6 minute read

Ieri avvenne: il disastro del Vajont

Ieri avvenne di Elisa Corni

Il disastro del Vajont

Advertisement

Era il 9 ottobre 1963. Moltissime persone ancora se lo ricordano, si ricordano la notizia che passava di bocca in bocca, i bambini svegliati di notte, le informazioni che, a differenza di oggi, circolavano più lentamente. Voci che parlavano di migliaia di morti; una tragedia umana incredibile per l’epoca. Una tragedia che a 55 anni di distanza rimane una ferita aperta nella storia d’Italia e del Nord-Est. Una tragedia che poteva essere evitata. Il disastro del Vajont fu provocato dalla caduta di una gigantesca frana dal Monte Toc, sul versante sinistro del neo bacino idroelettrico artificiale del Vajont. Quando si parla di una massa incredibile, bisogna rendersi conto che fu esattamente così: gli esperti stimano che circa 270 milioni di metri cubi di roccia scivolarono direttamente nella diga piena d’acqua, sollevando un’onda che forse oggi le cronache battezzerebbero impropriamente come tsunami. Sì, perché l’onda di circa 115 milioni di metri cubi d’acqua non fu sollevata da un terremoto, eppure viaggiò a circa 108 chilometri orari e raggiunse l’impressionante altezza di 250 metri, travolgendo tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Dell’utilizzo sulle montagne italiane dell’energia idroelettrica abbiamo scritto qualche numero fa, concentrandoci sul Trentino della prima metà del Ventesimo secolo. Questa tradizione continuò anche nei decenni successivi, dato che il nostro suolo è povero di carbone, la principale fonte di energia negli anni Cinquanta e Sessanta. Tutto l’Arco alpino, quindi, fu costellato di dighe e condotte forzate in grado di trasformare torrenti e laghi di montagna in fonti inesauribili di energia. Fu proprio in questo contesto che nacque e si sviluppò l’idea di sfruttare come bacino idroelettrico la valle del fiume Vajont, sul confine tra Veneto e Friuli Venezia Giulia. La Società Idroelettrica Veneta si occupò della realizzazione di un’imponente diga, in grado di fermare e rilasciare a piacimento l’acqua del fiume. Il primo progettista fu l’ingegner Carlo Semenza già nel 1926. Ma tra perizie geologiche, progetti nuovi e sempre più grandi, la diga vide la luce solo dopo la Seconda guerra mondiale: la concessione definitiva per la costruzione di questo gigantesco impianto fu accordata solo nel 1948; è allora che si cominciò a parlare, nell’ambiente, di “Grande Vajont”, un progetto sempre più imponente. Vi basti pensare che i 202 metri di altezza previsti nel progetto iniziale divennero 679 dell’ultimo progetto per la diga. L’anno successivo, era il 1949, cominciarono i controlli geologici per accertare la struttura della valle e la possibilità che potesse ospitare una struttura di quella portata. Contemporaneamente le popolazioni dei due paesini che si sviluppava-

no su uno dei versanti della valle, Erto e Casso, cominciarono a protestare contro questo progetto che li avrebbe costretti ad abbandonare non solo le loro case che si sarebbero trovate sotto il livello dell’acqua, ma anche i campi coltivati, loro principale fonte di sostentamento. Proteste che nulla poterono: negli anni Cinquanta arrivò l’OK definitivo e cominciarono gli espropri di terreni sui quali avrebbe dovuto svilupparsi il colossale impianto idroelettrico. Impianto che, secondo alcuni geologi ed esperti, presentava alcune criticità che non potevano essere sottovalutate. Il progetto definitivo prevedeva una diga alta “solo” 261 metri: un invaso che avrebbe potuto contenere fino a 159 milioni di metri cubi di acqua (contro i 58 del progetto originale). I lavori di fatto cominciarono nell’agosto del 1958, con le prime gettate di calcestruzzo per la costruzione dell’immensa diga. Il primo esperto a sollevare osservazioni fortemente critiche sulla costruzione della diga in un luogo che aveva, nel corso delle ere geologiche, subito una serie di trasformazioni che rendevano il territorio geologicamente non completamente stabile, fu Leopold Müller. Il famoso specialista tedesco di esplorazioni minerarie fu consultato dai progettisti stessi, ma le sue conclusioni sul rischio di frane non fu ascoltata. In particolare il geologo Giorgio Dal Piaz, che aveva seguito il progetto fin dagli anni Trenta, confermò le sue iniziali osservazioni confermando così la sicurezza dell’area. La paleofrana - una frana molto antica non completamente sedimentata e quindi non ancorata al terreno sottostante - che provocherà poi il disastro passò inosservata agli studi geologici fino al 1959 quando Edoardo Semenza, figlio del primo progettista, ne ipotizzò la presenza dopo una perizia lungo la valle del Vajont. Purtroppo quello fu anche l’anno della fine dei lavori: la diga era terminata e poteva cominciare a fare il suo dovere. Il bacino fu riempito e cominciarono a entrare in funzione le condotte forzate e le pale per trasformare il movimento dell’acqua in energia elettrica da portare nelle case di tutta Italia. Ma non ci volle molto perché emergessero i primi problemi. Nel novembre del 1960, a poco più di un anno dall’entrata in servizio della diga stessa, ci fu la prima frana di medie dimensioni (si stima che piombarono in acqua dal versante sinistro solamente 800.000 metri cubi di terra e rocce). Il lago, in quel momento, aveva raggiunto quota 650 m.s.l. Non vi era dubbio: esisteva una paleofrana lunga un chilometro e mezzo. Il dibattito si accese; c’era chi suggeriva di cementarla, chi invece di sbancarla, ma nessuna era una soluzione davvero convincente. Così fu coinvolta l’Università di Padova e si costruì un modello in scala della vallata e della diga per capire meglio la situazione. Il test diede riscontro negativo: secondo il professor Augusto Ghetti non si dovevano temere né cedimenti né ulteriori versamenti nella diga in grado di produrre onde superiori ai trenta metri, un’altezza di assoluta sicurezza. Purtroppo nella realtà dei fatti la frana fu di quasi 300 milioni di m³ (circa 8 volte il valore massimo previsto) e si mosse a velocità tripla di quella prevista; tutto ciò produsse un’energia cinetica di quasi 100 volte superiore al massimo previsto, e il livello dell’onda superò i 200 metri, scavallando oltre la diga. Comunque furono apportati dei sistemi di sicurezza per fermare la frana; i movimenti, di fatto, si arrestarono rapidamente e probabilmente non si

sarebbero riattivati se, per motivi di collaudo, quella fatidica notte non si portò il livello d’acqua nel bacino sopra quota 700 metri sul livello del mare, innescando il devastante movimento di terra e roccia. Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963, un volume di terra più che doppio rispetto a quello dell’acqua contenuta nell’invaso scivolò nel bacino della diga del Vajont, provocando un’onda che si arrampicò lungo il versante destro della valle distruggendo Erto e Casso; un’altra parte dell’acqua messa in movimento dalla frana (circa 30 milioni di metri cubi) saltò oltre al diga e si riversò nella Valle del Piave, travolgendo Longarone e i centri abitati vicini. Poi si fermò sul fondo della diga e formò un laghetto. Ma nel frattempo aveva colto nel sonno tutti gli abitanti di quei territori. Il numero delle vittime non è ancora accertato. Alcune fonti riportano 1909 vittime, altre 1917; quello che è certo è che le vite di quasi 2000 persone furono strappate nel sonno. A provocare questo disastro furono sicuramente la negligenza umana, la cattiva gestione del territorio, la sottostima della gravità della situazione. Ma Bisogna tenere anche conto del particolare assetto idrogeologico del monte Toc che concorse non solo alla frana ma anche alla sua velocità di scivolamento e le abbondanti precipitazioni dei gironi immediatamente precedenti. Tutto ciò portò a quello che è uno dei peggiori disastri della nostra storia, una tragedia che il territorio di quella vallata segnato dall’imponente onda, ancora oggi ci riporta come imperituro monito e ricordo delle vittime dell’arroganza umana.

Foen di Feltre (BL)

Tel. 0439300008 - 347 8119770 - depiansalotti@libero.it

This article is from: