N° 3 - Dicembre 2020 - Supplemento del periodico Valsugana News
Periodico GRATUITO di Informazione, Cultura, Turismo, Spettacolo, Cronaca, Attualità, Tradizioni, Storia, Arte.
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Il Direttore Armando Munaò
A tutti Voi un Grazie di vero cuore!
Sono queste le parole che, con gratitudine, e permettetemi anche con una piccola soddisfazione, rivolgo a tutti Voi, Lettrici, Lettori e inserzionisti. Agli inserzionisti che sin da subito ci hanno dato fiducia supportandoci con il loro contributo pubblicitario. A Voi, lettrici e lettori, che sin dal primo numero, con email, telefonate e testimonianze dirette non solo avete espresso unanimi consensi, ma anche confermato quanto giusta sia stata la scelta di dare vita a questo nostro periodico. E un sentito grazie a tutti i miei collaboratori. Ai giornalisti, eccellenti professionisti, che con il loro appassionato, competente e puntuale scrivere, hanno permesso la nascita e la pubblicazione di Feltrino News. Al grafico, al responsabile della pubblicità, agli stampatori e ai distributori che si sono assunti il compito di recapitare il giornale nei negozi e attività della Vallata Feltrina. E un doveroso grazie è per tutte le aziende e attività commerciali che con la loro disponibilità hanno permesso e ci permettono di posizionare il nostro giornale per essere a disposizione dei lettori. Feltrino News, mi fa piacere sottolinearlo, è nato per puro caso, ma che sin da subito, sin dalle prime discussioni, l’iniziale idea ha preso sempre più corpo e in pochissimo tempo si è trasformata in un vero progetto editoriale. Certo, i dubbi della “possibile” non riuscita erano tanti e anche motivati, ma la voglia di vincere questa “particolare” scommessa, supportata dal desiderio di trasformare una piccola “pazza idea” in un qualcosa di decisamente concreto ha preso il sopravvento. Ed “eccoci qua”, come dissi nel mio primo editoriale, pronti a continuare, anche nel 2021, questa nostra avventura che spero e mi auguro sia foriera, come lo è già stata, di soddisfazioni per tutti.
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Sommario DIRETTORE RESPONSABILE Prof. Armando Munaò - 333 2815103 Email: direttore@valsugananews.com CONDIRETTORE dott. Walter Waimer Perinelli - 335 128 9186 email: wperinelli@virgilio.it REDAZIONE E COLLABORATORI dott.ssa Katia Cont (Cultura, arte, cinema e teatro) dott.ssa Elisa Corni (Turismo, storia e tradizioni). dott. Maurizio Cristini (Enologo ed esperto in giochi ed enigmistica) dott.ssa Laura Fratini (Psicologa) Veronica Gianello (Storia, arte,cultura e tradizioni) dott.ssa Francesca Gottardi (Esteri- USA) dott.ssa Laura Mansini (Cultura, arte, tradizioni,attualità) dott. Nicola Maschio (attualità, politica, inchieste) Paolo Rossetti (Attualità, inchieste) - Patrizia Rapposelli (attualità, cronaca) dott.ssa Alice Rovati (Responsabile Altroconsumo) dott. ssa Chiara Paoli (storica dell’arte - ed. museale -cultura e tradizioni) Francesco Zadra (Attualità) - dott. Zeno Perinelli (Avvocato) dott.ssa Laura Mansini (Cultura, arte, attualità) dott. Franco Zadra (politica, attualità) dott.ssa Erica Zanghellini (Psicologa) CONSULENZA MEDICO - SCIENTIFICA Dott. Francesco D’Onghia - Dott. Alfonso Piazza Dott. Giovanni D’Onghia - Dott. Marco Rigo- Dott. Francesco D’Onghia RESPONSABILE PUBBLICITÀ: Gianni Bertelle Cell. 340 302 0423 - email: gianni.bertelle@gmail.com IMPAGINAZIONE E GRAFICA : Punto e Linea di Alessandro Paleari - Fonzaso (BL) Cell. 347 277 0162 - email: alexpl@libero.it PROPOSTA PROPOSTA33 EDITORE E STAMPA GRAFICHE FUTURA SRL- Via Della Cooperazione, 33- MATTARELLO (TN) FELTRINO NEWS Supplemento al numero di dicembre di VALSUGANA NEWS Valsugana News – Registrazione del Tribunale di Trento: n° 4 del 16/04/2015. COPYRIGHT -Tutti i diritti riservati Tutti i testi, articoli, intervista, fotografie, disegni, pubblicità e quant’altro PROPOSTA 33 su FELTRINO NEWS, sono coperti da copyright GRAFICHE FUTUPROPOSTA pubblicato RA srl e quindi, senza l’autorizzazione scritta del Direttore Responsabile o dell’Editore, è vietata la riproduzione e la pubblicazione, sia parziale che totale, su qualsiasi supporto o forma. Gli inserzionisti che volessero usufruire delle loro inserzioni pubblicitarie, per altri giornali o pubblicazioni, posso farlo richiedendo l’autorizzazione al Direttore Responsabile o all’editore. Quanto sopra specificato non riguarda gli inserzionisti che utilizzando propri studi o agenzie grafiche, hanno prodotto in proprio le loro grafiche e quindi fatto pervenire alla redazione o all’ufficio grafico di FELTRINO NEWS, le loro pubblicità, le loro immagini, i loro testi o articoli. Per quanto sopra GRAFICHE FUTURA srl, si riserva il diritto di adire le vie legali per tutelare, nelle opportune sedi, i propri +39 392209123 +39 392209123 interessi e la propria immagine.
Dicembre 2020
L’editoriale Sommario In filigrana: covid tax, una storia impossibile Veneti, popolo di migranti Da quando le donne hanno un’anima? A parere mio: l’occasione per realizzare l’Europa In ricordo di…Gigi Proietti Informazione e giornalisti oggi Le donne che hanno fatto l’Italia In controluce: la Galleria F.lli Angelini Il teatro al tempo del covid Società oggi: il potere dei soldi La Mostra dell’Artigianato artistico e tradizionale a Feltre Incoscienza giovanile Il futuro del lavoro ai tempi del covid Viva le donne e …poveri maschi L’intervista impossibile: Maria Montessori USA curiosità elettorali Kamala Harris, prima Vicepresidente USA In ricordo di... Sean Connery La scuola digitale
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SPECIALE SCI CLUB CROCE D’AUNE Conosciamo lo Sci Club Croce d’Aune L’album fotografico Il Monte Avena Croce d’Aune, uno Sci Club nella storia
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L’album fotografico I novemila anni dello sci alpino
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Aiuto, ho un disturbo alimentare I disturbi alimentari: anoressia e bulimia La moderna cardiochirurgia Quando nasce la cardiochirurgia Come nascono le banche del sangue Medicina & Salute. La resilienza I vegani e il veganismo
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Nani sulle spalle di giganti Salute & Benessere: le tisane Natale in tempo di covid Cos’è la felicità Benessere & Salute. Sole e vista
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SPECIALE NATALE 25 dicembre, una data universale Natale e il presepe Natale con il cervello Natale e multiculturalismo nelle scuole L’albero di Natale e le sue origini La renna, tra campanelli e nasi rossi La cometa che porta la vita Feste invernali nell’antichità
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Giocherellando
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In filigrana di Nicola Maccagnan
“Covid Tax”: una storia possibile.
S
opravviveremo al Covid-19. Certo. Il tema è COME e a che PREZZO. Tralasciamo la questione sanitaria, che dovrebbe essere materia esclusiva (!!!) di medici e scienziati di comprovata preparazione e indipendenza (!!!). Fermiamoci un momento ad analizzare invece la questione economica. Un dato è certo e incontrovertibile: la pandemia farà esplodere (lo sta facendo in verità da mesi) il debito pubblico, che vede l’Italia già da tempo sul podio della non certo invidiabile graduatoria nel rapporto con il PIL. Tradotto: siamo pieni di debiti, lo siamo sempre più da decenni e non basteranno certo i pur corposi finanziamenti straordinari europei (Recovery Fund, MES o che altro) a sanare questa cronica anemia delle casse pubbliche. Dunque? Dunque prima o poi lo Stato dovrà ricorrere a maggiori introiti dai soggetti privati per salvare in qualche modo la nave (cosa antipatica, ma comunque più facile a farsi di quanto non lo sia una seria e corposa riforma strutturale della spesa pubblica e dei suoi servizi, autentica Chimera del dibattito nazional-popolare). Una nuova tassa patrimoniale? Possibi-
le. Una revisione delle aliquote e un inasprimento delle tasse sul reddito? Decisamente meno probabile per un Paese che non riesce a crescere nemmeno in una congiuntura positiva e in cui la classe politica cerca da sempre di accarezzare tutti, poveri e ricchi alla stessa maniera (sia pure con “strumenti” diversi). Eppure una terza via, forse, si potrebbe trovare. Già, perché non è poi assolutamente vero che a causa della pandemia mondiale TUTTI ci hanno rimesso, indistintamente. Certo, molti cittadini vedono il loro posto di lavoro a rischio (e i conti li faremo purtroppo solo dopo lo sblocco dei licenziamenti); tante imprese – soprattutto commerciali ed artigiane - tra quelle di dimensioni più piccole non sanno se e quando riapriranno i battenti. C’è però un intero mondo economico, fatto per lo più di colossi nazionali ed internazionali, che nonostante la crisi sanitaria, anzi anche GRAZIE ad essa, ha visto crescere i propri fatturati e i propri utili, talvolta a ritmi incalzanti. Mi riferisco naturalmente ai grandi colossi di internet, a cominciare da quelli dell’e-commerce, alle multinazionali che spadroneggiano sul web sotto varie forme, ma anche alla grande distribuzione organizzata (GDO) di casa nostra, che ha ulteriormente assorbito le risicate quote di mercato dei piccoli negozi di vicinato. E i numeri, si intuisce chiaramente, non sono proprio marginali. Citiamo, a solo titolo di esempio, quelli di Amazon, il
gigante mondiale dell’e-commerce che - nel solo terzo trimestre del 2020 - ha visto schizzare il proprio fatturato a oltre 96 miliardi di dollari, contro i 70 dello stesso periodo del 2019 (+ 37%!), e l’utile trimestrale a 6,33 miliardi contro i 2,13 dello stesso trimestre dell’anno scorso (+300%!). Certo, frutto della grande bravura imprenditoriale del management e del suo fondatore, ma senza dubbio “agevolata” dallo stato di confinamento che molti cittadini del pianeta hanno dovuto subire a causa della pandemia. E se dunque fossero proprio queste grandi aziende - non per una volontà punitiva, ma in base al democratico principio del “chi più ha e guadagna (anche e soprattutto in virtù di una congiuntura favorevole), più deve proporzionalmente dare” – a mettere mano ai loro grassi bilanci? Una sorta di Covid Tax insomma (ma che potrebbe trovare applicazione anche in “tempo di pace”), che chiede qualcosa a chi ha molto (o moltissimo) per aiutare, soprattutto in questa fase, chi rischia di perdere anche quel poco che ha (alla Robin Hood per intenderci). Una sorta di addizionale di solidarietà, calcolata bilanci alla mano, da cui potrebbero derivare cifre sostanziose, molto più del solito pannicello caldo. “Ma lo Stato Italiano - obietterà qualcuno - è in grado di andare da questi signori e far valere le proprie ragioni?” L’ennesima italica partenza ad handicap, a cui si potrebbe forse porre rimedio - almeno questa volta - con il ricorso ad un patto internazionale, quanto meno europeo. Perché, in tutta onestà, in questa battaglia, da soli non partiamo certo favoriti. Tanto per cambiare.
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Storie di casa nostra di Waimer Perinelli
Veneti popolo di migranti Belluno - Feltrino sul podio
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’anno scorso sono stati più di 2 mila i giovani del bellunese che sono emigrati all’estero, chi per qualche stagione lavorativa, chi per trovare un posto fisso. Nello stesso periodo le nuove iscrizioni all’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, registro istituito nel 1988, sono state 1659. «Non tutti i ragazzi sanno che c’è l’obbligo, dopo un anno di permanenza fuori Italia, di registrarsi all’Aire, annota Marco Crepaz, direttore dei Bellunesi nel Mondo, «quindi si può ipotizzare circa il doppio di emigrati rispetto alle iscrizioni all’Associazione. Ma all’Aire si iscrivono anche i figli dei bellunesi residenti all’estero: l’anno scorso, ad esempio, si sono iscritti 550 brasiliani che puntano alla doppia cittadinanza». Secondo l’associazione Bellunesi nel
mondo il 31 dicembre del 2019 gli emigrati bellunesi erano 54.426 ovvero un quarto della popolazione dell’ intera provincia che conta 206.856 cittadini. Nel 2009 i bellunesi espatriati erano 40.437. Nell’ultimo decennio gli emigrati registrati sono stati 13.989 con un aumento del 34,59 per cento. «Le statistiche dell’Anagrafe non rispecchiano fedelmente la situazione migratoria, ribadisce Oscar De Bona, Presidente dell’Associazione Bellunesi nel mondo e già ministro regionale dei flussi migratori nel terzo governo Galan. «Secondo gli esperti, per avvicinarsi al dato reale la cifra dell’Aire andrebbe moltiplicata per due, se non per tre». In totale si calcolano almeno 400 mila emigrati ovvero quasi il doppio della popolazione attualmente residente in provincia. In Veneto la provincia di Belluno è quinta nella classifica per numero assoluto di iscritti ma se tle conteggio viene messo in relazione con la popolazione residente le cose cambiano e il bellunese con il 26,88% degli espatriati balza al primo posto superando tutte le altre province. Treviso in particolare, territorio che ha il numero maggiore di iscritti, ovvero 131.434 ma con incidenza solo del 14,78% in rapporto ai residenti. Vicenza ha un rapporto 10,92%, Padova il 6,83per cento, Rovigo il 6,83% e Verona il 5,24%. In tutta la Regione Vento gli iscritti all’Aire sono 456.919 pari al 9,31% rispetto ai residenti. Sono cifre impressionati e sulle quali riflettere perchè sono il segno di una emigrazione di forza lavoro professionalmente preparata e, in tempi più recenti, fughe di cervelli, per-
sone che hanno acquisito in Veneto una ricca formazione culturale e manageriale, costrette ad esercitarla all’estero. I dati riportati difettano, parzialmente, ancora di coloro che, figli di bellunesi sono nati all’estero, l’ iscrizione all’Aire per loro non è obbligatoria ma volontaria, e dunque la statistica è parziale, ma si calcola che siano almeno il 50,51 % degli attuali emigrati presenti in almeno127 paesi del mondo. In America vive il 48,63 per cento dei bellunesi emigrati e di questi il 45,86% vive nel centro-sud del Continente, in particolare in Brasile che ha 17.293 iscritti Aire, ovvero il 31,77% e Argentina con 4.637 pari all’8,52%. In Europa troviamo 26.088 bellunesi, ovvero il 47,93% degli emigrati con la Svizzera al primo posto con 11.193 iscritti, seguita dalla Germania, 5.524 e Francia con 2.512. Non mancano nostri conterranei in Oceania,1.002 pari all’1,82% e Africa, 508 lo 0.93%. In Veneto la provincia di Belluno è quinta per numero di iscritti all’Aire ma la classifica cambia se la si rapporta al numero dei residenti. Fra i comuni maggiormente interessati ci sono i feltrini Arsiè è fra i primi con il 115,21% (2553 iscritti su 2216 abitanti) e Lamon con l’85,27%. In buona posizione per la Vallata Feltrina anche Fonzaso che conta 2.567 iscritti su 3.153 abitanti, ovvero l’ 81,41%. Personalmente ho trovato in Germania gelatai molto apprezzati di origine bellunese e negli Stati Uniti ristoratori e negozianti di generi alimentari. Molti della vecchia generazione hanno confessato che tornerebbero volentieri ai piedi delle belle Dolomiti: ma ancora oggi non si vive di speranza.
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Tutti i nostri prodotti, dai cereali, ai legumi, all’ortofrutta di stagione, sono conferiti dai soci della Coop. Agr. La Fiorita e vengono coltivati esclusivamente nei Comuni della Provincia di Belluno. I trasformati come la pasta, le gallette, i succhi e gli agrodolci sono prodotti da laboratori specializzati sempre del territorio.
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La Chiesa e le donne di Franco Zadra
Da quando le donne hanno un’anima?
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a vicenda storica, ormai bimillenaria, della Chiesa cattolica, è particolarmente complessa e articolata, tanto che i cattolici, anche i più consapevoli, la conoscono in maniera insufficiente. Un autore tra i molti che di continuo contribuiscono allo studio di quella storia, Jean-Pierre Moisset, nella sua “Storia del Cattolicesimo”, edizioni Lindau, del 2008, cerca di rispondere con uno stile quasi giornalistico, a molte domande di fondo che vorrebbero recuperare quelle lacune che lasciano i cattolici di oggi in balia di revisionismi e fole storiche ormai assimilate in un bagaglio “culturale” difficile da riformare, per comprensibile mancanza di tempo, che insinuano dubbi e insicurezze altrimenti dipanati e del tutto risolti in ambiti specialistici. Un esempio tra questi è la credenza diffusa e molto radicata nell’opinione pubblica che la Chiesa avesse negato
l’esistenza dell’anima delle donne, riabilitate solo di recente a persone corredate di ciò che si stenta a negare persino agli animali. Fu un polemista calvinista, Pierre Bayle, che spacciò come dato storico inconfutabile il fatto che dei vescovi avevano negato alla donna l’anima, inventandosi un inesistente decreto del II concilio di Macôn, del 585 d.C.. «I circa cinquanta vescovi presenti – scrive Moisset a proposito di quel concilio – non hanno minimamente discusso l’argomento, ma Gregorio di Tours, nella sua Historia Francorum, scritta poco prima della sua morte, nel 594 (quindi dopo neppure 10 anni da quell’evento e con una tempestività da cronista considerando il fatto che non esistevano telecamere o registratori, Ndr.), riporta le dichiarazioni di un vescovo: “dicebat mulierem hominem non posse vocari”, ovvero “diceva che non si può applicare alla donna il termine homo”. Il problema sollevato è di ordine linguistico: era il caso di applicare alla donna il termine generico homo, che designa l’essere umano, o bisognava chiamarla femina o mulier? Dal momento che l’evoluzione del latino parlato tendeva ad assimilare homo (essere umano) a vir (essere umano di sesso maschile), l’oratore chiedeva che si prendesse atto del nuovo uso, riservando homo all’essere umano di sesso maschile (un problema attualissimo se si pensa che è diventata quasi una offesa in inglese usare “Chairman” per indicare la carica di “presidente”, ed è divenuto obbligatorio usare invece “Chairperson”. Persona in latino vuol dire “maschera di un attore”, senza indicazioni di genere, Ndr.). Gli altri vescovi non erano di quell’avviso e hanno risposto che bisognava cercare di
esprimersi, oralmente e soprattutto per iscritto, in buon latino; di conseguenza, era giusto continuare a chiamare homo la donna. Per circa un millennio nessuno ha più fatto riferimento a questo piccolo aneddoto. Esso fa nuovamente capolino durante il Rinascimento, ma è soltanto alla fine del XVII secolo che un calvinista, Pierre Bayle, formula nel suo Dictionnaire historique et critique l’idea secondo la quale alcuni vescovi si sarebbero domandati se la donna avesse un’anima. Naturalmente, Bayle usava l’argomento per attaccare la Chiesa cattolica. Il tema è stato avidamente ripreso nel XVIII e XIX secolo. Questo mito, del tutto privo di senso da un punto di vista cattolico, è ancora assai diffuso ai giorni nostri, nonostante le smentite degli storici». Una fake news del ‘700 confutata, dunque, che però non ci deve distogliere dall’approfondire la questione del perché la donna si sia quasi sempre (ma ci sono molte eccezioni proprio in ambito ecclessiale e addirittura nel Medioevo con la diffusione in Europa di priorati misti retti da Badesse con la stessa dignità e potere dei vescovi) trovata in una condizione subalterna rispetto all’uomo.
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A parere mio di Cesare Scotoni
Il Covid da un male può nascere un bene.
L’occasione per realizzare l’europa Piaccia o dispiaccia il 2020, ovvero “l’anno del Covid 19” segna con una cifra indelebile la conclusione di un trentennio che, con la caduta del Muro di Berlino nel novembre 1989, aveva visto dispiegarsi una vasta offerta di percorsi possibili per costruire un’Europa UNITA diversa dalla CEE che era arrivata a quella svolta. Quelle molteplici vie risultano ora in gran parte chiuse e l’Europa con l’attesa istituzione del Recovery Fund e dei suoi meccanismi dovrà fare la sua scelta dirimente nei prossimi mesi. E dovrà capire da dove e come ripartire.
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ualunque sia la ragione per cui, diversamente da quanto accaduto con l’aviaria prima e della SARS poi che a differenza di quel Coronavirus avevano una letalità impressionante, le pur gravi, ma gestibili complicanze polmonari connesse ad un virus di facile diffusione e bassa letalità come il Covid 19 hanno visto l’Occidente ed i suoi modelli di prevenzione e cura “schiantarsi” a fronte delle ondivaghe e contraddittorie direttive di un WHO (OMS) rivelatosi più luogo della Geopolitica che delle buone pratiche ed i singoli Paesi Europei mostrarsi incapaci di individuare e riconoscere in una politica coordinata un superiore interesse generale, come su altri temi, non ultima l’immigrazione incontrollata. L’evento e
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le reazioni a quello seguite richiedono ora di dare un senso alle pretese sempre ribadite di essere l’Unione di Paesi e di condividere in parte un’unica moneta. Se sicuramente in Italia ha pesato maggiormente un tema organizzativo legato a Priorità e Risorse del Servizio Sanitario Nazionale nell’ambito delle Politiche di Bilancio, ciò che è emerso con nettezza è un rischiosissimo ritardo culturale nel comprendere come il Luogo deputato a Costruire lo Spazio dei Diritti del Cittadino Europeo sia quel Parlamento delle Macroregioni pensato con l’istituzione delle Circoscrizioni di Voto nel 1977 e poi lasciato semplicemente senza poteri. In Italia si è compreso soprattutto come il Dibattito sul Welfare, che di quell’Europa che NON c’è, è stata per il nostro Paese una costante dai tempi della
Riforma Dini del 1995 e delle prime riforme del mercato del lavoro con il Pacchetto Treu del 1997, nel ridursi stupidamente negli obiettivi alla semplice osservanza dei vincoli di un pareggio di bilancio messo in Costituzione ed i cui limiti in termine di limitazione della Sovranità Nazionale sono gravissimi, sia il terreno su cui si giocano quei Diritti di Base al Lavoro, alla Sanità ed all’Assistenza con prestazioni minime garantite e gratuite, alla Scuola ed all’Istruzione, alla libera circolazione, alle regole della cittadinanza, ad una paga oraria minima nei confini dell’Unione, ad un sistema Pensionistico che garantisca a tutti gli anziani un reddito minimo. Che l’Euro sia una moneta mal fatta e che la BCE manchi dei necessari Poteri sono conseguenze del fallimento del 2004 sulla Costitu-
A parere mio
zione Europea e da quell’obiettivo si deve quindi ripartire. L’Unione Europea NON può essere solo una mera “funzione” dell’Alleanza Atlantica e lo sforzo del 2001 di Pratica di Mare per integrare la Federazione Russa nel quadro dell’Occidente, affossato dagli Alleati
di Oltre Manica e dai giudici di casa nostra, va ripreso perché è a quel mercato che si guarda. Se già Obama nel 2012 aveva ammonito la Germania nelle sue ambizioni egemoniche e, dopo lo scontro del 2013 in Ucraina tra Germania e UK, la Gran Bretagna, con la benedizione di Trump, ha voluto sganciarsi da quell’avventura europea, il disastroso 2020 offre a tutti la sponda per ricalibrare quelle ambizioni che hanno portato l’Italia a schiantarsi sia politicamente che economicamente. Se, come sperano in tanti, il prossimo presidente della Repubblica sarà Mario Draghi, l’Europa potrà in parte ripensare l’idea antistorica che un “corridoio” da Parigi a Mosca possa essere alternativo a quel “Grande Mediterraneo” che la fine
degli equilibri costruiti con gli accordi “Sykes- Picot”, seguita alle vicende afgana ed irachena, non ha archiviato nella sua importanza. Oggi vi è bisogno di una maggior incisività verso un’Unione Europea che deve ritrovare una propria ragion d’essere e scriverla in una Costituzione e non di mera assertività verso occasionali compagni di viaggio per politiche dalla visione ombelicale. Qui ora o si fa l’Europa o ci si cerca un Alleato forte perché, malgrado alcuni fatichino a farsene una ragione, il tempo di “Arlecchino servo di due padroni è finito”. L’Ingegnere Cesare Scotoni è Consigliere di Amministrazione della Patrimonio Trentino spa.
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In ricordo di... di Katia Cont
Addio Maestro! “Dalla crisi non si esce con l’odio, la rabbia: quelle sono solo le conseguenze. La soluzione, invece, è l’amore, e il far tornare di moda le persone per bene.” Gigi Proietti
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egista, cantante, doppiatore ma ancora di più attore di teatro, cinema e televisione. Un mentore per tutti quelli che da lui hanno imparato a fare il mestiere del teatro. Gigi Proietti ci ha lasciato il 2 novembre scorso, nel giorno del suo ottantesimo compleanno. Un poliedrico uomo di spettacolo, con una cultura sconfinata, capace di immobilizzare davanti ad un palcoscenico un pubblico di tutte le età. Le nuove generazioni rischiano di conoscerlo sopratutto per essere stato il protagonista delle cinque stagioni della serie televisiva “Il maresciallo Rocca”, ma Proietti è stato uno dei più grandi attori di teatro italiano, oltre che attore per il cinema, per la televisione e per la radio; ma è stato anche comico, regista, cantante, doppiatore e insegnante. Celebre per le sue qualità affabulatorie e trasformistiche, esordì nel 1963 nello spettacolo teatrale di cabaret, “Can Can degli italiani”, per poi interpretare ininterrottamente numerosi spettacoli teatrali che ebbero un enorme successo
di pubblico. Al cinema è diventato celebre nel 1976 per il ruolo dell’incorreggibile scommettitore Mandrake nel film “Febbre da cavallo” di Steno. Numerose sono anche le sue partecipazioni in film di rilievo artistico, diretto da registi come Brass, Damiani, Monicelli, Petri, Lattuada, Avati, e molti altri. Nel corso della sua carriera Proietti si è cimentato con successo anche nel doppiaggio, dove ha prestato la voce a celebri divi del grande schermo; sua è ad esempio la voce di Sylvester Stallone nel primo capitolo della saga di “Rocky”. Tuttavia, è nel teatro che Proietti ha regalato il meglio di sé. Come attore ha recitato in numerosi spettacoli di autori quali Shakespeare, Molière, Brecht, e di registi di alto livello come Carmelo Bene. Come autore e regista ha esordito nel 1976 nello spettacolo che lo vedeva come interprete istrionico in “A me gli occhi, please”, dove l’artista, senza trama, portava sul palco, tra follia, poesia, ironia e contaminazioni teatrali d’avanguardia, una delirante serie di personaggi, che da Petrolini a Shakespeare attraversavano tutto il
suo repertorio, proponendo un modello di teatro-grafia che avrebbe poi segnato uno spartiacque nel modo di intendere il teatro, e al quale fecero seguito numerosissime repliche sui palchi dei più importanti teatri italiani, con un grande successo di pubblico. Nel 1978 istituì al Brancaccino, una sala prove del Teatro Brancaccio, il Laboratorio di Esercitazioni Sceniche per i giovani attori. Nata come associazione culturale, il Laboratorio divenne la migliore scuola di recitazione, sfornando più attori di successo di qualunque altra. Da lì infatti uscirono, per fare qualche nome, Gianfranco Jannuzzo, Chiara Noschese, Giorgio Tirabassi, Gabriele Cirilli, Enrico Brignano, Flavio Insinna. Al Globe Theatre, il teatro elisabettiano che creò e guidò per 17 anni e che ora porterà il suo nome, si è celebrata l’ultima entrata in scena di Proietti, accompagnata da applausi, ricordi, lacrime e tanti grazie pieni di infinita riconoscenza, espressa dai tantissimi amici e colleghi presenti.
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Il personaggio di Waimer Perinelli
SOFIA LOREN: vita d’attrice A 86 anni l’attrice partenopea è tornata davanti alla macchina da presa. L’ha fatto per amore e in un film diretto dal figlio Edoardo.
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n tutta la mia vita, che è stata lunga e con fortuna alterna, ho scritto una sola recensione cinematografica. Si trattava del film “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, era il 1974 interpreti erano Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, la regia di Lina Wertmuller. Ho svolto la parte sociologica della pellicola mentre il grande critico Morando Morandini ne analizzava gli aspetti cinematografici. Senza nemmeno sentirci ci siamo trovati d’accordo e l’abbiamo stroncato. Sono stato fiero di avere inconsapevolmente condiviso la sua opinione e sono ancora oggi pentito di avere stracciato il film. Volevo troppo dal cinema forse per troppo amore. Non voglio commettere lo stesso errore e celebro oggi il ritorno di Sofia Loren, al secolo Sofia Costanza Brigida Villani Scicolone, che ho amato fin dal debutto. A 86 anni è tornata davanti alla cinepresa nel film “La vita davanti a sé” diretto dal figlio Edoardo Ponti che, con Ugo Chiti, ha curato la sceneggiatura.
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Il film, tratto dal romanzo del francese Romain Gary, pubblicato nel 1975, racconta la storia di Madame Rosà, Sofia Loren, una prostituta ebrea in pensione a cui le colleghe affidano i loro figlioli. Si trova ad ospitare un ragazzino ebreo, un altro (Momo) nero e mussulmano affidatogli dal medico Coen (Renato Carpentieri), e un terzo piccolissimo portatogli da un omosessuale, forse transessuale, Abril Zamora. Il film, finanziato anche da Apulia Film Commission, ci regala belle immagini del porto, degli ulivi di una masseria, e della città di Bari dove vivono i protagonisti come in un crogiolo di razze, religioni, criminalità e salvezza. “La vita davanti a sé” per assonanza filosofica mi richiama alla mente “Un grande avvenire alle spalle” diventato il karma di Vittorio Gassman altro mostro del cinema mondiale. Sofia Loren nel momento in cui poteva cullarsi nel grande avvenire lasciato dalla propria ombra, dopo avere vinto tutto il possibile, avere regalato al cinema mondiale cammei immortali, ha accolto la sfida lanciatagli dal figlio e disegna un personaggio di intensa, commovente umanità. Gli occhi, la bocca sono quelli della Ciocara, le gambe di “Ieri oggi domani”, le rughe diffuse non nascondono, ma sottolineano i tratti del viso rendendoli solo più gravi, così come richiede questa figura di donna, provata dalla vita e dalla morte, che diventa amica del ragazzino nero e riesce a strapparlo alla solitudine, alla
malavita .” Il messaggio del film - ha detto Sofia Loren- è quello di “Comunicare tolleranza e amore. Perché tutti abbiamo diritto di essere amati, e che i nostri sogni si realizzino”. Lei è una leonessa affettuosa, severa, coccola, ma pur sempre un felino feroce mai domato. Sofia Loren è così. Mi ha sempre dato l’idea della donna libera, bella, spontanea a volte sfacciata, come sanno essere le femmine dei vicoli dei quartieri spagnoli o delle vie di Posillipo. Desiderata da molti e non solo sullo schermo, ma per oltre quarant’anni, sposata con Carlo Ponti. Edoardo che ha diretto la madre la prima volta nel 2002 in “Cuori estranei” conferma in “La vita davanti a sé” una bella padronanza della tecnica cinematografiche, ma il film si presenta a volte sfocato come certe immagini volutamente fuori fuoco, quasi dissolvenze mal riuscite. A firmare la canzone bella e originale del film, “Io si-Seen”, che parla d’amore, fiducia e solidarietà, è Laura Pasini e c’è chi sostiene che potrebbe arrivare alla candidatura all’Oscar. Il film dal 13 novembre è visibile su Netflix.
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In controluce di Rocco Cerone
INFORMAZIONE E GIORNALISTI OGGI A mia figlia liceale diciottenne e ai tanti giovani che, nonostante le tante difficoltà, vogliono accostarsi alla professione giornalistica, provo a delineare qualche risposta attraverso il quadro dell’attuale situazione, influenzata dal vorticoso progresso tecnologico e dalla pandemia da coronavirus che sta dematerializzando il lavoro.
T
ra le professioni ordinistiche intellettuali, quella giornalistica è l’unica che – in base alla legge del 1963 (57 anni fa, ormai “un’era geologica”) può essere svolta da chiunque senza alcuna specializzazione professionale o titolo di studio: è irrazionale ed insensato, ma anche chi ha la terza media può iscriversi all’Ordine dei Giornalisti e fare il giornalista. A differenza di avvocati, medici, ingegneri, architetti, notai che debbono essere laureati, sostenere l’esame di stato e poi iscriversi al proprio ordine professionale per potere svolgere la professione. L’Ordine nazionale dei Giornalisti annovera circa 120.000 iscritti, molti dei quali fasulli, perché i professionisti che lavorano stabilmente come articolo 1 nel mondo dell’informazione non arrivano a 20.000; altri circa 50.000 sono collaboratori,
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free lance, ma soprattutto COCOCO, i precari, i rider dell’informazione, costretti spesso a scrivere per un euro a pezzo; ne restano cinquantamila per arrivare a 120.000 che non hanno una posizione INPGI( Istituto Pensionistico) aperta, quindi non svolgono alcuna attività giornalistica ma hanno però il tesserino ODG. Questa la prima criticità che attanaglia la nostra professione e che richiede una profonda riforma dell’accesso con il requisito obbligatorio della laurea per elevare il livello culturale dei giornalisti. Titolo che adesso viene considerato scontato da enti pubblici e privati. Ciò che ha poi rivoluzionato il mondo dell’informazione e dei media è stata la diffusione esponenziale dei social: Google, Facebook, Tweeter, Istagram, Whatsapp, Telegram, che veicolano informazione e pubblicità senza pagare alcun diritto
d’autore a giornali e giornalisti, produttori dell’informazione di qualità che viene saccheggiata e distribuita gratuitamente. Ė in corso un braccio di ferro tra Unione Europea ed i colossi del web statunitensi per imporre ai cosiddetti “over the top” i diritti d’autore a giornali e giornalisti. Una direttiva europea in tal senso è stata approvata ed inviata ai governi nazionali per la ratifica. Il governo italiano finora non l’ha recepita. Nel passaggio dal governo Conte I al Conte II, è cambiato il sottosegretario di stato all’editoria: il primo Vito Crimi voleva la cancellazione dell’Ordine dei Giornalisti, sottintendendo la cancellazione della categoria tout court; l’attuale Andrea Martella sta elaborando una riforma complessiva del settore, “informazione 5.0”, ponendo mano alla legge 416 sull’editoria del 1981, con incentivi al sistema dell’informazione ed una rivisitazione del
In controluce
cosiddetto equo compenso, per superare l’oscenità ed il paradosso di un euro al pezzo, in grado di superare inoltre anche la situazione deficitaria dell’INPGI, da due anni con il bilancio in rosso. Situazione generale non idilliaca, aggravata dalla pandemia del coronavirus che ha innescato una preoccupante crisi economica. Le prescrizioni sanitarie e governative hanno costretto la maggior parte dei giornalisti a lavorare da remoto, cioè da casa, smaterializzando quello che è da sempre un prodotto collettivo come la fattura di un giornale sia esso cartaceo, di agenzia o radioteletrasmesso. A causa della diffusione del covid19, che ha fatto chiudere la sede centrale per sanificarla, qualche settimana fa, il quotidiano la Repubblica è stato completamente ideato, scritto, impaginato e stampato da remoto. Alcuni editori stanno immaginando già che il sistema di emergenza inaugurato per motivi sanitari possa diventare strutturale per potere diminuire drasticamente i
costi. Ovviamente qualsiasi nuova organizzazione del lavoro dovrà essere contrattata in modo responsabile con la FNSI, sindacato dei giornalisti. Molti si chiedono se il giornale di carta resisterà. Desidero a tale proposito parafrasare la direttrice del Financial Times, considerata la Bibbia finanziaria mondiale, che in una intervista del 21 agosto di quest’anno ha affermato che i contenuti sulla carta resisteranno solo nei week end, ma l’informazione correrà innanzitutto sul web. Anche il celeberrimo New York Times, sempre ad agosto 2020, per la prima volta ha aumentato i ricavi digitali rispetto a quelli cartacei: 185 milioni di dollari contro i 175,4 milioni di dollari. Segnali che ci fanno capire come a livello mondiale si stia muovendo l’informazione. Cambiamenti epocali che stanno interessando anche l’Italia e il Trentino Alto Adige e dove si dovranno fare i conti con la duplice crisi sanitaria ed economica. Ricordo un vecchio caporedattore che 35 anni fa andò in crisi e preferì andare in pensione perché avrebbe dovuto
imparare a lavorare con il computer e lasciare la vecchia macchina da scrivere. Ecco credo che partendo da questo esempio emblematico, per non subire passivamente i cambiamenti, occorre che questi vadano governati e cavalcati, per non esserne travolti. Occorre sicuramente fare i conti con una realtà tecnologica completamente diversa, ma come il bravo medico usa prima il bisturi, poi la laparoscopia e poi il robot per operare, così il giornalista rimane tale indipendentemente dal mezzo che usa per scrivere e diffondere notizie ed informazioni. L’importante è avere passione e gli strumenti fondamentali: cultura e curiosità.
Rocco Cerone è Segretario del Sindacato Giornalisti del Trentino Alto Adige
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La storia d’Italia di Elisa Corni
Le donne che hanno fatto l’Italia
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rano ventuno, con idee, provenienze e appartenenze politiche differenti; nel giugno del 1946 varcarono la soglia del Parlamento e si sedettero agli scranni circondate da 535 uomini: politici del calibro di Alcide De Gasperi e Francesco Saverio Nitti e Giuseppe Saragat. Erano in netta minoranza in quella stanza ma sono le madri della nostra costituzione, la carta d’identità della nostra Repubblica. Provenivano da tutta la penisola, erano per la maggior parte (14) sposate con figli; possedevano titoli di studio (14 erano laureate) e molte di loro avevano partecipato attivamente alla Resistenza; rappresentavano molti dei partiti politici dell’epoca (9 per il Partito Comunista come per la democrazia Cristiana, 2 del Partito Socialista e una del Partito dell’Uomo Qualunque). Erano Adele Bei, Bianca Bianchi, Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Maria De Unterrichter Jervolino, Filomena Delli Castelli, Maria Federici, Nadia Gallico
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Spano, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Leonilde Iotti, Teresa Mattei, Angleina Erlin, Angiola Minella, Rita Montagna Togliatti, Maria Nicotra Fiorini, Teresa Noce Longo, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi, Vittoria Titomanlio. Questi i loro nomi, molti dei quali sono finiti nel dimenticatoio, al punto che di alcune di loro non esiste nemmeno una pagina Wikipedia, la nostra cartina di tornasole per ciò che è importante sapere e ciò che non lo è. Eppure queste 21 signore furono le prime donne a mettere piede in Parlamento, furono anche le prime elette durante la prima votazione cui ebbero accesso anche le donne nel nostro paese, quella del 2 giugno nella quale gli Italiani hanno preferito la Repubblica alla Monarchia. Furono scelte per rappresentare le istanze del mondo femminile italiano, per dare voce ai milioni di madri, figlie, sorelle che fino a quel momento non potevano nemmeno scegliere chi le potesse rap-
presentare. Dal 25 giugno di quell’anno fino al 31 gennaio dell’anno successivo quelle 21 rappresentanti del mondo femminile italiano presero parte ad accese discussioni, proposero articoli, redassero i testi che ancora oggi sono alla base del nostro vivere civile. E fecero la loro parte. Molti degli articoli sulla parità di genere, sull’uguaglianza della donna all’uomo, sul diritto all’istruzione e al lavoro furono opera loro. Teresa Mattei, la più giovane deputata, dipinta dai cronisti come una giovane con “molti bei riccioli bruni e due begli occhi vivi” risponde tono su tono ai giornalisti dell’epoca: “Io darò tutte le mie forze perché siano tolte tutte le barriere che limitano la attività culturale femminile. Mancano scuole speciali, all’Università molte facoltà sono precluse”. Dalle sue parole non traspaiono bellezza ed eleganza, ma concretezza e decisione. Come da quelle della deputata Maria Maddalena Rossi: “Una delle facoltà notevolmente frequentate dalle donne oggi è quella di chimica. […] Migliaia di dottoresse in chimica popolano oggi le nostre industrie. È interessante tuttavia notare come esse siano costantemente escluse dai compiti di direzione”. A leggere gli scritti di queste donne, vecchi di settant’anni, viene tristezza perché parlano ancora dell’oggi, della situazione delle donne pagate meno, con minor possibilità di carriera, per le quali si preferisce il bell’aspetto alla professionalità. E appare ancora moderno quanto scrisse Filomena Delli Castelli a proposito del suo ruolo nella Costituente: “E non saremmo state più considerate solo casalinghe o lavoratrici senza voce ma fautrici a pieno titolo della politica italiana”.
La storia d’Italia
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In controluce di Nicola Maccagnan
Galleria “F.lli Angelini” (ex Romita): Breve storia di un rifugio antiaereo nel cuore della città di Feltre.
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on tutti forse, attraversando il tunnel che collega la zona di Prà del Moro e Prà del Vescovo con il centro di Feltre, si sono mai presi la briga di fermarsi a leggere i pannelli che da alcuni anni campeggiano sui due lati della galleria e che descrivono in breve la storia, più o meno recente, dei palazzi e delle zone più significative della città. Tra questi pannelli, alcuni narrano proprio la genesi del corridoio scavato sotto il Colle delle Capre che li ospita. La Galleria F.lli Angelini - così rinominata su decisione del Consiglio Comunale che nel 2014 ha accolto le istanze dell’ANPI per rendere onore a due giovani fratelli feltrini che persero la vita durante il secondo conflitto mondiale - è per molti, ancora, la Galleria Romita. E qui l’intitolazione risale invece al 1965, quando l’assemblea cittadina di allora, su istanza del gruppo socialdemocratico, intese dare lustro e riconoscenza al ministro Giuseppe Romita (morto nel 1958), prima convinto antifascista, poi attivo fautore del referendum per la nascita della repubblica e padre del forse più noto, alle generazioni successive, Pier Luigi Romita, pure politico di lungo corso. Dopo circa 50 anni, come detto, l’ap-
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pellativo Romita ha lasciato il posto, non senza qualche polemica tra i banchi del Palazzo della Ragione, alla nuova intitolazione in memoria dei fratelli Giulio e Michele Angelini, entrambi uccisi durante il secondo conflitto mondiale. Giulio, classe 1918, tenente della Divisione Acqui, 317^ Btg. Fanteria, fu tra i fucilati a Cefalonia per ordine diretto di Hitler quando, dopo l’armistizio dell’8 settembre, la sua divisione si oppose al tentativo tedesco di disarmo. Suo fratello, Michele “Nando”, classe 1925, entrato giovanissimo nelle file partigiane, fu catturato durante il rastrellamento del Consiglio e l’11 settembre 1944, a Spert D’Alpago, fu impiccato mentre gridava, narrano le tristi cronache dell’epoca, “Viva l’Italia libera”. Fin qui la breve cronistoria delle intitolazioni. Ma quando e perché fu realizzato questo corridoio sotterraneo proprio nel bel mezzo della città? L’origine del manufatto risale agli anni della seconda guerra mondiale, esattamente alla metà del 1943, quando fu progettato a cura dell’ufficio
tecnico del comune di Feltre quale rifugio antiaereo. L’opera, inizialmente pensata con uno sviluppo a ferro di cavallo, venne poi realizzata nella sua attuale forma rettilinea nel corso dell’intero 1944 da un’impresa locale. Quale fu il clima dell’ultimo anno del Secondo Conflitto Mondiale a Feltre lo raccontano, meglio di altre fonti, i “numeri” degli allarmi antiaerei lanciati dalle sirene della caserma dei Vigili del Fuoco, posta allora in via Beccherie: 160 per bombardamenti e 281 per mitragliamenti. L’utilità del nuovo tunnel non sfuggì però nemmeno alle truppe tedesche, che nel frattempo (nel settembre del 1943) avevano occupato la città di Feltre e il suo territorio. Ne è testimone un documento del RuK Stab Italien (il Dipartimento di Produzione Bellica
In controluce
Italia) datato 4 dicembre 1944 in cui si faceva espresso riferimento alla nuova galleria (oramai in fase di ultimazione) come sito protetto per la produzione di semilavorati in alluminio da destinare, in particolare, all’aeronautica tedesca. A realizzarli sarebbe stata, al riparo dai bombardamenti alleati, la vicina Metallurgica Feltrina, insediatasi in città pochi anni prima e completamente operativa dall’ottobre del ’42.
Al termine della guerra, liberata dai bastioni paraschegge edificati a protezione dei due ingressi, la galleria fu quindi riconvertita ad uso civile come arteria di comunicazione (oggi esclusivamente pedonale) che collega la parte nord della città e gli ampi parcheggi di Prà del Moro con il suo centro. Sotto le sue ampie volte, d’estate fonte di refrigerio, sono moltissime le persone
che la percorrono quotidianamente, soprattutto in occasione dei mercati che si tengono il martedì e il venerdì in via Campo Giorgio; da oggi, leggendo queste righe, qualcuno magari con un pensiero a quando – meno di 80 anni fa – sotto quelle stesse volte i nostri avi cercarono riparo dalle bombe e, forse, anche dalle drammatiche paure di una guerra giunta fin dentro le mura cittadine.
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Società oggi di Laura Mansini
IL TEATRO AL TEMPO
DEL COVID
Un tappeto gettato per strada, un mimo che danza, un uomo che racconta. Questa era nell’antichità una delle prime forme di Teatro.
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Teatro” è un termine che si può applicare a qualsiasi manifestazione dove c’è una persona che agisce ed una o più persone che guardano. Va detto che questa parola “theàomai” (vedo) venne data dai Greci antichi alla Gradinata dalla quale si poteva osservare la rappresentazione drammatica. Poi nel tempo venne estesa a tutto l’edificio destinato alla rappresentazione; nell’antica Atene si diceva il Teatro di Dionisio, come oggi diciamo ad esempio il Teatro Sociale
a Trento, il teatro De Sena di Feltre o La Fenice di Venezia. Questo termine nel tempo venne adottato per indicare qualunque forma di spettacolo. Le nostre riflessioni tuttavia si riferiscono, in quest’articolo, al teatro Classico, nel senso consueto del termine. Lo storico del teatro , Joseph Gregor (1888-1960), nella sua “ Weltgeschicht des Theaters” (storia mondiale del teatro), inserisce nel concetto di “Teatro”, tutti gli spettacoli, diversissimi per carattere, origini; dalle danze dei selvaggi, ai riti religiosi, dalle cerimonie popolari, alle parate militari, dalle pubbliche feste ai solenni funerali. In estrema sintesi il Teatro così come è stato inteso nel corso dei secoli fino ad ora potrebbe essere definito dunque come: “la comunione di un
pubblico con uno spettacolo vivente “. Uno spettacolo fatto su un palcoscenico che vede gli attori agire ed una platea con degli spettatori. Fino ad ora. Ma in tempo di Corona Virus questa definizione ci potrebbe andare stretta, o meglio non può, momentaneamente essere applicata. Nei secoli scorsi vi era una stretta commistione fra le parole dette e lo spazio nel quale venivano dette. Ricordiamo il teatro greco con le sue tragedie, quello Romano molto più allargato, era un’arena all’interno della quale vi potevano essere molteplici spettacoli, dalla lotta degli uomini contro le belve, alle lotte fra gladiatori, ecc. Più tardi si sentì l’esigenza di un Teatro più raccolto, abbiamo così dei piccoli teatri, veri gioielli come quello fatto costruire all’interno del palazzo dei Diamanti di Ferrara da Ludovico Ariosto nei primi anni del 1500. Nell’Italia del Rinascimento anche il teatro conosce una nuova fioritura, si formano compagnie di attori professionisti ed entra in scena la grande scoperta dei
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Società oggi pittori italiani, la prospettiva. L’esempio più fulgido di questo secolo è il Teatro Olimpico di Vicenza, considerato uno dei più bei teatri del mondo con la sua scena fissa, ideato dal Palladio per la prima rappresentazione dell’ Edipo Re di Sofocle. Ma in quegli anni entrò in scena la scenografia pittorica che con la prospettiva ampliò lo spazio dando nuovi impulsi all’arte Teatrale. Teatro specchio dei tempi ed in grado di adattarsi alle nuove scoperte. Ricordo quando negli anni sessanta entrò con la radio e la televisione nelle nostre case, portandoci a conoscere attori e compagnie come quella di Cesco Baseggio, con le commedie venete di Goldoni, di Gallina etc, e poi la famiglia De Filippo, di Napoli e Gilberto Govi di Genova, per non parlare del teatro di Pirandello, rappresentatodalle grandi compagnie nazionali, su su fino a Giorgio Strehler e Luca Ronconi. Si diceva
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che i teatri avrebbero sofferto, invece fecero conoscere al grande pubblico un mondo riservato a pochi, mentre così tutti impararono a conoscere i grandi attori e si riversavano poi nei teatri per vedere dal vivo il loro beniamini. Il teatro come educatore al nuovo. Ora abbiamo delle compagnie, dei teatri come il Centro Santa Chiara, il Veneto Teatro, il Teatro Stabile di Bolzano che propongono un nuovo tipo di spettacolo, creato soprattutto per far vivere le compagnie, non abbandonare i lavoratori dello spettacolo, le commedie in screaming, da guardare sul computer. E subito, come in tutte le cose, si è aperta una forte discussione sull’argomento, Acquistando un biglietto al Santa Chiara di Trento ho avuto l’opportunità di godere con
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Società oggi di Patrizia Rapposelli
IL POTERE DEI SOLDI Party esclusivi scenari di un orrore
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e innumerevoli fotografie di signorine che smontano da yacht e si tuffano nelle piscine dei potenti, che cosa insegnano alle loro coetanee? Che per contare nella vita bisogna alzarsi all’alba e conquistare gradualmente e a fatica un posto nella società o che è consigliabile farsi bastare una scorciatoia al successo? Mi sono posta dei quesiti. Domando alla diciottenne d’oggi che vuole arrivare al successo mediatico cosa sarebbe disposta a fare. Cosa a rischiare. Quanto potrebbe essere attratta dal lusso che solo può essere immaginato da un comune mortale. La risposta è chiara a partire dai media stessi, dagli episodi di cronaca, dalla facilità con la quale le storie tendono a ripetersi. Feste, case da sogno, piscine con viste panoramiche mozzafiato, volti noti, agenzie per modelle emergenti, sono queste le opportunità che a molte giovani fanno alzare l’acquolina in bocca, ma il prezzo da pagare è alto e la strada verso il successo fatale. Un mondo esclusivo, la cui cerchia ristretta si allarga solo per conoscenza e soldi, è la giungla della movida privilegiata in cui tante ragazze si addentrano in cerca di affermazione. Basta un aggancio. Arriva l’invito a quel party esclusivo, scatta l’idea di poter prendere contatti con grandi nomi: il predatore ha adescato la preda. Tornano a far parlare di sé quei racconti di sesso, droga e prostituzione che silenziosi macchiano “l’Italia bene”; infatti la recente cronaca mette in risalto un altro festino dove i sogni di giovani ragazze si sono trasformati in incubi popolati da predatori. “La Terrazza del Sentimento” è l’ultimo luogo dove si è consumata la brutale violenza di una diciottenne, la storia della piccola lolita a
settembre a “Villa Inferno” nel bolognese e a “Villa Lolita” Ibiza nello scorso maggio. Questo ennesimo party ha smosso le acque di un universo nascosto: è il lato oscuro del lusso, del potere e dei soldi. Si dice, ma è quasi certezza, che alla festa c’era la droga, due piatti a disposizione di tutti, in uno 2CB, conosciuta come la coca Rosa, e nell’altro “Calvin Klein”, chetamina mischiata alla cocaina; ci sono i nomi noti, il padrone di casa, il sensale e le piccole sprovvedute. La droga è una costante, così come la potenziale prostituzione; molte giovanissime forse sono anche consenzienti, altre paralizzate dall’ambiente facoltoso, attirate con l’inganno, la lusinga e un’opportunità di lavoro, diventano bambole di uno scenario d’orrore. Esistono filmati, immagini che testimoniano violenze ripetute e cruenti, segno di
uno squallore sociale e idea che potere, denaro e prestigio non sono separati, ma insieme si rafforzano. Emerge una generazione costantemente ferma al bivio tra l’accontentarsi di una vita ordinaria e il raccogliere la sfida di qualche avventura, sogno, speranza o miraggio, manca la responsabilità delle scelte prese. Nell’attualità i più giovani tendono a focalizzarsi su esempi negativi fabbricati dai media, sostenuti da una fragilità personale, e si sbranano per conquistare un mondo di illusione; l’immagine che va per la maggiore è un povero erotismo veicolato da apparati muscolari, vestiti microscopici, trucchi da viado e tacchi da passeggiatrice. La storia è questa. Forse l’attuale emergenza educativa sta diventando vuoto educativo.
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Qui artigianato di Franco Zadra
A Feltre, alla tradizionale Mostra dell’Artigianato, ha vinto l’ottimismo Dal 1986 a Feltre si tiene la tradizionale Mostra dell’artigianato artistico e tradizionale, nel magnifico contesto del centro storico della cittadella medievale che diventa anche teatro di un variegato palinsesto di spettacoli e intrattenimenti per tutti, nel corso della quale prendono vita, manipolate dalle mani esperte di maestri artigiani di ogni parte d’Italia, prodotti d’eccellenza a partire da vari materiali, quali ferro, legno, ceramica, ma anche vetro e cartapesta, offrendo l’opportunità a sempre più numerosi visitatori di una sorta di full immersion dentro quella straordinaria quotidianità artistica, prima ancora che produttiva, di chi in quelle lavorazioni ha messo spesso tutto se stesso. coinvolgere per riuscire ancora una volta in qualche cosa di unico che non si poteva sospendere senza sentire di aver perso un pezzo importante di ciò che il mondo dell’artigianato sa da sempre offrire con generosità e impegno. «Certo, è stata una manifestazione un po’ “in sordina” - spiega il presidente Gesiot -, privilegiando però uno dei settori dell’artigianato artistico che è quello del ferro battuto, con il concorso di forgiatu-
Q
uest’anno, nonostante il covid, si è celebrata la 34ª edizione della mostra, e forse più del solito è stato un evento particolare che ha sollecitato molto la capacità tecnica degli organizzatori, a cominciare dal presidente Luciano Gesiot che incontriamo per farci raccontare come si sono vissuti i tre giorni della manifestazione più attesa dell’anno. E ringraziando implicitamente anche gli altri protagonisti – senza per ovvie ragioni poter citare tutti – come la vice presidente, Lara Ceccato, ma anche Damiano Boffa, Dino Cossalter, Elena Ceccato, e Fabio Giudice. Ma sono tantissime le persone coivolte e che si sono lasciate
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ra e il premio intitolato al maestro Carlo Rizzarda. Il tutto entro i limiti concessi dalle disposizioni sanitarie, ma, dopo 34 anni di edizioni ininterrotte, anche quest’anno, nonostante tutto, è andata benissimo!». Fa una certa impressione questo “benissimo” del presidente che interpreta in maniera tanto positiva e ottimista qualche cosa che, vista da un profano e dall’esterno dell’organizzazione che l’ha generata, si è portati forse a commisurare
Qui artigianato
con la realtà nella quale ci ha precipitato a livello globale questa pandemia; vi si percepisce però il gusto e la forza di una cultura artigiana che trova soluzioni e applica ingegni senza mai farsi determinare dalle situazioni, fossero anche avverse. «Siamo riusciti – continua Gesiot – a dimensionare l’evento all’attuale momento storico, direi con un risultato più che soddisfacente. Normalmente avevamo circa 180 artigiani all’interno della manifestazione completa che si svolge nei palazzi storici;
quest’anno, limitandoci al settore del ferro battuto, abbiamo avuto comunque venti artigiani da tutta Italia e la risposta del pubblico è stata notevole, nel rispetto dei vincoli imposti dalla pandemia. Nessuno si è fatto male o è stato contagiato, e questa è la prima cosa per la quale ci sentiamo fortunati, ma è stato un momento comunque importante per capire ancora meglio che cosa il pubblico chiede e cerca. L’elemento di sicurezza, per gli artigiani che partecipano e per gli organizzatori, come per tutti i visitatori che vi accedono, e io sono responsabile unico per la parte amministrativa come per quella burocratica, cioè sono anche responsabile covid, deve essere tenuto in grande considerazione, se non si vuole rinunciare del tutto a fare queste manifestazioni, per altro molto richieste e attese dal pubblico». Non riusciamo qui a dare il gusto delle sfumature d’intonazione nel racconto del presidente, ma non si può non restare ammirati ascoltando questo «artigiano a tempo perso», come dice di sé, tra il serio e il faceto, che a inizio dicembre ha compiuto 67 anni; maturità classica al liceo Panfilo Castaldi di Feltre, laureato in psicologia a Padova, anche diplomato Isef all’istituto superiore di educazione fisica di Napoli; scopriamo con sorpresa che produce, e non da ieri, stufe tirolesi costruite su misura e fa cuocere le sue ceramiche in giro per l’Italia, tra Asolo, Firenze, e Modena. Divenuto amministratore unico, come si legge nel suo straordinario curriculum vitae, dell’azienda nella quale nel 1977 entrò come operaio, all’occasione è pronto a saltare sul camion per sostituire un dipendente ammalato, come è capitato proprio in occasione della nostra intervista. Sorge, insomma, un “tifo” spontaneo per questa libera organizzazione di artigiani, imprenditori e professionisti rappresentata in regione da uomini come Gesiot, e ci si fa piacevolmente
coinvolgere dalla sincera soddisfazione degli organizzatori e, in primis, del presidente, per gli esiti felici della loro manifestazione. «Sono rimasti soddisfatti – dice ancora Gesiot – anche gli amministratori, a cominciare dal sindaco e vicesindaco che sono intervenuti, e gli artigiani, addirittura entusiasti perché è stata l’unica manifestazione che si è tenuta quest’anno, relativa al ferro battuto, con la possibilità di seguire dal vivo, in diretta il lavoro dei fabbri. Anche il tempo è stato perfetto e abbiamo avuto la fortuna che tutto è andato bene, forge, incudini, tavoli e attrezzature hanno funzionato alla grande, il direttore della manifestazione, Damiano Boffa che si è occupato della parte tecnica, è stato più che egregio. Speriamo nel 2021 di rifare la Mostra dell nella sua completezza con la presenza dei 180/200 artigiani che abbiamo avuto negli ultimi 20 anni, ma stiamo già lavorando, in streaming, con tutto lo Staff tecnico, alla prossima edizione con un progetto già pronto e definito che abbiamo già condiviso con l’amministrazione del Comune di Feltre, così come con la Camera di Commercio e le associazioni di categoria, e contiamo per giugno 2021 di fare ancora meglio, perché da inguaribile ottimista so che il bello è ancora da venire». 29
Pandemia Coronavirus è guerra di Patrizia Rapposelli
INCOSCIENZA GIOVANILE “Care persone, soprattutto giovani volete capire che siamo in guerra e che il nemico non si combatte con il fucile?”
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lo sfogo del Viceministro della Salute Sileri. Nel numero precedente abbiamo ripreso il mondo giovanile per la mancanza di responsabilità in tempo di Coronavirus, ma ad oggi, quando le cifre dei contagi e dei morti sono sempre più significative, la noncuranza giovanile è smisurata. Non è più una discussione tra negazionisti e opposti, nemmeno problema di colore
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Pandemia Coronavirus è guerra politico, ma di sicurezza nazionale. Si lotta per salvare l’Italia. Il sistema sanitario è alla stregua e urla di fare zona rossa; l’epidemia da Covid si è diffusa a tal punto da diventare la pandemia più grave dell’ultimo secolo, gli effetti sul fronte sanitario ed economico sono devastanti e andranno ad incidere per lungo tempo sul benessere presente e futuro del Paese, una questione che colpisce sia i giovani che le persone avanti con l’età. Il virus colpisce in modo sproporzionato le persone anziane e quelle affette da patologie pregresse, ma i giovani si torna a dire non essere immuni. Oggi il quadro è di un Paese coinvolto in tutte le sue Regioni, con un’età mediana che da circa 30 anni di metà agosto è risalita; il dato dell’età è fondamentale perché se quella curva dovesse continuare a crescere, a questo aumento si assocerebbero più decessi. Appare chiaro che i giovanissimi, tra i quali il contagio è maggiormente diffuso,
dovrebbero porre particolare attenzione nel non infettare gli anziani. Questo con rammarico non sta accadendo. L’attenzione per il nonno o il genitore non sembra sfiorare la mente giovanile. Allo stesso tempo si dovrebbe tener presente che i dati dimostrano una percentuale sempre maggiore di ragazzi malati e una fetta non trascurabile con sintomatologia non lieve. In questo momento è necessario smontare il delirio di onnipotenza giovanile; il Covid difficilmente uccide un adolescente, ma ci sono delle conseguenze. Il numero di occupazione posti letto aumenta rapidamente e se le soglie dovessero crescere si metterebbe a rischio la possibilità di assistere altri pazienti non Covid. Il Paese si trova davanti ad una doppia sfida: da un lato gestire l’epidemia e dall’altro garantire le cure per le altre patologie. È ripetitivo, ma le mascherine non vengono messe o tenute abbassate, si organizzano feste dove non esiste
distanziamento sociale, manca l’attenzione nell’idea di dire non mi accade nulla. Nell’insieme non è da trascurare la sfida nel gestire l’incoscienza delle persone; il senso di responsabilità è uno strumento cruciale per riuscire a controllare la diffusione. La mancanza di senso di responsabilità giovanile sta risultando un problema per il Paese. Uno studio rivela che oltre il 70 per cento dei giovani ha una visione “gonfiata di sé” e non è in grado di mettersi nei panni degli altri e quindi, all’occorrenza, aiutarli. Sempre più concentrati su di sé, sempre meno attenti ai bisogni degli altri; è il ritratto delle nuove generazioni secondo Peter Gray psicologo del Boston College Usa. In tutte le guerre la storia insegna che sono i più deboli a rimetterci; il mondo giovanile è chiamato ad un bivio, può scegliere se andare da una parte o dall’altra, ma le conseguenze non mancheranno. È cronaca.
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Società oggi di Nicola Maschio
IL FUTURO DEL LAVORO AI TEMPI DEL COVID-19
T
rasformazioni, cambiamenti, novità. Queste sono le principali parole che hanno segnato il 2020 e che, inevitabilmente, caratterizzeranno il nostro futuro. La pandemia di Covid-19 ancora non è passata, anche se alcune notizie inerenti cure e vaccini lasciano intravedere una luce in fondo al tunnel. Il mondo del lavoro, comunque, non sarà più lo stesso. Lo ha evidenziato la Fondazione Nord Est che, in collaborazione con Umana, ha condotto una ricerca proprio sul settore lavorativo e su quelli che saranno i principali cambiamenti in ottica futura. Ben 518 le realtà produttive considerate nell’indagine, con quest’ultima che ha coperto i territori di Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino (99 aziende considerate) e Veneto. Principalmente, le imprese con un numero di dipendenti tra 10 e 49 sono state quelle maggiormente considerate (198), seguite da quelle con più di 50 dipendenti (185), mentre quelle con un totale tra 6 e 9 impiegati sono state 135. A farla da padrone è stato il settore dell’industria con 226 realtà rappresentate, mentre solo 98 rientrano nel commercio e 194 nei servizi. Prima di analizzare i dati relativi al
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futuro, occorre però fare un piccolo passo indietro, partendo dal lockdown dello scorso marzo. Ben il 42,3% delle attività infatti non hanno realmente mai chiuso i battenti, mentre “solo” il 22,2% ha dovuto attendere il 4 maggio per ricominciare a lavorare. Durante lo stop forzato, il 64,9% delle imprese ha utilizzato la Cassa Integrazione Guadagni, il 42,7% lo smartworking ed il 30,2% ha ridotto le ore del proprio personale. Una volta tornate operative, ben il 92,2% delle aziende ha realizzato un’indagine per valutare lo stress post-lockdown, mentre il 69,2% ha pensato a nuovi arrendi interni ed il 63,9% ha impostato strategicamente i turni di lavoro per rispettare i distanziamenti. Il 50,9% delle aziende ha continuato ad utilizzare lo smartworking, mentre solo il 19,6% ha ripensato gli spazi del luogo di lavoro. A risentire particolarmente del Covid-19 sono state le attività di formazione: il 24,1% delle aziende ha sospeso ogni corso in programma, mentre solo il 29,1% ha deciso di proseguire con quelle già programmate; ben il 35,5% ha pensato di organizzarle online nonostante fossero previste in presenza, mentre l’11,3% ha puntato su nuove
attività formative. Rispetto alle tematiche, il 70,6% dei suddetti corsi riguardava e riguarderà in futuro la sicurezza delle aziende, con addirittura il 73,2% dei titolari che ha evidenziato come la formazione sia orientata a trattare i cambiamenti dettati dal Covid nel lungo periodo. Inevitabilmente, uno strumento che prenderà sempre più piede in futuro sarà il già citato smartworking: per l’87,1% dei rispondenti, questa dinamica è sinonimo della capacità di lavorare in autonomia , anche se non deve mancare il supporto della figura manageriale. Tuttavia, per il 65,1% dei responsabili questo strumento non genera un reale aumento della produttività, senza contare che per quanto riguarda il lavoro di manifattura è praticamente impossibile immaginare un lavoro da remoto. Altro aspetto preoccupante per il futuro sono i licenziamenti: l’87,6% delle imprese prevede che, non appena questi ultimi saranno nuovamente concessi, le stesse aziende provvederanno ad attivarli. Inoltre, aumenterà la flessibilità delle attività produttive (parere condiviso dall’89,2%). Qualcuno tuttavia (il 21,8%) si dice fiducioso di una ripresa dell’occupazione nei prossimi 6 mesi, anche se cambieranno radicalmente le organizzazioni e le abilità dei nuovi entranti nel mondo del lavoro: le competenze digitali saranno fondamentali per l’84,5% dei rispondenti, così come la capacità di lavorare in autonomia e per obiettivi (82,1%) ed essere in grado di ricorrere allo smartworking quando necessario (79,8%).
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Per una nuova cultura nel rispetto di Franco Zadra
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W le donne e… poveri maschi!
aschilismo e femminismo sono due “ismi” differenti, spesso usati come contrapposti sono un vero ostacolo alla comprensione e all’approfondimento culturale. Non si dovrebbe, infatti, contrapporre “maschilismo” a “femminismo” poiché il primo indica un atteggiamento socio-culturale basato sull’idea di una supremazia maschile e sulla continuità del sistema patriarcale, il secondo, usato già nella letteratura medica francese anche per riferirsi a un indebolimento del corpo maschile, diventa corrente nel contesto delle mobilitazione per il diritto di voto in Francia. Hubertine Auclert lo utilizzò, nel senso che gli attribuiamo oggi, nella sua rivista La Citoyenne, pubblicata dal 13 febbraio 1881. Con tale nome il movimento femminista è venuto alla ribalta internazionale negli anni sessanta del Novecento, con l’intento di modificare radicalmente la divisione sessuale dei ruoli femminili e maschili, e quindi di rimettere in discussione, in tutti gli aspetti del vivere associato, una gerarchizzazione umana che riteneva gli individui di maggiore o minore valore sulla base dei rapporti di potere basati sul genere e sulle relative proiezioni sociali e politiche. A “femminismo” dovremmo opporre piuttosto il termine “mascolismo”, definito dal Gran dizionario terminologico dell’Ufficio del Québec della lingua francese, come designante il «movimento che si preoccupa della condizione maschile». Il movimento mascolista crede nell’uguaglianza dei sessi e combatte le varie forme di discriminazione contro gli uomini, ritenendo che i diritti del genere maschile (quindi sia degli uomini etero-
sessuali che omosessuali) siano stati eccessivamente sacrificati o criminalizzati dalla cultura occidentale, nonché dalla giurisprudenza dominante (per esempio nel diritto di famiglia o in altri ambiti), in nome di un femminismo che avrebbe a loro detta tradito la finalità egalitaria e invece perseguito suprematismo del genere femminile e un sentimento e un conseguente atteggiamento di avversione e ostilità nei confronti del genere maschile contro cui questi gruppi invece si battono, riferendosi anche al “ginocentrismo” come termine per identificare la maggior tutela della società nei confronti delle donne e la sacrificabilità maschile. Fatta un po’ di rotta in questo guazzabuglio di termini, risulta evidente che se esiste una “questione femminile” ve n’è un’altra, paritetica, “maschile”, e appare come un’ovvietà il dire che là dove vi è uno sbilanciamento, una rivalsa forzosa, da una parte o dall’altra, le conseguenze nefaste dello squilibrio le pagherà la parte più debole. E non è detto che sia sempre quella femminile. Tanto più che, come si
evince dal “classico” del 1999 di Susan Faludi, vincitrice di un premio Pulitzer e allora direttore aggiunto di Newsweek, dal titolo “Bastonàti!” che descrive la crisi del maschio contemporaneo, conati di maschilismo esplodono là dove gli uomini (maschi) non riescono più a gestire l’ansia derivante dal vedere infrante tutte le allettanti promesse che la società ha fatto loro, riducendoli a lavoratori “in esubero”, tifosi traditi dai loro idoli, ex combattenti senza più guerre, dirigenti senza direzione, divi del cinema e attori porno con alle spalle disastri famigliari. Tutti accomunati dalla sensazione di aver perduto qualcosa: competenze, ideali, passioni, ruoli. Uno stato d’animo che a sua volta è solo il sintomo di un più vasto e profondo fallimento culturale. Dal quale però partire per superare il vecchio paradigma della lotta tra i sessi, liberarsi dal perso di una virilità ridotta a ornamento, porre le basi per una nuova cultura del rispetto, e aprirsi finalmente a una vera emancipazione che coinvolga tutti, uomini e donne.
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Intervista impossibile di Adelina Valcanover
MARIA MONTESSORI Maria Tecla Artemisia Montessori, marchigiana (1870-1952), fu una delle prime donne italiane a laurearsi in medicina. Inoltre fu pedagogista, filosofa e scienziata. È nota in campo internazionale per il suo metodo educativo cui prende il nome e adottato in moltissime scuole, dalle materne fino alle superiori.
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ono Maria Montessori. Gradirei un’intervista. È possibile? Certamente. Lei è un personaggio famoso e conosciuto. Bene, ne sono lieta. Sa, credo di avere alcune cose da dire. Partiamo subito col piede giusto e diamoci del tu, come sei usa fare di solito. Certo! Il tuo ritratto era su tutte le banconote da mille lire. Sì, il valore del taglio era minimo, però non mi lamento. Comincio subito col dirti che io sono nata nel 1870 a Chiaravalle (Ancona), ma alla fine, ci trasferimmo a Roma definitivamente. Provengo da una famiglia borghese dove la cultura era tenuta in conto. Mi è stato possibile diventare la terza italiana, medico. Per la mia salute cagionevole, a scuola non brillavo e ho cambiato più indirizzi di studi. Alla fine, grazie a mio zio, l’abate A. Stoppani, scienziato e naturalista, mi nacque la voglia di scelte innovative e mi iscrissi a medicina. Ma in famiglia erano tutti d’accordo della scelta? Oh, no! Mio padre al contrario di mia madre, si oppose ed ebbi con lui parec-
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chi contrasti; figurarsi, voleva diventassi un’insegnante! Io ero una persona molto determinata, portai a termine gli studi e divenni medico. Ma non ti fu facile nemmeno iscriverti a medicina. Eri priva del diploma di maturità classica. Come risolvesti il problema? Semplicemente mi iscrissi alla facoltà di Scienze e, dopo due anni, sono passata a Medicina a La Sapienza di Roma con il sostegno del ministro Baccelli e papa Leone XIII! Fosti impegnata nei quartieri poveri romani a favore dell’educazione dei bambini. Cosa ti indirizzò a loro? Frequentai un corso di igiene sperimentale tenute dal prof. Celli, convinto che la malaria e la tubercolosi era dovuta più all’emarginazione sociale che all’incapacità medica, e ci avrebbe dovuto pensare lo Stato. Comunque mi sono laureata e specializzata in psichiatria. Vedi, io adoravo la ricerca. Mi sono dedicata alla batteriologia, pediatria, le malattie femminili e maschili nei vari ospedali della capitale. Per fartela breve, sono riuscita in molti campi e sono entrata di diritto nella Società Lancisiana riservata ai dottori e professori degli ospedali di Roma. Eccellevo in igiene, psichiatria e pediatria e questa triade mi guiderà nelle mie
future scelte. Ossia il famoso metodo Maria Montessori, introdotto in moltissime scuole di ogni ordine e grado in tutto il mondo. Parto da lontano. Ottenuta la nomina come assistente presso la clinica psichiatrica dell’Università di Roma in collaborazione con G. F. Montesano, mi dedico al recupero dei bambini con problemi psichiatrici, che mi fa entrare in contatto con gli ambienti scientifici internazionali. Usando anche i loro studi pedagogici
Intervista impossibile
conosco i metodi sperimentali di rieducazione di minorati psichici. Contribuii anche all’emancipazione femminile. Siamo alla fine dell’800! In tempi non sospetti, come si direbbe. Comunque presento a Torino, nel 1898, al con-
gresso pedagogico i primi risultati delle mie ricerche. Siccome dirigo la scuola magistrale ortofrenica (per lo sviluppo mentale normale) di Roma, decido di allargare le mie conoscenze umanistiche e mi laureo in filosofia. Tra una cosa e l’altra partecipo a una ricerca con un collega, Giuseppe Montesano. Mi innamoro di lui e nasce un figlio, Mario, nel 1898. Un bel guaio davvero, come hai risolto questo, diciamo, incidente?
Ho partorito di nascosto e poi l’ho affidato a una famiglia del Lazio. Poi è stato messo in collegio, fino a 14 anni. Alla morte di mia madre è venuto a vivere con me, ma ha sempre creduto di essere mio nipote. Seppe di essere mio figlio dal testamento. Ma il padre? Non ti sposò? Non riparò? No! Sposò un’altra e io portai il lutto finché vissi. Non mi sposai mai. Adesso però cambiamo discorso che questo non mi pare importante. Entrai a far parte anche della Società Teosofica e nel mio metodo riverbera questo modo di pensare la sapienza e la teologia, comunque impossibile approfondire qui. Ma la sintesi del tuo metodo? Mi piacerebbe tu la esponessi. Ero sempre in contatto con l’estero, viaggiavo e ricevevo riconoscimenti. Con lo scoppio della Grande Guerra, nel 1914, mi trasferii, con Mario, in Spagna e sono rimpatriata nel 1924. Ho trovato Benito Mussolini al Governo. Insomma nasce l’Opera Nazionale Montessori e Mussolini stesso era presidente onorario. Periodo controverso. Ma le piccole scuole non volute precisamente da lui, lo infastidivano, anche se gli davano lustro. Anche Croce e Gentile sostennero il mio metodo. A proposito, che mi dici del metodo e delle idee di Rosa e Carolina Agazzi? Sei stata pesantemente accusata di aver preso a piene mani da loro, anche da chi inizialmente ti aveva sostenuto. Intanto le due sorelle bresciane erano solo maestre! E poi che vuol dire? Io ho elaborato un metodo vero e
proprio. E comunque ai fascisti non devo proprio niente. Non mi curo dei pettegolezzi ed evidenti invidie. Le sorelle Agazzi avranno avuto delle intuizioni simili alle mie, e quindi chi dice che non sia stato viceversa? Erano tue coetanee e hanno fondato una scuola per l’infanzia prima di te e tenuto corsi soprattutto in provincia di Trento e Bolzano con grande successo. Ma fuor di polemica, illustra in breve in cosa consiste il tuo metodo. Il mio metodo parte dai piccoli con problemi psichici, per poi espandersi a tutti i bambini, perché lavorando insieme si arricchiscano entrambi. Ti cito le mie parole “il bambino come essere completo, capace di sviluppare energie creative e possessore di disposizioni morali”. Il principio fondamentale deve essere la libertà dell’allievo, attraverso l’interesse autentico scegliendo il proprio lavoro assecondando il proprio istinto che è capace di procurare una percezione assoluta. Compito dell’insegnante è quello di stimolare tutto questo attraverso il movimento e il gioco, fino a quando il bambino saprà dirigere la propria volontà. Quindi, dalla libertà alla disciplina. Grazie, sei stata molto chiara e interessante. Vuoi dire qualcosa ai lettori di Feltrino News? Sì, ma onde evitare accuse di avere rubato idee, ecco, cito G. Pascoli e dico: “Riconoscete e rispettate il vostro ‘fanciullino’, Ha tanto da dirvi”.
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Qui America di Francesca Gottardi è nostra corrispondente USA
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l 7 novembre scorso, il candidato democratico Joe Biden viene ufficialmente dichiarato vincitore delle elezioni presidenziali statunitensi del 3 novembre. Biden si aggiudica 306 dei 270 grandi elettori necessari per diventare il 46esimo presidente americano. Sconfigge così il Presidente USA in carica, il repubblicano Donald J. Trump, che di grandi elettori ne ottiene 232. Biden conquista i cosiddetti Swing States, ovvero quegli “stati in bilico” che storicamente determinano l’esito delle elezioni USA, tra cui figurano Pennsylvania, Wisconsin, e Michigan. Biden vince anche stati di tradizione repubblicana, come l’Arizona e la Georgia. Dopo quattro anni di governo repubblicano, i democratici tornano alla Casa
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Bianca, con una lieve maggioranza alla camera, ed un esito incerto al senato. In gennaio, si terranno in Georgia i ballottaggi che determineranno a chi andrà la maggioranza al senato. Nelle settimane precedenti al voto, la situazione era percettibilmente tesa, il clima incerto.
Le elezioni
Le elezioni presidenziali del 2020 sono state molto sentite sia da parte dei democratici, che dei repubblicani. Ben 161 milioni di americani si sono recati alle urne (67% dell’elettorato), stabilendo un primato in un Paese dove l’affluenza elettorale è storicamente piuttosto bassa e raramente supera il 55%. In ascesa il numero di donne afroamericane (tendenzialmente democratiche) che si sono presentate alle urne. Si pensa che la
presenza sul ticket presidenziale di Kamala Harris, candidata vicepresidente di origine
Qui America indiane e giamaicane, abbia incoraggiato un gran numero di donne di colore a votare. Biden ha battuto due ulteriori record. È il più anziano presidente-eletto della storia USA. È anche il candidato che ha ricevuto più voti in assoluto, ben 80 milioni, aggiudicandosi così sia il voto popolare, che il collegio elettorale. Il rivale Trump ha invece ottenuto un totale di 74 milioni di voti a suo favore. Un numero elevatissimo, se si considera che prima di Biden il candidato a ricevere più voti nella storia USA è stato Obama nel 2008, che guadagnò oltre 69 milioni voti. Il collegio elettorale (vedi inciso) si riunirà a Washington DC il 14 dicembre prossimo per scegliere ufficialmente il nuovo presidente e vicepresidente. L’investitura del presidente-eletto Joe Biden e della vicepresidente-eletta Kamal Harris si terrà il 20 gennaio 2020.
Clima post-elettorale e controversie
In vari stati Biden ha vinto con un lieve
vantaggio. Basti pensare che nello stato della Georgia Biden ha prevalso su Trump con un margine di appena 13.000 voti ed in Arizona con un margine di 10.000 voti. Dalle elezioni USA è emerso un Paese diviso e polarizzato e sarà certamente una grande sfida per il duo Biden/Harris riportare un senso di unità e riconciliazione nei prossimi quattro anni. Il popolo americano ha votato contro l’amministrazione Trump e l’élite nazionalista bianca (prevalentemente al maschile) che Trump rappresenta, in una rivoluzione al femminile capitanata dalla popolazione afroamericana. Nei giorni successivi alle elezioni si sono levate grandi grida di protesta da varie città degli Stati Uniti a supporto del Presidente in carica Trump e del fatto che queste elezioni siano state “rubate” dai democratici. Intanto, a quasi un mese dalle elezioni Donald Trump e molti repubblicani non hanno ancora accettato la sconfitta e concesso la presidenza al Presidente-eletto Biden. Trump ha iniziato una battaglia legale dichiarando
che queste elezioni sono state oggetto di una frode elettorale, e che per questo il loro esito non sia legittimo. Mentre le cause legali avanzano, il futuro della presidenza USA appare come un grande punto di domanda. Ma una cosa è certa: gli americani hanno democraticamente votato per il loro 46esimo presidente.
USA: Elezioni presidenziali e curiosità
Ecco alcune curiosità e peculiarità delle elezioni USA. Se in Italia le elezioni si svolgono in una sola giornata, negli USA si comincia a votare già a un mese dalle elezioni. Si tratta del cosiddetto voto anticipato (di persona o via posta), pensato per dare l’opportunità al maggior numero possibile di cittadini di esprimere la loro preferenza. In Italia si vota principalmente di persona, fatta eccezione per gli italiani all’estero. Negli USA si può votare in anticipo via posta, soprattutto ai tempi del COVID-19. Il voto per corrispondenza ha dato luogo a controversie. Si teme una frode elettorale, l’arrivo in ritardo delle sche-
de (vanificandone il conteggio) e che un gran numero di voti venga perduto. Altra peculiarità USA è che nel periodo precedente alle elezioni i due candidati, e relativi vicepresidenti, si sfidano in dibattiti che lasciano poco spazio al “politically correct.” Quest’anno i dibattiti sono stati caratterizzati da un Trump che faticava a rispettare il proprio turno per parlare, ed un Biden che non pareva aver sempre la risposta pronta. A dare spettacolo durante il dibattito vice-presidenziale è stata una mosca che è rimasta in primo piano sulla testa bianca del vicepresidente Mike Pence per diversi minuti. Gli Stati Uniti valorizzano molto la libertà d’espressione, talvolta portandola agli estremi. Nel periodo precedente alle elezioni sono fioriti spot pubblicitari molto taglienti sui candidati, che lascerebbero un pubblico europeo basito. Le elezioni presidenziali in USA si tengono ogni 4 anni, il primo martedì di novembre. La partecipazione elettorale in USA è piuttosto bassa, con un’affluenza media del 54%. In Italia, l’affluenza alle politiche del 2018 è stata del 73%. Quest’anno però è stato da record. Ben 90 milioni di persone (38% dei votanti) hanno espresso la loro preferenza prima del 3 novembre. Un totale di 161 milioni di persone ha votato (66.8%), stabilendo un vero e proprio record nella storia USA. Favorito dai sondaggi era il candidato democratico Joe Biden, ma dopo l’inaspettata sconfitta di Hillary Clinton nel 2016 in molti non si fidavano dei sondaggi. Chissà che la vittoria di Biden possa aiutare a ristabilirne la reputazione.
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Qui USA di Francesca Gottardi
Kamala Harris
prima vicepresidente donna nella storia USA
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l 7 novembre scorso, quattro giorni dopo il voto, Kamala Harris è ufficialmente diventata la prima vicepresidente donna degli Stati Uniti. Non solo, Harris è anche la prima donna di colore a coprire la prestigiosa carica. Figlia di immigrati, il padre di origini giamaicane e la madre di origini indiane, Harris ha infranto numerose barriere nel corso della sua carriera. È stata infatti la prima procuratrice distrettuale di San Francisco, e poi della California. È stata inoltre la prima donna di origini indiane ad essere eletta al senato e ora la prima donna ad essere eletta vicepresidente degli Stati Uniti. Per questo, Kamala Harris è da molti considerata simbolo di cambiamento. Si prospetta che la Harris ricopra’ un ruolo
centrale nella presidenza Biden dei prossimi quattro anni. Il duo Biden/ Harris dovrà affrontare problemi che sono stati esasperati durante la presidenza Trump, dal razzismo alle disuguaglianze sociali. Ma con una vicepresidente di colore si pensa che vi sia maggiore facilità nell’entrare in contatto con la popolazione afroamericana, non sempre incline a relazionarsi col governo federale alla luce del passato di segregazione razziale del Paese. Come si crede che si posizionerà la futura vicepresidente a livello politico? La Harris sostiene la lotta contro il razzismo strutturale, ed è a favore di un’economia “verde” tesa a limitare le attività ed il potere delle compagnie petrolifere. Pare sia però legata all’ala conservatrice del partito democratico in riferimento ai legami tra USA e Israele. In quanto a sanità, la Harris è a favore di una politica tesa a garantire maggior accesso alla sanità pubblica, ed ha più volte denunciato come la pandemia COVID-19 abbia colpito in modo sproporzionato la popolazione afroamericana e ispanica. In termini di immigrazione, la futura vicepresidente si è detta a favore di porre fine alla guerra contro gli immigrati iniziata da Trump, anche se finora non si sono sentite delle proposte concrete da parte sua. Indipendentemente da come si allineerà a livello politico, la vicepresidenza di Harris è un evento storico. Kamala Harris sarà d’ispirazione per le generazioni femminili presenti e future.
Il curioso sistema dei grandi elettori in USA
Secondo il sistema elettorale statunitense, i cittadini – anche se esprimono una preferenza per l’uno o l’altro candidato - non votano direttamente per il presidente, ma per i 538 grandi elettori che compongono il collegio elettorale. Ogni Stato ha diritto ad una determinata quantità di grandi elettori in proporzione alla sua popolazione, numero mai inferiore a 3. Per esempio, la California sceglie 55 grandi elettori, New York 29, il Vermont 3 e così via. Il candidato che vince in uno Stato, anche se con pochissimo vantaggio, si aggiudica tutti i grandi elettori, secondo la formula “chi vince, vince tutto”. Gli Stati Americani del Nebraska e del Maine fanno eccezione, avendo un sistema proporzionale di nomina degli elettori. Questo può portare al risultato paradossale che un candidato che vinca in pochi Stati chiave, con poco vantaggio sull’avversario, possa diventare presidente anche se il rivale vince meno Stati chiave, ma con un ampio margine e quindi con un numero di voti complessivo superiore. Il collegio elettorale è poi incaricato di scegliere il presidente ed il vicepresidente il lunedì dopo il secondo martedì di dicembre (in questo caso, il 14 dicembre prossimo). I grandi elettori sono in teoria liberi di scegliere chi vogliono, ma di fatto votano per il candidato supportato dal voto popolare. A spoglio terminato viene ufficialmente dichiarato il duo vincitore, e la loro investitura a presidente e vicepresidente avviene il 20 gennaio successivo.
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In ricordo di... di Katia Cont
Sean Connery, una leggenda del cinema
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novant’anni se n’è andato Sean Connery. Il cinema ha perso uno dei suoi miti, il primo e indimenticabile James Bond. Ma Sean Connery non è stato solo lo strepitoso agente segreto ideato da Ian Fleming: è stato molto di più, come dimostrò quando si cimentò nel capolavoro tratto dal romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa, e nei film che gli valsero un Premio Oscar, tre Golden Globes e due Bafta, uno fra tutti, Gli intoccabili. Nato in Scozia da padre camionista e madre cameriera, si è sempre battuto per la libertà e l’indipendenza della sua terra. Grande filantropo, ha devoluto parte dei suoi guadagni ad opere di beneficenza (come è accaduto per Robin Hood – Il principe dei ladri). Un impatto sul pubblico che ha permesso a Sean Connery di
recitare in oltre 70 pellicole, destreggiandosi tra generi che, seppur diversissimi tra di loro, hanno sempre avuto un unico filo conduttore, quello cioè di fare dell’attore un modello di riferimento, in cui fascino, carisma, intelligenza e sensualità davano vita a un concetto di uomo che non ha mai avuto pari. Un crescendo di interpretazioni maschili diverse tra di loro, ma tutte ugualmente capaci di sorprendere e di mantenere inalterato il fascino di un uomo che sapeva invecchiare con orgoglio e non perdeva il piacere di divertirsi anche sul grande schermo. Lo dimostrarono Highlander (1986) prima e Indiana Jones e l’ultima crociata di Steven Spielberg poi, passando per Caccia a Ottobre Rosso, Il Primo Cavaliere (1994) ed Entrapment (1999). Il ruolo del solitario e ipocondriaco anziano scrittore in Scoprendo Forrester di Gus Van Sant (2000), intimista e introspettivo, fu una delle sue ultime interpretazioni sullo schermo. L’attore, infatti, non si riconosceva più nel cinema contemporaneo, che aveva definito con termini dispregiativi, e decise quindi di trasferirsi alle Bahamas per dedicarsi alla seconda moglie, la pittrice Micheline Roquebrune, che aveva sposato nel 1975 dopo la fine del suo matrimonio lampo con l’attrice
australiana Diane Cilento, dalla quale aveva avuto il figlio Jason. Nominato cavaliere dalla regina Elisabetta II all’Holyrood Palace nel 2000, da allora per il mondo intero divenne “Sir Connery”. E’ morto il 31 ottobre all’età di 90 anni, ma era malato da tempo, come raccontato dai famigliari, «se ne è andato come voleva, nel sonno, senza troppo trambusto». Sean Connery ha incarnato un modello assoluto di attore, ha fatto suoi il grande schermo e il palcoscenico con uno charme e una classe imparagonabili. Ruolo dopo ruolo ha interpretato personaggi di tutto rispetto senza mai una caduta di stile. Una carriera talmente perfetta, frutto di tanta gavetta e umiltà, che lo ha reso un simbolo della settima arte dentro e fuori dallo schermo. L’immagine iconica di Connery con la sigaretta in bocca, in Agente 007 – Licenza di uccidere -, è ancor’oggi impressa nell’immaginario collettivo. Un sorriso pronunciato con ostentata sicurezza, che lo ha contraddistinto anche in età avanzata rendendolo uno degli uomini più affascinanti di Hollywood.
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Scuola e società di Patrizia Rapposelli
la scuola digitale: parlano i prof (d.a.d didattica a distanza)
L
e lezioni si fanno a distanza. L’Italia spinge la scuola al digitale. Come è noto, la situazione di emergenza sanitaria ha costretto i docenti italiani a rivedere le modalità d’insegnamento: una didattica a distanza organizzata in modo rapido e imprevedibile, fra compiti assegnati, valutazioni e piattaforme su cui collegarsi. Gestibile per quegli istituti con un percorso digitale già avviato e difficoltoso per quelli più analogici. Fattibile per coloro affini alla tecnologia, complicato per quella classe insegnante con meno esperienza smart. Ci siamo domandati quale sia la condizione all’interno del mondo scolastico a partire dai professori. Una ricognizione “a distanza”, fatta in terra trentina, Veneto e Centro-Sud, racconta la storia dei diversi contesti formativi e la riflessione che ne segue degli insegnanti. I nostalgici. “All’inizio degli anni Novanta, quando ho cominciato a lavorare come insegnante, non immaginavo che un giorno avrei incontrato gli studenti soltanto attraverso il PC. A quell’epoca, del resto, io non possedevo nemmeno un computer.” Parla una docente di un Istituto Superiore Trentino e racconta come è cambiato il suo modo di fare lezione. “Ho dovuto sostituire i vecchi strumenti del mestiere, gesso e lavagna, con slide colorate, frutto di grandi sforzi da parte mia, senza l’illusione che possano essere tanto efficaci quanto le tradizionali scritte alla lavagna, tracciate sotto lo sguardo attento dei ragazzi.” I promotori. “La mia didattica – scrive un docente di materie tecniche del Veneto- era già impostata in una modalità tale per cui dopo una lezione frontale utile per gli stimoli e gli elementi teorici, lasciava spazio agli studenti per organizzarsi autonomamente o in team. Con la D.A.D.
è possibile continuare il percorso iniziato in classe con buoni risultati. Quello che manca è l’immediatezza del linguaggio non verbale e la possibilità di percepire al volo l’interesse o la noia dello studente.” Si comprende come lo sperimentare una didattica totalmente improntata sul parlare ad un’aula vuota mette in luce criticità e punti di forza. Manca il rapporto diretto con gli studenti e la possibilità di interagire con loro in modo costante per coinvolgerli il più possibile. C’è invece chi nota l’aspetto positivo. “Non ci sono le tipiche interruzioni delle chiacchiere e delle distrazioni dei meno diligenti. Gli studenti partecipano con puntualità, alcuni timidi e riservati emergono con evidenza nell’interazione e nei risultati grazie al loro costante impegno, altri non interagiscono e probabilmente fanno altro, ma questo, si sa, succede anche in classe.” Gli snervati. “Didattica digitale come insegnamento del futuro, ma quello che manca è il rispetto degli alunni per il lavoro che svolgiamo. Per loro questo è stato un modo per anticipare le vacanze, il loro disinteresse ora ha raggiunto valori esponenziali. – ci dice un’insegnante del Centro -Sud - La scuola deve impugnare di nuovo il suo ruolo educativo, bocciare quando si deve e responsabilizzare l’alunno.” La D.A.D passa in secondo piano e mette solo in evidenza un problema di base già esistente. Nella scuola online modi di pensare, disuguaglianze e formazioni differenti devono scendere a patto in una stretta relazione di condivisione, coordinazione e controllo. Niente di diverso dalla “scuola normale”, ma a distanza tutto è amplificato. “Una vera baraonda- racconta
una docente di lingue nel Lazio- scopri che non tutti sono così capaci di usare il computer, scrivere mail, allegare, scaricare. E ci sono poi le classi delle impazzite. Questo modo d’insegnare futuristico è capitato tra capo e collo e tutto è stato lasciato al buon senso e non tutti lo hanno avuto.” Emergono differenze tra territori, contesti ed insegnanti. Ci sono i qualunquisti coloro che criticano e polemizzano indistintamente, i tradizionalisti e gli ottimisti, ci sono poi i professori contenti della partecipazione dei ragazzi e convinti che le attività che stanno portando avanti, seppur limitate rispetto alla didattica tradizionale, siano importanti. “Mi meraviglio che si riesca a realizzare una didattica a livelli differenziati fra studenti più o meno preparati, mi stupisco dell’interazione docente / studente paragonabile o migliore rispetto a quanto si otteneva in classe.” I docenti stanno compiendo un gran lavoro. La D.A.D chiede investimento di energia, tempo, innovazione e ore al Pc. La figura del docente all’opinione pubblica a volte è stata oggetto di poca riconoscenza del lavoro e dell’impegno. Si deve tornare a dare più credito a questa figura. Le scuole si sono riadattate a nuove modalità, esigenze e competenze. L’innovazione è sforzo.
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Sport, vita in comune e socializzazione
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Lo Sci Club Croce d’Aune, come sottolinea il presidente Luca Fontanive, è sempre pronto per far conoscere il nostro programma per la promozione dello sci alpino basato, come sempre, sulle numerose proposte che vanno incontro alle esigenze più varie: dai bambini agli adulti, dai principianti agli agonisti, con l’idea che lo sport deve accogliere tutti. La soddisfazione derivante dell’attività degli ultimi anni, la coesione e la passione del gruppo dirigente, la base portante costituita dai nostri associati, atleti, genitori e sponsor, sono la garanzia e lo stimolo per far si che lo Sci Club Croce d’Aune continui ad essere quell’importante realtà di cui la lunga tradizione nell’ambito degli sport invernali è testimone. Non solo, ma è nostro l’auspicio che, oltre alla ricerca di validi risultati agonistici, ci possa essere la concreta possibilità di trascorrere insieme dei bei momenti sulla neve, e concretizzare, quindi, quel benessere psicofisico che gli sport di montagna garantiscono. Permettetemi di rivolgere un sincero, sentito e doveroso ringraziamento ai numerosi volontari che lavorano con noi, alle famiglie che, spesso con sacrificio, portano a sciare i propri figli, a tutti i nostri soci che mantengono vivo lo sci club Croce d’Aune ed infine a tutti gli sponsor che ci sostengono e senza i quali tutto ciò non sarebbe più possibile”. Per saperne di più e per meglio conoscere l’essenza di questa realtà sportiva, abbiamo dialogato con il presidente Fontanive.
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L’INTERVISTA Presidente, oramai è accertato che lo sport, a qualsiasi livello, aiuta il corpo e la mente a crescere in maniera dinamica. Ma che importanza ha nella formazione del carattere di un ragazzo? Un ragazzo che comincia a fare sport da piccolo e fa tutto il percorso necessario alla formazione sportiva con i vari passaggi di categoria rimane nell’ambiente per qualche anno. Durante questo periodo deve confrontarsi e relazionarsi con i compagni, con varie figure adulte a cominciare dagli allenatori, deve rispettare e adattarsi a dei tempi ben precisi e quindi ad organizzarsi. Impara ad impegnarsi per un obiettivo, a esultare per i successi e ad accettare le sconfitte. Man mano che cresce deve riuscire a coniugare sempre più lo sport con la scuola. Credo che tutto questo influisca sicuramente formazione del carattere del ragazzo. E’ poi compito di chi lo segue, dalla famiglia, alla società sportiva, a tutte le figure coinvolte fare in modo che questa formazione avvenga nel modo più positivo possibile. Lo sport e l’attività ludico-ricreativa spesso coinvolgono i ragazzi ad un vero confronto. Questi momenti sono da considerarsi come elementi di socializzazione e integrazione nella comunità? Certamente si, se consideriamo il viaggio in furgone per raggiungere la sede di allenamento e per tornare a casa, l’allenamento e la meritata pausa per recuperare le energie, i ragazzi passano molto tempo assieme. Questo porta a conoscersi e a fare gruppo non solo con i diretti compagni di allenamento ma anche tra gruppi di età diverse, e a volte è stupefacente come i più grandi coinvolgano e aiutino i più piccoli che
magari sono un po’ più impacciati. La pratica sportiva e quindi l’agonismo di certo favorisce la conoscenza tra ragazzi e atleti praticanti lo sport nelle diverse fasce età. A suo avviso migliora anche il senso critico e di emulazione? L’agonismo è sfida con gli altri, ma anche con se stessi. Al termine di una gara c’è sempre una classifica che crea nell’immediato gioie e delusioni, ma poi innesca sicuramente delle valutazioni per capire come fare a migliorare e ad avvicinarsi agli atleti più forti. Lei è presidente da quasi 20 anni. Cosa e come è cambiato nello sport e più direttamente nella pratica dello sci da competizione? Posso dire che le opportunità per i bambini di conoscere e praticare una disciplina sportiva sono aumentate, e per fortuna sono molti quelli che si dedicano a uno sport in base alla propria passione, tradizione e possibilità familiare e perché no alle tendenze del momento.
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Questo vale anche per gli adulti molti dei quali cominciano tardi o ricominciano dopo anni di inattività, e ciò è sicuramente un fatto positivo se affrontato per sviluppare una passione, anche agonistica, o per mantenersi in forma, o ancora per contrastare la troppa sedentarietà del lavoro, ecc. l’importante secondo me è avere la consapevolezza che, come diceva un nostro socio ora ultra ottantenne,” l’atleta si fa a vent’anni”. Come tutti gli sport, anche lo sci è stato ed è soggetto ad una evoluzione tecnica e tecnologica con un conseguente innalzamento del livello e quindi anche la preparazione degli atleti deve essere più attenta e impegnativa. Ma credo che questo sia normale in ambito agonistico proprio perché per competere bisogna migliorare sempre. Per riuscire ad emergere il talento deve essere accompagnato da un grande impegno, passione e volontà. In che modo il suo Club porta avanti e concretizza la promozione, l’interesse e la pratica dello sci alpino? La promozione di uno sport è l’obiettivo principale per un’associazione sportiva. La nostra attività, fondata saldamente su una lunga tradizione e su un forte e tenace volontariato, è rivolta a tutte le categorie di sciatori, dai principianti agli agonisti, passa attraverso l’organizzazione di corsi di avviamento e perfezionamento per arrivare all’avviamento all’agonismo e agonismo con programmi dedicati. Il settore giovanile è quindi quello dove investiamo le maggiori risorse, ma siamo impegnati anche nel settore dei senior e master
categorie nelle quali ci siamo sempre distinti. Inoltre, siamo presenti nell’organizzazione di gare a livello provinciale, regionale e in passato anche nazionale riservate alle varie categorie. Non mancano i momenti conviviali di aggregazione come cena sociale, festa di fine stagione, gite, o semplicemente momenti di allegria e distensione al termine delle varie attività. E le famiglie che ruolo hanno e come sono coinvolte nell’attività agonistica o semplicemente ricreativa? Devo dire che in questi anni c’è sempre stato un buon rapporto con le famiglie con le quali cerchiamo di instaurare una collaborazione costruttiva. Le famiglie rivestono un ruolo importante nell’attività dei ragazzi. Non dimentichiamo che un bambino che scia tutta la stagione ha bisogno di un sostegno logistico ed economico di un certo rilievo influendo sulle abitudini e sui tempi giornalieri della vita familiare. Noi cerchiamo di coinvolgere il più possibile i genitori con comunicazioni puntuali e coinvolgendoli nelle varie iniziative, all’interno delle quali si muovono anche in autonomia soprattutto quando si organizzano per supportare i ragazzi nei momenti più importanti a livello emotivo, sia nel ruolo di primi tifosi che preparando dei momenti di festa ad esempio al termine delle gare. Penso che un genitore presente, ma non invadente, sia molto utile ai nostri ragazzi soprattutto dal punto di vista morale. Ci può dire i risultati più significativi ottenuti dai suoi atleti? Se parla di risultati agonistici le rispondo che siamo sempre presenti con i nostri atleti nelle finali regionali e a volte nazionali dei circuiti delle varie categorie. Ottenendo buoni risultati sia individuali che di squadra. I risultati vanno però valutati anche sotto altri aspetti. Noi puntiamo molto sul gruppo, cerchiamo di dare a tutti i nostri ragazzi la stessa attenzione e motivazione
perché possano migliorare e soprattutto divertirsi. Riteniamo sia di fondamentale importanza trasmettere ai giovani la passione per lo sport prima, e per lo sci in particolare, elemento fondamentale per affrontare i sacrifici necessari, per raggiungere più soddisfazioni possibili e per continuare a fare sport anche quando la natura segnala che il periodo di massima efficienza atletica è passato. Ecco, anche in questo senso, posso dirle che i risultati ci danno ampia soddisfazione soprattutto nel notare che tutti i nostri associati, bambini e adulti, arrivano a fine stagione con gioia ed entusiasmo e lo sguardo già rivolto a quella successiva. Cosa si può fare per avvicinare i ragazzi allo sport sin dalla più giovane età? E a che età si può iniziare? Come ho detto all’inizio le opportunità per fare sport rivolte ai bambini sono molte e molti sono quelli che lo praticano.
Penso che le iniziative promozionali delle varie associazioni sportive siano molto utili e qualificate per dare la possibilità ai bambini di provare e scegliere lo sport che piace di più. Anche l’imput familiare riveste sicuramente una grande importanza. Secondo me l’età migliore per cominciare è a 4-5 anni in base alla predisposizione del bambino che deve essere accompagnato e non spinto. Come ormai tutti gli esperti dicono, deve esser un gioco. Lo Sci Club Croce d’Aune concretizza anche momenti di solidarietà sociale? E in che modo? Premettendo che l’attività di volontariato rientra nella solidarietà sociale in quanto è comunque un donare alla collettività parte del proprio tempo libero, lo Sci Club non manca di organizzare iniziative per beneficienza sulle quali spicca la fiaccolata con cui, assieme ad altre tre associazioni, ricordiamo Matteo e Sabrina, due amici che non sono più tra noi.
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Consiglio Direttivo Luca Fontanive - Presidente Luca De Biasi - Vicepresidente Giambattista De Bortoli - Segretario Fabio Brentel - Consigliere Fulvio De Bortoli - Consigliere Luca Carazzai - Consigliere Enzo De Biasi - Consigliere Alberto Perera - Consigliere Alex Fabiane - Consigliere
Responsabile Corsi Giulia Pauletti
Responsabile Baby/Cuccioli Stefano Gris
Responsabile Ragazzi/Allievi Alberto Perera
Responsabile Master/Senior Alex Fabiane e Fulvio De Bortoli
Responsabile Tecnico Luca Carazzai
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IL MONTE AVENA
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l Monte Avena si trova all’ingresso del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, e si pone in posizione panoramica sulla vallata feltrina e sulla valbelluna. Oasi placida ed incantata capace di offrire una dimensione della montagna davvero particolare, vicinissima alle città, con ottima esposizione al sole, capace di combinare il piacere delle piste da sci con il candore dei grandi pianori sommitali, ideali per concentrare tutte le discipline degli sport invernali con la quiete e il relax di paesaggi ariosi e rilassanti. Il Monte Avena è una località famigliare: accogliente e intima, il giusto per magnifiche giornate sulla neve lontano dalle grandi masse di sciatori, ma con davvero tutto a portata di mano: circa 20 km di piste da discesa, boschi e spazi per l’esplorazione freeride con lo snowbo-
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ard, ampi tracciati dedicati allo sci di fondo, vaste distese boscose per passeggiare a piedi o con le ciaspole e tanto spazio sicuro per il divertimento dei bimbi. Senza scordare… la calorosa accoglienza e la cucina tipica delle malghe e degli chalet in quota. Nel periodo estivo, è un luogo ideale per piacevoli passeggiate in solitaria tra ampi pascoli intervallati dall’accoglienza delle varie malghe d’alpeggio. Il Monte Avena, sede dei Mondiali di Parapendio 2017, inoltre, è frequentato dagli amanti
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l villaggio di Aune (dal latino Alnus-Ontano), frazione di Sovramonte nel Feltrino, meno di duecento abitanti a 900 metri d'altitudine, sorge sulla strada che fino al Diciannovesimo secolo è stata la principale per il Primiero. Il paese è piccolo ma caratteristico e le belle vette circostanti alimentano orgoglio ed ambizione. In particolare per lo sci. E' grazie a ciò che nell'autunno del 1962 è nata l'idea dello Sci Club Croce D'Aune resa ufficiale nel 1963 dal parroco don Remo Pasa. Il primo consiglio direttivo era formato da: Piero De Cia presidente, Don Remo segretario, De Bortoli Argillo (Tita Tiola) cassiere, De Bortoli Cirillo vice presidente. I primi atleti provengono dalla stessa Aune e dalla vicina frazione di Salzen. Sempre nel ’63 avviene l’affiliazione alla FISI e la partecipazione alla prima gara a Tambre D’Alpago con tre atleti: De Bortoli Vilmo, Facchin Fausto e Facchin Wolf. Le gare a quel tempo venivano effettuate nel Feltrino: Seren Del Grappa, Celarda, Cart, Villaga e Monte Avena, dove ancora le risalite avvenivano a piedi e i viaggi si facevano su autobus di
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Speciale Sci Club Croce d’Aune linea. La prima vittoria individuale arriva nel 1966 a Celarda. Nell'inverno 68/69 arriva la prima vittoria della società: il Club vince ad Enego il trofeo Castello D’Oro. Il club cresce. A Piero De Cia, primo presidente, succede Pietro Gorza che sarà poi riconfermato. La presidenza più longeva spetta a Vilmo De Bortoli che, anche con il sostegno e l’amicizia della famiglia Marazzato, porta il Club tra le società più rinomate vincendo per la prima volta nel 2000 il Trofeo Delle Regioni (campionato italiano per club), seconda Società del Veneto, dopo Cortina, ad aver vinto nella stessa stagione, la fase provinciale, la fase regionale e diventando campione d’Italia sulle nevi di Piancavallo. Gli atleti non sono più solo delle frazioni di Aune e Salzen, ma si iscrivono da tutta la Provincia e anche da fuori, raggiungendo il numero attuale di cento tesserati FISI e venti tesserati sociali. In cinquanta anni di attività i risultati sono stati molteplici e prestigiosi. Nel 1987 la vittoria ai mondiali in Giappone di sci d’erba di Cinzia Valt; le 6 vittorie del trofeo delle regioni ora trofeo delle società (Piancavallo 2000, Zoldo 2002 e 2009, Sestriere 2003 Falcade 2013 e 2014), oltre ad innumerevoli podi individuali nelle varie categorie. Numerose sono pure le gare organizzate con grande passione e dedizione, tanto da ricevere per due volte l’assegnazione della Fase Finale del trofeo delle Regioni organizzate in entrambe le occasioni a Falcade nel 2004 e nel 2013. Non va dimenticata neanche la finale del Grand Prix Lattebusche organizzata in collaborazione con le altre società del Feltrino a Pescul nel 1998. Attualmente lo Sci Club Croce d’Aune, fra i forti d'Italia, conserva l’attaccamento alle proprie tradizioni e origini nel paese di Aune dove mantiene la sede, ma nel quale non si è mai rinchiuso cercando di portare avanti la propria attività di promozione dello sci alpino a volte trovando sinergie con altre realtà. Spirito sportivo, passione e voglia di divertirsi sono i principi che uniscono i propri associati impegnati anche in attività di volontariato nella comunità. La Società ha unito più generazioni e grazie ad un bel gruppo di giovani e master, è stato conquistato nel 2017 il secondo prestigioso posto alla Fase Finale del Trofeo delle Società sulle nevi di Sestola. Un successo che, ancor di più, esalta lo spirito di squadra, la capacità organizzativa dei dirigenti e l'affetto dei sostenitori. Ed è comprensibile che per una piccola realtà come quella della frazione di Aune di Sovramonte, avere un sodalizio sportivo come lo Sci Club Croce D’Aune, possa essere motivo di orgoglio. Se è stato possibile raggiungere certi risultati, lo si deve ad atleti e dirigenti e sostenitori, che hanno saputo dare il loro contributo in ogni attività dello sci club. (P.R.)
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Si è scritta un’altra pagina a conferma della forte tradizione vantata dal feltrino nell’ambito dello sci alpino. In questo novembre 2020, infatti, due giovani dello Sci Club Croce d’Aune hanno coronato il loro sogno, diventando maestri di sci. Nel condividere con loro e con tutti i nostri iscritti questa grande soddisfazione, a Nicolò Carazzai e a Giacomo Dalla Giustina le nostre congratulazione e un augurio di una prosperosa carriera, sicuri che la loro passione per questo sport li farà diventare dei bravi e seri professionisti .
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li archeologi fanno risalire un paio di sci, trovati nelle nevi della Norvegia, al settimo millennio prima di Cristo. Sono il primo paio conosciuto e sono naturalmente di legno. Fra le montagne norvegesi erano solo uno strumento utile per la caccia invernale. Ci sono voluti quasi novemila anni prima che gli sci diventassero divertenti oltre che utili. E’ infatti nella prima metà dell’Ottocento dopo Cristo che lo sci è diventato anche divertimento e sport. Nel 1840, a Schreiberhau (l’odiernaSzklarska Poręba), è attestato l’uso di sci fatti esclusivamente per la discesa. Nel 1870 il norvegese Sondre Norheim elaborò i primi sci configurati in senso moderno. Le gare di sci alpino avevano fatto il proprio debutto già nel 1861 e fu consentito gareggiare anche alle donne. Sulle Alpi, Novità: Macchina per ripristino strade bianche Autotrasporti conto terzi, Lavori stradali Movimento terra, Opere a verde, Lavori Boschivi Via M. Aurin, 13 - ARTEN di FONZASO (BL) Tel. 0439.568138 - Fax 0439.569252 E-mail: info@rechrgm.it
Speciale Sci Club Croce d’Aune l’esordio dello sci come attività sportiva viene fatto risalire al 1864, quando l’albergatore di Sankt Moritz (Svizzera) Johannes Badrutt invitò gli abituali clienti estivi a cimentarsi con gli sci sulla neve. Iniziavano così a prendere forma quelle tecniche e gare che sarebbero divenute le “classiche” dello sci alpino. All’inizio degli anni Venti del Novecento furono codificate norme per la pratica dello sci alpino e nel 1924 venne fondata la FIS. I primi Campionati mondiali di sci alpino furono disputati a Mürren, in Svizzera,nel 1931. Lo sci alpino vide il suo debutto ai giochi olimpici invernali in Germania a Garmisch-Partenkirchen 1936, con sole gare di combinata. Con il secondo dopoguerra lo sci alpino uscì definitivamente dalla sua fase pionieristica ed entrò in quella moderna diventando uno degli sport più diffusi. La discesa libera e lo slalom speciale furono introdotti a Saint Moritz 1948, lo slalom gigante a Oslo 1952 e il supergigante a Calgary 1988. A decretare il successo di pubblico dello sci alpino come disciplina agonistica fu, in modo determinante, la televisione: i VII Giochi olimpici invernali di Cortina d’Ampezzo del 1956 furono i primi a essere interamente trasmessi sul piccolo schermo. Dieci anni dopo la FIS organizzò la prima Coppa del Mondo di sci alpino. Il resto è storia di oggi. Testimonia di grandi campioni italiani e mondiali, uomini donne, seguiti da aspiranti campioni di ogni età e da un folto pubblico di appassionati.
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l grido che abbiamo messo in modo provocatorio nel titolo, è un’espressione tra le più improbabili e inaudite da poter cogliere all’interno di un dialogo tra amici, o anche nello stesso contesto familiare nel quale capitasse che un figlio o una figlia adolescenti cadesse vittima di un disturbo del comportamento alimentare, del quale scrive in maniera estesa e competente tra queste pagine la nostra dottoressa Zanghellini. Eppure, il riconoscersi “presi” da un disturbo alimentare, o anche solo non “minimizzare” i sintomi di questa subdola malattia che si manifestassero in un nostro congiunto, potrebbe essere il primo indispensabile passo per un possibile percorso di guarigione. Ne parliamo con Luisa Ciprian, presidente dell’associazione Margherita Fenice di Belluno (assmargheritabl@libero.it - 331 91 86 820, pagina Facebook Associazione Margherita Belluno), aderente
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al Coordinamento Nazionale disturbi alimentari, che dal gennaio 2008 è punto di riferimento in provincia - in costante contatto con i due centri per i disturbi del comportamento alimentare, quello di Feltre, dove ha promosso l’apertura dell’ambulatorio per i disturbi alimentari nella Casa di Cura Bellati, e di Belluno, dove ha dato vita al “Progetto Maicol” del pasto assistito con la collaborazione della psicoterapeuta Isabella Maccagnan, ed è quarto gruppo di riferimento all’Associazione Fenice Onlus per la cura e la riabilitazione dei disturbi del comportamento alimentare di Portogruaro -, per quelle famiglie
che si trovano a dover affrontare questa difficile, e quasi sempre incompresa, condizione di disagio. L’associazione (si trova alla pagina web associazionemargherita.it), come tutte le altre realtà associative, deve fare i conti con la pandemia e vede in questo momento le sue attività principali - come il “progetto corpo” di sensibilizzazione nelle scuole, i corsi di formazione e incontri di informazione, o gli incontri del gruppo di auto mutuo aiuto il giovedì, ogni 15 giorni, dalle 18,30 alle 20 nella Parrocchia
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dei Ss. Gervasio e Protasio, a Belluno -, per forza di cose sospese, anche se continuano lo “sportello telefonico” e gli incontri quindicinali di gruppo online, e rimane sempre aperta la possibilità di un supporto a chiunque cercasse una indicazione o un aiuto «da chi ci è già passato», tiene a sottolineare Ciprian che ricorda di essere entrata nella associazione perché coinvolta come madre nel difficile percorso di guarigione da un disturbo alimentare che aveva colpito sua figlia. «Non dobbiamo essere soli – dice Luisa Ciprian – ad affrontare questa malattia che presa per tempo può avere un esito felice e dove la famiglia se ben informata è una risorsa fondamentale nella cura assieme all’equipe dei medici dedicati, in altri casi, se sottovalutata o affrontata in maniera non adeguata, può arrivare a un punto di non ritorno. Per questo partecipare a un gruppo di auto mutuo aiuto dove si condividono le varie esperienze può fare la differenza e rappresentare un insperato punto di ripartenza. L’associazione, infatti, si propone come un luogo accogliente, e assolutamente non giudicante, per le persone toccate in qualche modo da questa malattia, per farle incontrare, per cercare insieme di uscirne e richiamare l’attenzione di tutti sulla realtà dei disturbi del comportamento alimentare, resa ancora più complicata in tempo di pandemia».
«Non è facile – continua Ciprian – leggere i segnali di un disturbo nel comportamento alimentare, anche perché a volte chi ci stà intorno tende a rassicuraci e a interpretare, per esempio, un eventuale improvviso dimagrimento di nostra figlia come un miglioramento dell’aspetto e dirci che “è ancora più bella!”. Così come non è facile convivere con un disturbo del comportamento alimentare, troppo spesso non si sa bene di che cosa si tratta e non si sa a chi rivolgersi. L’anoressia nervosa e la bulimia nervosa sono disturbi che alterano profondamente il rapporto che una persona ha con il cibo e il proprio corpo, ma anche la realtà quotidiana, le relazioni con i propri cari, e si associano a profonde difficoltà interpersonali, ansia, depressione, sentimenti di svalutazione, e gravi complicanze mediche che richiedono un trattamento
specifico. Si constata di fatto, purtroppo, che le persone che vivono questi problemi spesso negano o nascondono la loro sofferenza, e hanno molta difficoltà a chiedere aiuto. Anche per i familiari, il fatto di trovarsi di fronte a un disturbo psichico può suscitare sentimenti di vergogna e di isolamento e per questo si può cercare di nasconderlo, agli altri e a se stessi. Chi decide di non mangiare più, fino a ridursi in fin di vita, porta dentro una ferita che è lacerante e chi ci vive attorno spesso non riesce a capire... un vero e proprio “inferno” che troppo spesso è vissuto in solitudine, perchè non si sa a chi chiedere aiuto». Il distanziamento sociale di questi tempi non aiuta di certo, ma possiamo sapere ancora più vicine queste presenze importanti del nostro territorio, come l’associazione Margherita, per cogliere quel grido d’aiuto che forse non sappiamo sentire.
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I disturbi alimentari di Erica Zanghellini
ANORESSIA e BULIMIA Sempre di più nella nostra società dobbiamo fare i conti con una specifica categoria di disturbi, che possono arrivare ad annientare la persona dominandone completamente la vita. Sto parlando dei disturbi alimentari, che anche forse per il fatto che la nostra società sempre di più si basa sull’immagine purtroppo aumentano esponenzialmente. I dati della ricerca ci rimandano anche, che sempre di più vengono coinvolti persone di sesso maschile e che l’età di insorgenza si è abbassata fino ai bambini-preadolescenti.
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ra questa categoria diagnostica, due sono i disturbi alimentari che più sembrano essere predominanti ovvero l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa. Per quanto riguarda l’anoressia nervosa si caratterizza come una difficoltà a introdurre nel proprio corpo sufficienti calorie per il proprio benessere psico-fisico. Questo a sua volta determinerà un peso significativamente inferiore ritenuto idoneo per età e altezza ovvero gli esperti del settore calcolano un indice di massa corporea e in base al numero ottenuto riescono a stimare il sottopeso. Nel caso dei bambini si usa un altro riferimento ma, che comunque alla base risulta essere paragonabile, ovvero il peso deve essere minore del 5° percentile per prendere in considerazione una diagnosi di disturbo alimentare. La persona mangia poco o digiuna anche
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per molto tempo, a causa di una paura intensa di aumentare di peso o di diventare grassi e vi è una alterazione del modo in cui viene vissuto dall’individuo il peso o la forma del corpo. Il proprio aspetto fisico influenza tutto, dall’autostima alle relazioni per esempio. Ma soprattutto, la persona non riconosce la gravità della sua condizione fisica e psicologica. Se invece parliamo di bulimia, la persona si ritrova a far i conti con episodi ricorrenti di abbuffate che si caratterizzano in: mangiare in un determinato periodo di tempo per esempio un ora, una quantità di cibo significativamente maggiore a quella che la maggior parte delle persone nelle stesse circostanze avrebbero ingerito. Un’ulteriore cosa che caratterizza le abbuffate è proprio la perdita di controllo, cioè l’individuo ha la sensazione di non riuscire a fermarsi o gestire almeno le scelte del
cibo da mangiare. Logicamente, la persona, viste le ingenti quantità di calorie introdotte per paura di aumentare di peso metterà in atto ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per cercare di evitare o almeno attutire l’aumento di esso. Anche in questo caso i livelli di autostima sono indebitamente collegati al proprio peso e alla forma del corpo. Le abbuffate non devono avvenire esclusivamente in episodi di anoressia nervosa. Dico questo perché spesso ci sono dei comportamenti o delle sfaccettature di questi disturbi che si intrecciano e che per un clinico fanno differenza, più che altro per poi impostare un adeguato progetto di sostegno e guarigione della persona che incontra a livello lavorativo. Un’altra cosa che tengo a precisare è che non si deve fermarsi all’apparenza e giudicare magari impropriamente. I DCA ovvero disturbi del comportamento alimentare come accennavo prima sono sempre più diffusi, non dobbiamo abbassare la guardia e spesso chi per primo ovvero le persone che ne soffrono dovrebbero essere pronte a reagire sono talmente immerse nella malattia che non riescono a preoccuparsi degli enormi rischi che comportano. Questi disturbi hanno
I disturbi alimentari
una sintomatologia del corpo ma, alla base c’è una sintomatologia a livello
psichico per cui aumentare o diminuire di peso non sono per forza indicativi di una guarigione. Basta pensare alla bulimia, da fuori sono persone normopeso o al massimo un po’ in sovrappeso, ma a livello mentale sono nel pieno della malattia, sono persone che tendono al perfezionismo, hanno difficoltà a gestire le emozioni negative e il meccanismo di regolazione della fame sovente e alterato tanto per fare qualche esempio. Così come ci possono essere persone che soffrono di anoressia estremamente ancora in sottopeso, ma che a livello mentale invece ce la stanno facen-
do. Non fermiamoci all’apparenza. Il corpo è la trasposizione di quello che c’è dentro di noi, è da li che bisogna partire, capire cosa ha scatenato tale disturbo ma, soprattutto capire i fattori che hanno creato terreno fertile in cui ha poi preso campo il DCA. Andiamo a lavorare sulle origini, uscire dal disturbo si può. Non per forza dovrà essere un disturbo cronico, certo rimarranno delle fragilità ma, piano piano si potranno riacquistare tutte le cose perdute, anche il semplice mangiare assieme a qualcuno senza sentirsi osservati, giudicati o in colpa. Proviamo a pensare a un passo alla volta e tanti passi faranno il percorso di guarigione. Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Riceve su appuntamento Tel- 3884828675
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Storia della medicina di Chiara Paoli
La moderna cardiochirurgia
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a prima operazione chirurgica sull’aorta completamente riuscita, viene effettuata nel 1925 dal professore statunitense Rudolph Matas (1860-1957). Il chirurgo tra il 1888 ed il 1940, aveva eseguito 620 interventi vascolari, 101 dei quali sono tentativi di ricostruzione delle arterie e per la maggior parte legature. Matas è inoltre l’autore del capitolo dedicato alla chirurgia vascolare, all’interno del V volume “Keen’s System of Surgery” del neurochirurgo William Williams Keen, edito nel 1909. Anche per questo motivo William Osler definì Matas “il padre della chirurgia vascolare”. La chirurgia moderna prende avvio con l’invenzione della macchina cuore-polmone, che permette di isolare il muscolo cardiaco nel corso delle operazioni più complesse. John Heysham Gibbon Junior è noto nell’ambito medico per aver inventato nel febbraio del 1931 la macchina cuore-polmone dopo una notte passata al capezzale di una paziente, e per aver praticato la prima operazione a cuore
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aperto. «Durante le diciassette ore in cui fui al fianco della paziente, continuava a venirmi in mente che il suo stato estremamente precario sarebbe molto migliorato se il sangue non ossigenato nelle sue vene fosse stato dirottato in un’apparecchiatura che gli permettesse di assorbire ossigeno e cedere anidride carbonica, per poi essere di nuovo pompato nella circolazione arteriosa» Dopo la guerra Gibbon si impegna a potenziare il suo strumento per permettere ai pazienti una sopravvivenza a lungo e riesce a dimostrare il potenziale del suo macchinario, realizzato con l’aiuto della moglie. Nel 1953 descrisse 4 casi di pazienti operati con l’aiuto della macchina cuore-polmone, ma i risultati erano scoraggianti, 3 dei 4 pazienti, morirono a causa di complicazioni e lui decise di desistere. Saranno i giovani John Webster Kirklin e Richard Jones, entrambi della Mayo Clinic a Rochester nel Minnesota, a migliorare l’ossigenatore di Gibbon, realizzando la macchina cuore-polmone di Mayo-Gibbon. La mortalità si ridusse
così al 30% e negli anni a seguire venne sviluppato un modello più sofisticato del macchinario, prodotto grazie al sostegno economico e tecnologico di Thomas J. Watson, fondatore dell’IBM. Gibbon esegue il primo bypass cardiaco in data 6 maggio 1953, fermando per 26 minuti il cuore e i polmoni di Cecelia Bavolek, diciottenne vittima di una grave malformazione, dandole così una nuova vita. Il 3 dicembre 1967, all’ospedale Groote Schuure a Cape Town, in Sud Africa, Christian Barnard effettua il primo trapianto di cuore su un essere umano. Un avvenimento eccezionale che suscita entusiasmo dando il via a numerosi programmi di trapianto che però vengono sospesi quando ci si rende conto che i pazienti morivano a distanza di pochi mesi a causa del rigetto. Norman Shumway della Stanford University in California, decide di dedicare i suoi studi all’elaborazione di una valida terapia utile a tenere sotto controllo il problema del rigetto, consentendo di ottenere ottimi risultati post operatori.
Storia della medicina
Nel dopoguerra tra i protagonisti della cardiochirurgia vi è lo statunitense Denton Cooley, celebre per aver compiuto il
primo impianto di cuore un essere umano, effettuato il 4 aprile 1969 a Houston. Ciò avvenne anche grazie all’importante contributo di Michael Ellis DeBakey, colui che a soli 23 anni aveva ideato, la pompa peristaltica, che solo 20 anni dopo, viene identificata quale componente fondamentale della macchina cuore-polmone, che in breve tempo si diffonderà in tutti gli States e in Europa. «Essere compassionevole, preoccuparsi dei propri compagni, fare tutto il possibile per aiutare la gente; questo è il tipo di religione che seguo» queste le parole di DeBakey che diviene uno dei più competenti specialisti di aneurismi al mondo. Il macchinario di DeBakey fornisce un flusso ininterrotto di sangue nel corso degli interventi chirurgici, permettendo le operazioni “a cuore aperto”. DeBakey nella sua carriera ha operato
dalla riva
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Paola Antoniol
presso il Methodist Hospital di Houston in Texas; nel 1950 per la prima volta esegue la rimozione di un blocco dall’arteria coronaria ed è tra i primi chirurghi a effettuare interventi di bypass sull’arteria coronarica nel 1964. Una strada in salita, con successi alterni, che dopo due tentativi falliti porta al primo caso di paziente con pompa cardiaca esterna, Esperanza De Valle Velasquez, operata il 10 agosto 1966, per aiutare nella quotidianità il suo cuore malato, il macchinario svolge il 50% del lavoro. Il suo innovativo approccio prevede la sostituzione del tratto malato con uno sano e considerata la necessità di “pezzi di ricambio”, costituisce la “Vascular Bank”, prima banca di vasi sanguigni realizzati in Dacron, materiale di recente scoperta e testato per non causare il “rigetto” degli innesti da parte dell’organismo. I suoi innesti artificiali aiuteranno moltissimi malati di tutto il pianeta a ritrovare la salute.
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Storia della medicina di Chiara Paoli
Quando nasce la cardiochirurgia
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are che le prime operazioni al cuore possano farsi risalire al XVI secolo ed in particolare alla figura di Ambroise Paré, che dovette curare i molteplici feriti dopo l’accerchiamento del castello di Avigliana. In questa occasione ebbe modo di sperimentare una nuova tecnica che prevedeva di stringere le vene sanguinanti, anziché utilizzare l’olio bollente, prima di applicare il rimedio necessario alla guarigione. In questo modo osservò che i pazienti guarivano più velocemente ed il loro stato di salute era visibilmente migliore rispetto a chi subiva la cauterizzazione con olio caldo. Eppure c’era già chi nel IV secolo aveva individuato una modalità simile e molto valida per intervenire sugli aneurismi, si tratta del medico greco Antillo, che aveva sperimentato la legatura dell’arteria ai lati dell’aneurisma, per consentire così lo svuotamento di esso, senza estirparlo. Altro illustre precursore della chirurgia fu lo scozzese John Hunter, che operò nella seconda metà del ‘700 e per primo scoprì il principio della circolazione collaterale, tramite un test effettuato sui palchi dei cervi del Richmond Park di Londra e attraverso questa nuova conoscenza riescì a trattare e curare gli aneurismi. Tra i suoi studenti si annovera Astley Cooper, anticipatore dei tempi, che contribuì in maniera sostanziale al perfezionamento della chirurgia vascolare, riuscendo nel 1817 ad effettuare la legatura dell’aorta in un paziente con aneurisma dell’arteria ipogastrica. La prima vera e propria operazione al cuore della storia venne portata a termine il 4 settembre 1895 in Norvegia, nell’ospedale di Oslo, dal cardiochirurgo Axel Cappelen che ricucì una lesione al ventricolo destro di un paziente ventiquattrenne, purtroppo il giovane spirò poco dopo l’intervento a
causa di un’infezione. Perciò si considera il 9 settembre 1896, quale data di nascita della disciplina, grazie all’intervento del professor Ludwig Rehn che sottopose un giovane, profondamente lacerato al petto a un intervento d’urgenza. Il chirurgo praticò un’incisione nella parete toracica, evidenziando il pericardio e ricucendo la ferita con tre punti di sutura, fermando così l’abbondante sanguinamento; richiuse quindi la fenditura aperta nell’organismo, consentendo al ragazzo di ritornare alla quotidianità, dopo un intervallo di tempo dedicato al recupero. La prima operazione cardiaca in Italia, venne praticata dal chirurgo romano Antonio Parrozzani nella notte tra il 18 e 19 aprile del 1897, sul facchino Adolfo Barboni, operato presso l’ospedale di Santa Maria della Consolazione a Roma. L’uomo era stato ferito all’uscita dell’osteria intorno alle 23, con tre coltellate ed aveva cercato di inseguire il proprio aggressore, accasciandosi a poca distanza e venendo trasportato al nosocomio alle 5 del mattino in pessime condizioni. Parozzani diagnosticò immediatamente un’emorragia interna e nelle sue memorie scriveva: «Ritenni urgente l’intervento chirurgico quantunque i colleghi fossero di opinione che il paziente non vivesse sino alla fine dell’operazione e perciò mi sconsigliassero dall’operare». Il paziente venne posizionato sul tavolo operatorio, con due robusti infermieri che lo trattenevano in assenza di anestesia venne aperta la gabbia toracica troncando quattro costole aprendo un varco tenuto aperto dall’assistente, il dottor Galli. Il ventricolo sinistro del cuore sanguinava copiosamente e venne quindi ricucito grazie ad un ago ricurvo con filo di seta. Nel giro di due mesi l’uomo aveva recuperato le forze ed era ritornato al proprio lavoro.
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Storia della medicina di Chiara Paoli
Come nascono le banche del sangue
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ondamentale per lo sviluppo della cardiochirurgia e per salvare milioni di pazienti è l’individuazione dei gruppi sanguigni, frutto degli studi di Karl Landsteiner, patologo nato a Vienna e Premio Nobel per la medicina del 1930. Si rivela l’importanza della compatibilità fra donatore e ricevente, che devono avere lo stesso gruppo sanguigno, affinché la trasfusione possa apportare i benefici sperati. Landsteiner scoprì anche il donatore universale, il gruppo 0 può infatti essere trasfuso a chiunque ne abbia bisogno, eppure in occasione degli esperimenti si osservarono ancora casi di complicazioni. Nel 1902 due suoi colleghi, Alfred von Decastello e Adriano Sturli, individuarono il quarto gruppo sanguigno AB, favorendo la comprensione del fattore compatibilità. Nel 1907 venne effettuata da Reuben Ottenberg con esito positivo la prima trasfusione, secondo le indicazioni di Landsteiner, all’interno del Mount Sinai Hospital di New York. Le trasfusioni venivano effettuate da due secoli e mezzo, eppure le reazioni all’immissione di nuovo sangue erano frequenti
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e spesso mortali. Forte impulso alla diffusione e al miglioramento delle trasfusioni, diede l’intuizione dei medici Albert Houstin, Peyton Rous e J.R. Turner, che riuscirono ad elaborare un’efficace metodo di conservazione a lungo termine del sangue. La soluzione di citrato di sodio e glucosio individuata, si rivela efficace non solo nella conservazione ma anche per le proprietà anticoagulanti che evitano la formazione di coaguli. Queste novità si rivelarono fondamentali per il medico statunitense, Robertson che nel corso del primo conflitto mondiale si servì di sangue del gruppo zero per intervenire sui feriti. Per il trasporto del liquido vitale, nell’ospedale da campo, realizzò un contenitore refrigerato riutilizzando alcune casse di munizioni, salvando così molte vite e guadagnandosi il titolo di “padre delle banche di sangue”. Anche in Unione Sovietica, grazie all’operato di Alexander Bogdanov, si procede nello studio dei gruppi sanguigni e nel 1925 viene istituita a Mosca la prima accademia consacrata allo studio delle trasfusioni di sangue. Lo stesso studioso sovietico nella sua esistenza si era praticato ben 11 trasfusioni sanguigne, fino alla morte sopraggiunta nel 1928. La prima banca del sangue apre i battenti a Chicago nel
Cook County Hospital, il 15 marzo 1937 grazie a Bernard Fantus, qui il sangue dei donatori viene conservato per un tempo massimo di 10 giorni, grazie all’addizione dell’anticoagulante e ad una temperatura di 4 gradi centigradi. Le banche del sangue in breve tempo si diffondono in tutti gli Stati Uniti d’America, ma anche in Unione Sovietica e Gran Bretagna. Soltanto nel 1940 Landsteiner, assieme all’immunologo Alexander Wiener, individuò un antigene il fattore sanguigno Rh o Rhesus, presente anche nel sangue umano e modificato rispetto ai nostri progenitori, le scimmie. A dieci anni di distanza Carl Walter e Wp Murphy Jr. propongono l’uso del sacchetto plastico per rimpiazzare le bottiglie in vetro e nel 1963 il chirurgo americano Charles E. Huggins trova un espediente per surgelare il sangue a tempo indefinito, inserendo glicerolo che consente di non deteriorare i globuli rossi. Nel 1979 si diffonde l’uso del conservante e anticoagulante CPDA-1, che permette un periodo di conservazione ulteriormente prolungato all’interno delle banche del sangue che permette annualmente la raccolta di circa 15 milioni di unità di sangue trasfuse.
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Medicina & salute di Erica Zanghellini
La RESILIENZA
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ai come ora, la parola resilienza è importante nella situazione che tutti noi stiamo vivendo in quest’ultimo periodo. Nessuno di noi avrebbe mai pensato di trovarsi, in una situazione simile, ma inevitabilmente dobbiamo farci i conti tutti i giorni e cercare di venirne fuori al meglio. Il termine resilienza ha origini lontane, proviene infatti dalla scienza metallurgica ed indica la capacità intrinseca di ogni metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate. Come si può capire quindi resilienza è il contrario di fragilità. Etimologicamente invece, il termine resilienza deriva dal latino “resilire”, da “re-salire” cioè saltare indietro, rimbalzare ed indica la capacità della persona di fronteggiare una situazione stressante sia acuta che cronica. La persona deve quindi cercare di ripristinare il suo equilibrio, utilizzando tutte le risorse disponibili che siano interne o esterne ad essa. Se ci pensiamo l’essere umano sin dalle
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sue origini ha dovuto per forza di cose, superare le diverse avversità che sono successe nella storia, consideriamo solo quante guerre o alle svariate malattie o ancora ai diversi disastri naturali che ha dovuto affrontare. L’uomo è “programmato” per resistere alle avversità, convivere con lo stress e cercare una forza dentro di lui che lo spinga a trasformare il dolore in risorsa. Purtroppo, la vita è fatta anche di questo tipo di eventi, non possiamo evitare sofferenza, dolore e paura, ma possiamo far si che queste emozioni ci facciano crescere. Le emozioni negative, possono darci un’opportunità di sviluppo personale, magari a fatica ma, possono far nascere caratteristiche positive, come saggezza, coraggio o forza. Le persone resilienti, riescono efficacemente a integrare nel loro vissuto le loro esperienze dolorose o difficili , e soprattutto non lasciano che gli eventi avversi definiscano chi sono. L’obiettivo che la persona dovrebbe porsi è riuscire a non
farsi sopraffare dalle emozioni negative, dai pensieri e comunque tenere sempre a mente che queste situazioni e/o condizioni sono transitorie. Vivere sempre nel passato, ripercorrere sempre gli stessi avvenimenti creerebbero un clima emotivo dentro di noi di costante dolore. Si definirebbe così una situazione di stallo, caratterizzata da circoli viziosi negativi, accompagnati sicuramente oltre che dalle emozioni sopracitate (che si ritrovano di solito nelle situazioni stressanti), anche da emozioni di allerta, ansia costante, ripensamenti e umore deflesso. Ma soprattutto, si fermerebbe la progettualità, si vivrebbe sempre nel passato e questo contaminerebbe e determinerebbe una scarsa qualità di vita personale. La resilienza è una capacità di crescita, possiamo immaginarla come un processo in continuo movimento che conduce la persona a cambiare, trasformarsi o comunque a prendere coscienza delle proprie potenzialità e avvicinarsi così a un processo di cambiamento. Certo non è sempre facile, e in alcuni casi serve magari una mano da una persona competente, ma di certo si può. Tutti possiamo migliorare, e ognuno dovrebbe ambire alla miglior espressione di se stesso. Chi coltiva un atteggiamento resiliente è comunque capace di superare i propri limiti, e spesso per far questo, il presupposto è essere consapevoli di se stesso e delle proprie potenzialità, nonché essere coscienti dell’esperienza acquisita. La buona notizia, è che la resilienza può essere allenata e quindi potenziata, addirittura si può supportarne lo sviluppo e questo possibile cambio di prospettiva capirete che può fare un’enorme differenza.
Medicina & salute Vi voglio proporre qualche esercizio pratico, che ognuno di noi può fare nella quotidianità proprio per sollecitare questa preziosa abilità: ·Cerchiamo di evitare di lamentarci. Le lamentele non fanno altre che bloccarci, che instaurare degli importanti circoli viziosi di pensiero negativo e quindi rimuginare continuamente su quella cosa. Questo a sua volta instaurerà un circolo vizioso discendente che non farà altro che rovinare le nostre giornate oltre che l’umore. ·Cerchiamo di sviluppare un cambio di pensiero, invece di fissarci su quello che non si può fare come conseguenza della situazione negativa che si sta affrontando, cerchiamo di esplorare quello che invece si può fare nonostante questa circostanza. Sarà difficile, ma se ci riuscirò mi si aprirà un mondo di potenzialità. ·Ed infine impariamo a evitare il giudizio.
Continuare a giudicare quello che mi è successo o me stesso, non farà altro che indebolire la mia autostima o autoefficacia. Noi non ce ne accorgiamo ma, se analizzassimo i nostri pensieri o come parliamo, scopriremmo che le nostre parole sono piene di giudizi, su di noi, sul mondo e sugli altri è che siamo talmente abituati a
farli che non ce ne accorgiamo più perché sono diventati automatici. Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Riceve su appuntamento Tel- 3884828675
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Alimentazione oggi di Armando Munaò
I VEGANI e il VEGANISMO
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uando si parla di vegani e dieta vegana, ci si riferisce a un regime alimentare basato su una filosofia di vita che si regge e poggia la sua essenza sul rispetto per gli animali e che esclude totalmente non solo il nutrirsi con tutti i prodotti di origine animale, quindi carne, pesce, latte, uova, miele formaggi e derivati quali burro, pasta all’uovo, prodotti preparati con lo strutto ecc. , ma anche di possedere, nel proprio guardaroba, abiti e articoli di pelle, seta, lana e qualsiasi altro tessuto di origine animale. I vegani, inoltre, nella loro quotidianità, evitano di recarsi agli zoo, ai circhi e parchi acquatici, perché implicano lo sfruttamento e la reclusione degli animali che ne fanno parte. Il veganismo, quindi, non è una dieta, ma un vero e concreto stile di vita e una filosofia di pensiero che si basa sull’antispecismo, ovvero sulla convinzione che
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nessuna specie animale – nemmeno quella umana – sia superiore alle altre o possieda un diverso status morale I vegani, secondo gli esperti in materia, vengono suddivisi in due grandi categorie: i vegani assoluti e i vegani salutisti. I primi sono coloro che propria convinzione ritengono che il diritto alla vita e alla non sofferenza degli animali sia inviolabile. E su questa particolare concezione sono in molti non vegani a sostenere che di fatto è quasi impossibile esserlo. A questa categoria appartengono anche colori i quali si rifiutano di andare allo zoo, di incatenare animali domestici o richiuderli in gabbia. Non solo, ma chi appartiene a questa categoria si veste solo e solamente con capi in fibre vegetali o sintetiche ed evita l’acquisto di capi che hanno parti di origine animale (pelliccia, pelle, lana, seta e imbottiture in piuma) e non usa prodotti per la casa o per
la propria igiene se questi sono derivati o testati su animali. Per loro è anche vietato arredare la casa con divani in pelle, tappetti in pelliccia ecc. I secondi invece non si cibano di alimenti di origine animale ma alimenti “etici” ed integrati con moltissime sostanze e derivati vegetali. Per la cronaca il termine “vegano” è una diversificazione della parola “veg(etari) ano” coniata da Donald Watson che, con un gruppo di vegetariani inglesi, poi diventati vegani, fondò a Londra, nel novembre del 1944, la Vegan Society e che nello statuto sottoscrissero di escludere tutte le forme di crudeltà, sofferenza e sfruttamento degli animali, quindi anche l’alimentazione. La loro logica partiva dal presupposto che tutti gli animali non sono oggetti da utilizzare dall’uomo bensì esseri sensibili e con un loro valore intrinseco e di vita e quindi bisognava rispettarli e non farli soffrire. Watson in una intervista così si espresse in merito
Alimentazione oggi
al nome Vegan che aveva scelto: “chiesi ai primi simpatizzanti e lettori di suggerirmi un termine più appropriato per sostituire nondairy vegetarian (vegetariani non consuma-
tori di latticini). Molte e bizzarre furono le risposte tra le quali dairyban, vitan, benevore, sanivore, beaumangeur. Alla fine optai per il termine vegan, contenente le prime
tre e le ultime due lettere di vegetarian.” Moltissime sono, o possono essere, le motivazioni che li spingono al veganismo ovvero di non consumare più prodotti di origine animale. Secondo una recente statistica circa il 25% lo diventa per un concreto rispetto verso gli animali; un altro 24% circa ritiene che una alimentazione vegana porti giovamento alla salute fungendo da barriera protettiva verso numerose patologie, specialmente i tumori. Altri ancora per tutelare l’ambiente. Ma quali alimenti sono presenti sulle tavole dei vegani? In Italia i cibi più usati sono latte, cotolette e hamburger di soia, il tofu, il seitan (estratto di glutine di grano o altri cereali), il mopur estratto dal grano e ceci, formaggi, salumi e affettati, come ad esempio quelli prodotti da carciofi, barbabietole. E ancora alghe e spezie varie.
IN ITALIA AUMENTANO I VEGANI E I VEGETARIANI I dati del report Eurispes 2020 ci dicono che l’8,9% della popolazione italiana è suddivisa rispettivamente in 6,7% di vegetariani e il 2,2%. di vegani. Nel biennio 2019-2020 il 6,3% della popolazione ha affermato di non esserlo più. Da questi numeri si evince anche che i vegetariani e i vegani sono in aumento sia rispetto al 2019 (erano il 7,1%), sia rispetto al 2018 (erano il 7,3%). Altri dati riguardano le cosiddette “alimentazioni senza”: il 18,7% degli italiani che hanno partecipato all’indagine dice di fare un’alimentazione senza lattosio, il 14,6% mangia senza glutine e il 16,3% utilizza un’alimentazione arricchita da integratori. Sempre per informazione, attualmente ci sono convinti praticanti di una alimentazione che gli esperti definiscono eticamente e salutistica “estrema” del veganesimo. I “crudisti” (uno su tre, rispetto al totale dei vegetariani); i “fruttariani” (quasi uno su quattro), che si ineriscono nella galassia «veg» assieme ai “raccoglitori” (mangiano solo ciò che cade dagli alberi) e ai pesco-vegetariani (per cui l’unico divieto è per la carne di volatili e animali terrestri). I dati dell’indagine Eurispes 2019 (condotta su un campione) ci dicono che i fenomeni di vegetarianesimo e veganesimo siano decisamente minoritari nel nostro paese: nel 2019 oltre l’87% della popolazione italiana si dichiara onnivora, mentre solo poco più del 5% si definisce vegetariano e l’1,9% vegano. Tra i vegani le donne sono la maggioranza: rispetto agli uomini (circa il 3% contro 1,2% del totale della popolazione intervistata). Tra le fasce d’età si rileva che tra i giovani compresi tra i 18 e i 25 anni si ha la maggioranza dei vegani (3% del totale) mentre i vegetariani sono compresi tra i 35 e 45 anni, (il 7,1% del totale).
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In controluce di Francesco Zadra
NANI sulle SPALLE di GIGANTI
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e è vero che impariamo dagli errori, è altrettanto vero che la nostra esistenza terrena è fin troppo breve per commetterli tutti. Dunque, a meno che non siate seguaci di qualche dottrina orientale, conviene cercare una valida alternativa alla reincarnazione. Da quando l’homo sapiens ha fatto la sua comparsa ha sempre cercato, ben prima dell’invenzione della scrittura, di raccontare la propria storia e ascoltare l’altrui testimonianza. Lo dimostrano le antichissime tradizioni orali dei popoli mediorientali, i dipinti rupestri rinvenuti in ogni parte dell’orbe terreste, i miti e le epopee greche e scandinave. Tutte vestigia di antichissime civiltà che, in modo letterale o figurato, vogliono tramandare alle generazioni a venire un qualche insegnamento o nozione. Ma a che cosa è dovuta questa predisposizione istintiva e innata dell’essere umano? Per quanto riguarda le civiltà primigenie si può facilmente fugare il dubbio alludendo ad un qualche istinto di sopravvivenza che portava i nostri antenati a condividere con i propri simili ciò che avevano appreso circa lo stare
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al mondo, possibilmente senza morire di fame o finire sbranato da qualche bestia selvatica. Un’argomentazione di tutto rispetto ma, a meno che non fermiamo il nostro concetto di Civiltà al cinquemila avanti Cristo, è troppo scarna per saziare il nostro piccolo pusillanime interiore. Possibile che i più grandi letterati della Storia, da Cervantes a Manzoni, abbiano sprecato fiumi d’inchiostro solo per dirci di non prendere freddo o di mangiare sennò “stiamo sciupati”, manco fossero delle apprensive nonne meridionali? Certamente, con l’evolversi della scienza e della tecnica, il nemico dell’uomo non è più rappresentato dalla natura selvaggia o dal lupo cattivo. Non di meno ci troviamo ad affrontare ben altre “selve oscure” o fiere affamate. Stando alla piramide dei bisogni di Maslow, una volta riempita la pancia e lenito il bisogno di un giaciglio sicuro, che per un animale equivarrebbe ad aver raggiunto lo scopo della vita, l’uomo è costantemente alla ricerca di qualcosa che lo faccia sentire realizzato e sazi la sua fame di senso. Non ci accontentiamo di sapere come funziona la realtà che ci circonda, vogliamo anche sapere il perchè, i motivi che spingono noi e gli altri a comportarci in una determinata maniera, le cause più profonde del nostro agire.
Per questo motivo prima dell’Illuminismo non c’era una netta distinzione tra conoscenze umanistiche o scientifiche che fossero. Erano considerate due facce della stessa medaglia, tanto che i più illustri scienziati dell’epoca, come il fisico settecentesco Leonardo Eulero, avevano ricevuto una solida formazione umanistica. Gli uomini avevano una concezione di se’ pari a quella di nani sulle spalle dei giganti del passato. Giganti del pensiero e maestri di vita dai quali bisognava imparare per trovare le chiavi che avrebbero permesso di decodificare anche i problemi del tempo corrente. Dalla rivoluzione francese in poi si è diffusa invece l’idea che la realtà fosse pienamente conoscibile, misurabile, catalogabile e prevedibile in maniera de-
In controluce
terministica e attraverso criteri oggettivi. L’incapacità di raggiungere una risposta portò a credere che essa non esistesse. Questa fu la “macula originalis” che aprì la strada al relativismo, il quale portò ad una crisi esistenziale che accese la miccia dei più cruenti totalitarismi del Novecento. O, in maniera più subdola, non avendo più maestri da cui impara-
re né fonti da cui attingere esperienze di vita, al mito di D’Annunziana memoria del “self-made-man”, l’uomo che si fa da sè, che è maestro e guida di sè stesso sul sentiero della vita. Ma nel lungo periodo questa modalità non regge. Abbiamo un disperato bisogno di attingere nozioni ed esperienze altrui per districarci nel, sempre più complesso, labirinto della Realtà che ci avvolge. E se questo compito non lo svolgono più i libri e tantomeno le relazioni
umane, finisce che proiettiamo le nostre aspettative sulle nuove tecnologie. Ed è così che il cellulare è diventato il binocolo attraverso cui i novelli guardoni sbirciano nelle vita (finte) degli altri alla ricerca di modelli da imitare o, nella gran parte dei casi, da invidiare. Ma a che pro? In assenza di risposte e di armi per combattere e capire lo scorrere della storia nella quale siamo immersi, preferiamo autosedarci con frivolezze, nell’illusione che il Tempo non esista. Credo che l’unico argine a questo disorientamento generale sia quello di riprendere in mano, in forma analogica o digitale, quei forzieri di vita vissuta che contengono, nero su bianco, le pillole di saggezza dei nostri antenati. La vita è troppo breve per girare a vuoto credendo di avere la verità in tasca. Anzi, dentro ad una cover.
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Salute e benessere di Veronica Gianello
Le Tisane
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al più tradizionale tè nero tardo pomeridiano, alle “miracolose” tisane detox: drenanti, energizzanti, rilassanti, e chi più ne ha più ne metta. Insomma, è chiaro: idratare il corpo è essenziale. Ma sappiamo davvero cosa beviamo? Un’erba vale l’altra? Per trarre benefici dallo sconfinato mondo delle infusioni è bene conoscere le caratteristiche di ognuna. Nei mesi freddi più che mai, tenere tra le mani una tazza bollente da sorseggiare lentamente è una coccola per molti irrinunciabile, un piccolo momento di benessere che profuma d’inverno. Un tempo si preparavano in casa: si raccoglievano bacche ed erbe nei mesi più caldi, si lasciavano poi seccare per essere sminuzzati, conservati e utilizzati all’occorrenza, e la saggezza delle nonne sapeva sempre quale vasetto in credenza fosse più adatto per ogni situazione. Oggi, purtroppo, questo sapiente rituale si è perso, ma si ricerca sempre lo stesso magico effetto. “Keep it simple”, direbbero gli inglesi, “rendi le cose semplici”. Invece di assortimenti casuali, prodotti troppo lavorati e addensati, meglio una letta alle etichette, per i tè in bustina, o un suggerimento dall’erborista, quando in bottega annusate gli aromi dai vasi di latta per compiere scelte più consapevoli. La grande moda dello zenzero, ad esempio, ha visto la comparsa di questa radice in
molti prodotti quotidiani. Le sue proprietà antisettiche, digestive e stimolanti sono certamente alleate della salute, ma se lo scegliete per aiutare la digestione, non assumetelo la sera! La sua caratteristica energizzante ed eccitante non concilierà il vostro sonno. Altresì da evitare se soffrite di gastrite e colon irritabile: le sue proprietà affaticano le muscolatura dell’intestino. Valide alternative per rilassarsi e aiutare una corretta digestione possono essere la radice di genziana o la verbena. Con i primi malanni di stagione è il caso di farsi amiche cannella, eucalipto, salvia e malva: le loro forti proprietà decongestionanti daranno sollievo a raffreddori, tossi e rafforzeranno le vostre difese. Non a caso, l’eucalipto si trova spesso anche in forma di olio o crema per la sua azione fluidificante e antinfiammatoria. Altra grande moda è certamente la tisana al finocchio, che in effetti è giustamente nota per le sue proprietà di regolazione intestinale e per i disturbi causati dall’aerofagia (anche nei neonati). Le tisane detox altro non sono che delle erbe detossinanti o drenanti che aiutano la naturale eliminazione delle tossine in eccesso. Tarassaco, cumino e coriandolo sono solo alcune tra le molte destinate a questo scopo. Simili, ma ancora più commercializzate sono
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le tisane dimagranti. Ma cosa sono in realtà? Sono piante o bacche come mate, karkadè o menta che agiscono grazie alle loro proprietà termogeniche: aiutano ad aumentare il metabolismo permettendo così di bruciare più facilmente le calorie. Purtroppo il sistema di vendita estremizza le caratteristiche di questi semplici prodotti, prendendo una loro peculiarità e trasformandola in qualcosa di magico, perfino miracoloso. Le tisane sono un momento di tranquillità e piacere? Bene, allora va apprezzato per quello che è, e sfruttando al meglio con qualche semplice accorgimento. Se cercate invece il rimedio ai mali del mondo, la soluzione ai vostri problemi e la tisana diventa un momento ossessivo e stressante, lasciate perdere. Le tisane possono aiutare, possono essere alleate del buon funzionamento dell’organismo; ma non possono né mai potranno sostituire uno stile di vita sano basato su alimentazione equilibrata e movimento, prima che su qualsiasi altra teoria di moda passeggera. In ogni caso è sempre da evitare il “fai da te”. è bene rivolgersi agli esperti del settore o ai negozi specializzati.
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La ragazza immagine di Luca Dell’Orco
Elisa Carvelli,
Professionalità e Sensualità L’intervista
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iss, fotomodella e giornalista sportiva con quel pizzico di sensualità capace di “bucare” lo schermo e conquistare il popolo maschile. Più di 10mila followers su Instagram e tantissima voglia di emergere in campo televisivo e fotografico. Elisa Carvelli spazia dalla moda alla fotografia, dalla tv ai social network. Dalla sua Torino – la città in cui è nata, ma da anni ormai Trento l’ha accolta e qui vive attualmente – ha saputo farsi largo nel campo dello spettacolo ed ora è in cerca del definitivo salto sotto le luci dei riflettori che contano. Presenza fissa di un programma di Instagram, Elisa Carvelli ha saputo unire una sensualità che spicca al primo sguardo ad una professionalità che è il frutto di ore ed ore di lavoro per farsi trovare preparata. Oltre alle gambe, insomma, c’è molto di più. E anche se al primo sguardo il suo fisico conquista, Elisa viaggia con i piedi ben piantati per terra, umile e semplice. La voglia di farcela non manca. Persone e trasmissioni hanno iniziato a credere in lei, dapprima magari convinte dall’aspetto fisico e poi stupite dalla professionalità.
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Come nasce questa voglia di entrare nel mondo dello spettacolo? Ho sempre sognato di far parte di questo mondo. Poi dopo i primi shooting ho avuto la certezza che potevo farcela. Non mi pongo limiti, sogno la tv e lavoro per farcela a conquistare il mio spazio. Tutto è nata dalle passerelle… Ho iniziato con i concorsi di bellezza, le fasce vinte le custodisco ancora gelosamente! Col passare degli anni, ho scelto di dare spazio sia al mio fisico, ma soprattutto al mio cervello e al mio pensiero. Alcuni brand se ne sono accorti e io collaboro con loro. Ma non ho intenzione di fermarmi qui… Nel frattempo tutti i lavori sono sul tuo profilo Instagram che continua a crescere di numeri… Mantenere aggiornato un profilo Instagram è un lavoro, parlo per chi vuole approfittare di quello che i social hanno da offrire, altrimenti è un passatempo come tanti altri. Il vantaggio di Instagram sta nell’essere una piattaforma che permette di farti conoscere tantissimo, e per il lavoro che faccio io è importante postare ogni giorno contenuti nuovi. Hai mai ricevuto proposte… indecenti? Tutti i giorni me ne arrivano ed è per questo voglio dare una piccola recensione positiva ad Instagram, che spesso e volentieri ne archivia parecchie nella sezione “richieste” in modo tale da lasciare all’utente la facoltà
La ragazza immagine di decidere se visualizzare o meno. Ci sto facendo l’abitudine. Vado oltre il rimanerci male, guardo a tutti gli aspetti positivi che Instagram può offrirmi. Per chi come te si mette in gioco a livello di immagine, i giudizi e i pregiudizi da affrontare sono molti. Esattamente, sono tantissimi, e so che dovrò affrontarne altrettanti per proseguire nel mio cammino. Ma è la conseguenza di questo lavoro: puoi decidere di rimanerci male o fregartene. Se la risposta fosse la prima, quella che soffrirebbe sarei solo io: e questo non lo permetterò mai, a niente e
a nessuno, è una delle promesse che mi sono fatta. Eppure il tuo personaggio piace perché non è solo sensuale, ma anche preparato e accattivante. Per me la sensualità non è semplicemente una gamba scoperta o un abito scollato: una persona sensuale cattura con la mente e con lo sguardo, ce l’ha nel sangue, è una cosa spontanea, del tutto naturale e non deve essere mai volgare. I tuoi outfit sono quelli che hanno contribuito al tuo successo su Instagram. Avendo frequentato una scuola di moda mi baso parecchio sulla struttura dell’outfi, e quindi scelgo accuratamente colori, tessuti, fantasie, dettagli. Cosa ti piace indossare per sentirti elegante e femminile? I tacchi esprimono la femminilità, così come gli anelli e gli orecchini: non riuscirei a stare senza, soprattutto per una persona vanitosa come me. Ti capiterà spesso di sentirti gli occhi addosso… Certo, e non ne faccio un problema. Alcune volte può succedere un pizzico di soggezione, però lo sguardo fa parte del “pacchetto”. Se decidi di metterti in mostra devi valutare molte cose e fra le tante anche questa. Chi si mette sotto i riflettori, in fin dei conti, è perché lo desidera. Come ha reagito Trento al tuo boom sui social e alle tue fotografie magnetiche? So che la gente ne parla parecchio, cerca di sapere sempre qualcosa di più o di troppo. E io lascio che se ne parli.
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Società e Covid di Patrizia Rapposelli
Natale in tempo Covid-19
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La Pandemia ha rilevato
il meglio e il peggio dei nostri popoli e il meglio e il peggio di ogni persona. Ora più che mai è necessario riacquistare consapevolezza della nostra comune appartenenza.” Sono le parole semplici, ma cariche di significato, di Papa Francesco, il quale sottolinea il valore della solidarietà tra le persone. Dopo anni all’insegna del consumismo sfrenato è arrivato il momento di riflettere e riscoprire la dimensione più pura del Natale. A Natale il cuore della festività è la casa, dove gli italiani vivono lo spirito e la tradi-
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Società e Covid zione con i propri cari e i parenti. L’abitazione si accende di colori e si arricchisce di decori, riscoprendosi luogo più amato per stare insieme e condividere la gioia per la ricorrenza, il cenone e i regali. Dicembre al tempo di Covid assottiglia sempre più la speranza di viverlo come da tradizione; che Natale sarà? Le risposte arriveranno con i prossimi Dpcm, i quali imporranno a tutte le Regioni italiane, che esse siano gialle, arancioni o rosse, ulteriori restrizioni per scongiurare una nuova impennata dell’epidemia e una drammatica ripresa della velocità di circolazione del virus a gennaio. L’Italia vaga da mesi nel dubbio e con il Natale 2020 alle porte l’incertezza regna ancor più sovrana. Natale per adulti e piccini è soprattutto il periodo di attesa che lo precede: preparare le letterine a Babbo Natale, allestire la casa, scandire i giorni con le caselle di un calendario dell’avvento, organizzare le grandi rimpatriate tra i
parenti, la famiglia, i nonni, rivedere affetti lontani, senza scordare i pacchetti sotto l’albero. In questo periodo di attesa la casa e le città diventano un nido accogliente, pieno di luci e decori così da far percepire la festa che sta per arrivare nella sua stessa attesa, ma oggi questa abitudine viaggia nell’ombra, immersi in un contesto sociale che sta mettendo a dura prova l’economia, la sanità e l’emotività degli italiani; è necessaria una capacità adattiva non indifferente. L’atmosfera non promette nulla di buono, ma essere preparati non significa capacità anticipatoria; infatti Covid-19 non significa nemmeno non portare avanti le tradizioni, seppur limitate. Nessuno vieta di decorare strade, malgrado silenziose e con le saracinesche chiuse, nemmeno di addobbare la casa e viverla con l’intimità delle persone più care; il nucleo famigliare ha acquisito con il precedente lockdown un nuovo valore, lo si vive ancor più come rifugio e
con l’approssimarsi delle Sante Feste può essere riscoperto come valore del tempo passato. I nostri nonni ricordano ancora il tempo in cui il Natale era un periodo esclusivamente religioso e vissuto in modo più intenso e partecipato di quanto sia oggi; in questo momento di pandemia torneranno in auge le consuetudini di una volta inserite nella modernità: Natale in sobrietà. La festività ai tempi del Coronavirus potrebbe far riscoprire il calore del pranzo in casa con la famiglia, con i film di una volta e perché no con le rimpatriate digitali. Largo alla spiritualità e all’insegna del rinnovo dei valori più importanti e spazio a nuovi ricordi natalizi. Un Natale segnato dalla paura della malattia, dell’abbandono e dalle condizioni economiche di tante famiglie, nella speranza che ne resti solo una parentesi dalla quale “Si può uscire migliori” riprendendo le parole di Papa Francesco.
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L’intervista di Armando Munaò
Cos’è la felicità e cosa vuol dire essere felici
Da sempre l’uomo si è sempre posto numerose domande esistenziali e, purtroppo per lui, la maggior parte sono state senza risposta. Una di questa domande, e alle quali non è semplice rispondere è: Che cos’è la felicità?”. Per saperne di più e per avere un giusto parere ci siamo rivolti alla dott.ssa Laura Fratini, psicologa, nostra collaboratrice di Feltrino News e Valsugana News.
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ott.ssa Fratina, cosa vuol dire stare bene? Stare bene è ciò che tutti noi vogliamo: significa innanzitutto trovare la propria dimensione, il proprio equilibrio e la propria serenità. Ma spesso è proprio la ricerca di questa felicità a rappresentare una corsa contro ogni cosa che ci rende infelici, creando quello che è un contro-senso. La felicità è un emozione universale ma non per tutti ha lo stesso significato. Le sensazioni che crea, però, sono le stesse: un senso di libertà, di ampiezza, di calore e una gran voglia di fare. Quindi la felicità non è per tutti uguale? L’emozione è universale, tutti gli esseri umani sono capaci di provare quest’emozione nel corpo e nella mente: le sensazioni corporee della felicità si manifestano per tutti alla stessa maniera,
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indipendentemente dalla nazionalità, dalla cultura, dal ceto sociale e dal colore della pelle. Quando proviamo una sensazione piacevole siamo felici e può anche accadere di essere felici in previsione del verificarsi di un determinato evento, oppure subito dopo. Anche l’eccitazione può dare origine alla felicità. In che modo quest’emozione si manifesta, perché ci troviamo a provare la felicità non è uguale per tutti. O per lo meno la sensibilità individuale cambia e si diversifica in modo soggettivo condizionata da fattori di attaccamento, storia di vita ed esperienze di vita. E’ possibile provare felicità quando riceviamo delle lodi, quando scopriamo di piacere a qualcuno, quando succede qualcosa che migliora la nostra immagine. La gratificazione provoca felicità. Tuttavia la felicità non varia solo qualitativamente ma anche quantitativamente, ossia di intensità. Possiamo essere lievemente soddisfatti o provare la gioia più assoluta. La felicità è spesso accompagnata dal riso, anche questo può essere di intensità differente. Dal lieve sorriso a bocca chiusa si passa a quello a bocca aperta e ridente. La felicità può manifestarsi in maniera silenziosa oppure rumorosa. Dal lieve risolino si arriva alla
risata, o addirittura ad una risata incontrollabile con lacrime. Di fatto dunque si può parlare universalmente di “felicità”, ma ciascuno di noi ha un modo diverso di raggiungerla e manifestarla. Cosa ci rende tanto infelici? Come dicevo prima, essere felici è l’obiettivo di tutti ma la felicità ‘’a tutti i costi ’’ diventa una grande fatica e una battaglia che ci uccide: diverse ricerche dimostrano come le persone che hanno la propria felicità come obiettivo primario tendono, mediamente, a essere meno felici di altre. Cercare di avvicinarsi è un po’ come proporsi di riuscire a toccare l’orizzonte. Questo non vuole essere un inno al ‘’ non dobbiamo essere felici’’ ma un invito a prenderci cura di tutte le nostre emozioni da quelle positive tanto agognate a quelle che purtroppo ci fanno stare peggio, ma che comunque ci
L’intervista
comunicano qualcosa di importante. Quindi lei pensa che sia importante vivere le emozioni, anche quelle negative? Assolutamente sì. È difficile, complicato e richiede tanta energia da parte nostra imparare a stare con le emozioni più dolorose, ma è anche questo che poi ci rende ‘’felici’’. Se dobbiamo fare un esame importante, per esempio, probabilmente saremo in ansia e questo non ci piace, ma questa emozione ci comunica che siamo preoccupati per un evento al quale teniamo e ci aiuta a fare tutto quello che potremo affinchè vada bene e riesca. Quando l’esame sarà superato, la nostra ansia scomparirà e noi ci sentiremo più sollevati, quindi più felici. La felicità, la gioia, esiste se esistono anche l’ansia, la tristezza, la rabbia etc. Ma possiamo essere felici se vogliamo? Certamente, tutti possiamo esserlo. Non è un cammino facile e immediato e sicu-
ramente è come una altalena: lo saremo, poi non lo saremo più, poi lo saremo di nuovo. Purtroppo è così che funziona. La ricerca della felicità, senza la tolleranza e l’accettazione delle emozioni più dolorose, porta solo ad infelicità. Conviene, quindi, camminare verso la felicità sapendo che qualche volta cadremo, inciamperemo, avremo paura, ma che ciò non è terribile e non sarà per sempre. Come si concretizza la felicità all’interno della famiglia? Il sistema ‘’famiglia’’ è un sistema complesso, spesso governato da regole più o meno esplicite. Per i membri della famiglia non sempre è facile e immediato ‘’stare’’ in questa organizzazione e così si formano delle fratture, dei conflitti che mettono in discussione i singoli membri tra loro. Le fasi della vita di ogni singolo componente va ad incidere sul sistema familiare che ogni volta dev’essere capace di ri-equilibrarsi. La felicità, intesa come benessere familiare, credo possa inserirsi come capacità, prontezza e plasticità del sistema che ogni volta riesce a trovare una nuova stabilità. Che ruolo possono avere, allora, le emozioni all’interno del sistema
familiare? Credo che questa sia una domanda complessa, sulla quale si potrebbe scrivere un libro. Iniziamo ad approcciarci alle emozioni appena nasciamo. Il giorno stesso nel quale avviene il parto il nascituro piange perché, oltre ad espellere liquido amniotico e respirare per la prima volta con i suoi polmoni, è a disagio perché lascia l’unico vero ambiente protettivo e confortante della sua vita. I soggetti imparano come gestire le emozioni proprio da chi si prende cura di loro, e proprio all’interno della famiglia. Tuttavia è proprio in questo ambito che le emozioni possono diventare un’arma a doppio taglio. Anche in questo caso, nelle varie fasi della vita, la gestione e la percezione delle emozioni può essere diversa: l’adolescente spesso vive la parte emotiva in modo ‘’borderline”, diventa un elemento destabilizzante, e la famiglia si trova a gestire conflitti importanti. E qui torniamo al discorso sull’equilibrio del quale parlavo prima: si raccoglie ciò che si semina, ovvero si affrontano anche le situazioni emotive più complesse con gli strumenti che abbiamo saputo costruire nel tempo, Le emozioni sono dunque le protagoniste della nostra quotidianità, anche all’interno del nucleo familiare, che deve essere quel luogo protetto dove si possono vivere serenamente, attraverso il dialogo e il confronto e talvolta, quando costruttivo, anche lo scontro.
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econdo i pareri degli esperti è oramai accertato che tra i nemici più pericolosi degli occhi figurano i raggi ultravioletti del sole. Questi raggi, etichettati come UVA e UVB, affaticano, in maniera considerevole l’apparato visivo e non di rado sono all’origine di irritazioni e infiammazioni, anche serie. Studi specifici hanno accertato che la luce diretta, indiretta o di riverbero ovvero quella riflessa dall’asfalto, dall’acqua o dalla neve, è la più fastidiosa e affatica maggiormente i nostri occhi. Non solo, ma è stato anche accertato che raggi UV danno origine a una produzione eccessiva di radicali liberi che nel tempo e con il tempo, accumulandosi, danneggiano gli occhi e ne accelerano i processi d’invecchiamento. Ecco perché è necessario, se non in-
SOLE e VISTA dispensabile, proteggerli indossando, quando è possibile, gli occhiali da sole. E nella scelta degli occhiali è fondamentale, tenere presenti alcuni fattori. In primis, vanno acquistati in un negozio di ottica in quanto le lenti, a prescindere dal colore scelto, devono avere un filtro ultravioletto. E anche se la lente è scura, la mancanza di questo particolare elemento non assolve la funzione protettiva. Per la cronaca le lenti scure, creano oscurità e a quindi una maggiore dilatazione della pupilla con il conseguente maggiore assorbimento dei raggi dannosi. Da sapere che tutti gli occhiali da sole venduti sulle bancarelle o sulle spiagge non dispongono di filtri UV. Di poi devono avere il marchio CE e la certificazione che garantisce la qualità e sicurezza. Infine è sempre da evitare il famoso e deleterio “fai da te”.
L’occhiale da sole, quindi, non deve essere più considerato come un accessorio moda, bensì un vero e indispensabile dispositivo per la protezione e la salute dei nostri occhi. (A.M.)
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Speciale Natale di Elisa Corni
25 dicembre, una data universale
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a corsa ai regali per festeggiare il Natale è già cominciata. Nella nostra cultura, infatti, dicembre è un mese di celebrazioni, festeggiamenti, famiglia e gioia, le cui origini risiedono nella Religione Cristiana che indica nel 25 dicembre la nascita di Gesù Cristo. Il nome stesso indica la natività come momento celebrativo da ricordare. Questa data è condivisa dalla maggior parte delle Chiese cristiane occidentali e anche da quelle greco ortodosse, ad eccezione di quello orientali e slave che spostano la data della nascita del
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Messia ai primi di gennaio, seguendo ancora il calendario giuliano e non su quello gregoriano. Il Natale è forse la festa più sentita, che nel corso dei secoli ha portato con sé la nascita di nove tradizioni: dal presepe che vede Agos, la tua vita le sue origini nel con qualcosa Medioevo, al rosso Babbo Natale, frutto del marketing degli anni Sessanta. PRESTITI PERSONALI Secondo il calendario liturgico, invece, CARTE DI CREDITO questa è una delle ASSICURAZIONI più importanti CESSIONE DEL QUINTO festività religiose della religione Cristiana, seconda Agenzia Autorizzata solo alla Pasqua per Via Vittorio Veneto 170 importanza. Fino a qui nulla di nuovo, Belluno eppure sappiate Tel. 0437-35.83.56 che il 25 dicembre, e le giornate immediatamente antecedenti e successive, VIENI A TROVARCI.
sono un’importante momento per moltissime religioni e culture, non solo per quella occidentale, ovvero la nostra. Prendiamo ad esempio la Religione romana, ovvero in voga soprattutto durante l’epoca romana; sia in età antica che in età più moderna, gli abitanti della città eterna individuavano per lo più nel 25 dicembre l’importante data del Natale del Sol Invictus, ovvero del Sole invitto secondo alcune fonti poteva trattarsi anche del 19 o del 20 dicembre. Con questo nome erano note numerose e diverse divinità, ma che in particolare fa riferimento al dio Helios, il dio del Sole. Il culto solare romano fu molto in voga soprattutto dopo il 272 d.C., quando l’imperatore Lucio Domizio Aureliano ringraziò per la vittoria contro al terribile regina di Palmira il dio Sole che sarebbe venuto a motivare le truppe durante la terribile battaglia decisiva. Ma prima di lui, in epoca più antica, il 25 dicembre era la data nella quale si celebrava la nascita del dio Mitra, una divinità così importante
Speciale Natale da essere comune a diverse religioni: quella persiana, l’induismo e l’epoca romana molto antica. Il suo culto fu attivo soprattutto tra il I secolo a.C. e il V d.C. Ovviamente ognuna di queste società interpretò in modo differente questa complessa divinità, ma in comune tutte ne celebravano la nascita proprio in quel fatidico giorno di dicembre, secondo quanto scoperto dagli studiosi. Ma le nascite di queste divinità non sono le uniche celebrazioni importanti: moltissime culture e religioni individuano nelle giornate alla fine dell’anno momenti di festeggiamento e rinascita. Attorno al 20 dicembre le antiche religioni pagane diffuse in tutta Europa prima dell’avvento del cristianesimo celebravano il solstizio d’inverno; è il caso ad esempio dei saturnali romani: cinque giorni di grandi banchetti e sacrifici
per ricordare l’insediamento nel tempio del dio Saturno. Uno degli aspetti comuni al cristianesimo è lo scambio di doni tradizionale in epoca romana durante queste feste che avevano luogo dal 17 al 23 dicembre. Ma la caratteristica principale di queste festività era il sovvertimento dell’ordine sociale: la società romana viva all’incontrario, con gli schiavi che la facevano da padroni e i nobili sottomessi alle classi inferiori. Le festività avevano il compito di placare le divinità annoiate dalla scarsa attività tipica dei mesi invernali, improduttivi, freddi e poco adatti al divertimento. Al nord, la tradizione precristiana germanica celebrava il 21 dicembre la divinità celtica di Yule, proprio nel giorno del solstizio d’inverno. La poca documentazione su queste festività fino ad ora rinvenuta non offre molte informazioni; tutto ciò che si
sa, è che la popolazione festeggiava con lunghe giornate di riposo e con danze dedicate a questa divinità, patrona della rinascita in occasione del solstizio. La tradizione proseguì in Islanda fino a tutto il Medioevo, resistendo quindi all’”invasione” cristiana. Ma anche uscendo dal vecchi continente incontriamo momenti di celebrazione dicembrini. È il caso ad esempio del Katik Poornima induista, una festa che si festeggia tra novembre e dicembre e che coincide con altre festività del Gianismo e di altre religioni orientali. Molto probabilmente la coincidenza di questi eventi si deve proprio al fenomeno astronomico del solstizio: dopo mesi e mesi in cui le giornate si sono sempre più accorciate, finalmente il sole rinasce dando a tutti una nuova speranza!
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Speciale Natale di Patrizia Rapposelli
Natale e il Presepe tra storia e significato
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atale è alle porte e con sé porta una rappresentazione scenica per eccellenza. Impregnata di storia invoca emozioni: il presepio. Un passato impolverato, vestito di speranze e luci, custode di vecchie memorie, nostalgico tramanda pensieri imprigionati, messaggi che fanno incontrare il lontano tempo con l’oggi. La pratica di preparare la tradizionale raffigurazione nelle case e nelle chiese tra il Natale e l’Epifania include significati profondi che hanno a che fare con la cristianità da un lato e dall’altra con aspetti socio-culturali: la Natività, che vede l’origine della sua figurazione nella leggenda con prota-
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Speciale Natale gonista San Francesco d’Assisi, la cultura popolare che nel racconto antico guarda all’esortare dei valori famigliari. La parola stessa deriva dal latino praesaepe, ossia mangiatoia; nella semplicità si fa portatore di una lunga tradizione ed affonda le radici tra gli antichi etruschi e latini. Tali popoli usavano venerare le figure dei Lares familiares, spiriti dei familiari defunti che vegliavano sul buon andamento della famiglia; ogni antenato veniva rappresentato da una statuetta di cera o terracotta, sigillum, la quale veniva posta in delle nicchie apposite e onorate con l’accensione di fiammelle in particolari occasioni. Consuetudine che venne poi assimilata dal cristianesimo; infatti presso l’antica Roma si svolgeva una festa nel periodo del solstizio d’inverno detta “Sigillaria”, durante la quale i parenti si scambiavano le statuine dei lari defunti. In attesa della “Sigillaria”, attuale Natale, i bambini dovevano mettere queste figure
in un recinto e la famiglia tutt’intorno al presepe, inteso come recinto, si riuniva per invocare la protezione degli avi. Ad oggi, nella storia moderna, nel periodo natalizio, alle spalle di una tradizione cristiana, all’albero di Natale è generalmente affiancata, come simbolo stesso della festività, la riproduzione in miniatura della nascita di Gesù bambino. Un momento di ritrovo del passato per soffermarsi ad una riflessione e un’intima condivisione con sé stessi o la famiglia stessa. L’usanza del “fare” il presepe trova origine nella notte di Natale del 1223, quando San Francesco d’Assisi, in seguito al suo viaggio dalla Palestina in Betlemme, iniziò una mistica rievocazione. Dall’aspetto di un castrum medievale, si apriva sulla vasta pianura di Rieti, tra i boscosi monti Sabini, alle pendici del monte Lacerone, il paesino di Greccio, luogo che invocava in lui il ricordo di Betlemme e ideale per celebrare in modo nuovo tale festività.
Papa Innocenzo, accolse la proposta del frate e coinvolgendo l’intero territorio si cercarono i volti che avrebbero interpretato la Sacra rappresentazione: i pastori, Maria, Giuseppe, il bambino. In quella notte Santa tra i borghi e i sentieri risuonavano i cori di uomini venuti da lontano che con fiaccole e canti illuminarono quella notte. In quel di Greccio ebbe luogo la prima raffigurazione del Presepe vivente e moderno della storia del cristianesimo. La Natività dal 1223 ebbe poi diverse riproduzioni in campo artistico, in particolare con Giotto e il “Presepe di Greccio” nella Basilica superiore d’Assisi. Da quel lontano passato ad oggi, prima nelle chiese, poi nelle cappelle nobiliari, nelle case dei nobili a quelle della gente comune, la natività di Betlemme rivive tra le luci delle case addobbate, memorie di un tempo andato che permane nel pensiero di un popolo moderno che si incontra con quello passato.
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atale, tempo di regali, di luminarie, canti, feste, panettone, messa di mezzanotte, cene in famiglia, cenoni, alberi, addobbi, lenticchie&cotechino, babbi e babbe Natale, solidarietà, amicizia, tenerezza, bambino nella culla, il bue&l’asinello una sequela infinita di termini tradizionali, antichi e moderni, ma che comunque conservano un certo potere di sorprenderci, di intenerirci, di farci sospendere per qualche giorno quell’usuale cinismo e quel ceffo da uomini e donne sicuri che ci portiamo per gran parte dell’anno. Abbassiamo le difese e ci godiamo le Feste natalizie, concedendo ampi margini di accettazione per ciò che di solito releghiamo nel mondo delle favole, alle storielle per bambini. Sì! Per qualche giorno torniamo ingenui, infanti, e crediamo alla favola del Natale, talmente da crederci e pensarci e sentirci addirittura più buoni. Non è nell’intenzione di questo articolo, in alcun modo, turbare il clima “magico”, o inquinare l’atmosfera natalizia che è pensata, invece, come quasi indispensabile a proteggerci e conservarci, più a lungo possibile, nel nostro essere di persone per bene; si vorrebbe però cercare di cogliere il senso del Natale inquadrandolo in quella spropositata dimensione, quella sì sorprendente e gioiosa, in cui lo inserisce il profeta Isaia che ascoltiamo, forse troppo distrattamente, nelle celebrazioni del Natale. «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce» (Is 9,1). Una grande luce che non trova paragone, certo, nelle luminarie che infestano allegramente i Mercatini di Natale e le vie cittadine, pur con grande dispendio di risorse pubbliche. Ci porterebbe troppo fuori tema parlare qui del perché, per esempio, le belle e nobili campagne intitolate “M’illumino di meno” per
sto edito da Jaca Book, 1984 - al tempo contrastare l’inquinamento luminoso dell’impero romano un uomo tra di loro non abbiano alcuna cittadinanza sotto viveva il comportamento di Dio. Natale. Vogliamo andare più in profondità, e parlare della ricerca che riguarda Dio ha fatto intravedere il suo volto tutti e coinvolge da sempre ogni uomo, attraverso una storia; ma il culmine, la la ricerca di un senso dell’esistenza, per totalità, la vera rivelazione di sé all’uomo l’ha fatta diventando uomo, cioè capire chi siamo, da dove veniamo, e entrando come persona nella storia: dove andiamo. Gesù Cristo. Ecco allora il volto del deTroppo difficile? Eppure si scopre stino umano, la natura del significato del l’acqua calda quando si capisce che il nostro essere – Cristo – proprio perché Natale non è una favola per bambini, al Egli è il volto del Padre. Cristo è la deficontrario, la luce che illumina il cammino nizione totale del significato dell’uomo dell’umanità risplende tutta nell’evento nel mondo. […] Cristo è il nostro destidell’incarnazione che il credente accoglie nell’annuncio del Vangelo, ma che no fatto presenza e compagnia, il Verbo riguarda assolutamente tutti e nessuno fatto carne, è il modo definitivo del può ignorare; almeno, nessuno dotato Dio insieme a noi, è il modo definitivo di un raziocinio sufficiente da porsi dell’Alleanza che Egli aveva cominciato la domanda su quale sia il vero volto con un popolo». dell’umanità. Un testo folgorante, a questo riguardo, si trova nella sterminata produzione di don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione, e in particolare in un libro intitolato proprio “Alla ricerca del volto umano”, di cui riportiamo di seguito un tratto che esemplifica e chiarisce magistralmente, rendendolo commestibile per tutti i denti, credenti oppure no, il fatto inaudito, strepitoso, sorprendente, e scandaloso, di Dio che si fa uomo. «… per 12 ebrei vissuti in Palestina FC@FABIOCARRINO.IT FABIO CARRINO.IT – scrive Giussani a V. ROMA, 61 SEDICO (BL) 389.1225857 pagina 37 di quel te-
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elle case, tra le strade e nelle scuole da sempre il Natale crea un clima di festa che alimenta il “pensiero magico” di adulti e piccolini; un momento in cui cresce il bisogno di fantasticare ed immergersi nella dimensione della favola per poter sognare. Questo tradizionale pensare vede ad oggi l’annebbiarsi in alcuni frangenti, in particolare quando il mese di dicembre incontra educatori e famiglie. Ebbene l’istituzione scolastica si trova ad affrontare le festività natalizie nel contesto della multietnicità, dove operare per
una “società delle differenze” significa far in modo che tutti possano sentirsi parte di essa. Nel tempo e nel silenzio si sono cercate formule che rispettassero la tradizione e le diverse culture, ma la questione in merito alla celebrazione del Natale nelle scuole è divenuta un problema sociale. Oltre ad essere istituzione, la scuola è esperienza personale universale che accomuna ognuno e li avvia alla vita sociale, a ciò si aggiunge il peso che ha sulla formazione della coscienza di sé e del senso comunitario, sulla promozione individuale e sull’uguaglianza delle opportunità. I ruoli che gli individui
assumono all’interno della macchina scolastica sono di fruitori e prestatori di un servizio desiderato, oggetto di domanda ed offerta: sono le decisioni dei genitori e degli studenti a determinare la domanda. Tale idea comporta inevitabilmente a vedere la struttura scolastica anche come laboratorio di convivenza; il quale nel tempo e soprattutto nell’odierno vede una cittadinanza italiana incontrarsi con la multietnicità. Il disagio è inevitabile, in quanto se prendiamo la cultura nel suo significato etnografico più ampio, la riteniamo un insieme che include cono-
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Speciale Natale scenze, arti, credenze, morale, costumi, tradizioni acquisite dall’uomo come appartenente ad una società. Giorno dopo giorno la cronaca ci parla in merito alla celebrazione del Natale nelle scuole come problema, un tema delicato legato alla tolleranza e al rispetto nei confronti di coloro che non lo ritengono consono alle proprie credenze, ma tralasciando che ogni tradizione è il filo di una trama che permette di ricostruire le identità che si sono formate nel tempo, risultato di stratificazioni e sincretismi. L’Italia, come ogni Paese, ha anch’essa un passato di storia e vicende che l’ha portata ad essere stato cattolico cristiano, per tale motivo include in sé ogni aspetto che ne deriva, Natale incluso; laicizzare le istituzioni vorrebbe dire cancellare un passato, con esso una parte di cultura stessa; ciò non toglie che l’etnia diversa debba andar contro a sua volta il proprio ideale. Infatti in questi casi non si
può parlare di assimilazione sociale, ossia di far perdere i propri tratti culturali, ma di integrazione, intesa come rendere normale e non invisibile la differenza. Le festività natalizie nell’ambito scolastico si trovano al centro di questa diatriba; gli educatori vivono il momento in prima persona, partecipi di un passato di presepi, decori e canti religiosi nelle aule a un oggi conflittuale tra il presepe sì o no, i canti religiosi no, meglio le filastrocche natalizie di Rodari e un clima di malcontento con chi la festività non vuole venga celebrata in
un’istituzione pubblica. Integrazione significa ascolto e apprendimento reciproco, ma non vuol significare “verniciare” su un passato. Il Natale oltre ad essere una festività cristiana, è questione culturale per tanto frutto di una costruzione e codificazione sociale: negare una tradizione non creerebbe incontro reciproco, ma unilaterale.
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l’Albero di Natale e le sue origini
“Non cercarlo nel libro delle scienze umane: l’albero di Natale è l’albero della magia.” Gianni Rodari inizia così una sua filastrocca e meglio non può introdurre la storia dell’albero di Natale. Simbolo di ogni Natale l’abete sempreverde dagli aghi di pino profumati, durante le festività dicembrine riempie le case di luci e colori; dai decori fatti a mano ai disegni dei bambini, dalle decorazioni pregiate dei cristalli a una mescolanza di tinteggi, ciò che è certo è che in ogni oggetto appeso rivive un ricordo e un pezzettino di noi.”
L
e tradizioni legate all’idea di addobbare un abete nelle case nel periodo natalizio, si dice non avere radici cristiane, in tale ottica venne decorato solo nell’VIII secolo dal missionario inglese Bonifacio. Quindi ancor prima del cristianesimo, la figura dell’albero compariva in riti e usi pagani di molte culture: simbolo della vita. Anticamente durante il 25 dicembre veniva festeggiato il sole che dal solstizio d’inverno rinasceva; infatti da quel giorno le giornate ricominciavano ad allungarsi, lasciando presagire il ritorno della primavera, una sorta di “vita nuova”. In particolare tra le culture orientali si dava importanza al culto del “Sol Invictus”, nelle cui celebrazioni i sacerdoti nei loro santuari annunciavano la nascita del Sole, in veste d’infante; tale rito arrivò sino a Roma, la quale venerava il dio Mitra e il simbolo legato alle celebrazioni del solstizio d’inverno era riposto proprio nella figura dell’albero, inteso come la rappresentazione della vita. La motivazione della scelta è da ricercare tra la popolazione celtica. I druidi, antichi sacerdoti dei Celti, notarono che gli abeti nel corso dell’inverno rimanevano sempreverdi, segno a loro dispetto di lunga vita; per tale ragione il popolo celtico, legato al culto delle forze della natura, videro in quest’albero un mezzo per celebrare “la luce” nel giorno del solstizio d’inverno, l’attuale notte di S. Lucia, ossia la nottata più lunga dell’anno. Nel loro culto diveniva così speranza di rinascita nel periodo buio e perciò un richiamare la luce attraverso la nascita del “Sole
bambino”. In quel tempo le palle colorate che oggi tanto abbelliscono il sempreverde erano rappresentate da frutti e dolci del tempo che legati ad ogni ramo simboleggiavano la nascita della vita: la primavera dopo l’inverno. Tra le popolazioni celtiche pare inoltre che durante la celebrazione del 25 dicembre si usava incendiare un abete o un pino in una sorta di rito propiziatorio nella notte invernale che cominciava a indietreggiare. L’idea del bruciare si dice avrebbe dato vita ai giorni luminosi dell’anno che stava per arrivare, mentre le ceneri venivano sistemate nei campi per propiziare i raccolti. La storia dell’origine dell’albero di Natale tra il paganesimo e il significato religioso viaggia da cultura a cultura con una connotazione positiva, il segno della vita o della luce serve a simboleggiare un qualcosa di buono. Nella tradizione cristiana si dice che l’abete abbia preso una valenza religiosa quando San Bonifacio si rivolse ai pagani: «Questo piccolo albero, un giovane figlio
della foresta, sarà il vostro sacro albero questa notte. È il legno della pace, poiché le vostre case sono costruite di abete. È il segno di una vita senza fine, poiché le sue foglie sono sempre verdi. Osservate come punta diritto verso il cielo. Che questo sia chiamato l’albero di Cristo bambino; riunitevi intorno ad esso, non nella selva, ma nelle vostre case; là si compiranno doni d’amore e riti di bontà.»
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Speciale Natale di Elisa Corni
La RENNA tra campanelli e nasi rossi
Sono le inseparabili aiutanti di Babbo Natale con i campanellini e le briglie; sfrecciano nel cielo la notte di Natale con il loro carico di doni e pacchetti. Sono le renne che sopravvivono in ambienti estremi e fanno parte dell’immaginario di tutti i bambini.
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orse la più famosa è Rudolph, la renna dal naso rosso. La sua è una storia a lieto fine: inizialmente non riesce a trovare spazio nella squadra della slitta ed è derisa dalle colleghe a causa del suo naso; ma è proprio la sua luminescenza che le fa guadagnare il posto d’onore, in testa alla squadra: solo così anche con le tempeste di neve più tremende, Babbo Natale riesce a trovare la strada e consegnare i regali. Ma ognuna delle nove renne del babbo ha un nome e una
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peculiarità: ad esempio c’è Donato, il cui naso sgocciolante fa cadere a terra piccoli fiorellini; Fulmine che protegge i doni dai ladruncoli e Freccia, che alla fine dell’inverno perde i crini dorati e li regala ai bambini poveri. Rudolph è protagonista della storia che lo riguarda, trasposta in cartoni e film, ed è stato inserito nella squadra nel 1939 da Robert May che scrisse un libro per bambini con protagonista Rudolph; la renna dal naso rosso doppiò il successo dieci anni dopo con la canzone
“Rudolph the red-nose Reindeer” di Johnny Marks. Al contrario, le sue otto colleghe hanno qualche anno in più sulle spalle. A dar loro un nome fu il poeta Clement Clark Moore nel 1823 con la poesia “A Visit from St. Nicholas” nella quale battezza le renne di Babbo Natale. A quasi due secoli di distanza, a quanto pare, le renne hanno ancora qualcosa da raccontare. Lo testimonia il toccante docu-film “Ailo - Un’avventura tra i ghiacci”, film del 2018 e uscito nelle sale italiane
Speciale Natale da poco riscuotendo un buon successo al botteghino. Sulla scia de “La marcia dei pinguini”, anche in questo caso il film racconta la storia di un animale mescolando così fiction e realtà; in questo modo anche i più piccolini portano a casa informazioni e conoscenze scientifiche seguendo le vicende di Ailo, una piccola renna. Doppiata da Fabio Volo, Ailo conduce lo spettatore attraverso il suo primo anno di vita, per scoprire qualcosa di più sulle renne ma anche sull’ambiente naturale che questi spettacolari animali vivono. Per cominciare le renne sono diffuse in diversi continenti. In Nord America le chiamano anche Caribù, ed è un cervide, parente quindi di cervi e caprioli. A differenza che nei loro cugini più meridionali, nelle renne il palco di corna, coperto da una sottile e morbida pelliccia, detta “velluto”, è presente in entrambi i sessi. Una caratteristica di questi animali è che il naso è all’interno delle narici molto ampio, in
modo tale da scaldare l’aria prima che questa arrivi gelida nei polmoni. Altra peculiarità è la forma degli zoccoli che deve necessariamente adattarsi a condizioni climatiche ed ambientali estremamente diverse: in inverno gli zoccoli mettono in luce un bordo affilato in grado di penetrare nel ghiaccio e nella neve dura. Quando la bella stagione arriva emergono i cuscinetti plantari morbidi e spugnosi, adatti a muoversi nella tundra soffice e umida. Nonostante sia un animale molto diffuso è un animale “a rischio”. Un po’ per la caccia ma anche per la riduzione del loro habitat che non è stato salvato dall’antorpizzazione. Infine i cambiamenti climatici
stanno mettendo a dura prova la vita di questi animali. Tutti ci ricordiamo della foto scattata a Rovaniemi, in Lapponia, dove nell’estate del 2018 le renne facevano il bagno assieme a donne in bikini e bambini con paletta e secchiello. Non sono più belle nella neve, che è il loro habitat naturale?
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La cometa che porta la vita
È
tempo di Natale e di stelle comete, ma da dove deriva il termine cometa? E in cosa consiste questo corpo celeste? Il suo nome deriva dal greco e significa letteralmente “dotato di chioma”, perché già nell’antichità la sua coda era paragonata ad una fluente capigliatura dorata. Pare che la loro origine sia antichissima, si ritiene infatti che le comete siano residui rimasti in seguito alla condensazione della nebulosa, che contribuì a formare il Sistema Solare. La cometa assomiglia ad un asteroide, ma è composta principalmente di biossido di carbonio, metano, anidride carbonica e ammoniaca ghiacciati, mescolati a polveri e minerali. Ecco perché lo stesso Fred Whipple ideatore di quella che è oggi la teoria cometaria più in voga, le soprannominava “palle di neve sporca”. Eppure i nuclei cometari sono tra gli oggetti più neri, anche più del carbone che si conoscano nel Sistema solare. Queste le scoperte effettuate dalle sonde Giotto e Deep Space, che indicano un bassissimo indice di riflessione dei nuclei che si aggira tra il 2,4% ed il 4%; significativo che l’asfalto stradale rifletta di più, per l’esattezza il 7% della luce incidente. Le dimensioni del nucleo di una cometa variano tra alcune centinaia di metri, per giungere sino a cinquanta e più chilometri. La cometa è a noi visibile soltanto quando si avvicina al Sistema solare interno, è la vicinanza al sole, che fa si che si attivi il processo di sublimazione, che a noi appare
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come una scia di luce. E questo strascico di luce, che contraddistingue le comete, è possibile grazie al vento solare, che accresce la sua coda alimentando il processo di ionizzazione dei gas. Non tutte e non sempre visibili ad occhio nudo, di tanto in tanto è possibile assistere ad un’enorme e improvvisa esplosione di gas e polveri, per cui si usa il termine inglese outburst. Era il novembre 2007, quando ciò avvenne per la Cometa Holmes, la cui chioma si stima abbia avuto un diametro di 1,4 milioni di km, lo stesso del Sole. Le comete a volte perdono la coda e si è scoperto che emettono raggi x. La maggior parte delle comete ruota attorno al sole, procedendo lungo orbite ellittiche che consentono loro di avvicinarsi periodicamente al Sole e la loro classificazione avviene proprio in considerazione della lunghezza del periodo orbitale. Quindi è possibile prevedere con esattezza l’arrivo, o meglio il ritorno di una cometa. Esistono però anche comete
extrasolari, definite in inglese come “Single-apparition comets”, cioè letteralmente “comete da una singola apparizione”, perché dopo essersi avvicinate al sole, escono dal Sistema solare per non farvi più ritorno. Vi sono poi le comete radenti, che sfiorano la superficie del Sole, esse hanno vita breve perché le forti radiazioni, determinano la sua rapida evaporazione. Le comete a causa dei ripetuti passaggi in prossimità del Sole, vengono a poco a
Speciale Natale poco private degli elementi volatili, sino a che non si può più formare la coda. Il materiale roccioso residuo, può tramutarsi in polvere o se compatto, prosegue la sua nuova vita in veste di asteroide. Non a tutte le comete spetta la stessa fine, alcune di esse vengono distrutte a causa di collisioni, come avvenne nel 1908, quando una cometa si schiantò sulla terra, nella taiga siberiana abbattendo migliaia di km2 di foresta, fatto ricordato come l’evento di Tunguska. Quando la Terra si trova sulla stessa traiettoria di una cometa in concomitanza di una nube, si ottiene uno sciame di stelle cadenti, come le assai note “lacrime di San Lorenzo”che sono visibili nel mese di agosto. La più famosa delle comete è sicuramente quella di Halley, che appare per la prima volta nel 240 a.C. ad alcuni astronomi cinesi. Le sue radici paiono rintracciabili persino nel Talmud, lo scritto ebraico riporta l’osservazione del rabbino Yehoshua ben Hananiah, che potrebbe avere visto il suo passaggio nel 66 d.C. : “esiste una stella che appare una volta ogni settanta anni, e rende confusa la volta celeste inducendo in errore i capitani delle navi”. Ma il nome della cometa deriva da Edmond Halley, che per primo individuò la periodicità di questa apparizione, predicendone il ritorno a distanza di 76 anni. Le comete sono spesso state interpretate come segno premonitore, così avvenne nel 1066, quando apparve quale presagio
della morte di Aroldo II d’Inghilterra nella Battaglia di Hastings; tale episodio appare rappresentato sull’Arazzo di Bayeux. Anche Giotto, nella Cappella degli Scrovegni a Padova, dipinge una stella cometa sopra la scena della Natività, non più la stella a tre punte, emblema della trinità. L’artista aveva visto con i suoi occhi la Cometa di Halley, nel suo passaggio tra il 1301 ed il 1302. Ravvicinato il passaggio della cometa nel 1910, che per la prima volta viene fotografa con i suoi spettacolari effetti visivi, prima che la terra passasse attraverso la sua coda. Anche lo scrittore Lev Tolstoj, lascia testimonianza di questo avvenimento nel suo diario: «La cometa sta per catturare la Terra, annientare il mondo, e distruggere tutte le conseguenze materiali della mia attività e delle attività di tutti. Ciò prova che tutte le attività materiali, e le loro presunte conseguenze materiali, sono prive di senso. Solo ha un senso l’attività spirituale…». Per chi ha pazienza di attenderla e nella speranza di un buon presagio, la cometa
di Halley ritornerà nel 2061. Scoperte recenti indicano che all’interno delle comete, vi siano lunghe molecole organiche, di ammine, che possono essere considerate i precursori degli esseri viventi. E quindi proprio una stella cometa, potrebbe essere all’origine della vita sulla Terra.
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Speciale Natale di Elisa Corni
Feste invernali nell’antichità Il Natale è forse la festa più sentita, che nel corso dei secoli ha portato con sé la nascita di nuove tradizioni: dal presepe che vede le sue origini nel Medioevo, al rosso Babbo Natale, frutto del marketing degli anni Sessanta. Secondo il calendario liturgico, invece, questa è una delle più importanti festività religiose della religione Cristiana. Non solo per la nostra cultura e tradizione dicembre è un mese importante: festività di ogni genere si riscontrano in ogni luogo e tempo in questo periodo dell’anno. Comprendere le festività dell’antichità ci aiuta, oggi come oggi, a scovare le radici delle festività odierne.
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rendiamo ad esempio le tradizioni culturali e religiose di epoca romana; gli abitanti della Città Eterna il 25 dicembre celebravano l’importante ricorrenza del Natale del Sol invictus, ovvero del Sole invitto - secondo alcune fonti poteva trattarsi anche del 19 o del 20 dicembre. Ma chi era? Secondo gli storici con maggior probabilità si trattava di Helios, il dio del Sole. Attorno a lui si sviluppò il culto solare romano molto in voga soprattutto dopo il 272 d.C. quando l’imperatore Lucio Domizio Aureliano ringraziò per la vittoria contro la regina di Palmira il dio Sole che avrebbe giocato un ruolo decisivo in questo scontro. In epoca più antica il 25 dicembre si celebrava la nascita del dio Mitra, una divinità così importante da essere comu-
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ne a diverse religioni: quella persiana, all’induismo e quelle di epoca romana più antica. Il suo culto fu attivo soprattutto tra il I secolo a.C. e il V d.C. Ovviamente ognuna di queste società interpretò in modo differente questa complessa divinità, ma in comune tutte ne celebravano la nascita proprio in quel fatidico giorno di dicembre, secondo quanto scoperto dagli studiosi. Ma le nascite di queste divinità non sono le uniche celebrazioni importanti del mese di dicembre nel corso delle diverse epoche: moltissime culture e religioni individuano nelle giornate alla fine dell’anno momenti di festeggiamento e rinascita. Attorno al 20 dicembre le antiche religioni pagane diffuse in tutta Europa prima dell’avvento del cristianesimo celebravano il solstizio d’inverno a modo loro. Ad esempio c’erano i saturnali romani: cinque giorni di grandi banchetti e sacrifici per celebrare il dio Saturno. La caratteristica principale di queste festività era il sovvertimento dell’ordine sociale: per un breve periodo la società romana viveva all’incontrario, con gli schiavi che la facevano da padroni e i nobili sottomessi alle classi inferiori per placare le divinità annoiate dalla scarsa attività tipica dei mesi invernali, improduttivi, freddi e poco adatti al divertimento.
Al nord, la tradizione precristiana germanica celebrava con il 21 dicembre la divinità celtica di Yule. Non sappiamo molto su questo culto, se non che la popolazione festeggiava con danze e lunghe giornate di riposo dedicate a questa divinità patrona della rinascita. Ma anche uscendo dal vecchio continente incontriamo momenti di celebrazione dicembrini. È il caso ad esempio Donghzi, una festa tradizionale cinese. Fin dalle prime dinastie a dicembre si commemoravano gli antenati. Oppure del Katik Poornima induista; e poi c’è la Yalda iraniana: da sempre nella notte più lunga le popolazioni della Persia festeggiano la vittoria della luce sul buio in compagnia dei propri cari. Molto probabilmente la coincidenza di questi eventi si deve proprio al fenomeno astronomico del solstizio: dopo mesi e mesi in cui le giornate si sono sempre più accorciate, finalmente il sole rinasce dando a tutti una nuova speranza!
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Scrivete nello schema le parole corrispondenti alle definizioni e formate dalle lettere elencate. Partendo dalla prima parola, la successiva conterrà le stesse lettere, meno una. Dopo la strozzatura della clessidra, le parole sono formate da lettere che per le definizioni successive aumentano sempre di una lettera rispetto alla precedente parola. A gioco ultimato, tutte le lettere date dovranno essere consumate. Leggendo di seguito quelle nelle caselle colorate, si otterrà il nome di un latticino.
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A gioco risolto, leggendo di seguito le lettere nelle caselle a sfondo colorato, si otterrà il nome dei Santi Patroni della diocesi di Belluno-Feltre.
aa bbbbbbb ccccccc iiiiiiiiiiiiiiii nnnnn ooooooooo rrrrrrr sssssss ttttt uuuuuu 1. Movimento intenso e vorticoso di aria - 2. Abbronzato, di colore scuro - 3. La città di Raffaello - 4. Ci sono quelli Fruttiferi Postali - 5. Lo sono cirri e nembi - 6. Oscuri e tenebrosi - 7. La seconda su 21! - 8. Lo iodio per il chimico - 9. L’ultima nota - 10. Un’incognita algebrica - 11. Si dividono i profitti dell’impresa - 12. I conterranei di Napoleone Bonaparte - 13. Visti di sfuggita - 14. A volte vi ci si trova una perla - 15. Si usa per spolverare.
ORIZZONTALI: 1. Insieme di baracche ad uso abitativo, favela - 9. Si ripetono nel papavero - 11. Dare il via, cominciare - 12. Il plurale di tu - 13. La città con la bora (targa) - 14. Somme ottenute da vendite di merci - 17. Dieci senza capo e senza coda! - 18. Il floppy disk... italianizzato - 19. Il Passo d’Aune lo è di nome e di fatto per i ciclisti - 21. Le separa la S - 22. Negli USA è la capitale dell’Oregon - 24. La stella più vicina alla Terra - 26. Continuare, tirare avanti - 30. Col suo latte, nel Trevigiano-Vicentino-Feltrino, si produce da secoli il formaggio Morlacco - 32. Io... a Paris - 33. Il re della Tavola Rotonda - 34. Felino dalla vista acutissima - 35. Articolo romanesco - 36. Il dio Egizio del Sole - 37. Articolo per bambine - 38. Una marca di sigarette italiane della fine degli anni ‘30 - 39. Comune friulano che... è collegabile a Cortina - 43. Nuoro - 44. Congiuntamente - 48. Un deposito della nave - 49. La bomba col fungo.
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VERTICALI: 1. La prima consonante - 2. Non frazionata - 3. Dimostrazione di infondatezza di un’accusa - 4. Un famoso mago della letteratura per ragazzi - 5. Il nichel (sigla) - 6. Molteplici, diversi - 7. Rete televisiva e fiore - 8. Il principale capoluogo salentino - 9. E’ lungo 652 km - 10. L’uccello nel gonfalone di Quero Vas - 12. Uno storico cittadino di Feltre - 15. Un’esclamazione di stupore - 16. Il territorio con Viareggio - 17. Un’ incognita algebrica - 18. Nel suo ambito, il potere è esercitato dal popolo - 20. Frugare, indagare - 23. Agli astrofili è nota quella a Testa di Cavallo - 25. Famoso panno per bambole fatto in lana infeltrita - 27. La Società Alpinistica Tridentina (sigla) - 28. Il poeta ermetista di M’illumino d’immenso (iniz.) - 29. L’indirizzo completo di un sito in Internet - 30. Liquore a base di vino che contiene erbe e/o estratti, tra i quali quello che in tedesco gli dà il nome - 31. Le prime due vocali - 32. Pantaloni unisex che ricordano Genova - 40. Lo zinco per il chimico - 41. E’ colpevole di un misfatto - 42. Animale da cortile - 45. L’Italia nel Web - 46. Il millimetro in breve - 47. La prima parola del Cinque Maggio.
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QUESITO A SCHEMA
A gioco risolto, leggendo di seguito le lettere nelle caselle a sfondo colorato, si otterrà il nome del più noto salto idrico presente lungo la Valle del torrente Centa. (CASCATA DEL VALIMPACH)
QUESITO A SCHEMA: IL CALCIATORE
QUESITO A SCHEMA
ORIZZONTALI: 1. Gioco di parole non facilmente pronunciabili - 11. Il Ramazzotti cantante - 12. Un'immaginetta sul desktop - 13. Esteso insediamento urbano - 15. Il West per gli italiani - 18. Acquisire, procurarsi - 21. Il cammino 1 della pratica Batte in petto si perde2 inB un pagliaio, E - 22. SulVviso, alcuni O sono vezzosi C - 23. A R - 25. SeE Anon lo 1si trova più! 26. Un dottore in breve - 27. Prendere... a Roncegno! - 28. Tante sono le "z" in Caldonazzo - 30. La prima e l'ultima di Wilson - 31. Si ripetono nei noiosi - 32. Vale acetone se letta da destra a sinistra - 33. La targa di Aosta - 34. Palla in 3 G E N U F italo-francese che C I N O rete! - 36. La provincia di S. Benedetto del Tronto - 37. Mille e cinquanta romani - 38. Grande attore sposò Simone Signoret (iniz.) - 39. Targa del Capoluogo irpino - 41. Mitico, valoroso - 43. Quella centrale porta all'altare L maggiore -E 46. CuoreSdi goldenS- 47. Situata - 49. G più profonda I OLo SvevoVscrittore - 50. Il più A nella4 parte famoso Edgar Allan - 51. Preposizione semplice - 52. Si ripetono nell'arsenale - 53. Dopo di lui iniziano le riprese e si 5 gira - 55. A Stazione diN fermata ferroviaria dismessa Strigno e Grigno. I N C O T fraT I VERTICALI: 1. Ha una sorella o un fratello maggiore di lui - 2. Principio, metodo adottato nell'agire - 3. La Nilde, 6 R e rossi E - 5. In quel L posto - 6. Il primo I eletta alla S Presidenza I della Camera V dei O prima donna Deputati - P 4. Serve bianchi sfortunato volatore - 7. Articolo per scolaro - 8. Sono pari nel pianto - 9. Hanno tutte almeno un'ancora - 10. Diletta o 7 città ai piedi del Conero - 16. Aumenta giorno dopo giorno! - 17. appassionaI chi si reca a Celado, nel Tesino 14. La P A R A L E V O Un particolare monopattino a ruote parallele - 19. Donna di Trento o di Oslo - 20. Piccolo laghetto in alta Val dei Mocheni - 24. Filosofo greco considerato Si beve con i pasticcini - 29. A inizio e fine E matematica N - 27. E Z I U M E 8 Vil padre della dell'epidemia - 35. Terra liquida bollente - 40. Non esiste solo la Sugana! - 42. Temuta malattia della vite - 44. Asti - 45. Testa e coda di topo 9 - 48. Ne' tua ne' sua - 50. Quel di Carota è famoso - 52. Sigla dell'Associazione internazionale che 9 P dal bereE- 53. La targa... T etneaR- 54. SiglaOdella Svizzera. L I F Adipendenza aiuta chi ha
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Il numero di dicembre di Feltrino News è stato chiuso in redazione il 4 dicembre 2020
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