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Un anno di pandemia. Intervista a Stefano Merler

Sanità Italia in controluce

di Nicola Maschio

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Covid 19: un anno di pandemia

Nostra intervista a Stefano Merler, epidemiologo trentino.

Un anno di Covid: a che punto siamo e cosa ci riserverà il futuro? Ne abbiamo parlato con Stefano Merler, epidemiologo e matematico trentino della Fondazione Bruno Kessler, il quale contribuisce al monitoraggio del virus nelle regioni italiane ed ha fornito un apporto determinante alla redazione del “Piano sanitario di organizzazione della risposta dell’Italia” all’emergenza pandemica da Covid-19.

Merler, innanzitutto Le chiedo: in che situazione ci troviamo attualmente, dopo un anno di pandemia?

Grande incertezza. Credo che tutto sommato abbiamo imparato molto su SARS-COV-2 e, anche se tutto il mondo o quasi sta ancora facendo molta fatica a gestire questa epidemia, siamo molto più preparati rispetto a marzo 2020.

C’è chi lo definisce una semplice influenza e chi invece lo paragona alla spagnola: qual’è la verità e, soprattutto, possiamo parlare di un problema “strutturale” del sistema sanitario?

In termini di trasmissibilità e di letalità questo virus è peggiore della spagnola. Ha una trasmissibilità naturale di circa 3 (ogni persona ne infetta 3 in media) contro l’1.8-2 della spagnola e un tasso di mortalità per infezione altissimo, probabilmente superiore all’1%. Infatti, nonostante gli enormi sforzi fatti in tutto il mondo, siamo già ai milioni di morti accertati. Nessun sistema sanitario al mondo sarebbe stato in grado di reggere all’impatto di una malattia come questa senza importanti misure di distanziamento sociale che ne hanno limitato la trasmissione. Non credo sia solo un problema di posti letto in terapia intensiva, per due motivi: il primo è che le persone spesso muoiono anche se ammesse in questo reparto. Il secondo, è che non si parla solo di ventilatori: servono anche operatori sanitari specializzati, rari da trovare.

Ogni giorno giornali e telegiornali riportano dati, numeri e opinioni di esperti di ogni settore. C’è il rischio concreto che si crei disorientamento in coloro che vogliono informarsi?

Parliamo della più grave emergenza dalla seconda guerra mondiale. È normale che tutti vogliano dire la loro, anche se questo genera molta confusione. Posso solo suggerire di guardarsi bene il curriculum scientifico, cioè le pubblicazioni dei vari esperti, per capire di cosa realmente lo sono e valutare se ascoltarli. Virologia, infettivologia ed epidemiologia sono discipline completamente diverse tra loro.

Parte economica: la pandemia sta mettendo in ginocchio tutte le attività, ma chiudere è davvero la soluzione?

Io mi occupo di studiare l’epidemia, mentre questo è un aspetto politico. Posso essere d’accordo sul fatto che non disponiamo, a livello mondiale, di studi definitivi che mostrino quanto sono più o meno rischiose certe attività, pur con stime di rischio o evidenze di focolai in certi ambienti. Scientificamente, ciò che è certo è che non riusciamo a gestire un’epidemia con RT anche di poco sopra 1 per più di qualche settimana: nonostante le restrizioni, però, non riusciamo a far scendere RT di molto sotto 1.

La suddivisione in zone colorate funziona?

Col lockdown nella prima ondata RT era sceso a 0.6: ora, le zone gialle possono valere un RT di circa 1, quelle arancioni e rosse circa 0.9 e 0.8 rispettivamente. Queste stime ovviamente

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valgono solo per lo strain “tradizionale”. Che uso fare di questi risultati è una scelta politica.

Capitolo vaccini. Stanno arrivando, siamo solo all’inizio ma abbiamo già vaccinato più di tre milioni e mezzo di persone. È un buon risultato o bisogna fare di più? Ma soprattutto, gli altri dati (morti, contagi) vanno considerati come reali?

Più vacciniamo e più casi ci risparmiamo, diminuendo così il carico sui servizi sanitari e le morti. Inoltre, diamo al virus meno possibilità di mutare e rendere magari meno efficienti i vaccini stessi. Sulla questione dei dati, quelli dei vaccini credo siano precisi, quelli sui casi meno perché sappiamo che riusciamo ad identificare solo una frazione delle infezioni totali: secondo le nostre stime il tasso di notifica è passato da circa il 10% nella prima ondata ad un numero variabile tra il 20% e il 40% nella seconda. Per qualche riapertura credo basterà mettere in sicurezza la parte più fragile della popolazione, anche se sarà un percorso di mesi. Il ritmo attuale non è incoraggiante ma leggo con estremo piacere sui giornali dell’impegno del Governo a vaccinare il 50% degli italiani prima dell’estate.

Incognita varianti. Pur essendo tantissime, tre sono quelle più chiacchierate oggi: inglese, sudafricana e brasiliana. Cosa cambia e, soprattutto, potrebbero vanificare tutta la campagna vaccinale?

Intanto mi preme dire che dai primi risultati i vaccini sembrano efficaci contro la variante inglese, che rappresenta il problema più immediato visto che la sua prevalenza in Italia era già del 18% agli inizi di febbraio ed è più trasmissibile dal 30% al 70%. Le altre due varianti sono probabilmente meno prevalenti in Italia ma in effetti pongono qualche problema dal punto di vista immunologico. Credo sia importante vaccinare il più possibile ora in modo da mitigare lo strain “tradizionale” e la variante inglese. Io, potessi farlo, mi vaccinerei domani stesso con qualunque vaccino.

Finiamo con una previsione: come potrebbe evolversi la situazione nei prossimi mesi?

Previsioni non ne ho mai fatte, se non a 30 giorni al massimo perché sono abbastanza affidabili e utili per capire l’impatto a breve sul sistema sanitario. Quelle a lungo termine mi lasciano sempre molto perplesso perché per predire questa epidemia bisognerebbe saper predire il comportamento umano e come interverrà la politica per gestire l’epidemia stessa. Mi auguro che per l’estate si siano vaccinate una larga percentuale delle persone esposte a maggior rischio. Poi, con la stagione calda passeremo molto più tempo all’aperto, durante le vacanze estive si ridurranno spontaneamente i contatti sociali e tutto questo potrebbe aiutarci.

Denise e Cinzia

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