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In filigrana: l’Italia non è un paese per giovani
In filigrana di Nicola Maccagnan
L’Italia non è più (da tempo) un Paese per giovani.
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Inumeri dell’ultimo rapporto annuale dell’ISTAT sono impietosi e parlano chiaro, a meno che - esercizio non raro in Italia - qualcuno provi a mischiarli e reinterpretarli dando loro una direzione a piacimento. Questa volta è però onestamente difficile. Di quali numeri stiamo parlando? Di quelli che disegnano la situazione demografica del nostro Paese in uscita dal primo biennio di pandemia. L’emergenza sanitaria, e tutto quello che ne è conseguito, hanno di fatto accelerato, “stressato” e potenziato alcune dinamiche già in atto da anni e ora arrivate a livelli a dir poco preoccupanti. Numeri, dicevamo. Secondo il rapporto dell’ISTAT, al 1° gennaio 2022 la popolazione residente in Italia è scesa a 58 milioni e 983 mila unità, cioè 1 milione e 363 mila individui in meno rispetto a 8 anni fa! C’è un dato però, a mio modo di vedere, ancora più preoccupante. Ad oggi risultano infatti residenti nel nostro Paese 188 persone di almeno 65 anni ogni 100 giovani con meno di 15 anni, 56 in più rispetto a vent’anni fa; e - udite udite! - con il previsto ulteriore incremento degli anziani rispetto ai giovani, la proporzione raggiungerà al 1° gennaio 2059 - secondo le stime più recenti - il picco di 306. Proviamo a tradurre, per renderci tutti più consapevoli di quanto stiamo vedendo. Tra meno di 8 lustri nella nostra popolazione vi sarà un solo ragazzo al di sotto dei 15 anni ogni 3 “ultra-maturi” over 65 (la parola “anziano” mal si addice, oggi, a persone spesso ancora in piena attività fisica e – talora – anche lavorativa). “Ecco gli effetti della pandemia da Covid-19!”, sentenzierà qualcuno. Le persone si sono rinchiuse, i contatti diradati, le famiglie nascenti sterilizzate e la paura del futuro ha fatto il resto. Evidentemente non è così, o, quantomeno, non è solo così. Le dinamiche fortemente negative sul nostro trend demografico sono in atto già da parecchio tempo, almeno dal 2014 per quanto riguarda questa fase, sottolinea l’ISTAT. Certo, la pandemia ha avuto un impatto rilevante. L’elevato incremento di mortalità registrato nel 2020 è stato accompagnato dal quasi dimezzamento dei matrimoni per effetto delle misure anti-Covid e dalla forte contrazione dei movimenti migratori, con pesanti ricadute sulla natalità che si sono viste soprattutto a inizio 2021. E i primi dati provvisori del 2022 mostrano
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una nuova repentina spinta al ribasso: nel primo trimestre di quest’anno si contano circa diecimila nati in meno rispetto allo stesso periodo del biennio pre-pandemico 2019-2020. Il fatto che deve far riflettere è che tutto questo accade mentre nel panorama europeo, Spagna a parte, la Francia e, soprattutto, la Germania hanno registrato nel 2021 incrementi di natalità particolarmente significativi, anche rispetto agli andamenti precedenti la pandemia. E così continua a diminuire il tasso di natalità e a crescere, per converso, l’età media delle madri alla nascita sia del primo figlio che degli (eventuali) successivi (a questo riguardo vi risparmio una sfilza di numeri che potrete trovare agevolmente nel rapporto dell’ISTAT). E a contenere questo trend non basta più neanche la storica vivacità portata alle statistiche dai cittadini migrati o stranieri, le cui curve sembrano oramai appiattirsi negli ultimi anni sui fiacchi ritmi italici. Insomma, “riassunto dei riassunti”: in Italia si nasce sempre meno, la popolazione è destinata a calare e ad invecchiare progressivamente e nemmeno la componente straniera riesce più a mettere una pezza a questo declino. E qui si pongono tre quesiti che aprono altrettante praterie di discussione: “Quali sono le ragioni di tutto questo?” e poi “Con quali effetti?” e soprattutto “Quali i rimedi?”. Non è qui il luogo di sondare le complicate dinamiche economiche e sociali che stanno all’origine del fenomeno - orami non più nuovo - della de-natalità nel nostro Paese, che lasciamo a penne più esperte e titolate. Né la questione si risolve solo nell’oramai consueta e un po’ meschina domanda: “Chi pagherà domani le nostre pensioni?”. Lasciateci però fare una considerazione e porre un interrogativo. La prima consiste nella constatazione, triste, che per sostenere la famiglia – oggi nella sua molteplicità di forme e declinazioni, anche legalmente riconosciute – servono ben altri strumenti da quelli “pensati” dalla politica dei nostri tempi. Altro che bonus-bebé o mancette per acquistare i seggiolini, qui c’è bisogno di ben altro per sostenere coppie alle prese con una realtà quotidiana fatta di impeghi, specie in giovane età, spesso precari o sottopagati, non certo sufficienti a realizzare un progetto di vita stabile. Poi l’interrogativo che, ahinoi, è ancora più inquietante. Siamo sicuri che la famiglia (ripeto, variamente e modernamente intesa e declinata) rappresenti ancora il fondamento della nostra società? Oppure è un modello entrato profondamente in crisi, a causa di una serie di fattori che vanno, oltre la questione economica, dall’individualismo dilagante alla perdita dei riferimenti, etici e non solo, delle generazioni passate? Se per il giovane di qualche decennio fa uno dei primari obiettivi di vita era “farsi una famiglia”, possiamo dire che oggi sia ancora lo stesso? O altri valori-obiettivi hanno scalzato il desiderio di progettare un percorso che preveda come nucleo centrale proprio la nascita dei figli? Perché se così è, e personalmente almeno in parte ne sono convinto, la questione non è più soltanto economica o di strumenti di sostegno, ma diventa di respiro molto più ampio, per molti versi disorientante… Con esiti che francamente facciamo fatica a prevedere, sotto molti punti di vista. O che abbiamo timore a immaginare. Facciamo figli perché “non ce li possiamo permettere” (espressione orrenda, lo so, ma che rende l’idea) o perché non li vogliamo più?