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La politica della penisola
L'Italia allo specchio di Caterina Michieletto
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Nessun uomo è un'isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo di continente, una parte del tutto; se una sola zolla di terra viene portata via dal mare, l'intera Europa ne è sminuita, come se si trattasse di un intero promontorio, di una intera tenuta di un nostro amico o nostra. La morte di qualsiasi uomo ci sminuisce, poiché noi siamo parti pulsanti dell'intera umanità; e quindi non mandare mai a chiedere per chi suona la campana e chi sta chiamando; sei tu che lei continuamente chiama. (Meditazione XVII John Donne)
Quando il poeta, religioso e avvocato inglese John Donne partorì questa riflessione, probabilmente ignorava la fortuna letteraria che avrebbe avuto questo sermone e la modernità del suo significato. J. Donne non si rivolgeva ad un singolo individuo, ma la sua volontà era depositare un messaggio universale nel destinatario e nel contenuto, perché rivolto all’umanità di ogni tempo e di ogni luogo e perché espressione di un valore di unità sociale, ossia il senso civico. Ebbene il senso civico e il dovere di solidarietà sono stati lo scudo con il quale difendersi dall’emergenza pandemica. L’Italia, intesa come comunità-Stato, ha dimostrato che il proverbio “l’unione fa la forza” non è soltanto uno slogan propagandistico, ma è un dovere sociale che appartiene a ciascuna persona allontanando provocazioni, divisioni e strumentalizzazioni.
Se quanto detto è vero, perché proporre una riflessione sul senso civico e sulla funzione della politica? Perché le virtù civiche sono come il fuoco del caminetto che ci scalda durante l’inverno: per continuare a produrre calore quella fiamma dev’essere costantemente alimentata con la legna e possibilmente con legna buona che brucia lentamente. Allo stesso modo il senso civico per crescere e consolidarsi dev’essere regolarmente incoraggiato e motivato con l’attenzione e l’unità da parte delle istituzioni politiche, specialmente a fronte di congiunture economiche e sociali difficili. Le manifestazioni che hanno reso incandescenti le piazze italiane, il record negativo di astensionismo alle elezioni amministrative in Italia (1 cittadino su 2 ha votato) impongono di mettere a fuoco cosa si è rotto nel rapporto tra una parte della cittadinanza e la politica. Quello che è emerso vistosamente è stato il prepotente sopravvento dell’ideologia nelle piazze di Roma e Milano e Trieste e la crisi della rappresentanza politica alle urne. Credo che ambedue i fenomeni, pur nella loro diversità, siano legati dal medesimo fattore: la frammentazione e la contraddittorietà della politica. Quando il baricentro del discorso politico, di qualsiasi fazione, si sposta da un’idea ad un’ideologia, perde il fondamento di ragione e sfocia in una “crociata” a favore della propria causa ideologica. Questo è vero tanto nell’ala estrema della Destra quanto nella frangia radicale della Sinistra, perché la matrice è la medesima: la resistenza a qualsiasi regola percepita come un’imposizione alla propria libertà e non come un presupposto necessario per la governabilità e l’ordine all’interno di un Paese. Gli estremi si toccano. C’è poi una corposa fetta di cittadinanza che già da tempo ha perso ogni fiducia nella capacità della politica di rispondere alle problematiche economiche, sociali e di pubblica sicurezza. Queste persone non credono più che
il proprio voto possa incidere nelle decisioni pubbliche, che possa determinare il cambiamento che si rinnova nelle promesse delle campagne elettorali. Come risvegliare il “sonno dogmatico”? Come riportare fiducia nei cittadini? Come restituire credibilità alla politica? Nel pormi e tentare di rispondere a queste domande ho incrociato la lettura sul conflitto arabo-palestinese del libro “Contro il fanatismo” dello scrittore israeliano Amos Oz (1939-2018). Amos Oz cita testualmente il sermone di J. Donne e aggiunge: “siamo tutti delle penisole, legati per metà alla famiglia e agli amici, alla cultura e tradizione e al Paese, alla lingua e a molte altre cose”. Essere penisole significa vivere ricercando la misura tra noi stessi e gli altri, il compromesso tra i diritti propri e quelli altrui, essenzialmente “vivere sapendo che la propria libertà finisce dove inizia quella degli altri”. È questo il pilastro dello Stato di diritto, dello Stato che fa in modo che ciò che è giusto diventi forte e non che ciò che è forte diventi giusto. Nella metafora della penisola è possibile cogliere l’autentico significato di quella che Aristotele, alla fine del IV sec a. C. chiamava “politica”, intesa come “l’arte del saper vivere insieme”. “L’uomo è un animale sociale” scriveva Aristotele e nella misura in cui la vita associata è un’esigenza connaturata all’essere umano, si può dire con certezza che “l’uomo è un animale politico”. Dunque, in questi termini, la politica non era semplicemente un fatto individuale, ma per sua natura una questione sociale, che riguardava tutti e tutto: era una chiamata sociale che esigeva una risposta corale. La politica lasciava spazio al singolo, ma non al suo egoismo, al confronto costruttivo, ma non alla discussione selvaggia, perché in ogni cosa il fine era il “giusto mezzo”, ossia il punto di incontro tra opinioni opposte. “Lo scopo della vita etica è la politica”, e l’etica per Aristotele era esattamente la virtù del giusto mezzo, la ricerca dell’equilibrio. La socialità dell’uomo, il saper vivere insieme, cioè la politica, l’etica del giusto mezzo sono la base di quello che definiamo “senso civico”: quell’insieme di comportamenti e di azioni che si riferiscono al rispetto degli altri e l’adesione ad un sistema di regole condivise.
Italia allo specchio
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