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Storie di casa nostra: la guerra in Valsugana
Storie di casa nostra
di Andrea Casna
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La guerra in Valsugana
Da Scurelle a Ventotene 1916-1917 La Memoria di Fannj Trentinaglia
La Prima Guerra Mondiale è stata una guerra totale. Non solo mobilitazione di massa con milioni di uomini costretti a combattere nel fango delle trincee. Ma è stato anche un evento che ha visto milioni di civili costretti ad abbandonare i propri paesi e villaggi. Il Trentino ha conosciuto il dramma della guerra nel 1914 con i primi uomini arruolati e mandati a combattere in Galizia o in Serbia. La situazione è cambiata radicalmente con la dichiarazione di guerra dell’Italia a l’Austria: dal maggio del 1915 il Trentino si trasforma in zona di guerra; migliaia di civili, donne, anziani e bambini, devo abbandonare le proprie abitazioni per trovare riparo in regioni e zone lontane dal fronte. Le cifre sono impressionanti: 75mila civili trentini profughi nelle provincie interne dell’Impero e 35mila civili profughi in Italia. L’esercito italiano, infatti, nei primi mesi di guerra, avanza arrivando, in Vallagarina, alle porte di Rovereto e in Valsugana a Borgo. Gli abitati di queste zone si ritroveranno, infatti, a vivere sotto l’autorità del Regio Esercito Italiano. Ma già nella primavera del 1916, con l’offensiva austriaca – strafexpedition – l’esercito di Vittorio Emanuele III dove provvedere allontanamento dei civili. Tutti gli abitanti della Bassa Valsugana, quindi, sono costretti a salire sui treni per essere trasferiti in Italia. Interessate, su tale argomento, è un una sala all’interno del Museo Storico Italiano di Rovereto che proprio racconta, con immagini, documenti, reperti e infografiche, l’epopea dei profughi trentini durante la Grande Guerra. Un’epopea che si trova in molti diari di chi, in quegli anni difficili, ha vissuto sulla propria pelle un dramma senza precedenti. A raccontare un spaccato di quei momenti è Fannj Trentinaglia nata l’11 novembre 1899, di Scurelle. Nelle sue memorie, in parte pubblicare nel libro Il popolo scomparso, 1914-1920 (del Laboratorio di Storia di Rovereto, pubblicato nel 2003), ci racconta dell’ordine di sgombero, il viaggio in treno e l’arrivo a Messina e poi l’internamento a Ventotene. Il racconto, come si legge sul portale cultura.trentino.it e Novecentotrentino.museostorico.it, viene steso a Ventotene. La famiglia Trentinaglia (il padre Raimondo, la madre Maria Luigia Valandro, i figli Erina, Maria, Fannj, Angelo e Paolina) fu inviata a Francavilla, prima in Sicilia e poi a Novara in un collegio governativo. Qui, a seguito di un diverbio fra il padre Raimondo e il direttore del collegio, per un avvelenamento collettivo a causa del cibo cucinato in modo poco igienico, la famiglia viene internata sull’isola di Ventotene perché accusata di comportamenti “austriacanti”. Vi rimarranno fino alla primavera del 1919. Alcuni estratti del diario di Fannj Trentinaglia. Scurelle 19 maggio 1916. «Suonarono le dieci all’orologio della nostra vecchia chiesa, mentre una compagnia di carabinieri entravano con baionetta innestata nel nostro paese ansiosamente, e con tono deciso e imperioso, ci imposero di lasciare il paese entro due ore. Lasciare il pae-
Storie di casa nostra
Museo della Guerra di Rovereto, Sala dedicata ai profughi della prima guerra mondiale, foto di Graziano Galvagni
se? E per sempre? Tutti rimasero muti come elettrizzati; poi fu tutto un grido, un’esclamazione che esprimeva il dolore grande e la disperazione. “mai, mai partiremo da qui! Morire sì, ma partire giammai”. Ma la forza vale la forza, e tutti dovettero piegare sconfortati il capo e partire. Era una confusione impossibile ad immaginarsi: un chiamarsi, un cercarsi a vicenda […]. Alle otto il treno era pronto e si doveva partire. Ci fecero montare tutti in treno ed in pochi minuti ci si mise in moto portandoci lontani verso un nuovo destino! Oh! Come avrei gridato a quel treno di fermarsi, di voltar in su invece che in giù, ma quel mostro d’acciaio era muto al mio dolore e con corsa sfrenata si perdeva nello spazio. […] ora non c’era che pianura, sempre pianura. Poi sempre il terreno correva, correva per delle giornate intere e sempre passammo della città a noi nuove, ma però tutta la loro bellezza non ci scendeva la cuore, ci lasciava freddi ed insensibili. Passammo le più belle e rinomate città. A Firenze, Roma, Napoli, Caserta, Messina, sempre ci smontarono facendocele girare. Si era a Messina, alla tanto rinomata Messina per il suo terremoto; e quelle case abbattute e rovinate ci fecero l’impressione di essere arrivati su nel nostro paese tutto certamente un disastro […] Fummo di nuovo messi in ferrovia; poi montammo in carrozza e come ubriachi arrivammo qui in paese cioè Francavilla. Ci sdraiammo per terra facendo finalmente un lungo sonno sopra le pietre fredde. Era il 30 maggio».
Ventotene, 1917
«Forse qualcuno invidioso della nostra fortuna ci aveva traditi, spionando delle cose non vere o delle cose dubbie. Ci rivolsero nel partire alcune parole mordaci, dure e offensive. Eccole: “Noi, ci dissero, abbiamo fatto quello che stava in noi per accontentarvi, voi vi siete lamentati e non avete corrisposto ai nostri sentimenti. Perciò partirete, giacché non vi vogliamo più”. […] Partimmo in 75 da Novara scortati da due guardie di pubblica sicurezza come fossimo malfattori […]. Alle insistenti domande fatte alla guardia, questa finalmente ci disse che ci conduceva a Ventotene che era un’isola poco distante da Napoli». «Ventotene 8 dicembre [1917]. Ho fatto il primo giro nella nuova dimora. È tanto piccola che con lo sguardo dell’occhio si può abbracciare tutta. Una piccola piazza, che con otto passi se la gira in lungo e in largo, nominata “del castello”, perché proprio nel mezzo sorge il castello dove rinchiudevano i cosiddetti coatti (gente condannata dalla legge, obbligata a scontare i suoi anni di castigo qui in quell’isola) e dove ora stanno gli internati per spionaggio o per sospetti. […]» «1 marzo. Hanno fatto il cambio alcune guardie di P. S. Non riesco ancora a capire perché mantengono qui così tante guardie, appuntati, guardie di finanza, carabinieri, colonnello, capitano, tenente ed un buon numero di soldati, forse che siamo gente così barbara per essere in questa guisa sorvegliati? D’altra parte scappare non si potrebbe, non avendo davanti agli occhi che cielo e mare».
Accadde ieri
di Alessandro Caldera
Il Grande Torino e quella trasferta infinita
Ognuno di noi nasce con un modello di riferimento. Chi nega questo, mente. Talvolta questa nostra fonte di ispirazione si dimostra così meritevole di encomi che inevitabilmente bisogna scomodare un concetto, la cui accezione non lascia spazio a travisamenti: eroi. In riferimento al protagonista di questa storia, si tratta è vero di una squadra, ma la coesione del gruppo era tale da consentirci di parlare di unicum. Il racconto di oggi coinvolge un mondo che non conosciamo più, una realtà nella quale i calciatori erano persone come noi, non superstar con ingaggi faraonici. Il destino, con la sua imprevedibilità e tirannia, ha deciso però, di privarci anzitempo di questa semplicità e genuinità, “portandosi via” un gruppo incredibilmente talentuoso e vincente, la cui corsa è terminata tragicamente il 4 maggio 1949 contro il bastione della basilica di Superga. Su quel colle, una delle più belle pagine sportive del nostro calcio si è spenta prematuramente: il “Grande Torino”. Questa favola a tinte granata non è qualcosa di estemporaneo e frutto del caso, bensì il prodotto di programmazione e lungimiranza da parte di un ricco industriale di nome Ferruccio Novo. Il presidente, dopo aver acquisito il club nel 1939, decise di intraprendere una filosofia societaria ispirata a quella degli acerrimi rivali, gli Agnelli, con la Juventus dei primi anni trenta. In questo frangente egli si affidò inizialmente a due geni di questo sport, stiamo parlando di Erbstein e di Vittorio Pozzo. Il primo era un talentuoso allenatore magiaro, costretto alla fuga a causa della propria discendenza ebrea che mal digeriva quelle maledette leggi razziali promulgate da Mussolini nel 1937. Il secondo, invece, è l’allenatore più vincente a livello di nazionale, colui che ci portò sul “tetto del mondo” per due mondiali consecutivi nel ’34 e nel ’38. Tutto questo va poi addizionato ad acquisti di una certa caratura, il primo della gestione Novo fu un certo Franco Ossola prelevato dalla sua Varese, che oggi lo ricorda avendogli intitolato lo stadio, quando era da poco maggiorenne. Gli altri sono Ezio Loik, detto “l’elefante” per il suo incedere lento e
possente, Guglielmo Gabetto detto il “Barone”, prelevato dalla Juventus che lo considerava oramai sul viale del tramonto, e poi lui. Già, lui, il motore di quella macchina perfetta: Valentino Mazzola, la punta di diamante di quel “dream team”, il protagonista di quel quarto d’ora granata, ovvero quella frazione di partita nella quale il Torino annichiliva l’avversario, spazzandolo via dal terreno di gioco. Suo figlio Sandrino, al Prater di Vienna, diventò anch’egli leggenda quando con una doppietta, nella finale di Coppa dei Campioni del ’64, contribuì al successo di un altro straordinario club, denominato poi guarda caso, la “Grande Inter”. Qualche anno dopo, un uomo proveniente da Piracicaba in Brasile, noto per essere il quarto miglior marcatore di sempre in serie A con 216 reti, verrà soprannominato per la sua somiglianza fisica “il Mazzola”: Josè Altafini. Il Torino, come detto, andava al di là dei singoli. Certo, la forza di alcuni era sbalorditiva, ma la chiave era la coesione, un’unione di intenti nella quale anche il fatto che lo stesso Valentino prendesse premi doppi, come testimoniato dalla famosa agenda di Novo, era un qualcosa di ininfluente per i compagni. Questo affiatamento e questa supremazia calcistica portarono la formazione granata a stabilire primati che resistono ancora oggi come 125 gol realizzati in una stagione, oppure le 88 partite casalinghe consecutive senza sconfitta. Ora però bisogna tornare a quel maledetto maggio e a quel giorno funesto per la storia del calcio italiano. In verità prima di tutto, è bene rispondere alla seguente domanda: “Perché il Torino stava facendo ritorno da Lisbona?”. La risposta va ricercata in una promessa, fatta da Valentino al capitano del Benfica, squadra all’epoca composta da dilettanti, con la quale il talento azzurro si era impegnato, con i suoi compagni, a disputare una partita contro i portoghesi al fine di aiutare, con gli introiti dell’incontro, il lusitano che versava in cattive acque. Ecco, quella fu l’ultima apparizione di quella magica squadra. Poco meno di ventiquattro ore dopo, a causa di condizioni meteo avverse e di un altimetro impazzito, il Fiat G.212 si schiantò contro la Basilica di Superga. Un disastro aereo nel quale perirono 31 persone, tra giocatori staff e giornalisti. Da quella maledizione, il Torino uscì solamente nel ’76 quando tornò a vincere il campionato che poteva essere festeggiato solamente lì perché, come disse Indro Montanelli, «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto “in trasferta”».
Accadde ieri
Promuovere crescita Un team determinato
è da sempre il nostro volano. Siamo felici di affermare la riuscita del nostro intento. che guarda al futuro Realizziamo le vostre idee con