3 minute read
Punto & a capo
di Waimer Perinelli
Draghi non è Robin Hood
Advertisement
“Un pare no’l dise vuto? el dise ciapa”; così in una battuta di una celebre commedia di Carlo Goldoni che tradotta significa, “un padre non dice vuoi? ma dice prendi”. Quest’idea del 1747 è la testimonianza di quello che dovrebbe essere la generosità fra padri e figli e che Mario Draghi che, come si dice, amministra come un buon padre di famiglia, sintetizza in: è tempo di dare non di prendere.
Enrico Letta, segretario del Partito Democratico, il più grande della sinistra e parte integrante della maggioranza di governo non la pensa allo stesso modo e riprendendo un antico disegno ha proposto un prelievo forzato dai ricchi per donare un contributo ai diciottenni per avviarli all’impresa. L’idea è quella di tassare i capitali delle successioni e donazioni superiori ai 5 milioni di euro con un’aliquota progressiva che dall’attuale 4% arrivi fino al 20% esentando dalla quota un milione. Il pensiero appare coerente con una vecchia ideologia che riteneva la proprietà (ricchezza) un furto (quella degli altri s’intende) e che perciò vada restituita e redistribuita. In tempi di pandemia, dai quali sul piano economico non siamo mai stati vaccinati sufficientemente, il concetto non è del tutto malvagio ma presenta alcuni problemi nell’applicazione. In primo luogo dobbiamo stabilire chi ha cinque milioni di euro da lasciare agli eredi. Ho conosciuto persone che ogni anno compivano un viaggetto in Austria o Svizzera imbottendosi valigia e abiti di soldi da depositare in banche sicure dal fisco. A casa loro non erano giudicati pezzenti ma il grosso del capitale era all’estero. Non accade solo ai comuni mortali. Lo stesso leghista Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, si è trovato erede della madre per sei milioni di euro depositati in Svizzera. Nulla d’illegale se i soldi sono espatriati liberamente, da banca a banca, e sui quali in Italia si sono pagate le tasse. Così accade per esempio anche per la grandi società i cui patrimoni sono ben custoditi nei paradisi fiscali e dunque una volta lasciato il bel paese diventano uccel di banca. L’ex ministro delle Finanze, dal 2001 al 2002, Ottaviano del Turco, stimava che, a quei tempi, all’estero giacessero circa 300 miliardi di euro. In realtà anche oggi nessuno conosce l’entità dei capitali depositati fuori dai confini perché a quelli legalmente denunciati, bisogna aggiungere una quota portata dagli spalloni attraverso canali clandestini. Silvio Berlusconi, che di capitali se ne intende, Presidente del Consiglio nel 2001, cercò di farne rientrare legalmente una parte di quelli non dichiarati, concedendo sconti e benefici. La cosa fece infuriare Antonio Di Pietro che parlò di una norma “salva ladri” vero e proprio riciclaggio di denaro sporco, cioè frutto di reati, da parte dello Stato. Tanto rumore per nulla se vent’anni dopo siamo punto e a capo. L’idea di Letta, pur lodevole sul piano filosofico e sociologico, cioè del diritto di ognuno di arricchirsi e lasciare il frutto agli eredi, ha tanti difetti pratici e uno di quelli è di incentivare il flusso clandestino di capitali verso i paradisi dei capitali. Né più grande successo avrebbe la scelta di Matteo Salvini di tassare del 15% i siti Web, visto che i bilanci possono essere “adattati”. Ma il problema va affrontato e risolto visto che la società ha bisogno di equità e, per vivere decorosamente, chiede a tutti di aiutare i meno fortunati per nascita o per opportunità. Tutto questo sarà all’attenzione della commissione finanze di camera e senato le quali entro il 30 giugno dovranno presentare il documento di indirizzo sulla legge delega che farà da cornice alla riforma del fisco. Mario Draghi ha già dichiarato irricevibili le proposte dei due leader dei maggiori partiti della coalizione di maggioranza, e le polemiche come fuochi si sono attenuate; resta il timore che possano diventare fuochi fatui per il governo.