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Intervista
di Emanuele Scarci
La pasta italiana è buona,
anche quando c’è grano estero
Intervista a Riccardo Felicetti, presidente dei Pastai di Unione Italiana Food, che difende la libertà delle imprese di scegliere i migliori grani sul mercato internazionale.
Riccardo Felicetti, produttore trentino e presidente dei pastai di Unionfood, è sempre stato molto sensibile al tema dell’origine della pasta. «Quest’anno – commenta - la categoria dovrà fare profonde riflessioni sul mercato in sé per riuscire a mantenere quella fiducia e quella percezione di positività che ci è stata garantita dai clienti durante la pandemia. Dobbiamo riprenderci la ristorazione che è fondamentale per la pasta e ripartire con il turismo. Con questa situazione nel 2020 abbiamo venduto il 10% in più nel retail e perso quasi lo stesso volume nell’Horeca: mense, università e i ristoranti di tutte le categorie».
Avete sempre sostenuto che la migliore qualità fosse garantita dalla libertà delle imprese di scegliere i migliori grani sul mercato internazionale.
Non è cambiato nulla. Il grano duro italiano è ora una scelta importante per le aziende, ma il mondo agricolo deve smettere di strumentalizzarla al solo fine di non fare gli investimenti. In altre parole anziché promuovere il prodotto italiano si critica pesantemente il grano duro che arriva dall’estero. Eppure sulla sicurezza non ci sono dubbi: i confini italiani sono ben presidiati dalle autorità e dai laboratori a tutela della salute.
In Unionfood la pensate tutti così?
Siamo compatti: la pasta italiana è tutta buona, il grano che arriva in Italia è altrettanto buono perché viene selezionato accuratamente. Scegliere una miscela italiana o estera rientra nelle strategie commerciali di ogni azienda. Ripeto: c’è una catena dei controlli che garantisce il grano duro d’importazione.
Serve davvero il 100% italiano per far crescere stabilmente i consumi?
Non lo so se il claim 100% italiano paghi davvero. Andrebbe verificato in un periodo diverso da quello attuale e su un arco temporale più lungo. E nel caso fosse sostenibile da parte del mondo agricolo, dal settore molitorio e dalla produzione, alla fine il maggior costo del prodotto dev’essere remunerato. Sono preoccupato perché il 100% italiano non è diventato un modo di produrre, ma una sottocategoria commerciale. Il problema è che forse è stata mal recepita oppure l’abbiamo comunicata male. Non ci siamo mai vergognati di scrivere sulle etichette, da quando ci è stato imposto, che la pasta di kamut arriva dal Canada. Mentre il 100% di pasta made in Italy all’estero interessa poco: questa è un’altra delle grandi differenze tra il mercato nazionale e quello estero. E noi esportiamo oltre il 56% della pasta.
Che effetti può avere una richiesta eccessiva di grano duro italiano?
Oggi il grano duro italiano costa mediamente più di quello estero. Il rischio connesso a una crescita eccessiva di prodotto 100% italiano apre due sviluppi: il primo, fa tanto piacere al sindacato degli agricoltori; il secondo, potrebbe causare dinamiche di trasformazione dell’origine che potrebbe avere effetti preoccupanti sulla liceità di alcune manovre. E noi siamo gli ultimi soggetti della filiera.
La pasta Felicetti 100% italiana è nella Gdo italiana?
In Italia è presente in Trentino Alto Adige, nella catena Eataly e in Basko, Unes e Agorà. Facciamo un passo alla volta.n
di Luca Salomone
Acqua Lete,
innovativa alla fonte
L’azienda, che fa capo a Sgam, si caratterizza per una propensione costante al reinvestimento degli utili nell’innovazione tecnologica, grande leva di ottimizzazione della struttura dei costi.
La storia di Acqua Lete, che fa capo a Sgam (Società generale acque minerali) di Roma - marchi Lete, Sorgesana e Prata -, comincia nel 1893, data di inizio dell’imbottigliamento. I riconoscimenti per le sue preziose caratteristiche, soprattutto la povertà di sodio, che è il portabandiera, non si sono fatti attendere: infatti nel 1906 Lete ottiene il Grand Prix di Parigi e L’Honour Prize di Londra. E dopo? A proseguire nel racconto è Gabriella Cuzzone, direttrice marketing della società. «La prima testimonianza dell’odierna pubblicità a mezzo stampa è stata rinvenuta nel 1909 sul quindicinale ‘La Giovane Capua’, dove Lete
era reclamizzata come ‘La regina delle acque minerali da tavola’. Il grande impulso alla produzione e alla distribuzione su scala nazionale è stato dato da Nicola Arnone, che attraverso Società generale delle acque minerali ha anticipato, all’inizio degli anni Ottanta, le richieste del mercato, affiancando, alla produzione in vetro, quella in Pet, e creando un ‘azienda all’avanguardia dal punto di vista tecnologico e organizzativo».
Da anni il vostro fatturato è in crescita costante: da 93,38 milioni del 2017 a 101,56 del 2019 secondo Reportaziende-Consodata. Quali sono i motivi?
La crescita discende da una visione aziendale chiara, orientata alla proposta di prodotti di qualità, realizzati attraverso un’organizzazione d’impresa agile ed efficiente, in grado di interpretare e soddisfare le esigenze del pubblico. Altro elemento caratterizzante, dal punto di vista finanziario, è la propensione costante al reinvestimento degli utili nell’innovazione tecnologica, grande leva di ottimizzazione della struttura dei costi.
A novembre avete lanciato Icon: perché è un prodotto diverso dagli altri?
Icon è la nostra grande innovazione di mercato e di packaging e siamo stati gli unici, tra i big player, a introdurre una bottiglia di alluminio. Rispetto alla lattina il vantaggio è chiaro: poter sorseggiare l’acqua con calma, dunque aprirla, richiuderla e portarla con sé. È un formato dedicato all’alta gamma dell’out of home e, nonostante il difficile periodo per il canale, ha già riscosso successo, segnale del fatto che, anche in periodo di crisi, l’innovazione viene riconosciuta e apprezzata dal trade e dai consumatori.n