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Racconti d’Arte: il pupazzo di neve

Storie di guerraRacconti d'arte di Daniela Zangrando*

PUPAZZO DI NEVE

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Mi è sempre piaciuta l’opera di cui parliamo oggi. Un’opera nevosa, che non può che tornare in mente in inverno. Guardatela. Si intitola Snowman, ed è un vero e proprio pupazzo di neve alto quasi due metri. È il lavoro dei due artisti svizzeri Peter Fischli (1952) e David Weiss (1946-2012), che hanno portato avanti un dialogo e una collaborazione intensissima per oltre trent’anni. La scultura è composta da tre palle di neve messe una sopra l’altra. La più piccola, posta in alto, ha due fori per gli occhi e uno per la bocca. Il pupazzo è inserito in una sorta di cella frigorifera chiusa da una porta a vetro, che gli permette di sopravvivere a tutte le stagioni dell’anno, rimanendo sempre congelato. Inizialmente l’opera è stata sviluppata tra il 1989 e il 1990, per una mostra site specific a Saarbrücken, in Germania: agli artisti era stato chiesto di realizzare un intervento per un sito che si trovava vicino ad una centrale termoelettrica appena entrata in funzione, e avevano deciso di immaginare qualcosa che dipendesse dall’energia stessa della centrale, un pupazzo che potesse vivere dell’energia residua, invertendone quasi ironicamente di segno il calore in uscita, trasformandolo in gelo. Non pienamente soddisfatti dall’esecuzione del lavoro, Fischli e Weiss hanno iniziato a covare il desiderio di far diventare un’opera il pensiero di quel primo intervento. Qualche anno dopo hanno creato il progetto di massima di Snowman su richiesta del Walker Art Center di Minneapolis, ma tutto si è fermato sulla carta ed è solo nel 2016 che la scultura ha trovato la sua piena realizzazione, in quattro copie che hanno viaggiato dal MoMA di New York all’Art Institute di Chicago, e poi ancora in Svizzera alla Fondazione Beyeler. Perché mi piace? – vi chiederete a questo punto. Guardatela ancora. Immaginate, ad esempio, di trovarla in mezzo ad un parco. Potreste tirar dritti? Non vederla? Non credo. Lanciare un’occhiata al pupazzo di neve offre all’occhio una sorta di sensazione confortante, fa rallentare il passo, spuntare un sorriso. Credo che potremmo chiamare questo conforto un cambio di prospettiva. La presenza del pupazzo ci mette nella condizione di bambini, e anche se il vestire questi panni ci trattiene solo per un istante, non può essere che sorprendente. E da quella prospettiva infantile, che si sia nati in zone calde o fredde, che si abbia giocato da bambini con la neve o meno, ci si troverà a fantasticare di essere con sciarpa e berretto a compattare la neve appena caduta per costruire un buffo personaggio senza braccia, con buchi al posto degli occhi e una linea curva come bocca. Non vi sfuggirà di certo un ulteriore livello dell’opera. Si tratta di un pupazzo messo in un frigorifero, appoggiato su una base di rame. La semplicità di cui abbiamo appena parlato, quella di un gesto legato al mondo dell’infanzia, nasconde in realtà una complessità tecnologica notevole per consentirne l’esistenza durante tutto il corso dell’anno. Sembra quasi che questo personaggio sia tenuto in vita a forza. Non può sciogliersi. Non gli è data la possibilità di seguire il corso delle stagioni, la variazione della temperatura esterna. Non può morire. È vittima di un tempo che rimane sempre uguale a se stesso, aprendo i pensieri ad un mondo in cui si congelano gli ovuli come “policy assicurativa” – come descritto efficacemente qualche settimana fa da Mara Accettura su D di Repubblica – dove si firmano contratti per congelare corpi e cervelli scommettendo su un futuro risveglio, dove i panorami e le implicazioni etiche e filosofiche sono in continua messa in discussione. Non posso però fare a meno di soffermarmi sul sorrisetto ironico del pupazzo, che pare saperla lunga, e anticipare le

possibilità che Fry della sitcom Futurama sonda svegliandosi nel 3000 dopo essere caduto nel 1999 in una capsula per il sonno criogenico, andando a consegnare una pizza a domicilio in un laboratorio. Non possiamo ignorare un altro aspetto di questo pupazzo di neve. Dipende nel modo più totale dall’energia – quella elettrica o, solo nel caso dell’opera acquisita dalla Fondazione Beyeler, solare – e questa sua dipendenza lo rende commovente e anche un po’ inquietante alla luce della crisi climatica che stiamo vivendo. Abbiamo visto tutti durante le ferie natalizie amici caricare storie Instagram definendo Catania “la nuova California”, o fare trekking in Liguria in canotta e pantaloncini corti, o mettere i piedi a mollo al mare in Abruzzo. Abbiamo avvertito anche in luoghi di montagna un vago sentore di primavera. E sappiamo che tutto questo non è più un’eccezione. Riguardo ancora per un’ultima volta Snowman, prima di chiudere. Così umano in fondo. Criogenizzato. Sottomesso all’energia per esistere. Pieno di contraddizioni. Indubbiamente accattivante, fosse lì anche solo per farci vedere com’era un tempo la neve, nel caso non ne cadesse più.

Daniela Zangrando è Direttrice del Museo d'Arte Contemporanea Burel di Belluno

ONGARO CLAUDIO

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