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Giovani e società
Giovani & Società
AMANDA GORMAN: le parole dei giovani illuminano il futuro
di Veronica Gianello
Non siamo americani, eppure buttiamo sempre un occhio in là, oltreoceano, ogni volta che qualcosa si smuove. Il 20 gennaio di quest’anno incerto e carico di aspettative, qualcosa si è smosso: Joe Biden è stato proclamato 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. È l’inizio di una nuova era, come abbiamo sentito fino alla noia nelle edizioni dei telegiornali di tutto il mondo. Eppure la vera rivoluzione va letta nella cornice squisitamente americana che ha segnato questo passaggio di consegne.
Il neo-eletto presidente ha fatto la sua parte, e la sua parte include anche—e forse soprattutto— la capacità di scegliere e delegare a chi è più adatto di lui ogni momento saliente della giornata, ad anticipazione della sua visione per i prossimi quattro anni. Fare un passo indietro per fare un passo avanti. E se un presidente quasi ottantenne chiede che la propria visione venga rappresentata, scritta e declamata dalle parole di una giovane neo-laureata, io credo che si stia seminando su un terreno fertile. Amanda Gorman è è la poetessa scelta per comporre e recitare una propria composizione durante l’insediamento di Biden. The Hill We Climb è il risultato, la collina che scaliamo. Così, se ci sentiamo lontani dalla politica, tanto più da quella di un paese che non è il nostro, dobbiamo ricordarci anche che anche noi siamo chiamati a scalare quella collina: come esseri umani prima ancora che come cittadini. Il fatto che a ricordarcelo siano le parole di una ventiduenne di colore, cresciuta dalla madre, erede di quella schiavitù che talvolta non appare poi così lontana, rende il messaggio di Gorman universale. Non indora nulla questa giovane donna, mentre ricorda i recenti attacchi alla democrazia che ‘può essere momentaneamente minacciata, ma mai definitivamente sconfitta’. Racconta con sguardo e mani fiere la sua terra, fatta di sogni ma anche di accattoni, tenendo il ritmo come se stesse cantando. Uno spettacolo. Sembra quasi che ci prenda per mano, mentre ci chiede: come possiamo trovare la luce in quest’ombra senza fine? Una domanda che sposta subito l’io poetico a qualcosa di più grande, a qualcosa che accomuna tutti; qualcosa che, in qualche modo, unisce. È proprio l’unione la colonna portante di questo componimento. Un’unione che tuttavia è ben lontana dall’essere perfetta, e che proprio in questo svela la propria grandezza. Lo ricorda la Costituzione americana stessa: usiamo la giustizia per creare un’unione che sia ancora più forte. Dobbiamo smettere di considerarci a pezzi, rotti, finiti, da buttare: siamo semplicemente non ancora completi; siamo artigiani, con l’immenso dono dell’incompiutezza che ci permette ogni giorno di cercare di cesellare il nostro volto, di colmare i vuoti che spesso ci creiamo dentro, o attorno, che allontanano invece di avvicinare. Solo colmando lo spazio tra noi riusciremo a colmare quello davanti a noi, sostiene Gorman. In questa visione superiamo il pregiudizio della generazione passata nei confronti del fallimento, e vediamo le cadute come un insegnamento, come una nuova opportunità, perché comunque tramite esse, non senza dolore, cresciamo. È un climax di forza, un inno alla fede, la chiusa di questa poesia. Una forza che viene da noi, che noi nutriamo, fino a cambiare la domanda iniziale: non ci chiediamo più ‘Come supererò questa catastrofe?’, ma piuttosto ‘Come può questa catastrofe prevalere su di me?’. Cambiamo le carte in tavola, e dalle fessure, dagli spiragli del nostro essere imperfetti e disuniti entra finalmente la luce, perché la luce c’è sempre se solo siamo abbastanza coraggiosi da vederla, se solo siamo abbastanza coraggiosi da diventare noi stessi luce.