6 minute read

Etichette e spreco alimentare, Bruxelles pensa a come intervenire

Ha raggiunto livelli allarmanti e spesso è dovuto alla cattiva gestione della tempistica nei singoli anelli della filiera. Un malcostume che riguarda tutti, consumatori compresi

di Guido Guidi

Advertisement

Si conta che una cifra tra e 702 e gli 828 milioni di persone siano state colpite da fame nel 2021 e che ci sia stato un incremento di 150 milioni di individui coinvolti dall’inizio della pandemia a oggi. Di contro, però, e come la peggiore delle contraddizioni e delle ingiustizie, una percentuale poco al di sotto del 60% degli adulti e un bambino su tre, in Europa, sono sovrappeso o obesi (dati FAO e IFAD). Si tratta in tutti i casi di malnutrizione, ma in due sensi opposti tra loro, a cui sarebbe doveroso dare un equilibrio. Quell’equilibrio che si può forse trovare anche grazie ad una corretta distribuzione delle risorse e della ricchezza.

In questo quadro incoerente la prima urgenza è senz’altro quella di limitare quanto più possibile gli sprechi, anche in ragione di un’etica che più che in altri settori dovrebbe guidare i comportamenti. Tutti dovrebbero avere diritto ad un’alimentazione sana e che permetta il proprio sostentamento.

La lotta allo spreco è certamente il punto di partenza, soprattutto nei Paesi occidentali: quell’insieme di prodotti eliminati dalla catena alimentare che, per ragioni economiche, estetiche o di prossimità alla scadenza di consumo, seppur ancora commestibili e quindi potenzialmente destinati all’alimentazione umana, vengono smaltiti. Nel 2016 si stimavano in oltre 87 milioni di tonnellate le perdite e i rifiuti alimentari, per un ammontare pari a 173 kg circa a persona all’anno (dati Commissione europea). E oggi non c’è motivo di credere che la situazione sia cambiata di molto.

Per combattere un fenomeno antieconomico e inaccettabile dal punto di vista morale ed ambientale è necessario conoscerlo a fondo. Lo spreco, infatti, sempre secondo l’UE, avviene per il 53% in famiglia, per il 19% in fase di lavorazione del prodotto, per il 12% nella ristorazione, per l’11% nel campo, nell’ambito della produzione primaria, e per il 5% in fase di vendita all’ingrosso o al dettaglio.

Il perché delle perdite prima di arrivare all’ultimo anello della filiera è presto detto: i raccolti si possono deteriorare già sul terreno a causa di agenti atmosferici.

Il mancato raccolto può avvenire perché il prodotto è anche solo in parte danneggiato e perché la sua raccolta, anche per motivi prettamente legati al mercato, è antieconomica. Si possono inoltre verificare problemi legati alla fase di stoccaggio o di prima lavorazione e altre difficoltà nella commercializzazione, nel trasporto e nella vendita, dove si possono creare ulteriori sprechi, sebbene sia ovvio che nessun operatore economico abbia convenienza alla perdita del prodotto, che si traduce sempre in perdita di denaro.

La percentuale che tuttavia scandalizza, soprattutto in tempi di crisi e di inflazione galoppante, è quella dello spreco riconducibile alle famiglie. Anche tra le mura domestiche, sia chiaro, una certa quantità di scarto è fisiologica. Ci sono cibi o parti di esso che non possono che prendere la via della pattumiera. Tuttavia, nei 27 kg annui di alimenti che ognuno di noi butta nella spazzatura, non ci sono solo parti non edibili come bucce, ossa, cartilagine o cibo che si è guastato nostro malgrado nella dispensa. Rimane una parte importante di prodotto che si sarebbe potuto consumare in sicurezza, che è più o meno consistente a seconda delle abitudini.

Le cause sono le più disparate e non tutte nobili. Tra queste: scelte sbagliate in fase di acquisto, stima esagerata delle quantità effettivamente necessarie alle proprie esigenze, l’abitudine di acquistare troppo e male, eccessive manipolazioni del prodotto che poi portano, soprattutto nel caso di frutta e verdura, ad un deterioramento anticipato.

La necessità di combattere lo spreco alimentare è talmente pregnante che anche l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 25 settembre 2015 l’ha posto tra i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile, indicando una gerarchia nell’uso del cibo, col fine di non perderlo, e proponendo una serie di passaggi che possano evitare, per quanto possibile, le perdite.

Anche il Farm to Fork prevede un impegno esplicito in questo senso e richiama l’esigenza di rivedere il sistema di etichettatura in relazione al Termine Minimo di Conservazione, alla cui rigida interpretazione da parte del consumatore va attribuita una certa quantità di sprechi. È necessario rivedere la determinazione della shelf-life del prodotto e, in certi casi, anche rimettere mano ad una normativa che non aiuta.

Si pensi alle regole sull’etichettatura del latte fresco, che impongono una scadenza definita per legge. Non sono più adeguate ai tempi, visto che la tecnologia e le tecniche di mungitura e conservazione hanno fatto dei tali progressi che i termini previsti sono oggi completamente inadeguati.

A causa di questa norma ormai obsoleta e così fortemente penalizzante, molti produttori hanno abbandonato quella strada e si sono orientati verso la produzione di latte a lunga conservazione. Ma laddove invece non è possibile, la probabilità di depauperare prodotto sicuro è altissima.

Certamente sotto il profilo della rivisitazione di alcune discipline ha aiutato la pandemia, grazie alla quale, nel 2021, sono state prodotte note di chiarimento sulla durabilità delle carni fresche. Misure straordinarie certo, ma che hanno consentito, in un momento storico particolare, di ridefinire la shelf-life di una produzione specifica, senza nulla togliere alla genuinità e alla sicurezza.

Quanto incide dunque l’etichetta del prodotto e il TMC, in particolare, nella lotta allo spreco alimentare? Non è determinante forse, ma ha un ruolo importante. Da lì si può dunque cominciare ed è prima di tutto l’Unione Europea a prenderne atto. Nasce quindi la proposta avanzata dalla stessa Commissione europea di introdurre una nuova dicitura, ad integrazione di quella vigente “da consumarsi preferibilmente entro il”, con uno “spesso buono oltre”

L’obiettivo dichiarato di riduzione degli sprechi alimentari del 50% entro il 2030 diverrebbe così più vicino. Nonostante la normativa attuale sia infatti in vigore da decenni, i consumatori fanno fatica a comprendere la differenza con l’indicazione “da consumare entro” che detta invece un termine non prorogabile. Se quest’ultima infatti significa che oltre quella data il prodotto può diventare nocivo, e quindi non va assolutamente consumato, nel caso dell’indicazione “da consumare preferibilmente entro” sono in gioco elementi diversi dalla sicurezza e che riguardano la qualità, le caratteristiche organolettiche e l’immagine del prodotto. E inoltre — questo i consumatori spesso lo ignorano — un TMC può essere individuato dal produttore, anche in ragione di scelte commerciali o aziendali affatto legate alla sicurezza del prodotto in sé.

L’intervento, anticipato nel 2020, era stato annunciato già allora per la necessità di fornire al consumatore nuovi strumenti di comprensione della durabilità del prodotto, al fine di influenzarne il processo decisionale e coadiuvarlo nella valutazione sull’opportunità di consumare o meno l’alimento. L’eventuale provvedimento, tanto semplice quanto rivoluzionario, sarebbe in ogni caso solo un primo passo nella tabella di marcia dell’UE contro lo spreco di cibo. La prossima estate inizierà infatti la discussione sulla modifica della Direttiva rifiuti

Non tutti gli addetti ai lavori condividono la proposta, accolta invece con maggior favore dalle associazioni datoriali delle imprese agroalimentari. Lasciare al consumatore la responsabilità di valutare l’idoneità al consumo di un prodotto, senza dargli ulteriori istruzioni sulla corretta conservazione e manipolazione in ambito domestico, è visto infatti da alcuni, associazioni dei consumatori in testa, come un modo per scaricare la responsabilità verso l’ultimo anello della catena alimentare.

Certo è che, al di là dell’introduzione o meno del “spesso buono oltre” o di diciture similari, è opportuna e urgente una campagna di maggior coinvolgimento del consumatore, affinché sia più sensibile, meno incline a sprecare il cibo, ma anche più informato sul significato reale delle informazioni al pubblico.

Seppur una differenza sia facilmente desumibile, è evidente che questa modalità, in anni di applicazione, ha mostrato tutti i suoi limiti ed andrebbe migliorata. E anche se lo scopo non è quello di scaricare la responsabilità della decisione del consumo o meno in capo al consumatore, a quest’ultimo deve essere comunque attribuito un ruolo di maggior enfasi, essendo colui che può valutare visivamente, con l’olfatto e con il tatto, l’alimento che ha davanti.

Sotto il profilo della rivisitazione di alcune discipline ha aiutato la pandemia, grazie alla quale, nel 2021, sono state prodotte note di chiarimento sulla durabilità delle carni fresche. Misure straordinarie certo, ma che hanno consentito, in un momento storico particolare, di ridefinire la shelf-life di una produzione specifica, senza nulla togliere alla genuinità e alla sicurezza.

Va da sé però che una nuova stagione di prevenzione dello spreco debba essere attuata anche per evitare perdite nei campi, nel deposito e stoccaggio della merce e in sede di vendita, sia essa all’ingrosso o al dettaglio, anche con politiche di più ampio respiro che, per esempio, prevedano una premialità o una defiscalizzazione per tutte quelle azioni che contribuiscono alla lotta allo spreco.

Non si può tralasciare il fatto che le ricadute ambientali, oltre che economiche dello smaltimento dei prodotti scartati, siano enormi. Attuare una rivoluzione verde significa anche questo: evitare di bruciare risorse del pianeta per produrre cose che andranno buttate; scongiurare lo spreco di prodotti già confezionati, dove, oltre a dover smaltire l’alimento, si è costretti a smaltire anche la confezione; scuotere le coscienze affinché l’atto di sprecare un alimento — già di per sé sacrilego — diventi una rara eccezione e non la regola.

Guido Guidi

This article is from: