pavia la lettera di re Liutprando con l’ordine di accogliere la delegazione con tutti gli onori e di dare senz’altro sepoltura al santo vescovo. 19


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Di Liutprando si scrisse che “fu uomo di molta saggezza, accorto nel consiglio, di grande pietà e amante della pace, fortissimo in guerra, clemente verso i colpevoli, casto, virtuoso, instancabile nel pregare, largo nelle elemosine”3. *** A questo punto va spiegato come mai Corbiniano, che aveva desiderato ardentemente essere sepolto sulla frontiera, fu poi ricondotto a Frisinga, come cioè i suoi eredi diretti non ne rispettarono affatto il testamento. Nessuno potrà mai dire se Maia cadde in disgrazia a causa dello svuotamento del santuario di Sanzeno delle ossa dei due santi vescovi o se invece fu a causa del decadimento di Maia che le reliquie furono traslate. Artefice del misfatto – per quanto riguarda Corbiniano – fu Arbeone. Nativo di Maia. Entrato alla corte di Frisinga divenne prete, notaio, abate e infine vescovo. Fu scrittore e letterato di grande fama, noto tra l’altro proprio per avere raccontato vita, morte e miracoli di Corbiniano. La vicenda di Arbeone dimostra che non è sufficiente essere nati sulla frontiera per essere uomini della frontiera. Per saperne ascoltare la voce e interpretare i segni. Ad Arbeone, proprio a lui, la frontiera aveva mandato un messaggio chiaro. Era ancora un bambino. Accadde alla vigilia della festa del santo. Il fanciullo d’improvviso scomparve alla vista degli adulti, raccolti attorno alla 3

Paolo Diacono, Historia Langobardorum, VI, 58. 20


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chiesa di monte Sanzeno. Era scivolato dal muro di cinta e caduto dalla rupe che s’inabissa a perpendicolo nella gola del fiume. A tutti fu evidente che si sarebbe trattato ora di recuperare un piccolo cadavere. Oppressi dal terrore e dall’angoscia si calarono con le corde e scesero al livello del ponte che passa il confine sulle acque ribollenti del Passirio. Ma ecco, il fanciullo era là, miracolosamente illeso, agganciato ad uno sperone di roccia. Appeso al confine. Gli era bastato, fece intendere, pronunciare il nome di Corbiniano. Arbeone non fu mai uomo della frontiera e non comprese quel segno. Quando le ossa di Valentino furono traslate prima a Trento dai longobardi (739) e poi a Passavia dai bavari (764), egli pensò fosse giunto il momento di riportare a Frisinga il corpo di Corbiniano. Sapeva bene di compiere un sacrilegio e così cercò ogni sorta di segni del Cielo, che tuttavia interpretò poi a modo suo. Si disse pure, a mo’ di giustificazione, che Maia era ridotta a un luogo così povero che la gente non riusciva nemmeno a garantire una candela sulla tomba dei santi. Corbiniano fu strappato alla frontiera dai bavari nell’anno del Signore 769. Il giorno in cui si aprì la tomba nella chiesa dei santi Zeno e Valentino, i delegati di Arbeone estrassero la bara e la posero davanti all’altare. Poi se n’andarono a cena, lasciando qualcuno di loro di guardia, temendo che i maiensi potessero impossessarsi della salma. All’improvviso venne un tuono che fece tremare tutto l’abitato. Il tempo era bello e per tutta la giornata novembrina non si era vista una nuvola in cielo. Ecco, Arbeone interpretò 21


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quel rombo come un cenno dell’approvazione divina per quanto si stava compiendo. Invece era il confine che urlava per la ferita aperta. Corbiniano si era addormentato nella certezza che un giorno, come disse il profeta, la mano del Signore avrebbe aperto i sepolcri, risuscitato i giusti dalle loro tombe, portati a riposare nel loro paese4. Ora invece le grinfie degli sgherri di Arbeone avevano violato il sepolcro del santo, per trafugarne i resti mortali e depositarli in un paese che mai era stato sua patria. Non vi era nato e non vi era mai morto davvero. A Maia invece era stato condotto da mani invisibili, vi aveva trovato rifugio, aveva amato le sue contraddizioni e giurato a se stesso di tornare a presidiare il punto di contatto tra ciò che unisce e ciò che divide (tra Colui che unisce e Colui che divide). La rocca restò per secoli nella desolazione. Quando si erse la Merano dei conti di Tirolo, monte Sanzeno tornò a essere un castello, dopo il 1301 una delle residenze preferite del principe. Vi si trova, scolpita sul portale della cappella, una delle più antiche rappresentazioni dell’aquila tirolese, quasi a ricordare agli abitanti di questa terra, che poi se ne sarebbero scordati (perché, come Arbeone, hanno la memoria corta), che il Tirolo è la frontiera. È muro da abbattere e porta da aprire. È terra di passaggio. Non a caso al centro del Tirolo storico corre un confine, ponte tra mondi, storie e continenti. 4

Ezechiele 37,12b-14. 22


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Fu a castel Sanzeno, su quella frontiera, che re Enrico scrisse, nel 1317, il primo ordinamento della città di Merano? La rocca fu distrutta trent’anni più tardi da Carlo di Lussemburgo, l’unica volta che Merano, la città sul confine, fu messa davvero a ferro e fuoco. Fu l’inizio di un nuovo declino. Il fiume, nei secoli successivi, dette altri segnali di insofferenza. La prima volta nel 1419, quando un’ondata di piena s’infilò nell’imbuto della gola di Maia e di lì fu sparata con inaudita potenza sulla città. Travolse l’ospedale e l’annessa chiesa con prete e fedeli. Accadde al mattino di un venerdì, festa di san Maurizio, nelle tempora d’autunno. Fu dopo questo evento terrificante che i conti abbandonarono Merano per Innsbruck. Il fiume, dalla rabbia, si abbatté sulla città altre sette volte. *** Il confine di Merano non è una favola d’altri tempi né solo una suggestiva metafora. Benché superata dagli sviluppi dell’Europa unita, la frontiera tra Austria e Italia scorre ancora oggi, e dal 1919, sullo spartiacque alpino, a una dozzina di chilometri (in linea d’aria) dalla città. Qualche passo indietro. Nel 1810 la frontiera tra il regno d’Italia napoleonico e la Baviera di re Massimiliano Giuseppe era stata tracciata a poche miglia a sud della città del Passirio. Fino al 1818, a partire grosso modo dai tempi di Valentino, il fiume segnò il limite tra le diocesi di Trento e di Coira. Già prima di Cristo il Meranese fu crocevia tra i popoli dei venosti e degli isarci, i cui rapporti commerciali 23


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con le genti italiche precedettero di molto la conquista imperiale, avvenuta ad opera di Druso, figlio adottivo di Augusto, nel 15 a.C. È probabile che in età romana a Maia corresse la frontiera amministrativa tra la Regio X e la Raetia e successivamente, col IV secolo, tra la Raetia Prima e la Raetia Secunda (le “due Rezie” di Valentino), o tra la Raetia e la Venetia. Quella di Maia rimase a lungo zona di confine: vi si incontrarono i longobardi, che provenivano da sud a partire dal 568, i franchi, che arrivavano da ovest e si insediarono nella Venosta dopo il 580, infine i bavari che scesero da nord giunti da Oriente. Fu frontiera del ducato di Trento, poi dei comitati di Bolzano, Appiano e Venosta, confine settentrionale della prima estensione dei territori affidati alla giurisdizione dei principi vescovi tridentini. Qui però non si è voluto parlare di confine nel senso di una frontiera politica o amministrativa, sempre soggetta alle bizze della storia e alla vanagloria del potere. Oggi ci è nota – ma non lo era ai protagonisti della nostra storia – la teoria della deriva dei continenti, formulata nel 1912 dal geofisico tedesco Alfred Wegener. Le terre emerse sarebbero arrivate alla posizione attuale a partire dallo smembramento di un unico grande blocco continentale circondato da un vasto oceano. Intorno a 190 milioni di anni fa la zolla africana, dopo essersi spinta per decine di milioni di anni verso sud, cominciò un’impercettibile marcia di riavvicinamento al continente euro-asiatico. Più o meno 60 milioni di anni fa, i due continenti si ritrovarono nuovamente di fronte. È 24


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possibile che il primo frammento dell’Africa a entrare in collisione con l’Europa sia rappresentato dalla microzolla Apula (da cui l’attuale penisola italiana). Le Alpi sarebbero nate in seguito alla collisione tra la zolla africana e quella europea. L’Africa, in altre parole, si è incuneata nell’Europa e le Dolomiti ne sono una meravigliosa avanguardia. Il punto di contatto tra i due continenti – il confine – sarebbe dunque rappresentato da una lunga ma invisibile frattura, detta “linea insubrica” (o linea “periadriatica”), che corre dal passo del Tonale fino al Canavese a ovest e alla val Pusteria a est e segna il limite geologico settentrionale delle Dolomiti, ovvero dell’Africa geologica. Ebbene, la “linea insubrica” taglia a tutt’oggi in due Merano, passando esattamente ai piedi di castel Sanzeno, il sito dell’antico Castrum maiense. La si può riconoscere analizzando la composizione geologica delle pareti sottostanti il castello. Al di qua e al di là della gola e del ponte che l’attraversa si fronteggiano due continenti che premono l’uno sull’altro: l’Africa e l’Europa. Corbiniano non poteva saperlo. Tuttavia, a differenza di Arbeone e di tanti altri, ne ebbe chiara percezione, nel profondo della sua anima errante. In passato quel luogo fu sede di numerosi terremoti, movimenti tellurici e boati. L’ultimo di questi rombi lo si sentì distintamente, a Maia, la sera di un giorno senza nuvole, nell’anno del Signore 769.

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ERSCHEINUNGSTERMINE / PIANO DELL’OPERA

IL CONFINE È IL LUOGO DOVE (SE PASSI) ACCADE QUALCOSA

DAS HAUS MEINER MUTTER APRIL / APRILE ANNE MARIE PIRCHER

PAOLO BILL VALENTE

MERAN O MERAN. EINE LIEBESGESCHICHTE

LA SIGNORA DEI CAVALLI JUNI / GIUGNO

SELMA MAHLKNECHT

HOTEL MERÎDIAN PASSAGEN. PARTONO I BASTIMENTI KURT LANTHALER

SANDRO OTTONI

SEPTEMBER SETTEMBRE

L’APPARTENENZA LAURA MAUTONE


Ad alta voce | Stille Post 700xM Un’azione letteraria Sei autrici e autori, tre di lingua italiana e tre di lingua tedesca, accompagnano con i loro racconti, scritti appositamente per quest’azione, i lettori per vie e luoghi simbolo di Merano, per la storia, recente e antica, di questo luogo, raccontando la vita – o almeno una parte di essa – di persone e personaggi per i quali la città del Passirio ha svolto un ruolo importante. Ad alta voce | Stille Post 700xM vuole proporre uno sguardo letterario sulla città di Merano che permetta di avvicinarsi a questo luogo attraverso le sue storie: inventate e reali, sorprendenti e impreviste. Elisabeth Hölzl arricchisce questa collana con le sue immagini di interni meranesi.

Paolo Bill Valente è nato a Merano dove vive. Scrittore e giornalista, ha svolto numerose ricerche sulla storia della sua terra plurilingue, portandone in luce alcuni aspetti nascosti o rimossi. Attualmente è direttore della Caritas della Diocesi Bolzano-Bressanone. In ambito narrativo ha pubblicato tra l’altro Di là del passo, racconti, Edition Raetia 2003; La città sul confine, racconti, Edizioni OGE, Milano 2006; Diario del maestro di Cordés, Edizioni alphabeta 2013; Leggende meranesi, Edizioni alphabeta 2014


IL CONFINE È IL LUOGO DOVE (SE PASSI) ACCADE QUALCOSA

PAOLO BILL VALENTE


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