LA SIGNORA DEI CAVALLI
SANDRO OTTONI
Ad alta voce | Stille Post 700xM Un’azione letteraria Sei autrici e autori, tre di lingua italiana e tre di lingua tedesca, accompagnano con i loro racconti, scritti appositamente per quest’azione, i lettori per vie e luoghi simbolo di Merano, per la storia, recente e antica, di questo luogo, raccontando la vita – o almeno una parte di essa – di persone e personaggi per i quali la città del Passirio ha svolto un ruolo importante. Ad alta voce | Stille Post 700xM vuole proporre uno sguardo letterario sulla città di Merano che permetta di avvicinarsi a questo luogo attraverso le sue storie: inventate e reali, sorprendenti e impreviste. Elisabeth Hölzl arricchisce questa collana con le sue immagini di interni meranesi.
Sandro Ottoni è nato e vive attualmente a Bolzano. Ha studiato filosofia a Firenze e quindi svolto attività giornalistica e politica in ex Jugoslavia e altri paesi. Attualmente si occupa di editoria e informatica. Ha pubblicato fra l’altro: Un anno alle Semirurali, Fernandel 2006; Suonate voi. Io ho suonato abbastanza, biografia di Cianci Gatti, Silvana 2007; Acciaierie, con Antonio Caldonazzi e Andrea Castelli, Teatro Stabile Bolzano 2009; Undici traslochi. Vita di Gemma, alphabeta 2011.
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Un’azione letteraria di Eine Literaturaktion von
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Un’azione letteraria | Eine Literaturaktion
Ad alta voce | Stille Post | 700xM con il contributo di | mit Unterstützung von
Deutsche Kultur
Cultura italiana
Ottoni, Sandro: La signora dei cavalli © 2017 Sandro Ottoni Edizioni alpha beta Verlag, Meran/Merano www.alphabetaverlag.it | www.edizionialphabeta.it books@alphabeta.it All rights reserved Cover: Elisabeth Hölzl Impaginazione/Umbruch: A&D Stampa/Druck: Cierre Grafica, Caselle di Sommacampagna (VR) ISBN 978-88-7223-285-9
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LA SIGNORA DEI CAVALLI SANDRO OTTONI
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I. Signora, – diceva l’uomo, – io ho visto l’altro mondo! La donna rabbrividì, l’aria era ancora fredda sebbene l’estate fosse già iniziata. Ghiacci e neve dell’inverno erano sciolti, i sentieri sgombri e praticabili. – L’ho visto in sogno ma era un sogno così chiaro, così vivo, che mi pareva solido e presente come siamo io e voi qui di fronte. Il fuoco ardeva ma la vecchia si strinse nella tunica di capra. Poi parlò lenta, ansimando. – I sogni, tutti i sogni vengono dagli dei. Chiari o scuri, tutti ci parlano del loro volere, della loro ira o benevolenza. E dunque, raccontami ogni dettaglio e lascia i commenti per il dopo, – disse Oona, la strega celta. – Bene. Nel mio sogno io mi trovavo proprio qui nei pressi, nel fondo della valle, al torrente, laggiù dove si guada alla passerella, all’imbocco della gola per il nord. – Al sentiero del sale? – Sì, quello. Quello era il luogo, dove traversano gli asini. Io mi trovavo in alto a guardare giù, verso il fiume, e l’acqua era azzurra e verde come le pietre che chiamano smeraldi. Ma ora, nel sogno, notavo che non vi era più alcuna passerella e mi accorgevo di sostare non s’una rupe, ma proprio sopra il fiume. Affacciato da un ponte di pietre e archi mi tenevo afferrato a una balaustra e osservavo, assieme allo scrosciare dell’acqua, le mie mani. Notavo allora che non erano più le mie mani, erano pic5
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cole e bianche, non erano le mie, erano di un altro corpo. E quel corpo all’improvviso si era messo in movimento e io non potevo che seguirlo, e farmi trascinare. Mi sentivo impotente, prigioniero di un altro come gli fossi incatenato, sopra o dentro non so dire. Vedevo le sue azioni attraverso i suoi occhi e percepivo odori e rumori e tutte le sue sensazioni. Parole oscure, brandelli di pensieri e sentimenti sorgevano da quel demone e mi entravano nella mente e la occupavano. Ma quello, lì sopra quel ponte al sole, non provava alcuna paura, al contrario si sentiva bene. Poi, quest’ospite o carceriere (o forse Karun che rapisce i morti?) non so come chiamarlo, si mise a camminare lungo il ponte nell’aria tiepida, del tutto ignaro della mia presenza. Ammirava a destra e a sinistra la stretta gola all’incrocio delle valli, la rocca con una grande torre stagliata a nord, la vegetazione lussureggiante che scendeva per le sponde incontro al sole. Avanti si avvicinava la montagna: la stessa dove siamo ora. Ho riconosciuto lo sperone e la linea del monte lontano che lo interseca. Mi trovavo nel fondo della valle, sotto il cielo però e sotto le creste tutto era mutato. Non vi erano paludi ma solo il fiume che correva fra enormi argini, la collina non era più brulla bensì ricoperta di piante e fiori e formidabili palazzi. Era gradevole alla vista e percorsa da un sentiero in declivi. Per terrazze, lungo il fiume e per i sentieri, una quantità di demoni o forse dei, privi di armi e vestiti con abiti leggeri, salivano o scendevano con grande calma e sorridendo. – Mi pare un ben curioso inferno! – Commentò la vecchia. – Sì, ma io lo temevo e tutto, invece che piacevole, mi pareva opprimente e falso. Infatti, ancora ammaliato da quella visione, fui assalito da un suono maligno. Era un 6
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rombo di tuono o forse un rumore profondo della terra, così forte e acuto e penetrante come non avevo mai udito. Apparve allora un carro di un colore rosso carneo e luccicante che mi sfrecciò davanti in un istante e scomparve portando con sé il rombo. – Un carro dici? E chi lo guidava e cosa trasportava? – Anche questo è un mistero. Non lo so, mia signora, ero troppo spaventato e temevo di essere morto. Forse lo guidava Aplus ed era il carro del sole, o forse sua sorella ed era la luna, ma io credo fosse invece un carro infernale poiché non era trainato da buoi né da cavalli, né lo spingevano gli schiavi. Io ho visto le sue ruote nere ed erano queste a muoversi, da se stesse, ve lo giuro! – Per Fufluns! Non giurate stolto su quanto non capite! – Si infuriò la donna. – Ma io… Scusate. Non riesco a ripensarci senza tremare. Perché quel corpo che mi imprigionava e che aveva pur assistito al prodigio, non se ne era per nulla intimorito! Per nulla, era rimasto indifferente e tutto assorto nelle sue considerazioni. Proprio allora, per la prima volta, ho percepito con chiarezza un suo pensiero: «Come ho potuto ficcarmi in un tale pasticcio?» Queste furono le sue singolari parole. E questo è stato il mio primo sogno da cui mi risvegliai tremando. – Il primo dite? – Sì, tre volte ho sognato, per tre notti, appena giunto al villaggio, al castelliere di Maja, ma il sogno era il medesimo, mia signora. – Chiamatemi Oona, che è il mio nome, e ripetetemi il vostro. – Sono Mavius, il rasna, mia sign… Oona. Commercio in ambra e manufatti con i signori delle valli. Pro7
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vengo dalla pianura e viaggio da molti giorni lungo l’Atheses e i suoi acquitrini. Intendo raggiungere la Duna, ov’è il mercato migliore per l’ambra. Ma ora non posso più procedere dacché le fitte di un dolore inspiegabile mi tolgono il respiro e il sonno, mi impediscono il passo, un dolore che ho qui nel petto e proprio nei sogni è cominciato. E dunque signora, Oona, mi hanno parlato di voi lassù, al villaggio, dicono che divinate il futuro e curate i mali che ci mandano gli dei. – Sì, sì… Riconosco il vostro accento, un rasna, un etrusco, diciamo noi. – Sì, così ci chiamano i latini, ma noi siamo rasna. Sono nato a Velathri, ma frequento ormai da molti anni queste montagne e vivo a Verunia, dov’è la mia casa e la famiglia. Ma di questo vi dirò dopo, se vi piacerà. Continuerò adesso con il sogno… – No, no, aspettate, beviamo prima del vino, ci darà coraggio per parlare e per ascoltare. «Come ho potuto ficcarmi in un tale pasticcio? Che assurda frase. E continua a venirmi in mente. Mediocre alla fine. Ciccio ciccio nel pasticcio. Gastronomia. Lasagne precotte. Ficcarmi in un tale casino? In un guaio? In un cazzo di guaio? Mah. Detto meglio sarebbe: sono finito in un oscillante inferno di sentimenti, desiderio, progetti insulsi e tentativi falliti di uscirne con il finale previsto e prevedibile del disastro. E dirsi ancora sempre: idiota, come hai potuto?» Rimuginava Mario Lavini, attraversando il ponte Romano, a Merano, un sabato mattina ai primi di luglio 2016, per uscirne alle passeggiate sul Passirio, dette Invernali, che conducono alla rocca di San Zeno. Il furgoncino rosso, appena sfrecciato, piuttosto aggressivo per 8
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quel transito pedonale, gli aveva assurdamente ricordato il colore del suo rossetto, del rossetto di lei, Sigi. Siglinde. «Eh, come si può… si può. Basta una sfumatura, un profumo. Se voglio pensarci, tutto me la ricorda. Il fatto è semplice. Lei mi piaceva e io la desideravo. È così che si diventa idioti, passa una macchina rossa e lei ti viene in mente. Ancora. Dopo tutto quello che è successo. Idiota in origine significa privato, l’ho visto in Google, di per sé, separato, quindi uno allontanato e insultato perché non partecipa alla comunità. Ora vuol dire solo scemo. Più adatto infatti nel mio caso e direi precisamente: “idiota sentimentale”. Proprio io che mi dicevo razionale. Uno scemo sentimentale che si separa, se ne sta per sé. Tutto solo ad aspettare… Lei. Eh. Comunque non più, non realmente. Idealmente sì però. Ecco l’idiozia. Non riesco a staccarmi dalla sua immagine, non riesco a non pensarla. Anche se non la vedo da due anni, anche se la mia vita familiare è distrutta, anche se mia figlia piccola mi disprezza. E Daniele, non so, forse non gli importa o non vuole saperne niente. Lui è grande, quasi. E Gianna? Cos’è con lei? Mia moglie. La donna che avevo deciso di sposare, per vivere assieme con i figli che avevamo immaginato. Gianna Nencini. Gli scherzi e le rime sui nostri cognomi. Ci avevo creduto alla promessa. In quel momento e dopo. Ti proteggerò, ci proteggeremo, sempre. Il matrimonio è stato forte, importante. È durato. Che cosa avevo creduto? Che il nostro amore fosse immenso. Che eravamo fatti l’uno per l’altra, che ci corrispondevamo, che lei era quella giusta e che io ero giusto per lei. Ci saremmo bastati, noi e i figli, una casa, il mio lavoro e il suo, le vacanze, i nostri film, le gite al mare, le amicizie, le cene, crescere i figli soprattutto. Ci siamo sposati nel ’95, di maggio, ventuno anni fa. Daniele ne 9
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ha diciotto, Silvia undici. Abbiamo voluto Daniele e tanto sperato in Silvia, e li abbiamo avuti. Sono dei magnifici figli e ne siamo fieri. Forse è l’unica cosa di cui siamo ancora fieri, io e Gianna. Questo almeno ce lo siamo detti, almeno. Per il resto Gianna mi ha insultato, mi ha accusato di calori senili e cervello ottenebrato dagli ormoni. Ho cercato di spiegarle che mi ero innamorato, mi ha riso in faccia: – Sì, con l’uccello! Ci siamo visti alcune volte dalla separazione, a un matrimonio, ai compleanni dei ragazzi. Io ho amato Silvia, e Daniele e Gianna. Li amo ancora. Però con Gianna adesso tutto è diverso.» Mario proseguiva lungo il fiume, camminando verso la città. La giornata splendida, il sole caldo, l’aria frizzante e l’animazione intorno cospiravano a distrarlo da quei pensieri tristi. Si sentiva in forma. Anche l’angina, che era tornata a infastidirlo in primavera, era sparita da settimane. In tutti i casi la salubre brezza di Merano avrebbe solo giovato.
II. La capanna di Oona, era impregnata del profumo di erbe appese a mazzi al soffitto e intorno. La strega e il suo consultante sedavano su sgabelli vicino al focolare, tra di loro c’era una panca con dei boccali e brocche, con vino, acqua e miele. – Per raggiungere il vostro villaggio ho camminato molte pertiche al giorno con il mulo, di notte mi accampavo nel bosco in una buca o in un riparo. Al castelliere dormo presso il fabbro, nel fienile. La seconda notte il sogno è ripreso nello stesso luogo e istante in cui si era 10
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interrotto. Di nuovo ero prigioniero e il mio padrone si allontanava dal ponte per una terrazza lungo il fiume. Intorno a noi era una folla di esseri fantastici, vestiti in modi colorati e con fogge tanto inconsuete come mai ho visto, nemmeno ai saturnali. Certi si muovevano placidi e contemplativi, altri si affrettavano veloci e corrucciati. Forse i primi erano i morti e i secondi i loro demoni? Eppure non mi pareva perché tutti erano indifferenti gli uni agli altri e il mio ospite vi si mescolava perfettamente a suo agio. Adesso percepivo chiaramente i suoi pensieri. Ma quali pensieri! Costui ragionava con nomi e parole non sempre comprensibili, e le sue preoccupazioni non parevano affatto quelle di un demone, né di un dio, piuttosto pensieri molto umani. Quell’individuo soffriva e portava il rammarico di una colpa ed era tormentato da un male di amore. – Amore? – Sì, di amore, sproloquiava tra di sé di figli e moglie e pensava a un’altra donna. Costui giunse, giungemmo, a un porticato alla maniera greca, con esili colonne adorne di fregi e ricoperte di piante. Il portico era animato di pitture e statue, compresi allora di trovarmi in un tempio. Il mio ospite si fermò davanti un’iscrizione sacra e ne lesse il contenuto fitto di segni. E io, che non so leggere, intesi ugualmente: quel tempio era un luogo dedicato alla salute e il pellegrino qui risanava invocando, marciando e bevendo il ciceone. Alcuni devoti sedevano composti e pregavano guardando e reggendo in mano delle tavolette nere. E certi parlavano con queste o le tenevano davanti al viso tutti assorti come in un rito. Poi si udì una musica celestiale e una fanciulla sì alzò in piedi invocando il dio. Poi il mulo sbuffò e io mi svegliai.
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I turisti lungo la promenade si davano placidi a sgranocchiare, a leccare gelati, alle foto, alle mappe, ai cellulari. Mario aveva raggiunto un porticato sorretto da colonne di ferro floreali. Nell’incedere morbido dei passeggiatori gli unici affaccendati e svelti dovevano essere meranesi. Si era fermato a leggere un cartello turistico in tre lingue, dedicato alla Wandelhalle, che significa portico del passeggio e che risultava costruito per i pazienti ottocenteschi dei centri di cura. Qui gli ospiti si ritrovavano al fresco del torrente, digiuni all’alba, per ricevere la “cura del siero di latte” e quindi camminare al ritmo della “musica curativa” eseguita da un’orchestrina. Due turiste sedevano su una panchina rivolta alle pitture di una nicchia. Un cellulare aveva suonato una melodia improbabile, la più giovane si era alzata per rispondere. S’informava di qualcuno al mare, pareva stesse bene, ottimo tempo, anche da noi... Gli ultimi dieci anni, da quando Gianna aveva ereditato l’appartamento dei genitori a Follonica, Mario e famiglia erano sempre andati al mare. I bambini si divertivano, Gianna si abbronzava e leggeva gialli, lui nuotava e organizzava gite per il litorale. Erano belle estati. Superato il ponte della Posta e alcuni chioschi, Mario aveva raggiunto il Kurhaus, ammirato le vetrate e proseguito fino al ponte del Teatro. Lo aveva attraversato e raggiunto la sua meta: Costantin, rinomata gelateria. Gliene aveva parlato Sigi, era il suo ritrovo preferito da ragazza, negli anni 90, ci andava con i liceali. Era un locale piccolo con qualche tavolino all'aperto. Mario si era seduto a prendere un gelato. Vaniglia, mirtillo e panna montata. Erano bravissimi a fare i gelati da queste parti, la panna poi, superlativa. Altro che Mukki latte. Si era messo a un tavolino nell’angolo più esterno in modo da ammirare il 12
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ponte e il passeggio. Sentiva il sole scottare. Saranno in spiaggia a quest’ora, pensava. Tutti al mare, la sua famiglia, ex famiglia. Merano l’aveva scelta per Sigi. Lei era di lì. Siglinde Kofler. Non ci viveva più da molti anni ma gli aveva parlato a lungo dei suoi ricordi di bambina e ragazza. Merano che in primavera era un tripudio di fiori e di colori lungo il Passirio, Merano con la neve e i portici e le caldarroste. E in estate amava le valli e i laghi, e in tutte le stagioni le montagne per le escursioni e le cavalcate. Adorava i cavalli. Da giovane aveva cavalcato moltissimo, fin da bambina con suo padre e dopo con una compagnia. Sigi era così, tutta natura e attività fisica e vita sana. L’aveva conosciuta a Firenze, a Piazza dei Ciompi, in un ristorante vegetariano dove ci si sedeva alla rinfusa. In uno spazio angusto avevano ordinato gli stessi piatti, si erano messi a parlare. Lei era un’esperta, conosceva i vegetali e i loro benefici, parlava dello yin e dello yang, raccomandava le alghe, il respiro addominale, il sentire le cose e la meditazione. Mario annuiva e mostrava un interesse educato, infilando però ogni tanto commenti dubbiosi e battutine. – Mah, sai, io sono un tipo pratico, – le aveva detto alla fine, – sono un geometra e non capisco molto di queste cose. Non sono neanche vegetariano in effetti. Vengo qua perché lavoro al Catasto, qui dietro, e ho i buoni pasto del Comune. Comunque apprezzo. Le insalate, i cereali è un modo leggero di mangiare e puoi lavorare bene fino a sera. Poi lo yin, lo yang, sentire le cose, non lo so. I sentimenti sono una cosa complicata. Però credo nell’amore, quello sì. – Oh beh, quello anch’io, – aveva detto lei, ridendo. 13
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Si erano salutati. Siglinde gli era rimasta simpatica, parlava bene e con sicurezza, aveva i capelli biondo chiaro, grandi occhi celesti e una bocca che si arricciava in una strana piega affascinante, e aveva un bel sorriso. Una pazzerella divertente. Nei giorni successivi, a pranzo, si erano incrociati di nuovo e si erano seduti altre volte assieme. Lei era altoatesina di lingua tedesca ma parlava molto bene l’italiano. Usava anche espressioni toscane, arrotava però le erre e aveva le “c” dure. – Come facciamo noi tirolesi! – gli aveva detto ridendo e marcando le consonanti. Abitava a Firenze da vent’anni, ci era venuta per studiare architettura, poi aveva abbandonato per dedicarsi al lavoro. I primi tempi aveva svolto una piccola attività di bigiotteria a mano, cose da mercatini. Poi le era capitata un’occasione e adesso aveva una bottega di oggetti d’arte e gioielli, in affitto. Molti li produceva lei stessa in un minuscolo laboratorio dietro al negozio, lì nei pressi, in Borgo Allegri. Era sposata con un compagno di università, pistoiese, che realizzava impianti per una ditta di illuminazione. Nei fine settimana e per le ferie viaggiavano il più possibile, in treno e in bicicletta. Esploravano paesaggi e località, dormivano negli ostelli per bikers, pedalavano su e giù per territori e bellezze naturali. E le sue Alpi, due volte l’anno almeno. Non avevano figli, non erano venuti. – Stiamo ancora bene insieme, – gli aveva confidato, – ma siamo una coppia in crisi. C’è tanto affetto ma spesso abbiamo bisogno di staccare. Io ho il mio negozio, lui viaggia spesso, e quindi è più facile. Ci facciamo compagnia soprattutto, – e poi ridacchiando, – come fratello e sorella. Litighiamo anche purtroppo. Poi ci vogliono dei giorni per riprendere a parlarci. 14
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Anche Mario si era aperto e aveva trovato nei problemi di lei uno specchio della difficoltà in cui lui stesso si dibatteva. Voleva bene a Gianna, ma non la desiderava più. E questo era reciproco. Andavano abbastanza d’accordo, avevano una vita tranquilla, fatta di routine, di progetti legati ai figli, di cure e soddisfazioni domestiche. Molte abitudini, ma anche noia, specialmente per Mario che si sentiva invecchiare e vagheggiava di «fare qualcos’altro». Anche l’amore fra di loro era entrato nella lista delle abitudini; accadeva ogni tanto, perché si doveva, come una specie di prova o di rito del loro stare insieme. Siglinde aveva assentito e aveva aggiunto: – Sì, è così anche per me. Non so perché. È una cosa che odio, ma è così, la passione si spegne. Prima si accende, poi si spegne… Non so, è una specie di semaforo. – Avevano riso. Il gelato era finito, Mario aveva leccato il cucchiaino e guardava il pacifico traffico meranese che si svolgeva per il ponte del Teatro. Le auto andavano pianissimo, si fermavano continuamente alle strisce, i ciclisti suonavano il campanello, un vigile sorvegliava distrattamente. I vigili dalle sue parti gli sembravano più agitati. Si era incamminato per il centro, aveva gironzolato per i Portici, comperato regali per i figli. Poi era tornato alla seggiovia per salire a pranzare all’hotel. All’agenzia gli avevano proposto questo pacchetto di tre giorni, abbastanza conveniente, un albergo con piscine, in collina, su una rocca elevata collegata alla città con una seggiovia, gratuita per i clienti. Da lì, dal monte Benedetto, la mattina era sceso lungo le passeggiate. Ora risaliva, appeso a una fune e cullato da una seggiola rossa, a qualche decina di metri sopra bassi vigneti ben curati, carichi di uva acerba. 15
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Una volta Siglinde lo aveva invitato a visitare il negozio, un lunedì mattina, nell’orario di chiusura. La vetrina esibiva un repertorio vario di bijou e chincaglieria in cui spiccavano però alcuni pezzi interessanti. Un po’ vergognosa lei gli aveva detto: – Questa è roba standard, sai, per i turisti… Eh. In realtà è quello che vendo di più. – Poi gli aveva mostrato altre teche con la sua “vera” produzione: braccialetti, pendagli, orecchini in metalli poveri, ma anche statuine in bronzo e oggetti di arredamento. Usava forme semplici, primitive, molto espressive e ricche di dettagli realistici. Varie figure ritraevano animali e ovviamente cavalli. – Sono proprio belli, – aveva commentato Mario, sorpreso, – molto originali. – Allora Siglinde gli aveva parlato dei Reti, antiche popolazioni che abitavano le valli alpine prima della conquista romana, della loro arte metallurgica e della decorazione. – Sai, non sono famosi come i Celti, neanche così raffinati, però questi lavoretti a me piacciono molto, anche se sono meno facili da vendere. Sono cari, ho paura. Sai per fare un bronzo a cera persa devi lavorare parecchio, fra modello, stampo, costo della fonderia, rifinire il pezzo, insomma, tempo e spese. Ora ci sto provando con internet. – Gli aveva mostrato il suo sito web: “La chiave di Reitia”, in cui presentava i suoi lavori. Reitia, gli aveva raccontato, era una dea dei Venetkens, gli antichi veneti, dea delle acque e della salute. Il suo tempio più importante era stato scoperto a Este, vicino all’antico letto dell’Adige. Reitia, secondo alcuni, sarebbe stata anche una dea dei Reti, da cui anzi questi avrebbero preso il nome, così come le Alpi retiche, la Rezia, e altri toponimi. Per molti archeologi l’ipotesi era infondata, ma per alcuni c’erano altri indizi, oltre al nome, e concordanze 16
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che deponevano a favore. I cavalli per esempio, gli animali più raffigurati nel mondo retico. Proprio i Venetkens avrebbero diffuso lungo l’Adige il commercio e l’uso dei cavalli e assieme a questi il culto della dea, protettrice dei cavalli e degli animali. E poi… Mario era affascinato dal calore con cui lei gli parlava di quelle antichità e dell’arte che le ispiravano. Era davvero in gamba. Un po’ mistica magari, però aveva un mondo tutto suo, e ci stava bene, ci credeva. Siglinde ora gli mostrava un gioiello cui stava lavorando, un pendaglio di forma triangolare appoggiato sul banco del laboratorio. Era la sagoma di una donna le cui braccia terminavano in forma di teste equine. La veste era ornata di lancette. – In realtà ho cominciato con questa figura a interessarmi ai gioielli retici. Ci sono capitata per caso, per colpa di Tappeiner e dei cavalli naturalmente… – Tappeiner? – Sì, uno dell’ottocento, un medico asburgico e molte altre cose. Franz Tappeiner. Ho letto una sua biografia. Il promotore della passeggiata più famosa di Merano. Le passeggiate Tappeiner, appunto. È un must della città… Comunque lui era anche un antropologo e un archeologo, tant’è che ha fatto degli scavi, lui personalmente, lungo le passeggiate, in un Brandopferplatz. – Un cosa? – Ah. Come si dice in italiano? Un rogo… qualcosa. Un rogo votivo! Dalle nostre parti, spesso sulle cime delle montagne, si trovano residui di questi roghi millenari. Cumuli di cenere sotto la terra, con reperti, ceramiche, ossa. Si pensa ci facessero sacrifici, offerte agli dei, gioielli, animali e anche uomini. In questo sopra Merano, al Segenbühel, Tappeiner ha ritrovato vari oggetti, lamine 17
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di bronzo e pendagli, alcuni con le braccine a forma di cavallo, simili a questo. E allora sfogliavo questo libro e ho visto le lamine dei cavalli. Poi ho fatto ricerche e ne ho trovate molte altre più dettagliate e bellissime come questa. Ho deciso di provare a imitarle. Ecco. – Però che brava! – Grazie. Questa è appunto una signora dei cavalli, una figura frequente nell’area. Dovrebbe essere Reitia, in effetti. Comunque una “signora degli animali”, una dea che si ritrova in tutto il mediterraneo e anche in Oriente. E nel nord europeo. Si associa ai culti di Artemide o Diana, perfino alla Grande dea. – Mm. Ma la testa sarebbe quest’anello in cima? – Sì, cioè no, l’anello di solito è sia la testa che l’aggancio del pendaglio, ma in questo caso, nel modello originale c’è una stranezza, che io ho imitato. C’è un’altra testa, sbalzata nel bronzo, qui in mezzo ai seni, sopra il cuore. Ma io l’ho fatta a parte per incastonarla. – E gli aveva mostrato una piccola faccia d’argento, circolare, un volto androgino con zigomi pronunciati e grandi occhi scavati e ravvicinati, la bocca diritta, enigmatica. L’aveva quindi collocata nel castone. Mario l’aveva osservata con attenzione. – Sono molto ammirato, aveva detto, ammiratissimo… è stupenda. C’è un’idea di antichità, di qualcosa di alieno, di estraneo, ma appena la guardi in un altro modo ti sembra una figura conosciuta… sembrerebbe… è una luna? È la luna!? – Sì! – aveva detto Sigi battendo le mani. – Bravo! Hai indovinato. Hai molta più intuizione di quello che dici. – No, sei tu che sei bravissima, davvero. Si erano guardati negli occhi. Poi si erano baciati. Poi avevano fatto l’amore, lì su una poltroncina nel retrobottega, con un impeto e un desiderio che Mario non sapeva 18
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più di avere. Così era iniziata una relazione clandestina di fughe fuori città, di incontri amorosi in auto per le campagne e le piazzole di Serpiolle, in case diroccate o all’aperto tra gli ulivi quando era arrivato il caldo. La possibilità di esser visti, scoperti, accresceva il loro gioco erotico. E la consapevolezza di un agire irresponsabile era un incentivo del desiderio. Per Mario soprattutto. Si sentiva in colpa per il tradimento e si accusava di debolezza per essere venuto meno alla sua promessa eppure, proprio per questa debolezza aveva ritrovato la voglia di vivere. Sigi era meno problematica, ripeteva «non facciamo niente di sbagliato», alla fine era amore, era desiderio. Era una cosa bella che accadeva tra di loro. Erano le circostanze a rendere tutto difficile. Non si sentiva in colpa, però non voleva «far soffrire delle persone». C’era una situazione solida intorno a lei, degli affetti, e temeva la reazione del marito e dei loro amici. E dunque era bene si vedessero così, per come era possibile. «Certo», si diceva Mario, «ha ragione. Non facciamo niente di male. E abbiamo le nostre vite e questa passione gli dà solo qualcosa in più, fino a che dura.» Tuttavia Sigi gli piaceva sempre di più, gli piacevano le sue dolcezze, la sua capacità di accogliere, i suoi sorrisi e il suo modo di preoccuparsi di lui. Ma quando Mario le diceva: ti amo, lei rideva e gli diceva: – Ma va, è un gioco, dobbiamo essere leggeri, siamo sposati. – Sì, concedeva lui, ma non ci credeva. Soffriva quando dovevano rimandare i loro incontri, quando la sapeva con altri, quando dormiva con suo marito. Era sempre in attesa di un suo messaggino. Comunicavano soprattutto con quelli, al cellulare, in certi modi stabiliti e certe ore. E c’era la regola di non chiamarsi mai nei weekend.
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III. – La terza notte ho sognato di volare e veramente volavo. Seduto, trasportato su una sedia, appesa per ingegno a corde d’argento o d’oro e tirata da pulegge di cinabro, mosse da spiriti. Buoi infatti non si vedevano, né il mio ospitante se ne dava pena. Le sue pene erano tutte interiori, tutte legate a questa donna il cui ricordo lo ossessionava. Ne era stregato, vittima di una malia. Sorvolando, ammiravo le piante selvagge della montagna e poi filari carichi d’uva, così tanti, così ordinati, come mai avevo visto. E in cima alla rocca un palazzo meraviglioso ci veniva incontro e io lo credo la dimora degli dei. Ma all’improvviso, nei ricordi dolenti del mio anfitrione, è apparsa un’immagine. Un gioiello, Oona, un pendaglio della dea. Un oggetto luccicante, di bronzo finissimo, migliore e lavorato tuttavia identico a un gioiello vero che io stesso possiedo! Mavius aveva allora estratto dalla sacca, togliendolo da una pezza, il pendaglio di Reitia e lo aveva adagiato sulla panca davanti Oona. – L’ho sognato, era questo. Era quest’oggetto, che io ho scambiato giorni addietro con un prezioso boccale, ed era il medesimo gioiello! Poi mi sono svegliato tanto era opprimente quella figura. E allora, in quel momento, mi è cominciato il dolore al petto, un dolore che parte qui dal cuore e sale fino alla spalla. Una sofferenza che va e che viene, che non mi ha più lasciato da quell’apparizione della dea. Scendere dal castelliere e risalire qui da voi è stato faticoso, e anche ora lo avverto e sono afflitto. In queste condizioni come potrò proseguire il mio viaggio verso la Vindelica? Da dove questi sogni e questo male?
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Mario aveva pranzato con soddisfazione, si era fatto un pisolino, poi era sceso di nuovo a piedi a Merano, lungo il sentiero fino alle scalette alle spalle del duomo. Da lì era sbucato in piazza e si era fermato a un’enoteca. Qui aveva apprezzato il Gewürztraminer, davvero aromatico come da nome, ma non dolce. Doveva comprarne una cassetta lunedì, prima di ripartire. Seduto a un tavolino all’aperto guardava il flusso pedonale, poco desideroso di socializzare. Nelle studentesse che affrontavano le vasche del sabato pomeriggio cercava di ritrovare e immaginare Sigi a quell’età. E nelle donne che passavano gli sembrava a volte di riconoscerne dei tratti. Sapeva per certo che lei non era lì. A Firenze aveva incontrato Gerolamo, il cuoco del vegetariano, gli aveva chiesto di Siglinde e aveva appreso che era via, con il marito da qualche parte in Canada per le montagne, un mese almeno o più. Era stato allora che gli era venuta l’idea di visitare Merano. Per vedere com’era. Per farsi un giro in montagna. Per ripensare in quel luogo a tutta la faccenda. Ora lì, bevendo, da solo al tavolino, si sentiva di nuovo specialmente idiota. Non era stata una grande idea. Niente da dire, bella città, signorile e accogliente, ma lui era lì a far cosa esattamente? A respirare l’aria di Siglinde? Doveva liberarsi di quel fantasma, non dargli credito e ricordi. Sì, lei era stata una follia, una sbandata. E il suo matrimonio era già in crisi, doveva finire. Probabilmente. Era finito male, sì, ne pagava le conseguenze. Si sbaglia maledizione, si seguono impulsi. Ci si innamora per esempio. Ci si abbandona agli stati d’animo. Si prendono direzioni che non portano da nessuna parte. Al banco delle mescite una signora bionda, davanti a un calice ancora pieno, lo guardava con insistenza. Mario era imbarazzato. Che voleva? Si conoscevano? 21
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Aveva finto per un po’ di non vederla, ma alla fine aveva capito: non era lui, era la sedia. Al suo tavolo c’era l’unica sedia ancora libera nel cortiletto. Allora aveva guardato la donna e le aveva detto: – Prego. Vuole sedere? – La bionda aveva ringraziato, si era accomodata, aveva sorseggiato il vino dal calice. Mario aveva alzato il suo, il terzo o quarto Gewürztraminer. Dopo un po’ si era ritrovato a chiacchierare con la sconosciuta, una meranese aveva appreso, prodiga di notizie sull’amata cittadina. Poi la donna aveva insistito per offrirgli il bicchiere, lui aveva ceduto, invitandola però a un secondo giro. Poi avevano parlato allegramente della Scozia dov’erano stati entrambi, trovandosi molto d’accordo nei commenti e nei giudizi. Alla fine la bionda aveva guardato il cellulare e dichiarato che era tardi, che doveva scappare. Lo aveva salutato e ringraziato augurandogli buona vacanza. Mario, rallegrato e alticcio, era tornato a prendere la seggiovia, l’ultima corsa. L’incontro lo aveva confortato. Ci sono tante donne interessanti al mondo, pensava ora, camminando svelto tra i portici, in mezzo alla strada, per schivare la folla. Cosa aveva poi Sigi di tanto speciale? Avevano anche litigato, e più di una volta. Sì, era bella, affascinante, era stata una storia intensa, ma basta! La sua vita era sfasciata? Va bene, era andata così. Alla fine non aveva neanche cinquant’anni, poteva “ricominciare”. Bah. Era stato un pazzo. Arrivato all’albergo con la seggiovia, in sette minuti come diceva il depliant, Mario aveva cenato e bevuto ancora. Ora si sentiva appesantito e il disturbo al petto, l’angina, improvvisamente, era ripresa. Era uscito nel piazzale dietro l’hotel a respirare un po’ d’aria. Con Sigi, l’ultimo periodo, andavano anche negli alberghi. Si erano organizzati meglio e, raccontando alle 22
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famiglie dei pretesti, riuscivano a passare qualche weekend assieme. Mario adorava quelle loro fughe, la notte insieme, fare l’amore, la complicità, le chiacchierate a ruota libera, quegli incontri strappati alle loro consuetudini non facevano che ingigantire il suo sentimento. Ormai si era convinto che l’amava, che non gli bastavano più i rapporti clandestini. Voleva una storia seria, vera, le diceva. Avrebbero divorziato entrambi e si sarebbero messi insieme. Siglinde lo invitava a riflettere, a vedere i disastri che la loro relazione avrebbe provocato. I figli, i coniugi, davvero voleva affrontare questa lacerazione, il dolore... E in ogni modo lei non voleva sentirsi vincolata di nuovo, ne aveva avuto abbastanza del rapporto, della coppia, con suo marito. Ci aveva messo anni per trovare un certo equilibrio, un modus vivendi e una sua autonomia. Sì, alla fine, non voleva perderli. Voleva anche stare con lui, con Mario, ma non rifare una coppia, una famiglia. Non gli bastava quello che avevano? Avevano continuato a sentirsi, a mandarsi messaggini di gioco e di desiderio, a incontrarsi come potevano. Un fine settimana, mentre Siglinde era a Bologna per un concorso artistico, sabato sera, Mario era a casa con Gianna e i figli, per la cena. Cucinava lui, la sua famosa arista con patate al forno. Aspettava notizie da un amico per andare, con le mogli, al cinema più tardi. Era intento a girare il pezzo di carne quando era arrivato un messaggino al suo cellulare, sul tavolo in soggiorno. Gianna stava apparecchiando e Mario le aveva chiesto di leggerlo. Lei l’aveva aperto, era rimasta in silenzio, poi lo aveva raggiunto e mostrato il monitor. Il nome “Sigi” spiccava in bianco sul verde del frontespizio, diceva: “Ho vinto il primo premio!! yuuuh! ci vediamo domani? un bacio appassionato”. 23
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– Chi è Sigi? – gli aveva chiesto Gianna, gelida. Mario cancellava sistematicamente i messaggi che scambiava con Siglinde. E non aveva mai violato la regola del fine settimana. Aveva tante volte pensato a quel momento, all’eventualità che Gianna lo scoprisse, aveva anche immaginato delle risposte e delle menzogne, ma ora era talmente sorpreso e offeso dall’imprudenza di Sigi che non era riuscito né a mentire, né a minimizzare, né a inventarsi nulla e solo aveva sospirato: – È una mia amica. – Stronzo! – gli aveva gridato Gianna. – Ti sei fatto l’amante! Stronzo! – Mi sono innamorato… – aveva detto lui. – Sei una merda! – E scuotendo la testa e piangendo si era chiusa in camera. I ragazzi erano usciti in corridoio, lui aveva cercato di rassicurarli, di minimizzare, quando si era sentito improvvisamente male. Sentiva delle fitte al petto. Con Daniele aveva chiamato il pronto soccorso. All’arrivo dell’ambulanza stava già molto meglio, però avevano insisto per accompagnarlo all’ospedale. L’ecg aveva registrato sofferenza cardiaca, ma non c’erano segni critici, doveva fare altre analisi nei prossimi giorni. Dimesso in mattinata, era tornato a casa. Gianna gli aveva lasciato un biglietto, era andata a trovare i suoi con i ragazzi. Gli aveva preparato la valigia e lo invitava ad andarsene per il momento. Sì, sua moglie era una pratica. Del resto, lui aveva già pensato di andare da un amico. Poi, con Gianna, c’erano stati dei messaggi, un incontro penoso con lei e i ragazzi, a casa loro. Poi la decisione della separazione, poi dei terribili transiti di oggetti. Alla fine si era trovato da solo in un miniappartamento alle Cure, a un chilometro dalla sua ex famiglia. 24
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Con Siglinde si era sentito la domenica, per telefono, una lunga chiamata con interruzioni, riprese e grida. L’aveva accusata di superficialità, persino di aver fatto apposta a mandargli quel messaggio, di aver voluto rovinare tutto. Lei si era indignata, lo aveva insultato e rimproverato per il suo tentativo di incolparla. Erano entrambi responsabili di quella situazione e lui sapeva quanto lei i rischi che correvano. Era successo, le dispiaceva, non aveva pensato al sabato, voleva solo comunicargli la sua gioia, ma anche lui era stato imprudente. La sera si erano incontrati e lui le aveva detto che non poteva più vivere così. Era un aut aut. Voleva lei vivere con lui? Avrebbe lasciato suo marito? Lei aveva risposto confusamente. Le dispiaceva per l’incidente, per l’ospedale, per tutto quello che era successo, ma lei non se la sentiva. Era troppo presto, troppo in fretta. Voleva dargli del tempo per pensare? Ma no, Mario non voleva. Se non lo sapeva ora, dopo tutti quei mesi, non lo avrebbe saputo mai. Era meglio finirla lì per non farsi del male. Gliel’aveva detto e così era successo. Poi aveva rimpianto quel momento fatto di delusione e rabbia. Poi lo aveva accettato. Che altro poteva fare? Due passi gli avrebbero fatto bene. Si era incamminato per un monticello davanti al parcheggio dell’hotel, un pendio rado di alberi e prato. Salendo lungo il sentiero per la collinetta guardava Merano di sotto che sconfinava nella valle, e gli pareva di intravedere in fondo il fiume. Una piccola falce di luna risaliva il cielo. Ora però il dolore al petto era aumentato e si sentiva tirare tutto da un lato. Perché aveva bevuto così tanto? Aveva raggiunto una panchina in cima al dosso e vi si era accasciato. Sentiva il cuore battere e pensava a Siglinde da qualche parte sulle Montagne Rocciose, con il marito. Si divertiva? Stavano litigando? Bah, che importa. Tanto ora 25
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lui avrebbe avuto una sincope e sarebbe morto lì, come un idiota qualunque, su una collina di Merano, mentre tutti erano in vacanza a divertirsi.
IV. – Signora, Oona, strega dei Kelti, ho portato i doni e la mia pena, sono qui a implorare il vostro aiuto… – I tuoi doni mi sono graditi, Mavius, e il vino è eccellente. – È il vino di Verunia, il vino migliore… – Mi dicono Kelta, ma io provengo dalle isole piovose dove finisce il mondo e comincia il serpente oceano. Britta, come mia madre fui sacerdotessa e schiava dei druidi, e poi strega e indovina come lei, quando fuggimmo. Dai druidi ho appreso il sapere antico dei sogni e niente posso dirti gli equivale. I sogni conoscono il passato, il futuro e i molti dove del presente. Ecco la mia sentenza. Quelle immagini che hai visto e che ti sforzi scioccamente di comprendere, il carro e il tempio, la reggia divina e il volo sopra i monti, non hanno importanza alcuna perchè non ti riguardano. Sono di un altro e appartengono solo a lui. Sono niente, perchè tu eri niente, come tu stesso hai detto: solo lo schiavo di un padrone. Eri prigioniero di una vita misteriosa e incomprensibile perchè quella vita non appartiene al nostro tempo. Quello che hai sognato è il futuro o il passato, è questo stesso luogo ma in un’altra epoca e in un’altra vita. Vi è un nesso fra te e quella vita, un contatto che appare con forza e si impone nel sogno come nella realtà. Tu mi hai già inteso: è il talismano di Reitia. 26
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La dea, la signora degli animali e delle fonti, curatrice e levatrice. Sua è la morte fulminea, sua la guarigione. Ma la dea, un tempo, era una ninfa dei boschi, vergine e selvaggia, dominava gli animali e li inseguiva nelle notti di luna. Disprezzava gli uomini e non si curava degli dei. Sfortunato il cacciatore cui accadeva di sorprenderla al bagno alla fonte. Questi ne restava incantato, la sua immagine lo perseguitava e la ninfa stessa lo inseguiva fino a trafiggerlo e farlo sbranare dai cani. L’antica indole vive ancora nella dea e ritorna per vendicarne le offese. Eppure ai mortali è concesso l’errore e la stessa dea che porta il dolore porta la cura. Per ignoranza, povero Mavius, ti sei impadronito del gioiello. Ma devi sapere che questo è un amuleto molto potente nelle nostre valli; i fabbri lo forgiano, gli artigiani lo lavorano e le streghe lo incantano nelle notti di plenilunio. Da quel momento, solo le donne lo possono toccare e le ricche dame lo appendono al petto per sedurre e ammaliare gli uomini. Tu lo hai toccato, l’hai scambiato con stoviglie, lo hai profanato e ora ti colpisce la punizione della dea. E ti costringe a vivere la vita di un altro e subisci il contagio della sua sofferenza. Il talismano è la cifra e anche quella sofferenza vi è trascritta. Il volto della luna in mezzo ai seni, sopra il cuore, è la dea che imprigiona la passione. La luna-ninfa ha catturato il desiderio di costui ma lo rifiuta. E quando il cuore vuole liberarsi, il volto lo trattiene. Il conflitto è così forte da impedire il movimento, l’uomo è intrappolato nel tempo e nel passato. Due cavalli tirano in direzioni opposte e il tiro lo consuma, e il loro scalpitare gli batte in petto. Mavius, che ascoltava in silenzio, con aria afflitta e sempre annuendo, si ricosse e osò affermare: 27
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– Dunque la dea tormenta anche costui. Anche quell’uomo le ha recato offesa! Lui stesso ha toccato il talismano e ne è rimasto vittima. Oona lo rimbeccò spazientita: – Mavius, perché parlate se non capite? Imparate nel silenzio e non interrompetemi più! – Poi, più calma riprese: – Quel gioiello del sogno non era consacrato, era solo un pezzo di metallo. Non vi fu offesa, se non quella più grande. Il tuo ospite si è innamorato della dea e ne ha subito il fascino e la freddezza. Tuttavia è vero, siete entrambi colpevoli, entrambi congiunti dal gioiello, eppure io credo vi unisca un legame più profondo, forse più d’uno. Ma questo non importa. Ciò che conta è il tuo dolore e, non disperare, la tua cura. Ascolta quello che farai. Questa notte la luna è al primo quarto, è ancora fanciulla e ancora dispensa la sua benevolenza. Vieni usciamo all’aperto. Ecco, guarda là sopra, su quel monte. Quello è un luogo sacro, un luogo di magia e sacrifici. Salirai lungo la montagna e strada facendo raccoglierai legna per fare una fascina. Porterai con te la selce, l’esca e il talismano avvolto nella tela e senza più toccarlo. Giunto alla cima troverai una buca circondata di pietre, piena di ceneri. Su quelle allestirai una pira e quando la luna sarà più alta l’accenderai e vi getterai il pendaglio. La magia del talismano dev’essere restituita e con quella se ne andrà il dolore. Veglierai tutta la notte e alimenterai il fuoco in modo che la sua luce si veda per le montagne e invocherai la clemenza della dea. Mario sentiva ancora il vino che gli ballava nello stomaco ma un po’ alla volta il dolore al petto era calato. Il cuore batteva normalmente, dopotutto non sarebbe morto lassù, in quella bella notte. Era riuscito ad alzarsi, a ri28
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prendere il sentiero per l’albergo. Poi si era buttato a letto e aveva dormito profondamente fino a tarda mattina. Al risveglio, nonostante il mal di testa, si sentiva bene e non avvertiva più tensioni al petto. Aveva spalancato la finestra, guardato giù Merano e la piana, inalato l’aria della montagna, provato qualche esercizio. Ai piegamenti per la schiena gli era tornato in mente un curioso sogno della notte. Aveva creduto di essere un primitivo, un etrusco addirittura, che saliva un monte con fatica e batticuore, per fare un sacrificio. In cima aveva buttato il pendaglio di Reitia in un fuoco. Il gioiello si era annerito, storto, aveva perso le lancette. E lui e quel primitivo si erano sentiti improvvisamente sani. L’autostrada correva a destra del fiume, tutto intorno meleti e vigneti che scalavano le pendici delle montagne. Mario, in viaggio di ritorno per la Toscana, ascoltava musica e fantasticava. Immaginava ora di telefonare a Siglinde, tra un mese o due, di dirle: – Ciao, sono stato a Merano! Ti ho pensato molto. Sono andato a visitare i posti che mi avevi detto. Lei avrebbe riso, avrebbero parlato di gelati e seggiovie… Poi si era riscosso, era questo lo scopo reale del suo viaggio? Aveva costruito un pretesto, una giustificazione per chiamarla? Forse era questo. Si era illuso ancora di poterla ritrovare, di parlarle, di avere un’occasione per riconquistarla. Solito sciocco. Però, alla fine lì, su quella collina, la notte, si era sentito proprio stanco di tutta quella storia. Lei non lo aveva mai cercato. Lui nemmeno. Questa era la verità. Merano era alle spalle, la cura era finita. E si sentiva meglio, lo voleva. L’estate era ancora lunga e dopo quello strano sogno gli era venuta un’idea. Sarebbe andato qualche 29
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giorno a visitare gli zii e i cugini di Volterra, la sua città natale. Come diceva sempre Gianna: – Si va a trovare i parenti etruschi?
Pendaglio di bronzo. VI sec. AC, Sanzeno. Museo archeologico, Castello del Buonconsiglio, Trento.
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ERSCHEINUNGSTERMINE / PIANO DELL’OPERA
IL CONFINE È IL LUOGO DOVE (SE PASSI) ACCADE QUALCOSA
DAS HAUS MEINER MUTTER APRIL / APRILE ANNE MARIE PIRCHER
PAOLO BILL VALENTE
MERAN O MERAN. EINE LIEBESGESCHICHTE
LA SIGNORA DEI CAVALLI JUNI / GIUGNO
SELMA MAHLKNECHT
HOTEL MERÎDIAN PASSAGEN. PARTONO I BASTIMENTI KURT LANTHALER
SANDRO OTTONI
SEPTEMBER SETTEMBRE
L’APPARTENENZA LAURA MAUTONE
Ad alta voce | Stille Post 700xM Un’azione letteraria Sei autrici e autori, tre di lingua italiana e tre di lingua tedesca, accompagnano con i loro racconti, scritti appositamente per quest’azione, i lettori per vie e luoghi simbolo di Merano, per la storia, recente e antica, di questo luogo, raccontando la vita – o almeno una parte di essa – di persone e personaggi per i quali la città del Passirio ha svolto un ruolo importante. Ad alta voce | Stille Post 700xM vuole proporre uno sguardo letterario sulla città di Merano che permetta di avvicinarsi a questo luogo attraverso le sue storie: inventate e reali, sorprendenti e impreviste. Elisabeth Hölzl arricchisce questa collana con le sue immagini di interni meranesi.
Sandro Ottoni è nato e vive attualmente a Bolzano. Ha studiato filosofia a Firenze e quindi svolto attività giornalistica e politica in ex Jugoslavia e altri paesi. Attualmente si occupa di editoria e informatica. Ha pubblicato fra l’altro: Un anno alle Semirurali, Fernandel 2006; Suonate voi. Io ho suonato abbastanza, biografia di Cianci Gatti, Silvana 2007; Acciaierie, con Antonio Caldonazzi e Andrea Castelli, Teatro Stabile Bolzano 2009; Undici traslochi. Vita di Gemma, alphabeta 2011.
LA SIGNORA DEI CAVALLI
SANDRO OTTONI