Il Pesce 3-2016

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IL PESCE DALLA PRODUZIONE AL CONSUMO

PERIODICO DEDICATO ALLE PRODUZIONI ITTICHE NAZIONALI ED ESTERE, ALLE TECNOLOGIE E ALLE ATTREZZATURE PER LA PESCA E L’ACQUACOLTURA – € 6,67

N. 3/2016



pr�t ˆ manger Ostriche, cozze, cannelli, vongole...





Anno XXXIII N. 3 • Giugno 2016

IL PESCE «Da’ un pesce a un uomo ed egli avrà un pasto; insegnagli ad allevarlo e avrà il nutrimento per tutta la vita»

Gruppo editoriale Edizioni Pubblicità Italia Srl

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Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi

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IL PESCE

Anno XXXIII N. 3 • Giugno 2016

In questo numero: Immagini

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Tendenze

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Legislazione

La nuova ISO 9001

Acquacoltura

#Allevato nell’UE

Sebastiano Corona

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Riccio di mare, la Norvegia scrive un nuovo capitolo

Guido Guidi

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Il sale e le ostriche di Stagno, un destino comune

Riccardo Lagorio

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Specie ittiche

Il pesce dell’obolo del Tempio di Gerusalemme

Luca del Grammastro 34

Il pesce in rete

Social fish

Elena Benedetti

Comunichiamo

L’Odissea “preventivo”

Chiara R. Zaccaroni 40

Pesca

Ridurre i rigetti in mare

Aziende

Bertozzi? Clienti protetti e felici

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44 Elena Benedetti

Officina Masetti: da 105 anni sul mercato

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Mercati

Il mercato delle aragoste nel 2015

Roberto Villa

53

Associazioni

Slow Food festeggia un altro importante anniversario

Sebastiano Corona

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Nutrizione

L’importanza di consumare pesce, anche in conserva

63

Olio di pesce per restare in forma

Roberto Villa

66

Il pesce in tavola

Il buon sapore degli scampi

Giorgia Fieni

68

Pesce d’acqua dolce

Trota? Quale trota?

Giorgia Fieni

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Locali di gusto

Kyo Fish, dal mare al piatto (anche di casa)

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Sapore di mare

L’Europeo, una storia napoletana al profumo di mare

Riccardo Lagorio

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Al Polpo Marino, polpo, chiacchiere e vino

Maurizio Dell’Agnello

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Sapori dal mondo

Il salmone teriyaki

Nunzia Manicardi

87

Turismo enogastronomico

Bohuslän, il paradiso delle ostriche

Massimiliano Rella

92

Week-end

Un “ittiturismo” ci salverà

Gian Omar Bison

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Curiosità

Adriatico, altro che liscio, ombrelloni e piadine

Josette Baverez Blanco 98

Rassegne

La palamita in un Mare di Gusto

Maurizio Dell’Agnello

Fiere

Seafood Expo e Seafood Processing Global: Bruxelles c’è

La pagina scientifica

Tecnologie

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Cibus 2016, quando le ciambelle escono col buco

Gaia Borghi

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Nuovi scenari e prospettive future nella depurazione di Chamelea gallina

Luciano Boffo et al.

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Fattori condizionanti la salubrità delle conserve ittiche

Carlo Cantoni Simone Bona

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In Sicilia un impianto di acquacoltura innovativo a basso impatto ambientale

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In copertina: astice appena pescato (photo © Murat Subatli).

All articles are available in English in abstract format at our website www.ilpesce-online.com 8

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IMMAGINI

Le aragoste sono uno dei prodotti ittici più costosi tra quelli scambiati a livello di commercio internazionale, con un valore medio di 20 USD/kg, contro una media inferiore ai 5 USD/kg per i pesci della maggior parte delle specie. A pagina 53 un articolo di Roberto Villa sul mercato delle aragoste (gabbie per aragoste e granchi accatastate nel porto; photo © dvoevnore – Fotolia).

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Escluso il periodo che va da gennaio a marzo, l’offerta di pescaturismo in Svezia è attiva tutto l’anno. Per Karlsson, ad esempio, nel mare di Grönemad, porta i turisti in barca a raccogliere ostriche. A pagina 92 un bell’articolo di Massimiliano Rella su questa interessante opportunità (photo © Massimiliano Rella).

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TENDENZE Storytelling, ogni piatto è un racconto

Storytelling è una parola che si sente spesso pronunciare ultimamente e che letteralmente significa “raccontare storie”. Molto più semplicemente, quindi, è l’arte del narrare. Per il marketing non basta più comunicare, coinvolgere, ma diventa necessario raccontare storie. E così il marketing diviene narrativo. Anche nella ristorazione c’è chi ha mutuato questo nuovo concetto e l’ha trasformato in un’idea di business. È stato GIUSEPPE LOPS, titolare di Storyteller, un gastro-pub a Corato (BA), nel cuore della Murgia pugliese, che propone piatti e taglieri rigorosamente a km zero. L’idea è quella traslare la filosofia della filiera corta anche all’American bar. Ogni piatto è un racconto di ingredienti, materie prime e trasformazione (in alto, un fritto di merluzzo e seppioline in pastella alla birra, servito con chips di Margherita di Savoia; photo © Gabriele Cialdella per Storyteller). >> Link: www.facebook.com/storytellercorato

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LEGISLAZIONE

La nuova ISO 9001 di Sebastiano Corona

La norma volontaria ISO 9001 può essere adottata all’interno di un’organizzazione, indipendentemente dal settore e dalle dimensioni. Viene normalmente applicata allo scopo di fornire un prodotto o un servizio di qualità e soddisfare il cliente migliorando le proprie prestazioni in termini di efficacia ed efficienza. Di fatto si tratta di uno dei sistemi di gestione maggiormente diffusi. Secondo Qualitiamo (www.qualitiamo.com), le organizzazioni implementate sono più di 800.000 per oltre 160 Paesi nel mondo. Molte di queste sono imprese del settore alimentare. La sua importanza deriva anche dal fatto che sia lo standard di riferimento da cui dipende la struttura delle altre norme gestionali ed abbia quindi un ruolo strategico nel panorama normativo dei SG. Non a caso una delle maggiori difficoltà incontrate dal comitato tecnico ISO, nella fase di revisione, pare sia stata proprio quella di allineare la nuova stesura con i protocolli che regolano gli altri sistemi, non ultima, per esempio, la ISO 14001 relativa alla gestione ambientale. L’esigenza di introdurre il sistema in un’organizzazione è dovuta ai

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motivi più disparati, tra cui quello, importantissimo, di fornire, in modo continuativo, prodotti e/o servizi conformi ai requisiti richiesti dal cliente. Non solo: si tratta di una norma che impone all’organizzazione la ricerca di un miglioramento continuo, gestendo il rischio a partire dall’analisi del contesto, per individuare i potenziali vantaggi di sviluppo del business, le minacce e le opportunità. ISO 9001 significa altresì: • programmare meglio il lavoro all’interno dell’organizzazione; • definire e mantenere la standardizzazione e l’ottimizzazione dei processi; • valorizzare e sviluppare le risorse umane, coinvolgendo attivamente tutto il personale nel miglioramento dei processi; • diminuire il numero delle non conformità e i costi interni; • predisporre informazioni documentate che consentano di tenere sotto controllo le attività critiche di processo; • trasmettere al personale un maggiore senso di coinvolgimento consapevole nei confronti della

gestione operativa e conseguentemente migliorare i prodotti o servizi erogati. Il tutto si traduce — o almeno così dovrebbe essere — in un aumento della soddisfazione del cliente, tenendo presenti anche le aspettative e le richieste delle parti interessate all’attività dell’organizzazione. La ISO 9001 è un ottimo biglietto da visita per l’azienda e rappresenta una sorta di garanzia per il cliente, sebbene certificazione, in questo caso come in altri, non significhi necessariamente alta customer satisfaction. Molto spesso, soprattutto quando l’implementazione viene vista all’interno dell’organizzazione come un mero processo da seguire e non un modello di lavoro funzionale, la norma non genera i risultati sperati, né all’interno dell’azienda, né in termini di mercato. Anche al fine di correggere gli aspetti critici, ogni normativa inerente i sistemi di gestione viene sottoposta a revisione periodica. La norma ISO 9001 non è esente da questo processo e di recente è stata modificata anche al fine di chiarire meglio punti e passaggi che hanno

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sinora creato fraintendimenti. La revisione è stata realizzata per creare un modello di riferimento ancor più semplificato, che si adatti meglio a tutte le organizzazioni, prescindendo dalle dimensioni, dal settore e dalla struttura interna. La novità della ISO 9001:2015 risiede in una nuova gestione del rischio. Una gestione che implica non solo la funzionalità dell’organizzazione, ma anche e soprattutto la sua efficacia in termini di redditività. Cosa che sinora era stata sotto certi aspetti trascurata. Un modello organizzativo implementato con la ISO 9001 poteva mostrarsi, infatti, perfettamente applicato, ma non consentire comunque all’azienda di sviluppare utili. Questo aspetto era scarsamente preso in considerazione dalla norma prima della recente revisione. Con la nuova versione, non verranno più utilizzati requisiti standard per l’analisi del rischio. Piuttosto, per ogni azienda si andrà ad analizzarlo singolarmente e specificamente, al fine di pianificare un sistema di gestione adeguato ai bisogni di ciascuna realtà ed effettivamente calato nel contesto. Il nuovo approccio prevede infatti un’analisi adeguata del rischio e poi delle misure appropriate da adottare in termini di possibili soluzioni e contromisure per affrontarlo. La revisione non è stata però adottata solo a questo scopo, ma anche per essere meglio utilizzata

come base comune per tutti gli altri standard, migliorando la compatibilità e l’integrazione con gli altri schemi certificativi. È altresì previsto un maggiore coinvolgimento del top management e una semplificazione della documentazione del sistema, a cui si affiancherà una maggiore flessibilità per le aziende, che sono libere di scegliere la profondità e il dettaglio che intendono utilizzare per la loro documentazione scritta. Scelta, quest’ultima, che tiene maggiormente conto della strutturazione aziendale e della sua complessità, e che può essere effettuata in base a vari fattori di opportunità e risorse, non ultima quella della competenza del personale. D’ora in poi ogni processo verrà definito e conterrà specifiche chiare per la misurazione dei parametri prestazionali e per la definizione dei ruoli e delle responsabilità. In particolare, lo standard fornisce una più precisa e dettagliata attenzione al controllo dei processi, prodotti e servizi forniti da esterni. Questo per rispondere alla realtà odierna in cui le aziende operano, in un ambiente sempre più complesso. Tutte le imprese già in possesso della certificazione ISO 9001, o che vorranno introdurla, saranno tenute ad applicare il nuovo standard. Per quelle che già lo adottano è previsto però un periodo transitorio della durata di tre anni, durante il quale potranno aggiornare il proprio

sistema di gestione. Tuttavia, poiché la migrazione al nuovo modello richiede del tempo e una nuova organizzazione interna all’impresa, il suggerimento è quello di affrontare sin da subito la materia perché non solo sono previste moltissime modifiche, ma sarà necessario un approccio culturale alla norma completamente nuovo, e questo processo necessiterà di tempo, tanto più che avrà un impatto importante sulle risorse umane. Vista però l’esperienza sinora diffusa in merito a questo sistema di gestione, spesso purtroppo applicato sulla carta ma poco nella pratica, un consiglio rimane valido sempre: la ISO 9001 non deve essere considerato un punto d’approdo, ma piuttosto una modalità per giungere allo scopo. Troppo spesso si perde di vista il fatto che per l’azienda certificata — anche per quella che non lo è, per essere sinceri — la soddisfazione del cliente deve essere il fine che guida ogni azione. Troppo spesso questo aspetto, pur importantissimo, si dimentica, anche laddove la norma viene applicata alla regola. Questa ed altre esigenze hanno spinto alla revisione, ma nessun sistema può sortire l’effetto se la norma non viene fatta propria dall’organizzazione e se non si trasforma in un modus operandi che prescinde dagli aspetti formali della sua attuazione. Sebastiano Corona

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#Allevato nell’UE La Commissione europea promuove un “kit” su come parlare di acquacoltura nelle scuole. Solo educando i consumatori di domani si può garantire il futuro del settore Lo sapevate che i prodotti di acquacoltura rappresentano un quarto dei prodotti ittici consumati nella UE? Se la risposta è no, non preoccupatevi, non siete gli unici: molte persone in Europa conoscono poco o nulla l’acquacoltura. E la Commissione europea sta provando a cambiare tale tendenza partendo dai bambini e dagli adolescenti, i consumatori europei di pesce e prodotti ittici del futuro. A partire da questo presupposto, la Commissione ha organizzato un evento di promozione dedicato al pesce d’acquacoltura il 18 gennaio scorso durante la “Settimana verde”

di Berlino. La Grüne Woche – The International Green Week Berlin è una delle più importanti rassegne fieristiche dedicate all’alimentare al mondo e solo l’anno scorso ha richiamato oltre 400.000 visitatori. Una cornice ideale, quindi, per diffondere l’iniziativa della Commissione europea “#Allevato nell’UE”, rivolta nello specifico al mondo della scuola e agli adolescenti tra i 12 e i 18 anni. Nell’ambito della campagna, infatti, è stata elaborata una guida pratica per gli insegnanti su come introdurre il tema dell’acquacoltura nelle classi dei propri istituti, non soltanto al-

berghieri. Il kit è già stato testato da 20 scuole in 10 Stati Membri della UE nella prima metà del 2015, che sono state messe in competizione tra loro per presentare il progetto di acquacoltura più originale. Due scuole tedesche hanno riportato la propria esperienza al salone di Berlino. Dalle testimonianze è emerso che, prima di venire coinvolti nel progetto, gli alunni non sapevano praticamente nulla di acquacoltura. Alla fine le cose erano talmente cambiate che la Schulzentrum Geschwister Scholl di Bremerhaven ha perfino vinto il primo premio per i risultati ottenuti!

Un allevamento di salmoni nel Nord Europa. Il salmone è una delle specie ittiche più importanti per l’acquacoltura mondiale (photo © Andrey Armyagov - Fotolia).

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«Abbiamo deciso di presentare un libro multilingue di ricette di cucina di pesce che includesse informazioni scientifiche ed economiche sull’acquacoltura» ha spiegato uno degli insegnanti. «Questo ci ha consentito di lavorare con un approccio “multidisciplinare”. Per la creazione del ricettario, ai nostri alunni è stata data la possibilità di mettersi in contatto con gli operatori del settore del commercio ittico della nostra città, di scoprire le professioni scientifiche legate all’acquacoltura e di utilizzare le loro competenze nelle lingue straniere. Ma non solo: il premio ricevuto e il continuo interesse per il progetto da parte di altre scuole in tutta la UE ha davvero aumentato la fiducia in loro stessi». L’acquacoltura comprende l’allevamento di pesce d’acqua dolce e marina, di molluschi, crostacei, come anche, più di recente, di diversi tipi di alghe. Come ha spiegato BERNHARD FENEIS, presidente dell’Associazione tedesca per la pesca in acqua dolce e l’acquacoltura, in Europa si utilizzano differenti metodi di allevamento, inclusi quelli tradizionali con corde, reti e stagni, o i più sofisticati con sistemi di riciclo dell’acqua. Circa la metà della produzione della UE deriva da molluschi, tra i quali i più popolari sono ostriche e cozze, mentre il pesce marino, come il salmone, il branzino o l’orata, rappresenta un altro quarto circa della produzione. Il pesce d’acqua dolce, per esempio trote e carpe, rappresenta il quarto rimanente. Attualmente, l’acquacoltura rappresenta circa la metà dei prodotti ittici nel mondo e la percentuale è in aumento. Ma il potenziale di crescita nell’UE è elevato: gli Stati dell’Unione producono infatti meno del 2% di tutti i prodotti dell’acquacoltura a livello mondiale. Tuttavia, il pesce allevato nella UE è conforme ad alcuni degli standard più elevati in materia di salute, sicurezza e ambiente. Istruzione, ricerca e sostenibilità: l’acquacoltura è il futuro Il progetto #Allevato nell’UE mostra il lato umano del settore, il suo legame con le comunità locali e le molte opportunità di carriera in quest’ambito. Tuttavia, alla conferenza di

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“Attualmente, l’acquacoltura rappresenta circa la metà dei prodotti ittici a livello globale e la percentuale è in aumento. Il potenziale di crescita nella UE è elevato: l’Unione produce infatti meno del 2% di tutti i prodotti di acquacoltura a livello mondiale. Tuttavia, il pesce allevato nell’Unione Europea è conforme ai più rigidi standard in materia di salute, sicurezza e ambiente”

Berlino vi è stato un generale sollevamento sulla necessità di incoraggiare ulteriormente la cooperazione tra il mondo dell’istruzione e quello dell’acquacoltura e di inviare nelle scuole esperti in materia. Ottenere sostegno ulteriore su entrambi i fronti sarebbe essenziale per diffondere il kit scolastico in tutta Europa. Cercare investimenti e stimolare la ricerca sono due modi ulteriori attraverso cui la Commissione europea sta provando a dare impulso al settore dell’acquacoltura. «L’acquacoltura promuove un tipo di crescita sostenibile e, se incentivata, ci fornirà sempre più pesce e crostacei a km 0», ha dichiarato alla conferenza berlinese l’esperto STEFAN MEYER. «Grazie alle nuove tecnologie e procedure di produzione, quali la tecnologia del riciclo o l’acquacoltura integrata multi-trofica, l’efficienza delle risorse dell’acquacoltura può essere incrementata e la sua “impronta” ridotta. La scienza e la ricerca apportano un contributo importante rendendo queste tecnologie disponibili nella realtà». L’Europa è già impegnata nella ricerca d’avanguardia. Per esempio, la UE intende investire 6 milioni di euro nel progetto INAPRO, presentato durante il convegno dal professor WERNER KLOAS. INAPRO è un sistema acquaponico innovativo, grazie al quale si utilizzano le acque reflue degli impianti di acquacoltura per “alimentare” piante. Risultato: pesce e vegetali sostenibili, efficienti in termini di risorse e ad emissioni praticamente zero. Nonostante tali moderne innovazioni, è utile ricordare che l’al-

levamento ittico di per sé non è una pratica nuova. In certe zone della Polonia, per esempio, si alleva pesce da secoli, come ha spiegato ANNA PYĆ, vicepresidente dell’Associazione polacca di allevatori di trote (si veda box a pag. 20 e 21). Tuttavia, negli ultimi anni l’acquacoltura è stata oggetto di forti critiche sulla stampa. Nell’immaginario comune viene associata all’utilizzo diffuso di antibiotici e contaminazione ambientale. Ma questo quadro non è assolutamente giustificato! L’acquacoltura moderna oggi si basa su relazioni simbiotiche tra le specie che escludono il rischio di inquinamento o l’utilizzo di farmaci. Similmente, i mangimi utilizzati in acquacoltura sono sempre in minor misura a base di pesce, sostituito da altre risorse proteiche quali gli insetti. La sfida attuale è spiegare gli enormi passi avanti compiuti da questo settore europeo negli ultimi vent’anni e l’importante contributo che esso può apportare nella ricostituzione degli stock selvatici e nella prevenzione dello sfruttamento eccessivo della pesca. (Fonte: Affari marittimi e pesca ec.europa.eu) Nota Siete interessati a invitare un professionista del settore dell’acquacoltura nella vostra scuola o ad utilizzare il kit #Allevato nell’UE per realizzare progetti scolastici? Il kit è disponibile in tutte le 24 lingue della UE, assieme ad un elenco dei professionisti che operano nel settore dell’acquacoltura, al seguente link: goo.gl/T25dQw

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Acquacoltura in Polonia: una lunga tradizione ANNA PYĆ è la vicepresidente dell’Associazione polacca di allevatori di trote. Essendo intervenuta all’evento sull’acquacoltura organizzato dalla Commissione europea durante la “Settimana verde” di Berlino, c’è stata l’opportunità di conoscere il suo punto di vista, in qualità di esperta, sullo sviluppo del settore. La Polonia ha una lunga tradizione di acquacoltura. Vuole raccontarci qualcosa in proposito? «In effetti, la storia dell’acquacoltura in Polonia ha origini nel XII secolo, epoca in cui il pesce, soprattutto le carpe, veniva allevato per le famiglie reali e l’aristocrazia. Anche oggi le carpe vengono allevate seguendo le tecniche tradizionali risalenti a quel periodo, tecniche che definirei “sostenibili” ed ecologicamente corrette: in molti casi, ad esempio, i pesci si cibano naturalmente con ciò che trovano nel laghi anziché essere alimentati con mangimi immessi dall’esterno. Da vent’anni alleviamo anche trote, utilizzando tecnologie d’avanguardia, e gli allevamenti di trote polacchi sono spesso molto più efficienti in termini di energia rispetto a quelli di altri Paesi. Attualmente produciamo circa 16.000 tonnellate di trote all’anno». A proposito di tecnologia, secondo lei quanto è importante il suo ruolo nell’acquacoltura? «Le tecnologie sono indubbiamente fondamentali per il futuro dell’acquacoltura. Con risorse idriche scarse e crescenti pressioni ambientali, cerchiamo soluzioni alternative proprio attraverso le tecnologie». Tornando alla sensibilizzazione del pubblico, qual è stata la sua prima reazione alla richiesta di prendere parte al progetto “#Allevato nell’UE”? «Devo ammettere di essere stata un po’ scettica all’inizio, ma un’insegnante della scuola locale si è interessata molto al progetto apportando tantissime idee. Mi ha invitato a parlare ad una classe di alunni di 11 anni, per poi portarli a visitare un allevamento ittico. Ha anche coinvolto un nutrizionista, che ha parlato di pesce e alimentazione. Ciò che mi ha colpito è che i ragazzi non conoscevano nulla dell’acquacoltura. La loro concezione di allevamento riguardava solo maiali, bovini e pollame, il pesce non era assolutamente contemplato! Temo che, anche se i nostri laghi di carpe risalgono al XII secolo, la gente non ne comprenda fino in fondo l’utilità e, allo stesso modo, nulla si conosca riguardo gli allevamenti di trote».

La cattura di trote in un allevamento in Polonia (photo © a_andreev – Fotolia).

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Il progetto pilota ha coinvolto 20 scuole di 10 Stati Membri. Lo ritiene un successo? «Sì, lo ritengo tale. Come ho detto, i laghi sono parte del paesaggio nella mia zona d’origine e pensavo che la comunità locale già li conoscesse. Niente di più sbagliato. Mi sono resa conto che la gente vedeva l’acqua, ma non aveva idea che servisse per la produzione di pesce, né sapeva che tali allevamenti costituivano delle imprese locali. Pertanto, è stato molto istruttivo sia per me che per gli alunni! E c’è stato un effettivo scambio di esperienze al seminario di Berlino quest’anno: tutti i rappresentanti del settore dell’acquacoltura che hanno preso parte al progetto hanno ripetuto lo stesso concetto: “la gente deve sapere”. Tuttavia, l’acquacoltura è locale, il suo sviluppo avviene a livello locale e quindi, a mio giudizio, il sostegno della comunità è essenziale. In questo senso, il progetto è stato azzeccato». Gli allevamenti ittici non vengono trattati molto bene in generale dalla stampa. Come possiamo far fronte a questa situazione? «I media sono sempre alla ricerca di casi estremi e scioccanti ed è quindi difficile convincere le persone che la situazione degli allevamenti di acquacoltura è completamente diversa. Noi produciamo a livello locale e si tratta di un enorme vantaggio al giorno d’oggi. Offriamo cibo proteico di alta qualità. Ciò è importante per tutti i tipi di consumatori, ma in particolare per le categorie più sensibili quali ad esempio le donne in gravidanza e i bambini». Cosa può fare la UE per garantire il futuro dell’acquacoltura? «Dal punto di vista dei produttori e delle associazioni di produttori abbiamo bisogno di coerenza tra le diverse politiche della UE. Per esempio, abbiamo il nuovo Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca che sta dando il via libera all’acquacoltura, ma non disponiamo di misure simili da sviluppare sul mercato interno europeo o conoscenze paneuropee sui modelli e i comportamenti dei consumatori. Possiamo sviluppare il settore dell’acquacoltura quanto vogliamo, ma se continueremo a importare pesce più economico del nostro non otterremo uno sviluppo sostenibile. Questo è il motivo per cui è importante che ci sia comprensione da parte dei cittadini, oltre ai preziosi progetti quali #Allevato nell’UE, che educano le nuove generazioni di consumatori». (Fonte: Affari marittimi e pesca, ec.europa.eu)

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Riccio di mare, la Norvegia scrive un nuovo capitolo È iniziata una quindicina di anni fa la sperimentazione dell’allevamento del riccio di mare nel Paese nordeuropeo. Una ricerca che oggi consente la produzione industriale di un prodotto eccellente da tutti i punti di vista. Una sperimentazione di grande successo, immediatamente accolta con favore dai mercati, che è anche un po’ italiana e che in Italia vorrebbe in qualche modo tornare di Guido Guidi

La pesca del riccio di mare è stata protagonista, negli ultimi decenni, di molti ed incisivi cambiamenti. Il primo è che, a livello sia nazionale che internazionale, si è passati da un’attività di raccolta e consumo contenuti, limitati ad alcuni periodi dell’anno, a un prelievo importante

anche in zone storicamente non battute. Le aree di pesca sono infatti notevolmente aumentate sia come numero, sia come estensione, coinvolgendo anche gli stock residenti in prossimità di zone senza tradizione di consumo. I prelievi si effettuano ormai anche negli angoli più remoti

del pianeta mettendo in pericolo la specie un po’ ovunque. È proprio questo il fenomeno più grave ed eclatante degli ultimi decenni: la continua apertura di nuovi fronti di pesca per soddisfare la domanda in costante crescita, in Italia quanto all’estero.

La Troms Kråkebolle AS nasce da un’idea di Sigurd Aase, uno degli imprenditori più facoltosi della Norvegia. L’azienda ha effettuato prima la sperimentazione, poi la produzione del riccio verde (Strongylocentrotus droebachiensis), avvalendosi della collaborazione dell’italiano Giampiero Scanu, esperto di genetica molecolare, biologia marina ed acquacoltura (photo © www.nrk.no).

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Al centro della foto, Giampiero Scanu (photo © www.bt.no). Le richieste del mercato — incrementate da sempre maggiori occasioni di consumo — hanno inciso significativamente nel determinare l’espansione della domanda. Una domanda divenuta via via sempre più pressante, che ha imposto anche modalità di raccolta più veloci e sicure, per consentire di ottenere maggiori quantità prelevate ad ogni immersione. Un esempio per tutti è quello degli Stati Uniti, che un tempo esportavano tutto il prodotto in Giappone mentre ora, avendo un enorme mercato interno, non sono più in grado di soddisfare ulteriori richieste. Stessa cosa dicasi per la Scandinavia e per il Regno Unito. La crescente pressione sulla risorsa, laddove non era troppo tardi, ha posto seri interrogativi sulla sostenibilità della pesca del prodotto e ha indotto a una serie di riflessioni sul suo futuro. La prima strada è quella di regolamentare il prelievo. Ma anche nei Paesi e nelle regioni d’Italia in cui questo percorso è stato condiviso, lo sfruttamento dei fondali appare ancora eccessivo rispetto alla capacità della risorsa di riprodursi. Pertanto è molto probabile che, se non verranno presi gli accorgimenti

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necessari, in futuro la specie tenderà a scomparire. La seconda, ben più interessante ipotesi, è quella dell’allevamento, di cui si possono riportare esperienze diffuse, ma non tutte con risultati edificanti. La maggior parte dei progetti sinora realizzati, in ambito sia accademico che industriale, non ha dato infatti molte speranze in merito alla riproducibilità del prodotto su larga scala a costi accessibili. La nuova frontiera del lusso: il riccio, sexy ed esclusivo Una sperimentazione condotta nei mari del Nord sembra però aver aperto un varco. Si tratta, infatti, di una ricerca durata anni che ha portato eccellenti risultati sulla possibilità di standardizzare il prodotto, con ottimi esiti anche in termini di gusto e immagine. Il merito è da ricondurre a SIGURD AASE, uno degli imprenditori più facoltosi della Norvegia che, al contrario dei suoi conterranei, principalmente interessati ai prodotti ittici tradizionali locali, ha preferito intervenire in maniera innovativa su una delle specie marine più apprezzate al mondo. Troppo anacronistico e scontato pensare di investire in

caviale o salmone. La sua idea non era tanto o solo di capitalizzare; infatti voleva fare di più. Voleva creare su scala un prodotto di indiscusso pregio, frutto di processi di green economy, che fosse anche bio e nel contempo destinato al mercato mondiale del lusso. Aase aveva e tuttora ha l’ambizione di far entrare il riccio nella top ten dei prodotti più pregiati e cari. Non era per lui solo una questione di soldi, ma di immagine e di soddisfazione personale. Con questo fine non ha esitato a mettere sul tavolo 10 milioni di euro per costituire e avviare l’impresa che ha realizzato prima la sperimentazione poi la produzione, la Troms Kråkebolle AS, il cui nome, tradotto dal norvegese, riporta il riferimento alla zona in cui aveva sede lo stabilimento produttivo (Troms, appunto) e la denominazione commerciale del riccio verde (Strongylocentrotus droebachiensis). Un successo anche un po’ italiano Non sarebbe stato però possibile, per il facoltoso milionario norvegese, realizzare il sogno di produrre per primo, e a livello industriale, quella che si può considerare la pietanza

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Caratteristiche del riccio d’allevamento e differenze rispetto al selvatico •

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Grazie all’alimentazione ad libitum con mangimi dedicati, l’IG è 8-10 volte superiore a quello degli esemplari selvatici. Lo standard attuale di Troms Kråkebolle è > 30%, equivalente a 15-18 grammi di gonadi per riccio da 50-60 grammi complessivi. L’obiettivo futuro, già raggiunto con continuità in via sperimentale, è il 40%. Sempre intervenendo sulla dieta, IG, colore e sapore possono essere definiti a priori e standardizzati su livelli elevatissimi, mettendo al riparo da sgradite sorprese all’atto dell’apertura e del consumo. I ricci allevati hanno infatti una qualità estremamente uniforme e garantita. Una volta aperti, si presentano tutti pressoché uguali e con identico sapore. I ricci selvatici hanno invece caratteristiche estremamente variabili e la qualità non può essere verificata prima dell’acquisto, né garantita dal raccoglitore. Variando ingredienti del mangime è possibile customizzare con precisione il prodotto sulla base delle esigenze del mercato di riferimento. Il mercato asiatico predilige gonadi di colore giallo oro e sapore molto dolce. Il mercato sud-europeo invece gonadi rosso-arancione e un sapore più deciso. Diverse farine algali conferiscono al prodotto sapori completamente diversi e, contenendo diversi carotenoidi, anche differenti colori. I ricci correttamente allevati non presentano significative variazioni stagionali di qualità e possono essere commercializzati senza vincoli anche durante il periodo di fermo pesca. Il prodotto viene stabulato prima della commercializzazione e si presenta quindi sempre perfettamente pulito, di immagine gradevolissima e privo di materia fecale al suo interno. L’assenza di traumi associati alla cattura, oltre che il confezionamento e il trasporto a temperature e umidità controllate, consentono il mantenimento in vita fino a 9-10 giorni dalla data di confezionamento, con un aspetto sempre gradevole anche all’esterno. La tracciabilità e la salubrità sono assolute e garantite.

più sexy ed esclusiva del panorama ittico mondiale attuale, senza GIAMPIERO SCANU: studi in genetica molecolare, biologia marina ed acquacoltura, una vita trascorsa in giro per il mondo, dall’Europa fino al Giappone e alle Americhe, un’esistenza dedicata alle specie ittiche più disparate, ai molluschi bivalvi, alle colture ancillari e alla pescicoltura (alghe e rotiferi). Nonostante l’assenza di esperienze pregresse col riccio, Scanu ha raccolto la sfida assumendo l’incarico di amministratore delegato e direttore della produzione per

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dedicarsi per anni esclusivamente alla causa, abbandonando qualunque altra attività. Le enormi difficoltà di natura biologica e tecnica, di cui si aveva timore nella prima fase del percorso, si sono puntualmente realizzate nel decennio in cui la sperimentazione è stata portata avanti dallo staff di Aase. Il riccio non è una specie semplice e, nonostante i numerosissimi tentativi che si sono susseguiti in tutto il mondo a partire dagli anni ‘70, il suo allevamento su scala industriale era rimasto una vera e propria chimera. Nemmeno le collaborazioni con uni-

versità ed enti pubblici di ricerca, per la parte prettamente scientifica, si sono rivelate utili. Per lungo tempo le ingenti risorse investite da Aase sembravano, nello scoramento generale, inesorabilmente dissipate senza un ritorno. La produzione di giovanili si è mostrata per anni totalmente inaffidabile, i numeri risibili. Nella fase di ingrasso gli accrescimenti erano esigui e le mortalità elevatissime, così come si mostrava tutt’altro che soddisfacente la qualità del prodotto finale. Quando la fine dell’esperienza sembrava ormai vicina per insuccesso conclamato, ecco la svolta. I due siti produttivi di Tromsø vengono completamente rimaneggiati da Scanu, sia a livello strutturale che nella compagine lavorativa, e trasformati in centri di sperimentazione inserendo protocolli completamente nuovi. Tutte le fasi della produzione e la stessa filosofia aziendale sono totalmente stravolte. Viene abbandonato l’ingrasso in moduli galleggianti inshore a favore dell’allevamento in vasche a terra. Il mangime — elemento tutt’altro che secondario nell’allevamento del riccio, essendo chiamato a garantire adeguate performance zootecniche e caratteristiche organolettiche e cromatiche ottimali nel prodotto finito — viene sviluppato ex novo, come se niente fosse stato fatto sino a quel momento. Un incredibile successo imprenditoriale Il risultato complessivo di questa vera e propria rivoluzione è stato certificato dall’arrivo sui mercati di un prodotto dalle caratteristiche sbalorditive. Un prodotto che, grazie all’acquacoltura, ha potuto esprimere appieno il proprio potenziale e, analogamente a quanto avviene con ostriche e storioni, mostrare risultati di gran lunga superiori a quelli del selvatico. In natura i ricci sono infatti quasi invariabilmente semivuoti, con un indice gonadosomatico (IG) raramente superiore, nel Mediterraneo, al 3-4%. Un esemplare di 50 grammi complessivi potrebbe mostrare un

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contenuto di soli 2 grammi di polpa. Non solo, il sapore spesso risente dell’alimentazione quantitativamente e qualitativamente inadeguata e può risultare amaro. Anche il colore, per le stesse ragioni, è talvolta lontano dall’optimum, a causa di una poco gradevole tonalità che frequentemente tende al marrone e che alcuni mercati rifiutano a priori. Inoltre, gli unici esemplari con un IGS vagamente accettabile sono quelli in piena attività trofica e, per questa ragione, con il tratto gastrointestinale impegnato da cibo parzialmente digerito e feci. Questo materiale, poco dopo la morte, a causa della lisi spontanea dell’intestino o durante le operazioni di apertura, arrivando a contatto delle gonadi, le macchia e ne altera il sapore, oltre a rendere il consumo meno agevole e gradevole. Anche grazie al superamento di questi problemi, tipici invece del prodotto selvatico, il successo commerciale del riccio di Tromsø è stato fulmineo e straordinario, come attestato da un numero incredibile di riconoscimenti nei concorsi gastronomici, dalla predilezione mostrata verso il prodotto dagli chef più noti, e soprattutto dal fatto che il prezzo iniziale di 50 Nok per pezzo, pari a 5-6 euro circa a seconda del tasso di cambio, si era rivelato persino troppo basso per risultare minimamente efficace nel selezionare la clientela e scoraggiare ordini troppo cospicui. Non solo quindi l’esperienza fatta ha scritto una pagina nuova per il comparto dell’acquacoltura, ma anche il successo imprenditoriale si può considerare senza pari. I volumi disponibili si sono esauriti in brevissimo tempo e l’azienda si è trovata davanti alla scelta obbligata di interrompere le vendite ed entrare in uno stato di momentaneo letargo produttivo, perfino mediatico, per far fronte all’ondata inarrestabile di ordini che giungevano via web e che, per evidenti ragioni, non potevano più essere soddisfatti. I siti di Tromsø, che avevano fino a quel momento egregiamente assolto alla propria funzione di testare sia la tecnologia produttiva, sia la risposta

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dei mercati, non erano più idonei alla produzione continuativa su scala commerciale. Non per la mole di richieste già in essere, tanto meno per quelle ipotizzabili in futuro. Non solo: le temperature del Nord della Norvegia si erano rivelate troppo basse per garantire accrescimenti soddisfacenti, considerata la domanda nazionale e internazionale. Inoltre, le concessioni per l’allevamento a mare dello stabilimento risultavano inutilizzabili per un’azienda che aveva ormai abbracciato una diversa filosofia produttiva. Questa è ormai storia. Il futuro, per niente remoto, è invece la realizzazione, nel Sud della Norvegia, di un nuovo impianto monstre da oltre 30.000 m2, che sarà il secondo impianto di acquacoltura indoor al mondo per dimensioni. Un impianto capace di produrre oltre 10 milioni di esemplari all’anno, solo il primo di una serie che verrà realizzata da Aase e Scanu in prossimità delle aree di maggior consumo, come il Mediterraneo e l’Estremo Oriente. I test già effettuati mostrano infatti inequivocabilmente che la tecnologia e i mangimi impiegati con il riccio verde sono trasferibili quasi senza variazioni anche ad altre specie, come il riccio edibile del Mediterraneo, il Paracentrotus lividus, e alla specie più apprezzata tra le cinque consumate in Giappone, lo Strongylocentrotus intermedius. La scelta di avviare diversi stabilimenti in altrettante aree geografiche, che consentirà di fornire ad ogni mercato la specie autoctona a “chilometro zero”, con conseguenti straordinari vantaggi commerciali, ha come fine ultimo la costituzione di una multinazionale del riccio che verrà quotata in borsa, seguendo il destino comune a diverse aziende che fanno capo a Sigurd Aase. Dalla Norvegia non si cela un forte interesse per l’Italia. Il Belpaese, anche per la sua posizione strategica, oltre che per il ragguardevole consumo interno, è nel mirino del ricco imprenditore nordeuropeo, deciso a intraprendere a breve la ricerca di siti già autorizzati e a coinvolgere gli operatori locali in sinergie e collaborazioni. Guido Guidi


In Croazia alla scoperta di una delle capitali mondiali dell’ostrica piatta

Il sale e le ostriche di Stagno, un destino comune di Riccardo Lagorio

Una versione europea della Grande Muraglia cinese? C’è, e si trova all’imbocco della penisola di Sabbioncello, che si distacca dal continente e si protende nell’Adriatico poco a nord della città di Ragusa, in Croazia. Una fortezza monumentale lunga più di 5,5 km che collega Stagno e Stagno Piccolo, località strategiche dove dal III secolo a.C. si produce sale, tanto che le saline di Stagno sono le più antiche, tuttora funzionanti, in Europa. Così questa fondamentale risorsa doveva essere difesa ad ogni costo da parte della Repubblica di

Ragusa, una delle poche città a utilizzare strumenti urbanistici efficienti già dal Trecento. Le baie e i bassi fondali che si rincorrono creano insenature, isolotti, correnti d’aria eccellenti per abbrivare e coste utili per alambardare. L’esistenza di fiumi carsici che si rovesciano nel mare fa sì che l’acqua delle cale risulti a contenuta presenza di sale. Tutto questo crea condizioni ideali per la crescita dell’ostrica piatta, Ostrea edulis, originaria del continente europeo, per secoli parte integrante della dieta degli abitanti dei territori costieri.

Il Seicento fu l’epoca d’oro per il sale e le ostriche di Stagno: in quel periodo il calo delle attività di estrazione di sale facilitò lo sviluppo colturale delle ostriche, con la disponibilità di superficie per le vasche. Ma oggi il destino dell’ostrica piatta, detta anche “nativa”, è complicato, per certi versi simile a quello delle saline di Stagno. Infatti, se gli stessi Romani costruivano fossi e gore per rifornirsi di ostriche, e nel XVII secolo le spore delle ostriche venivano raccolte sulle rocce e deposte nelle saline sulla costa atlantica della

Stagno (in croato Ston) si trova sulla penisola di Pelješac, Sabbioncello, nel sud della Croazia. La località è molto conosciuta sin dall’epoca romana per la coltivazione dell’ostrica piatta e dei mitili.

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1) Oltre alla produzione del sale, Stagno è famosa per le sue mura medievali lunghe 5,5 km. 2) Josip Bazdan. 3) Boris Franušić. L’allevatore aderisce con la propria società, Ponta Luke, al consorzio Malostonska kamenica, Ostrica di Stagno Piccolo, protegge e valorizza la coltivazione di ostrica piatta proveniente dalla penisola di Sabbioncello.

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Allevamenti di ostriche nella baia di Stagno.

“Il ciclo di produzione inizia con la raccolta delle spore selvagge, a maggio o settembre. Talvolta sono avvinte alla roccia o sulle conchiglie di cozza già cotte per scopi alimentari. Si appostano su appositi dischi di plastica, collegati a strutture d’acciaio calate in acque poco profonde. L’ostrica cresce così per 18 mesi nella baia di Stagno e nelle aree vicine”

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Francia, per quanto riguarda il sale, dalle oltre 6.000 tonnellate estratte nel 1611 si è passati alle 1.500 degli ultimi anni. E il numero di ostriche piatte è ora pari allo 0,2% delle ostriche allevate al mondo. È in verità tra il XVIII e il XIX secolo che il combinato effetto di rigidi inverni e dell’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche provocò il collasso dell’ostricoltura europea; ripresa nel 1900 sulla costa del Mediterraneo francese, l’Ostrea edulis dovette affrontare una massiccia mortalità che colpì le popolazioni europee negli anni Venti. La popolazione di ostriche fu in seguito ripristinata, ma introducendo varietà diverse, come l’ostrica concava (Crassostrea angulata). L’attacco determinante e finale all’Ostrea edulis avvenne nei primi anni Settanta e Ottanta, con il diffondersi di due epidemie esiziali, la Marteilia refringens e la Bonamia ostreae. Da allora l’allevamento di ostrica piatta è assai limitato. Così, se è vero che l’offerta è in continua decrescita, per la nota legge di mercato i prezzi sono in continua salita. Il prezzo medio all’ingrosso dell’Ostrea edulis è da 3 a 5 volte su-

periore a quello della Crassostrea gigas, l’ostrica concava. Perciò il prodotto occupa e potrà occupare in futuro un ruolo economico non indifferente benché con produzioni limitate quantitativamente; un prodotto di lusso insomma, una delicatezza ricercata e costosa per consumatori specializzati. E Stagno, con i suoi produttori e i suoi ristoranti, ne è rimasta una delle capitali mondiali. Tanto che, alla fine degli anni Ottanta, furono estratte ancora 1,5 milioni di ostriche. Tuttavia, all’inizio della guerra d’indipendenza questo era il fronte. Durante le ostilità molte delle società di mitilicoltura chiusero i battenti e quelle che avevano resistito vennero vandalizzate dagli eserciti serbi e montenegrini. Con l’avvento della democrazia il maggior problema — peraltro ancora da affrontare appieno da parte delle autorità — fu la cattura irregolare. Secondo alcuni allevatori di ostriche infatti, a fronte di meno di 50 concessioni rilasciate ufficialmente, sono tuttora più del doppio le attività che lavorano illegalmente. Tanto che, solo con approssimazione, si possono stimare

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Mario Peijć, proprietario del ristorante Vila Koruna, specializzato in ostriche e mitili. in mezzo milione i pezzi estratti annualmente (cui si aggiungono 1.000 tonnellate di cozze, Mytilus galloprovincialis). «Il ciclo di produzione inizia con la raccolta delle spore selvagge, a maggio o settembre. Talvolta esse sono avvinte alla roccia o sulle conchiglie di cozza già cotte per scopi alimentari. Si appostano su appositi dischi di plastica, che hanno sostituito circa vent’anni fa i rami di viburno e sono molto pratici, collegati a strutture d’acciaio calate in acque poco profonde, che vanno dai 3 ai 6 metri. L’ostrica cresce così per

18 mesi nella baia di Stagno e nelle aree vicine», dice JOSIP BAZDAN, il cui padre Petar iniziò a coltivare ostriche a metà anni Novanta. «Per un altro anno e mezzo le ostriche vengono cementate due a due su cavi di acciaio. La coltura avviene in maniera estensiva per evitare la propagazione di malattie e a profondità di 2 metri». Infatti l’ostrica manca di piede e di bisso, tanto da dover fissare la propria conchiglia ai corpi sommersi mediante sostanze cementanti emesse dal mantello. «Il periodo di finissaggio, che può durare 3 mesi, avviene in apposite reti da ostrica, simili a quelle utilizzate in altre parti del mondo. Solo con questi accorgimenti si può preservare la produzione di ostriche piatte che qui è praticata da millenni», aggiunge BORIS FRANUŠIĆ, che aderisce con la propria società Ponta Luke al consorzio Malostonska kamenica, Ostrica di Stagno Piccolo. Il consorzio protegge e valorizza la coltivazione di ostrica piatta proveniente dalla penisola di Sabbioncello con mezzi manuali, opponendosi all’introduzione di altre varietà di ostrica. Le società che ne fanno parte sono gestite per lo più su base familiare, dando lavoro indicativamente a più del 10% della popolazione di Stagno, che conta circa 2.500 persone. «Le ostriche hanno molteplici nemici in natura: a Stagno sono le orate il maggior nemico poiché

inghiottono in numero sterminato le ostriche giovani, specie nel periodo tra maggio e luglio», continua preoccupato Franušić. Il consumo di ostrica piatta avviene porgendo al consumatore finale l’ostrica sulla parte più piatta della conchiglia del mollusco. Da Stagno le ostriche raggiungono i mercati e i ristoranti locali sulla costa dalmata tra Spalato e Ragusa. Esiste da qualche anno il Festival dell’Ostrica, che si tiene la domenica successiva al 19 marzo, San Giuseppe. I ristoranti propongono numerose preparazioni a base di ostrica (zuppe, frittelle e cotture al forno con o senza salse). Durante l’ultima edizione, le barche dal ventre piatto dei dieci produttori che hanno partecipato all’iniziativa hanno distribuito ai visitatori e ai turisti oltre 30.000 ostriche. Riccardo Lagorio Školjkarstvo Petar Topolo – 20205 Stupa (Croazia) Telefono: +385 0915434147 E-mail: josipbazdan@gmail.com Ponta Luke d.o.o. Luka bb – 20230 Ston (Croazia) Telefono: +385 0959095520 Vila Koruna Mali Ston – 20230 Ston (Croazia) Telefono: +385 020754999 E-mail: vila-koruna@du.t-com.hr Web: www.vila-koruna.hr

Ostriche e buon vino Il gusto per sua natura moderatamente iodato dell’ostrica piatta e le particolari forme di allevamento praticate a Stagno si prestano in verità ad un consumo che ne esalti le caratteristiche, privandole quindi dell’inquinamento con altri ingredienti. Ma si può bere buon vino: come il Rukatac, che appartiene alla famiglia della Malvasia, non di grande impatto e potenza ma di lunga beva e sapidità, come quello che cresce nelle campagne di Ponikve, accanto a Stagno, allevato dai Vukas (vinavukas.com); o la potente Malvasia di Ragusa di Ivo Vodopić (in foto) di Lovorno, località di Canali: una casetta in legno nel mezzo di una natura incontaminata e il liquido dorato, fruttato, in bocca limone candito che s’incolla al bicchiere. Solo le boscose colline lo separano dall’aroma marino delle ostriche piatte.

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SPECIE ITTICHE

Il pesce dell’obolo del Tempio di Gerusalemme di Luca del Grammastro

Viene chiamano in tanti modi nei diversi dialetti — pesce di Cristo, pesciu de sampè, pesce gallo, sampietre, pisci san perdu, cetra, iotra, san piet, ngitola, pisci gaddru, jaddu, gaddi, zeus, ecc… — ma è noto soprattutto come pesce San Pietro (Zeus faber). Si tratta di un pesce molto peculiare e solitario e di facile identificazione. L’aspetto è inconsueto e stravagante, ma proprio per questo inconfondibile. Si presenta con forma bizzarra, alto e molto appiattito sui fianchi; è carnivoro, vorace, coperto di piccole squame; la bocca molto ampia ha la capacità di allungarsi a dismisura, creando una depressione nella quale la vittima viene risucchiata senza alcuna possibilità di reazione. Il muso coriaceo sembra avere una sorta di corazza ed i bordi del corpo sono coperti da placche spinose; può raggiungere dimensioni eccezionali di 60 centimetri, ma è più comune fra i 30 e 40, con un peso che si aggira sui 4-5 chili. Le pinne sono molto evidenti, soprattutto quella dorsale che presenta raggi lunghi e spinosi, ornati da lunghi filamenti. La sua colorazione è grigiastra o giallastra, con strisce irregolari argentate, ed al centro di ogni fianco spicca una macchia scura contornata da un bordo più chiaro. Nuota lentamente fino ad avvicinarsi alla preda quando, per mezzo di un movimento rapidissimo, di scatto apre e protende la bocca per ingoiare piccole prede marine. Si riproduce in diversi periodi dell’anno, secondo l’habitat. In Italia, vive prevalentemente nell’Adriatico e nello Ionio, preferendo il mare aperto su fondali misti rocciosi a profondità tra i 100 e 200 metri; per questa ragione, unitamente al fatto che sa mimetizzarsi in modo davvero

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impressionante, è piuttosto difficile pescarlo. Agevolato dal corpo compresso, nel momento in cui assume la posizione frontale rispetto alla preda o al pericolo, risulta pressoché invisibile. L’animale, ben consapevole delle sue doti mimetiche, sfrutta questa caratteristica per procacciarsi il cibo, costituito principalmente da pesci e molluschi di fondo. L’aria innocente, la simpatia che ispira e l’apparente lentezza nel nuoto (in realtà è capace di scatti repentini), non devono trarre in inganno: il San Pietro non è un pacifico ed innocuo “pesciolino”, ma un

formidabile ed ingordo predatore. Chiunque si trovi davanti il San Pietro lo riconoscerà immediatamente: non esiste, se non altro alle quote raggiungibili dai subacquei ricreativi, un pesce con cui possa essere confuso. Proprio la particolare forma del corpo, l’occhio grande, i lunghi raggi della spina dorsale, ma, soprattutto la grande macchia rotonda scura presente su entrambi i lati del corpo, lo hanno reso oggetto di numerose leggende, miti, racconti. L’origine e la tradizione popolare vogliono che le macchie nere presenti su entrambi i fianchi,

Il pesce San Pietro (photo © www.britishlarder.co.uk).

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ad esempio, siano le impronte lasciate da San Pietro — il più famoso pescatore della Galilea — quando, su comando di Gesù, lo pescò a mani nude per estrargli dalla bocca una moneta d’oro con cui pagare l’obolo al Tempio di Gerusalemme. Esistono comunque diverse versioni della leggenda: un’altra racconta che le macchie siano le “impronte digitali” di San Pietro, che trovò il pesce nelle sue reti, ma, commosso dai suoi gemiti, lo lasciò libero. Secondo un’altra versione popolare, questo sarebbe il pesce che Gesù moltiplicò sul lago di Tiberiade e i due opercoli neri sul ventre sarebbero le impronte delle sue mani. È conosciuto anche con il nome di “pesce gallo”, mentre gli Arabi lo chiamano “pesce di Dio”, in quanto i musulmani non riconoscono i santi, ma li ritengono dei profeti. Da questi racconti deve essere rimasto colpito anche Linneo, il naturalista svedese a cui si deve la nomenclatura binomia; tanto che, per la regalità di questo pesce, lo consacrò addirittura al re degli Dei, Giove, denominandolo Zeus faber. Storie a parte, gli esperti ritengono che la macchia sul fianco abbia la funzione di ingannare eventuali predatori che la scambierebbero per l’occhio di un pesce molto più grande. Indubbiamente il San Pietro è un pesce che da sempre viene considerato pregiato, ottimo da mangiare, le cui carni sono tenere, molto saporite, particolarmente apprezzate per la loro delicatezza e facili da disliscare, con un valore nutrizionale ottimale. Proprio per il suo valore nutritivo piuttosto contenuto, il pesce San Pietro viene prediletto da chi è attento alla linea ed è spesso inserito all’interno di diete ipocaloriche e piatti light. Si consuma solitamente fresco — garanzia di freschezza sono gli occhi che devono essere sporgenti — e, per il suo gusto deciso, è un alimento estremamente versatile, che troviamo al centro di numerose ricette della cucina italiana. Dott. Luca del Grammastro Controllo Qualità Nota Le fonti bibliografiche sono disponibili presso l’autore.

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IL PESCE IN RETE

Social di Elena

1. AMO, il mare a Milano e nel web Proprio bello www.ilmareamilano.it, il sito di AMO, l’azienda di MARINA CARLÀ e ALEX VAGNOLI che opera come primo centro di depurazione e spedizione autorizzato sul territorio lombardo. La sede e il laboratorio sono all’interno del Mercato ittico milanese. Sulle pagine web c’è anche una sezione dedicata alla sicurezza alimentare con indicazioni sulle analisi chimico-fisiche e sulle linee di produzione. Un forum completa i contenuti.

2. Dati FAO su pesca e acquacoltura Ecco un link utile per chi ha voglia di esplorare i profiliPaese redatti dalla FAO sull’attività legata alla pesca e all’acquacoltura: goo.gl/EOEqEY. La navigazione è per Paese con il download di documenti in lingua inglese, francese e/o spagnola (in basso, un allevamento di acquacoltura lungo le coste montenegrine; photo © radzonimo).

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fish Benedetti

3. Finpesca, tutta l’azienda in un clic Ecco un bell’esempio di portale moderno e di nuova concezione: www.finpesca.it è uno strumento aggiornato, chiaro ed efficace nella comunicazione attraverso il quale, in una manciata di clic, il visitatore entra virtualmente nell’azienda di Porto Viro (RO), specializzata in pesce fresco, congelato, confezionato e in piatti pronti. Finpesca è molto attiva anche sui canali social con contenuti su Pinterest, Instagram, Facebook e Twitter (in basso, un’immagine caricata nel profilo Instagram di Finpesca).

4. Le pescherie italiane on-line www.pescherie.it è un portale che recensisce le pescherie italiane. La ricerca avviene per regione, provincia e ragione sociale.

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COMUNICHIAMO

Come scegliere la vostra migliore strategia di comunicazione

L’Odissea “preventivo” di Chiara R. Zaccaroni

Qualche tempo fa sono stata chiamata dai proprietari di un ristorante per fissare un appuntamento e, in previsione delle varie iniziative che avevano in progetto di realizzare, chiedermi un preventivo. Fin da subito mi avevano informata sul fatto che il mio sarebbe stato uno dei tanti preventivi richiesti, che il budget era ristretto, ma che, vista la diversità di prezzo tra i vari preventivi, volevano essere sicuri di operare la scelta migliore per la loro attività. “Vede, come è possibile che il preventivo di un sito possa variare dai 600 ai 4.000 euro? Per noi che di mestiere facciamo altro, è difficile capire quale sia il prezzo migliore rispetto al tipo di strumento di cui abbiamo

bisogno”. Così ci siamo conosciuti e mi hanno spiegato che tipo di esigenze avevano: * un nuovo sito responsive e aggiornabile (in grado cioè di adattarsi automaticamente a ogni dispositivo, come ad esempio cellulari, tablet e computer); * un’applicazione che i clienti potessero scaricare per leggere il menu e ricevere informazioni sugli eventi in programma; * infine, sapere quanto gli avrei fatto spendere al mese per promuovere la loro attività sui “vari” social. Sono certa che ognuno di voi chiederebbe più o meno la stessa cosa ad un’agenzia, perché ci hanno

abituato a credere che queste siano le cose di cui ogni imprenditore o azienda ha bisogno per promuoversi. Queste richieste non sono sbagliate, ma, prima di iniziare a contattare qualsiasi agenzia, è bene chiarirsi le idee in base all’identità del vostro pubblico, ai vostri bisogni, ai vostri obiettivi di crescita e alle finalità delle vostre iniziative. Mi spiego meglio: la vostra clientela è anziana e locale. Il sito non vi serve, perché i vecchietti non si metteranno davanti a un computer per scoprire le offerte del giorno… ma di sicuro, per saperlo, alle 7.30 saranno in fila davanti alla vostra bottega. I soldi che investireste nel classico “sito vetrina” dateli a una

Chiara R. Zaccaroni ha 39 anni e si occupa prevalentemente di food. Adora i suoi clienti, cede al cibo per amore, lotta con la dieta, ride, ha due cani ed una passione per i libri che trattano argomenti dei quali, lei, non capisce assolutamente nulla.

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persona piena di voglia di lavorare, per aiutarvi ad effettuare il servizio di consegna a domicilio. I vostri clienti vi faranno un monumento. Altro caso: la vostra clientela va dai 25 agli 80 anni, ma quelli con maggiore potere di acquisto sono le persone dai 30 anni ai 50. Al momento non avete tantissimi clienti in quella fascia di età, per cui per incrementare il vostro fatturato dovrete realizzare sicuramente un sito web aggiornabile (e responsive) ma soprattutto comunicherete sui social, per farvi notare da loro e coinvolgerli. La strategia di comunicazione risponde sempre a un ragionamento preciso. Per questo dovete avere le idee molto chiare

quando contattate un consulente o un’agenzia. Vi faccio un altro esempio: avete bisogno di aggiornare il vostro sito da soli perché un vostro dipendente se ne occuperà e non volete dipendere da un’agenzia. Chiedete di farvi vedere il back-end (la parte da cui si interagisce per aggiornare i contenuti) dei siti che realizzano; cercate di capire se sono meccanismi di facile comprensione o complessi e chiedete di mostrarvi come vengono caricate le foto (se sono da ridurre prima di essere caricate o se la “macchina sito” le ridurrà in autonomia, cosa utilissima!). Nel prossimo articolo parlerò in maniera più approfondita dei siti

web e cercherò di farlo nel modo più semplice possibile, perché di agenzie brave ed eque ce ne sono tantissime ed è bene che abbiate gli strumenti per capirlo. “Bravo e equo” non vuol dire mai economico, ma più vantaggioso rispetto al servizio o prodotto offerto. Torniamo ai proprietari del ristorante. Dopo una prima analisi ho deciso di non proporgli quello che mi avevano chiesto perché non utile ai loro bisogni, ma gli ho presentato un preventivo per un sito aggiornabile e responsive e un corso di formazione sui social, poiché essendo pieni di iniziativa avrebbero ottenuto risultati migliori comunicando in prima persona, sco-

Qualcuno ha domande da Porci? Attraverso questa rubrica rispondiamo alle mail che ci sembrano più utili ad approfondire gli argomenti trattati. Vi preghiamo di darci più informazioni possibili, così da rendere i nostri consigli efficaci o, nel caso siate interessati ad argomenti specifici, di comunicarcelo a info@pubblicitaitalia.com o chiara.russotto@icloud.it (Photo © Alessio Sabbadini)

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prendo di potersi divertire un sacco nel farlo. L’idea dell’applicazione l’ho scartata a priori perché, per il tipo di utilità che ne avrebbe fatto l’utente, sarebbe stata una spesa enorme e inutile. Il mondo delle applicazioni è a sé stante poiché, pensateci bene, di tutte le “app” che avete sul cellulare quali usate quotidianamente? Il Meteo, un gioco, Facebook, Pagine, un servizio di news e la guida TV… giusto? Se usate un’applicazione di un negozio o un ristorante, pensate a quante volte la usate al mese. Amazon e tutte le altre applicazioni che offrono acquisti in “app” non fanno testo. Un’applicazione potrebbe essere molto utile per una rosticceria o per un negozio che offre un servizio di take away o di consegna a domicilio, e allora sì che avrebbe un capitale enorme di utilità. I proprietari del ristorante alla fine sono diventati miei clienti e, dopo una settimana, insieme ai ragazzi di sala, abbiamo cominciato a lavorare sulla formazione partendo da un’analisi dei loro punti di forza e debolezza, della loro clientela, del territorio, dei punti di forza e debolezza dei loro concorrenti e degli obiettivi. Se avete voglia di provare, fate una riunione con i vostri collaboratori, per ogni la domanda prendete 5/10 minuti per rispondere a ogni domanda e alla fine rileggetene insieme le singole risposte. Esistono mille tecniche per fare questo tipo di lavoro: sono solo mezzi per agevolare l’analisi, per cui sentitevi liberi di scrivere, disegnare, fare micro grafici ed aeroplanini (se rappresentano l’obiettivo!). Importante sarà solo l’impegno nel mettervi in gioco e vedrete che scoprirete un mondo di informazioni che potrete utilizzare per capire meglio e definire, nel dettaglio, la vostra nuova strategia d’impresa e di comunicazione. Vi chiedo un favore però: scrivetemi per dirmi cosa avete scoperto, su quali nuovi aspetti lavorerete, come avete deciso di correggere gli errori che commettete e se i vostri obiettivi e le relative strategie per raggiungerli sono diventati più chiari. Buon lavoro! Chiara R. Zaccaroni

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Cromaris comunica forte e chiaro Cromaris, azienda croata con oltre 35 anni di esperienza nell’allevamento di pesce in mare, attraverso la filiale Cromaris Italia (www.cromaris.it) di Casale sul Sile (Treviso), sta sviluppando una bella campagna di comunicazione a 360 gradi sul web e in TV, con contenuti mirati rivolti al consumatore. Nel mese di maggio l’azienda ha promosso il branzino e l’orata d’allevamento nel seguitissimo blog Giallo Zafferano, proponendo ricette, abbinamenti e informazioni su come riconoscere il pesce fresco. Alcuni servizi dedicati a Cromaris sono andati poi in onda nel programma di Rete 4 “Ricette all’italiana”, condotto da Davide Mengacci e Michela Coppa. >> Link: goo.gl/9C13wG goo.gl/44SBUj

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PESCA

Ridurre i rigetti in mare I nuovi obblighi produrranno statistiche molto più affidabili per le misurazioni degli stock e forniranno previsioni più accurate relative al rendimento massimo sostenibile La pratica del rigettare in mare gli organismi marini indesiderati è giunta al termine o, perlomeno, ha le ore contate. Per un numero sempre maggiore di tipologie di pesca, il divieto è stato applicato a partire dal 1º gennaio 2016 e quindi sempre più pescatori nei prossimi anni saranno tenuti a sbarcare le loro catture, fino a che nel 2019 le catture saranno soggette allo sbarco totale obbligatorio e imputate ai relativi contingenti. Dead or alive Secondo l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura, oltre

sette milioni di tonnellate di pesce sono rigettate in mare ogni anno. Vivi o morti, i pesci sono rigettati in mare poiché vengono catturati accidentalmente: sono di dimensioni troppo ridotte per poter essere commercializzati o se le catture eccedono il contingente annuale consentito ai pescatori. Ovviamente, tale pratica ha più di uno svantaggio. I rifiuti sono poco sensati in un contesto di scarsa sostenibilità della pesca. Inoltre, la pratica del rigetto distorce i dati di cattura e compromette un corretto parere scientifico sugli stock.

Tuttavia, lo sbarco di tutte le catture può rivelarsi un’operazione complessa, in particolare per la pesca multispecifica. I governi dell’UE scelgono di non imporre lo sbarco da un giorno all’altro, ma preferiscono un’introduzione graduale e per ogni distinta attività di pesca. Tale processo non viene deciso centralmente a Bruxelles, ma concordato dagli stessi Paesi, che decidono le modalità migliori per ciascuna regione e ciascun bacino marittimo, volte a raggiungere gli obiettivi di sostenibilità della nuova politica comune della pesca.

Operazioni di smistamento del pesce catturato a bordo di un peschereccio (photo © Jonathan Stutz).

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La transizione ha preso avvio agli inizi del 2015, con norme per la pesca pelagica e industriale in tutte le acque dell’UE e per la pesca del merluzzo bianco nel mar Baltico. I nuovi obblighi di sbarco per la pesca di alcune specie demersali dell’oceano Atlantico e nel mare del Nord sono entrati in vigore il 1º gennaio 2016. Ad esempio, nelle acque nord-occidentali dell’Atlantico, l’obbligo di sbarco è stato applicato alla pesca multispecifica di merluzzo bianco, eglefino, merlano e merluzzo carbonaro,alla pesca dello scampo, a quella della sogliola comune e della passera di mare, nonché alla pesca del nasello. Nelle acque sud-occidentali, l’obbligo di sbarco si applica alla pesca dello scampo, della sogliola comune e alla passera di mare, nonché alla pesca del nasello. Per tutte queste specie, il contingente annuo accordato ai pescatori è stato naturalmente adeguato, poiché questi ultimi non hanno la possibilità di smaltire le eccedenze

di pesce. Anche in questo modo, un approccio generale renderebbe impraticabile, se non impossibile, l’adeguamento da parte degli operatori; questo è il motivo per cui la normativa prevede un certo numero di eccezioni. La prima serie di eccezioni, chiamate eccezioni de minimis, consente agli operatori di smaltire una ridotta percentuale di catture per quei tipi di pesca in cui un aumento della selettività è sia troppo difficile sia troppo oneroso. La seconda serie di eccezioni, le cosiddette eccezioni di sopravvivenza, consente agli operatori di rigettare temporaneamente in mare le specie con un’elevata probabilità di sopravvivenza, come nel caso, ad esempio, dello scampo, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche. Tali eccezioni sono state stabilite in cooperazione con l’organismo scientifico consultivo dell’UE, il comitato scientifico, tecnico ed economico per la pesca (CSTEP). Alcune saranno riesaminate nel

4 lo Scongelamento

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corso dell’anno, in attesa di nuove ricerche scientifiche e di nuove informazioni da parte degli Stati Membri. Gli stessi piani in materia di rigetti nell’Atlantico sono confermati per una durata massima di tre anni, da gennaio 2016 alla fine del 2018, ma è probabile che saranno sostituiti da programmi di più ampia portata, mentre l’obbligo di sbarco è generalizzato a tutti i tipi di pesca in tutte le acque dell’UE. Finora, il processo di riduzione sta progredendo positivamente e l’approccio regionale adottato dalla politica comune della pesca si sta dimostrando efficace. I Paesi dell’UE stanno tenendo fede alle responsabilità assunte nell’ambito della riforma della pesca. Tuttavia, quest’anno sarà un anno cruciale (e la pesca demersale si rivelerà una delle sfide più impegnative) e sarà il banco di prova per testare la volontà comune di procedere verso una pesca sostenibile. (ec.europa.eu)

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Bertozzi? Clienti protetti e felici di Elena Benedetti

Chi lavora nel mondo dell’agroalimentare sa bene quanto sia importante assicurarsi una adeguata protezione da eventuali contaminazioni con agenti esterni e di tipo alimentare. E anche quanto sia indispensabile in questo settore poter contare su specifici accessori che garantiscano non solo la massima tutela ma anche i più elevati standard di igiene. Certamente ne è pienamente consapevole MANUEL BERTOZZI della Bertozzi di Collecchio (PR), nel Parmense, che abbiamo recentemente incontrato presso la sede direzionale e logistica dell’azienda diretta insieme al fratello CRISTIANO. La struttura, che oggi ospita una trentina di dipendenti, è moderna e ricopre un’ampia superficie. Basti pensare che il suo centro logistico

integrato conta oltre 10.000 posti pallet. «Tutto il lavoro viene coordinato da qui», mi dice Manuel. L’azienda è infatti stata fondata proprio a Collecchio nel 1974 grazie all’intuito del padre di Manuel e Cristiano, il Cavaliere della Repubblica SERGIO BERTOZZI, che colse in anticipo sui tempi le potenzialità dell’igienizzazione, soprattutto considerando le tantissime realtà dell’agroalimentare, anche di grandi dimensioni, che in zona iniziavano a crescere sia a livello di capacità produttiva che in termini occupazionali. Da allora sono trascorsi 42 anni e oggi la seconda generazione porta avanti un business a carattere famigliare che, nel frattempo, è letteralmente esploso: quello dei dispositivi monouso e dell’abbigliamento

protettivo. Il punto di svolta per la Bertozzi è stato l’avvicinamento all’Estremo Oriente, quando ancora tutti si limitavano a rapportarsi e cercare partner commerciali in un più ristretto raggio d’azione. «Abbiamo viaggiato — sottolinea Manuel Bertozzi — e la conoscenza di questi nuovi mercati, oggi seguiti direttamente da due referenti presenti in loco, ci ha permesso di creare una linea di prodotti monouso di altissima qualità, con una ricerca di soluzioni per la protezione e l’igiene rispetto alle normative in vigore caratterizzate da una notevole ampiezza di gamma e di servizi». Il riferimento è soprattutto alle protezioni monouso individuali che Bertozzi commercializza con il marchio Ajsia, un catalogo ricchis-

Lo stabilimento Bertozzi a Collecchio (PR).

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Veduta aerea dello stabilimento Bertozzi. simo di guanti, cuffie, copricapo, mascherine, calzari e tutto ciò che può essere necessario per coprire e proteggere. In base a quanto stabilito dalla Direttiva CEE n. 89/686 e a tutte le sue modifiche e integrazioni, oggi ci sono tre categorie di dispositivi di protezione individuale (DPI): i dispositivi semplici, che proteggono

“Quest’anno saremo presenti a Parma al Cibus Tec e nel 2017 a Tuttofood, a Fiera Milano. Nel 2015 abbiamo avuto un fatturato consolidato di 15 milioni di euro e siamo in piena crescita, pronti per uno sviluppo dell’export e la copertura di nuovi mercati, dichiara Manuel Bertozzi”

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contro rischi non gravi e facilmente rilevabili, quelli intermedi e quelli complessi, destinati a proteggere contro i rischi gravi o potenzialmente letali e comunque non rilevabili in tempo dall’operatore. Ma le normative non si fermano qua, dato che i dispositivi complessi sono ulteriormente classificati per far sì che l’operatore scelga l’indumento protettivo più appropriato a tenuta stagna contro spruzzi, schizzi o liquidi. Questo è un settore dove non ci si può permettere di lesinare sulla qualità del prodotto, perché proprio da questa possono dipendere le performance di industrie alimentari che ogni giorno lavorano carne, salumi, prodotti ittici in volumi molto elevati. Il personale deve poter contare su protezioni pratiche, sempre disponibili, perfette insomma. «La nostra filosofia è quella di lavorare in rete, coinvolgendo tutto il personale e fidelizzando il cliente» mi spiega Manuel. «Vogliamo comunicare i nostri standard di qualità che sono reali, concreti e per far questo lavoriamo tantissimo con i fornitori della Bertozzi, tanto che, come ho già ricordato, due nostri referenti

sono stanziali in Estremo Oriente proprio per coordinare gli approvvigionamenti e seguire il controllo qualitativo». Gli sforzi sono ora concentrati sull’apertura di nuovi mercati, soprattutto in Europa, nei confronti di quei Paesi che stanno iniziando, come si suol dire, a “fare dei numeri importanti”, come la Croazia e la Slovenia. Per questo la comunicazione e la promozione fieristica sono fondamentali. Bertozzi sarà presente quest’anno a Parma al Cibus Tec e nel 2017 a Tuttofood, a Fiera Milano. «Nel 2015 abbiamo realizzato un fatturato consolidato di 15 milioni di euro e siamo in piena crescita, pronti per uno sviluppo dell’export e la copertura di nuovi mercati» conclude Manuel, tra cellulari e linee fisse che non smettono di squillare. Non resta che augurare loro buon lavoro! Elena Benedetti Bertozzi Srl Via Filagni 2 43044 Collecchio (PR) Telefono: 0521 804454 Web: www.bertozzisrl.it www.ajsia.com

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Officina Masetti: da 105 anni sul mercato Costante garanzia di qualità ed esperienza: Officina Masetti da oltre un secolo è in attività, evolvendosi sempre al meglio. Presentiamo un’ulteriore innovazione sui carrelli

“Le modifiche effettuate alla pompa inox: ghiera esagonale di chiusura serbatoio, tappo laterale introduzione olio, fissaggio superiore stelo pompante con vite a brugola, catena maggiorata per comando discesa e boccola sterzo in bronzo”

Da oltre un secolo OFFICINA MASETTI SRL realizza prodotti di alta qualità e affidabilità: fondata nel 1911, dal 1958 l’azienda modenese è specializzata nella fabbricazione di transpallet ed è oggi un esempio dell’ingegno italiano. Officina Masetti ha celebrato qualche tempo fa i 100 anni di attività presentando il “Carrello del Centenario”, un transpallet di ultima generazione realizzato completamente in acciaio inox AISI 304 (o AISI 316 a richiesta). Questo innovativo strumento è stato pensato e studiato per ben 2 anni, progettato direttamente dall’Officina Masetti fin dai minimi dettagli, per soddisfare la richiesta dei clienti più esigenti con un prodotto di sempre maggiore qualità e flessibilità. I materiali utilizzati per

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la costruzione hanno la caratteristica di essere molto resistenti e rendono il carrello perfetto per essere impiegato nei luoghi dove le condizioni ambientali sono più difficili e in cui bisogna rispettare stringenti normative sanitarie. Avvalendosi di un innovativo metodo di costruzione, il nuovo transpallet in acciaio inox, targato Officina Masetti, garantisce una più lunga durata rispetto ai tradizionali transpallet. Questo carrello idraulico è infatti fabbricato con particolari in acciaio inox “microfusi” (procedimento a cera persa): nessuna parte è soggetta a ruggine ed è quindi molto più resistente alle aggressioni delle sostanze corrosive ed al naturale degrado dell’ambiente lavorativo. Ora Officina Masetti ha introdotto

ulteriori nuove migliorie su tutte le pompe (sia “Pompa del Centenario” che “Pompa Alta”), come è ben evidenziato nell’immagine che alleghiamo e che vedrete visitando il sito aziendale. Tutto si può migliorare, anche le cose ben fatte! >> Link: www.officinamasetti.it

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Il mercato delle aragoste nel 2015 Più prodotto in circolazione e prezzo che rimane alto. Calo dell’import nella UE, sale l’interesse in Cina. Buone prospettive per il 2016 di Roberto Villa

Le aragoste sono uno dei prodotti ittici più costosi tra quelli scambiati a livello di commercio internazionale, con un valore medio di 20 USD/kg contro una media inferiore ai 5 USD/ kg per i pesci della maggior parte delle specie e variabile tra gli 8 e i 12 USD/kg per gamberetti ed altre specie di pregio. Sebbene rappresenti una tipologia di prodotto ittico quantitativamente poco rilevante se comparata a pesci, altri crostacei e molluschi, per alcune comunità costituisce la principale fonte di sosten-

tamento, per esempio nei Caraibi, dove oltre centomila pescatori nelle isole e sulla costa dei paesi centro e sudamericani sopravvivono grazie alle aragoste. Le quantità pescate di aragosta americana o astice atlantico (Homarus americanus) sono aumentate notevolmente nell’ultimo decennio, soprattutto in Canada e Stati Uniti: secondo i dati diffusi dalla FAO GLOBEFISH, se nel 2007 i due paesi nordamericani ne avevano pescato 86.000 tonnellate, nel 2015 si è arrivati a circa 150.000 tonnel-

late, senza che questo sostanziale raddoppio dei volumi abbia depresso le quotazioni. Un autunno particolarmente mite sulla costa atlantica del New England, con temperature delle acque su valori decisamente favorevoli, ha determinato il prolungamento della stagione di pesca sino a dicembre inoltrato. Le esportazioni dagli Stati Uniti verso l’Unione Europea nei primi nove mesi del 2015 si sono mantenute leggermente inferiori alla media del corrispondente periodo del 2014;

Nell’area caraibica gli stock di aragosta sono ritornati su livelli normali dopo un periodo di sovrasfruttamento delle risorse, grazie a politiche concordate di sospensione della pesca (photo © Don Riddle Images).

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Lobster rolls (photo © thesuburbansoapbox.com).

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caraibica va segnalato il Nicaragua, paese che nei primi tre trimestri del 2015 ha pescato 4.100 tonnellate di aragoste (+62% rispetto al medesimo periodo del 2014), aumentando del 31% le esportazioni, per un controvalore che ha superato i 65 milioni di USD contro i 50 milioni di USD dei primi nove mesi dell’anno precedente. Nell’area dei Caraibi i patrimoni sono ritornati su livelli normali dopo un periodo di sovrasfruttamento delle risorse, grazie a politiche concordate di sospensione della pesca che sono risultate l’unico metodo efficace per salvaguardare la popolazione asticicola dell’area. Non hanno invece avuto successo le timide misure dissuasive poste in essere da diversi paesi del centro e sud America per scoraggiare la pratica della pesca assistita, ovvero realizzata con la presenza di uomini in acqua, una pratica che ogni anno miete centinaia di vittime; le preoccupazioni circa le migliaia di disoccupati che il bando avrebbe

potuto generare hanno fatto desistere i governi dall’applicare una moratoria che mettesse fuorilegge la pericolosa pratica. L’aumento delle disponibilità di prodotto sul mercato e la riduzione delle importazioni europee, fortemente condizionate dalla debolezza dell’euro se paragonato al cambio tra le due valute in vigore nel 2014, non ha tuttavia influenzato negativamente il corso delle quotazioni grazie alla domanda asiatica in aumento, non solo in Cina, e al maggiore consumo sul mercato interno degli Stati Uniti: l’introduzione nel menù dei ristoranti McDonald dei lobster rolls ha dato un ulteriore impulso a mantenere le vendite sul territorio in linea con il maggior quantitativo raccolto. Anche per il 2016, pur con un altro autunno che si preannuncia mite, le prospettive sembrano buone, pertanto gli operatori si attendono che i prezzi rimangano sui livelli del 2015 senza variazioni significative. Roberto Villa

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tuttavia, si è assistito a un calo significativo nel periodo natalizio, situazione che ha portato ad una riduzione nell’anno pari al 25%. Le quantità sono state collocate agevolmente sul mercato cinese, che sta diventando uno sbocco sempre più importante per gli Stati Uniti, dietro al Canada, il quale rimane saldamente al primo posto come importatore del prodotto a stelle e strisce. L’Unione Europea, negli anni precedenti, ha importato tra le 22.000 e le 25.000 tonnellate di aragoste per anno, principalmente da USA e Canada, seguiti da Cuba e Islanda, che contano entrambe attorno alle 1.000 tonnellate; il prezzo medio delle aragoste esportate verso l’Unione andava dai minimi di 16 USD/kg per il prodotto proveniente dagli Stati Uniti fi no ad un massimo di 36 USD/kg per le aragoste caraibiche di maggior pezzatura collocate sui mercati dell’Europa centrale e settentrionale. Tra gli incrementi più di rilievo nell’area

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ASSOCIAZIONI

Slow Food festeggia un altro importante anniversario Buono, pulito e giusto: questo è il messaggio veicolato all’intero pianeta. Perché mangiare non sia solo nutrirsi, ma anche godere del piacere di farlo; consumare significhi anche rispettare l’ecosistema e l’essere umano e perché l’alimento sia remunerativo sempre, nel giusto modo e per chiunque sia coinvolto nella catena produttiva di Sebastiano Corona

Trent’anni, tanti ne sono passati da quando un gruppo di cultori della buona cucina — Carlo Petrini in testa —decise di fondare un movimento che ben presto sarebbe diventato la più grande organizzazione non governativa impegnata nella tutela del buon cibo. Un cibo però che fosse figlio di un’agricoltura sostenibile, di una nuova etica del lavoro e di un modo responsabile di consumare. Definire così Slow Food — all’epoca battezzata con il nome più goliardico di Arcigola — è forse riduttivo, soprattutto se si va ad esaminare tutto ciò che la Chiocciola più famosa al mondo, pur simbolo di lentezza per eccellenza, è riuscita a fare in un arco di tempo nel complesso molto limitato. Tantissimi sono infatti i meriti che le si possono riconoscere, in ambito

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sia nazionale che internazionale. Ma certamente uno viene prima degli altri, ed è quello di aver colto l’intuizione della grande importanza che il cibo avrebbe acquisito nel tempo non tanto e non solo per il suo valore intrinseco e per la sua capacità di rispondere al bisogno primario di ognuno. Del cibo Slow Food ha colto infatti l’aspetto sacrale, culturale, antropologico, ecologico, economico e persino filosofico. Eppure Petrini e gli altri, all’epoca, erano considerati poco più che buongustai. Buongustai, però — come i fatti hanno poi dimostrato — che intendevano riportare l’accento sulla qualità degli alimenti. Decisero di farlo nel momento peggiore per l’agroalimentare nazionale, nel secolo scorso. Lo

scandalo del vino al metanolo stava devastando l’immagine del settore in Italia e nel mondo. Fu probabilmente proprio quel fatto così grave e così inconsueto che guidò la necessità di avviare una nuova stagione della cultura del cibo. Come i fatti poi dimostrarono, quella vicenda costrinse a ricominciare a lavorare sulla qualità del prodotto e a fare in modo che situazioni del genere non venissero a ricrearsi mai più. È anche grazie o a causa dello scandalo del vino al metanolo che una nuova cura per la terra e una diversa attenzione al processo produttivo hanno portato negli anni a livelli di eccellenza che tuttora permangono e si rinnovano. Che fosse necessario intervenire, e che fosse necessario farlo in quel

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Il Presidio della bottarga di muggine delle donne Imraguen, in Mauritania, sostiene la sopravvivenza di questa etnia che ha popolato le coste mauritane prima delle grandi migrazioni arabe. Il “mulet”, il muggine, è alla base dell’alimentazione dei pescatori tanto che i villaggi sulla costa si trasferiscono seguendo gli spostamenti dei banchi. Le produttrici del Presidio acquistano i muggini dai pescatori e li trasformano. Il loro prodotto principale è la bottarga (photo © Alberto Peroli, www.slowfood.com). modo, i fondatori di Slow Food l’avevano intuito prima degli altri e l’avevano immaginato non solo per il settore vitivinicolo, ma anche per il resto dei prodotti della terra. La realtà di Arcigola, relegata principalmente alle esperienze locali, ben presto ebbe una eco oltre confine prendendo appunto, nel 1989, a Parigi, il nome di Slow Food. Il termine del lento mangiare non fu solo una risposta diretta ai fast food, che si stavano all’epoca diffondendo in tutto il mondo e di cui non si condivideva assolutamente nulla. Slow Food veniva anche a seguito di esperienze come quella di Chernobyl, il più grande disastro nucleare nella storia, che dimostrava a chiare lettere che nel pianeta tutto è interconnesso e che una ferita che si infligge all’ecosistema in una zona della Terra è una ferita per il mondo intero.

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Questi erano i presupposti della propagazione internazionale di un soggetto che, per sua natura, non poteva relegare le sue attività all’interno dei confini nazionali. Da quel momento la Chiocciola non si è più arrestata, continuando con migliaia di progetti diversi la sua lotta per la biodiversità, per costruire relazioni tra produttori e consumatori e migliorare la consapevolezza sul sistema che regola la produzione alimentare. Impossibile riassumere anche solo una parte delle attività della ong. Ma alcune, più di altre, meritano di essere menzionate. Slow Food coinvolge adulti e bambini presentando il cibo nelle sue valenze culturali e sociali, oltre che organolettiche, in un progetto che prende il nome di Orti in Condotta. Gli adulti possono invece seguire dei

percorsi formativi specifici come i Master of Food, dove il risveglio e l’allenamento dei sensi, oltre che una formazione sulle tecniche produttive del cibo e sulla degustazione, sono assicurate. I Mercati della Terra sono invece una rete internazionale di trasformatori e contadini uniti da valori e regole condivisi tra loro. Un luogo dove non solo si vendono prodotti locali e di stagione, ma ci si trova, ci si conosce, si realizzano eventi e si mangia in compagnia creando una cultura nuova del gusto. Con la Fondazione Slow Food per la Biodiversità onlus vengono avviati e coordinati progetti a difesa delle tradizioni locali e delle comunità che nascono attorno al cibo. È dalla Fondazione che nascono i 400 Presidi presenti in tutto il mondo e i 1.000 prodotti dell’Arca

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“Nel vocabolario della Chiocciola c’è il concetto di eredità, inteso come patrimonio immateriale e materiale del cibo che abbiamo l’obbligo morale di lasciare ai nostri figli. C’è l’indicazione di un’etichetta nuova che sia soprattutto trasparenza e garantisca libertà di scelta”

La locandina del documentario che racconta la storia di Slow Food. del Gusto. I primi trasformano in azioni i principi alla base della politica di Slow Food e sono i più efficaci strumenti in mano all’organizzazione per diffondere i principali temi delle varie campagne di sensibilizzazione. Ne esistono diversi e sono divisi per tipologia, da quelli dei formaggi a quelli del mare, da quelli sulle razze e le produzioni animali a quelli vegetali e al miele, per finire con i Presidi che coinvolgono le comunità indigene e rappresentano la campagna più ampia portata avanti da Slow Food e da Terra Madre in difesa dei diritti e della cultura dei popoli indigeni. L’Arca del Gusto è invece un patrimonio immateriale che raccoglie i prodotti che appartengono alla

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cultura, alla storia e alle tradizioni di tutto il pianeta e che puntualmente si rinnova e si arricchisce. È nell’ambito dell’Arca del Gusto che si segnala l’esistenza di prodotti particolari, se ne denuncia il rischio di scomparsa, si invitano le istituzioni a intervenire per la salvaguardia. Non bastasse, Slow Food fa parte del Forum italiano dei movimenti per la terra e il paesaggio, un aggregato di associazioni e cittadini che lavorano per tutelare il territorio italiano dalla deregulation e dal cemento selvaggio. La Chiocciola, dal 1990, è anche editore di testi e riviste volti ad amplificare il suo messaggio. E sempre per dare enfasi ai suoi temi,

“L’Arca del Gusto è un patrimonio immateriale che raccoglie i prodotti che appartengono alla cultura, alla storia e alle tradizioni di tutto il pianeta e che puntualmente si rinnova e si arricchisce ed è in quest’ambito che si segnala l’esistenza di prodotti particolari, se ne denuncia il rischio di scomparsa, si invitano le istituzioni ad intervenire per la salvaguardia”

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è sorta nel 2004 l’Università privata e legalmente riconosciuta di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, dove è possibile intraprendere un percorso di studi che finalmente danno dignità anche accademica al cibo, visto e interpretato come fenomeno complesso e multidisciplinare. In Africa, nelle scuole, nei villaggi e nelle periferie delle città, Slow Food contribuisce alla coltivazione di 10.000 orti per creare una rete di giovani che operino per salvare la straordinaria biodiversità del continente, per valorizzarne i saperi e le tradizioni, per promuovere l’agricoltura familiare e di piccola scala e per dare un futuro agli africani nella loro straordinaria terra. Slow Food ha anche stretto un’alleanza con una rete di oltre 400 cuochi di osterie, ristoranti, bistrot, cucine di strada di Paesi come l’Albania, l’Italia, l’Olanda, il Marocco e il Messico. Cuochi che difendono, dalla propria cucina, la biodiversità alimentare in tutto il mondo. E via discorrendo: promozione dei prodotti d’origine dell’Africa occidentale, rete dei produttori dei mieli d’Etiopia, tutela dei datteri del deserto di Al Jufrah, la lista delle iniziative è ancora molto lunga ed è impossibile riportarla al completo. Ci sono i numeri però a dare la misura delle cose: Slow Food è oggi una rete che si estende in 160 Paesi nel mondo, con oltre 2.300 comunità che fanno parte di Terra Madre.

Tremila sono i prodotti che fanno capo all’Arca di Noè; trentasette, sono i Mercati della Terra in Italia e 15 nei Paesi esteri; trenta i diversi corsi a catalogo, che vanno dal vino alla degustazione di formaggi, salumi, birra, che negli anni hanno coinvolto 88.000 persone e titolato oltre 4.000 master of food; 50.000 sono i soci delle condotte italiane. Una manifestazione regna su tutte: il Salone del Gusto che a Torino, ogni due anni, dal 1996 richiama 1,4 milioni di partecipanti tra cui 30.000 delegati di Terra Madre. E ancora: un numero infinito di eventi che ogni mese, ogni settimana, ogni giorno, le diverse condotte organizzano sul territorio, non ultime, quelle per i festeggiamenti dei primi trent’anni di attività. Buono, pulito e giusto Riportare cifre, elenchi di cose fatte e di iniziative realizzate è però ancora riduttivo e non sarebbe in linea con la filosofia dell’organizzazione che non punta ai numeri, ma ai contenuti. E nei contenuti Slow Food può vantare il merito di essere davvero riuscita a far passare il concetto di un mondo che può e deve essere buono, pulito e giusto. Buono è ciò a cui tutti hanno diritto nel rispetto delle differenti culture e non solo in termini di attenzione alla qualità organolettica, ma anche come piacere e gusto nella sua accezione culturale.

SEPPIA RIPIENA con mousse di zucchine e gambero

ripieni di sapore!

Giusto come deve essere giusta la misura della gratificazione per chi produce e chi si nutre. Il cibo a basso costo è ingiusto quando impedisce una corretta remunerazione a chi ha lavorato. Pulito lo si intende nel rispetto della terra, degli altri e di sé stessi. Un cibo è pulito se non sporca il mondo, né l’essere umano o il pianeta. Questa è la sintesi. Ma le parole chiave che riecheggiano come un ritornello nella filosofia di Slow Food sono molte di più. Una di queste è agricoltura, ma poi vengono biodiversità, rispetto del cibo, del consumatore, dei contadini, di un’economia che sia soprattutto buona amministrazione intesa come gestione per la collettività e non ad esclusivo vantaggio del singolo. Nel vocabolario della Chiocciola c’è anche il concetto di eredità, inteso come patrimonio immateriale e materiale del cibo che abbiamo l’obbligo morale di lasciare ai nostri figli. C’è l’indicazione di un’etichetta nuova che sia soprattutto trasparenza e garantisca libertà di scelta. Su tutto regna l’idea di un consumare sostenibile perché “il pianeta Terra non ci viene in dono dai nostri padri, ma è un prestito concesso dai nostri figli”. Questo famoso adagio, da molti attribuito ai popoli indigeni africani, rende perfettamente l’idea dello Slow Food pensiero. Sebastiano Corona

PRONTO IN MINUTI

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NUTRIZIONE

I nuovi orizzonti della Dieta Mediterranea svelati in anteprima a NutriMI

L’importanza di consumare pesce, anche in conserva

Nonostante la sua popolarità a livello globale e l’evidenza dei suoi benefici sulla salute in generale e sull’apparato cardiovascolare in particolare, l’aderenza alla Dieta Mediterranea è attualmente in diminuzione proprio nei Paesi del Mediterraneo. È da questa constatazione e dalla volontà di preservare e valorizzare l’eredità di questo modello alimentare salutare ed equilibrato che i massimi esperti mondiali, in seno all’IFMeD (International Foundation of Mediterranean Diet), hanno dato vita ad un progetto che mira a rivitalizzarla, adattandola ai mutati stili di vita e di consumo.

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La nuova Piramide alimentare Lo scorso 21 aprile, nella giornata inaugurale di NutriMI (il Forum ECM di riferimento per la comunità di Professionisti dell’Alimentazione; www.nutrimi.it), gli esperti hanno presentato un’anticipazione della nuova “Piramide degli alimenti”, che sarà tenuta a battesimo durante la prima Conferenza Mondiale sulla Dieta Mediterranea il prossimo 7 e 8 luglio a Milano (www.ifmed.org). «La nozione di Dieta Mediterranea ha conosciuto un’evoluzione progressiva negli ultimi 50 anni: da modello per un’alimentazione salutare ed equilibrata è oggi diventata modello

di dieta sostenibile», ha affermato LUIS SERRA MAJEM dell’Università di Las Palmas de Gran Canaria e presidente di IFMeD. L’approccio innovativo di questo modello è che è costruito considerando la dimensione della salute unitamente a quella socio-culturale, economica e della sostenibilità ambientale. Infatti, «la Dieta Mediterranea non è una prescrizione medica: ci sono fattori economici e socio-culturali che influenzano le abitudini alimentari della popolazione», ha sottolineato SANDRO DERNINI di FAO, coordinatore del Forum Culture Alimentari.

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Miss Can: ecco come ti rendo creativa la tradizione delle sardine in scatola La loro mascotte è una bellissima sirena, metà donna e metà sardina, dai lunghi capelli neri, lo sguardo malizioso e un irresistibile profumo di limone o di olio di oliva, disponibile in versione più piccante o squisita in tutta la sua “nuda” semplicità. Il suo nome? Miss Can, letteralmente “Signorina Conserva”, neonata start up di Lisbona creata con la volontà di rinnovare con creatività vincente sotto ogni aspetto le tradizionalissime conserve di pesce, specialità tipica del Portogallo, con un packaging colorato e giocoso. I titolari hanno tra i trenta e i quarant’anni, percorsi lavorativi differenti ma una tradizione famigliare nell’industria di trasformazione del pescato. Alla riscoperta delle proprie radici, i tre hanno rimesso in moto una vecchia fabbrica conserviera a Povoa de Varzim, nel nord del Portogallo. Il segreto della bontà dei loro prodotti è la grande qualità della materia prima utilizzata, al 100% portoghese, e la tecnica, rispettosa della tradizione. «Aspettiamo sempre che il pesce si raffreddi dopo la cottura prima di inscatolarlo. In questo modo anche l’aspetto del prodotto riceve notevoli benefici» racconta uno dei tre giovani imprenditori, Tiago Soares Ribeiro. Oltre alle sardine, di cui sono disponibili anche le uova (una sorta di caviale portoghese), Miss Can propone tonno, sgombro e merluzzo in scatola. I colori differenti servono per riconoscere le varie aromatizzazioni del prodotto. I prezzi variano tra i 10 e i 16 euro. Una volta aperta la confezione di cartone all’interno si possono leggere la storia dell’azienda, informazioni nutrizionali sugli Omega-3, quelle specifiche sui condimenti e anche alcune ricette. Dal Portogallo con amore (in foto, particolare delle confezioni e l’Ape Piaggio con i prodotti Miss Can che sosta davanti al Castello di S. Giorgio a Lisbona).

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Fish and… chips Un caso emblematico è quello del pesce, che è un alimento-chiave della Dieta Mediterranea e che, tuttavia, non è consumato nelle quantità raccomandate in Italia così come accade anche in tanti altri Paesi del mondo. Quali soluzioni pratiche per incrementarne l’assunzione presso la popolazione? «Abbiamo condotto uno studio epidemiologico di coorte su 25.000 Italiani: una recente analisi dei dati emersi ha dimostrato i benefici sulla salute, cardiovascolare in particolare, derivanti dal consumo di almeno due porzioni di pesce a settimana. E le qualità del pesce fresco sono riscontrabili anche nel pesce in conserva, soprattutto grazie al contenuto di Omega-3. Praticamente, grazie alla sinergia tra i diversi nutrienti, la conserva è meglio di un integratore», ha spiegato la prof.ssa LICIA IACOVIELLO del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione, IRCCS Istituto Neurologico Mediterraneo Neuromed. Un altro elemento di novità caratterizzante la nuova Piramide della Dieta Mediterranea è il ruolo che assume al suo interno la patata, che viene rivalutata in virtù delle sue qualità nutritive e del suo ottimo rapporto qualità-prezzo, che la rende accessibile a tutte le popolazioni. «Le patate rappresentano una valida alternativa ai cereali. Una porzione consigliata di 200 grammi di patate, infatti, apporta meno calorie, più fibre e preziosi micronutrienti rispetto ad una di 80 grammi pasta o di riso. Inoltre, contengono antiossidanti e sono naturalmente senza glutine», ha spiegato ALESSANDRA BORDONI, prof.ssa di Scienza dell’Alimentazione e Nutrizione dell’Università di Bologna. Gli esperti hanno concluso che una maggiore aderenza al modello della Dieta Mediterranea potrà produrre allo stesso tempo risparmi nella spesa pubblica sanitaria così come minori impatti sull’ambiente, interessanti opportunità per l’economia locale e una maggiore comprensione sociale e culturale del valore del cibo.

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Olio di pesce per restare in forma Uno studio giapponese dimostra che facilita il metabolismo del tessuto adiposo di Roberto Villa

Una équipe di otto ricercatori, appartenenti al Laboratory of Molecular Function of Food, Division of Food Science and Biotechnology della Università di Kyoto, e di altri centri di ricerca giapponesi operanti nell’ambito delle scienze biologiche e della nutrizione ha recentemente pubblicato un interessante articolo sul numero 5 della rivista SCIENTIFIC REPORTS1, nel quale vengono evidenziati i benefici dell’assunzione di oli di pesce con la dieta, in particolare per quanto riguarda il controllo del

peso corporeo. Gli scienziati hanno studiato i fenomeni che influenzano le complesse relazioni esistenti tra le cellule che compongono il tessuto adiposo: le cellule cosiddette bianche sono quelle deputate all’accumulo dei grassi, importante riserva di energia ad alto contenuto calorico specifico; le cellule marroni e le cellule beige hanno la funzione di rendere disponibile la riserva di energia per fini principalmente di regolazione termica dell’organismo, un meccanismo ben conosciuto e

studiato negli animali che vanno in letargo nel periodo invernale. Partendo da un dato già ampiamente conosciuto nella letteratura scientifica — secondo il quale la termogenesi dipende dalla proteina mitocondriale UCP1, di cui le cellule marroni e le cellule beige sono ricche, ed è attivata dal sistema nervoso simpatico — i ricercatori hanno indagato gli effetti dell’olio di pesce nell’aumentare l’attivazione del sistema nervoso simpatico e in definitiva nella capacità di “bruciare” i grassi.

Integratori a base di olio di pesce sono sempre più raccomandati nella dieta, soprattutto nelle fasi della vita nelle quali è consigliato un supplemento per fare fronte alle aumentate necessità del corpo.

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L’olio di pesce, grazie al suo contenuto di acidi grassi Omega-3 come l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA), è da tempo un alimento noto per gli effetti benefici sulla salute umana: previene elevati livelli di colesterolo e di trigliceridi nel sangue, protegge il sistema cardiovascolare, riduce i fenomeni infiammatori. Oltre agli Omega-3, gli oli di pesce sono una fonte di vitamine (A, D, E) e di minerali, in particolare ferro. Gli studiosi giapponesi hanno messo in luce che un gruppo di ratti, alimentati per sei settimane con oli di pesce contenenti una diversa percentuale di EPA e di DHA nella razione, mostrava un incremento di peso e un accumulo di grasso addominale inferiori fino al 20% rispetto ad un gruppo di controllo nella cui dieta non era stato aggiunto olio di pesce ma olio vegetale; altri parametri rilevati sono stati l’aumento della temperatura corporea e il consumo di ossigeno, sia durante il giorno che durante la notte, indici di un

metabolismo più accelerato per i ratti che avevano ingerito l’olio di pesce. Mentre le cellule marroni nei mammiferi sono tipicamente ubicate a livello interscapolare, le cellule beige, anch’esse ricche come le prime di proteina mitocondriale UCP1, si trovano nel tessuto adiposo addominale vicino alle cellule bianche e sono in grado, se opportunamente sollecitate, di mobilizzare i lipidi accumulati per tradurli in energia termica. Altri studi sono stati condotti a livello mondiale, negli ultimi dieci anni, per indagare la supposta relazione tra il consumo di olio di pesce e il mantenimento della salute cerebrale e della memoria nelle persone anziane, senza tuttavia addivenire a una conclusione che provi un legame scientificamente dimostrabile. Integratori a base di olio di pesce sono sempre più raccomandati nella dieta, soprattutto laddove i cambiamenti di stili di vita hanno portato alla riduzione dei consumi di cibi naturalmente ricchi di acidi grassi Omega-3 e nelle fasi della vita (maternità, vecchiaia)

nelle quali è consigliato un supplemento per fare fronte alle aumentate necessità del corpo. Il consumo di olio di pesce — facilmente reperibile in varie forme (perle, capsule, liquido in flaconi) nei negozi di alimentazione naturale, nelle farmacie, nelle erboristerie e persino nei supermercati — deve però preferibilmente essere soggetto ad una supervisione da parte di un medico, poiché dosi eccessive (oltre i cinque grammi al giorno assunti in maniera regolare) possono generare controindicazioni che vanno a compromettere i benefici di questo prezioso estratto naturale. Roberto Villa Note 1. MINJI K., TSUYOSHI G., RINA Y., KUNITOSHI U., MAKOTO T., YURIKO Y., NOBUYUKI T., TERUO K. (2015), Fish oil intake induces UCP1 up-regulation in brown and white adipose tissue via the sympathetic nervous system, Scientific Reports, 5, 18013, www.nature.com

Società Agricola Moceniga Pesca S.S. V.le Marconi 3/A 45010 - Rosolina (Rovigo) Tel./Fax: 0426 340265 E-mail: moceniga@libero.it

Centro di Depurazione e Spedizione

Centro di Depurazione e spedizione molluschi Via dell’Artigianato 20/22 45010 - Rosolina (Rovigo) Tel.: 0426 270034 Fax: 0426 047500 E-mail: segreteria@moceniga.it Web: www.moceniga.it

Viale Marconi 68 - Rosolina (RO) - Fax 0426 047500 - 0426 664990 Web: www.almeca.it - E-mail: almeca2007@libero.it


IL PESCE IN TAVOLA

Il buon sapore degli scampi di Giorgia Fieni

«È buono crudo», dice MORENO C EDRONI . Ha ragione: grazie a qualche accorgimento (una marinatura nel succo d’arancia o un’aromatizzazione con vaniglia o noce di cocco), in pochi bocconi sentiamo sprigionarsi tutto il sapore dell’Atlantico (e mi raccomando che sia appena pescato, perché non si conserva a lungo), che fluisce libero attraverso la coda gustosa (ottenuta tagliando le zampe, incidendo e spaccando il rosso carapace e togliendo il filo intestinale) degli scampi. La stessa sensazione la otteniamo mettendoli in un’insalata (bastano i kiwi, pure se ANTONINO CANNAVACCIUOLO ci suggerisce l’insalata liquida di riccia: stracciatella di bufala, crudo di scampi, trucioli

di pane, acciughe) o battendoli al coltello per una tartare (con fragole e agrumi, e qui interviene BRUNO BARBIERI, che li serve su ananas alla vaniglia) o per un carpaccio (su cui ANDREA MAINARDI poggia zucchine selvatiche ripiene, crema di foie gras e pinoli tostati). Quelle invitanti code però a tutti ricordano il sambal (con spezie e latte di cocco), il curry (con cipolla, aglio, ghi, coriandolo, zafferano, senape, cumino, peperoncino) e il cocktail (dove si può sostituire la salsa rosa con passata di pomodoro e maionese al curry). Ma il buon sapore degli scampi non si perde nemmeno in una cottura al forno (con panure di prezzemolo e mandorle, o avvolti in fette di pro-

sciutto crudo o di patate e coperti di olio e rosmarino) o in padella (con peperone verde e fiammeggiate al cognac). Anche se, per una presentazione d’effetto, il consiglio è di trasformarli in una bavarese, con l’aiuto di panna montata, mascarpone e carciofi. BENEDETTA PARODI ci avverte sul loro uso come condimento. «L’inconveniente della pasta con i crostacei è che, se il sugo non è fatto davvero bene, risulta slegato e la pasta resta una semplice pasta in bianco con qualche scampo di decorazione. Il rischio non esiste se gli scampi vengono frullati e diventano un’irresistibile salsa». Spetta a voi dunque scegliere se seguire o meno il suo suggerimento,

Scampi alla busara, piatto tipico della città di Trieste molto probabilmente ereditato dalle influenze dalmatoistriane, con pomodoro, peperoncino, pangrattato, prezzemolo, aglio, olio e sale (photo © mangiarebuono.it).

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Preparazione degli scampi in tempura (photo © Leung Cho Pan). quando li aggiungete alla ricetta delle mezze maniche con ricotta e zafferano, degli gnocchi di patate alla rucola (o di cavolfiore con ciliegie, vi sussurra LORENZO COGO), degli strozzapreti patate e carciofi, dei noodles agli spinaci (o con prosciutto cotto, pollo e fagioli), del risotto e delle tagliatelle con scorze di arancia e peperoncino di Espelette. Per i paccheri ripieni di scampi, serviti su salsa di panna e ostriche, il consiglio invece ve lo do io: meglio crudi!

“Molti sostengono che per cucinare lo scampo valgano le stesse regole applicabili per il gambero, il che è relativamente vero. Di certo questo crostaceo si presta a mille preparazioni, con risultati sempre ottimi”

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Non ci riflettete nemmeno, invece, sul presentarli fritti, perché sono ottimi: basta una classica tempura (potete anche aggiungervi salsa di ostriche e, una volta pronti, cospargerli di miele), o un passaggio prima nell’albume e poi nel sesamo (che li rende leggeri e croccanti), oppure metterli nella frittata, con funghi e sherry. Sono pure perfetti per gli appetizer e i finger food! Immaginate gli scampi su una bruschetta (con olive e pomodori), nel ripieno di un peperone rosso baby o dei calamaretti, su un bel tagliere con formaggi e salumi (burrata, prosciutto Serrano o anche un latticino fresco vegan, di fave al limone, radicchio e mela), in un club sandwich (con yogurt alla curcuma al posto della salsa), in una caponatina, nei vol-au-vent o, con le triglie, nel ripieno di un arancino di riso Venere. Non arriverete, forse, ad esaltarne la dolcezza come fanno gli chef, ma vi ci potete avvicinare. Osserviamo perciò con meraviglia le loro creazioni. SIMONE RUGIATI prepara una base di scampi scottati al brandy e immersi in una gelatina

di cachi, ne crea delle monoporzioni e su ognuna mette diverse combinazioni di spezie e sali. SALVATORE TASSA serve quelli dell’Adriatico con muschio dei boschi disidratato, per dare al tutto un aroma affumicato. CARLO CRACCO li immerge, con le nocciole, in un brodo di sambuco. A Identità Golose 2014 NIKO ROMITO li ha trasformati in tagliatelle. NORBERT NIEDERKOFLER cucina la variazione di fegato grasso con crème brûlée e scampi. MAURO ULIASSI lo scampo zen al sake con aria di cedro e insalata di ananas e cetriolo. ERRICO RECANATI lo scampo rincorre la lepre. «È un piatto in cui la lepre viene cotta sottovuoto e poi rivitalizzata e fatta caramellare in padella; si alterna un pezzo di scampo e uno di lepre e si accompagna con del burro di crostacei». D AMIANO N IGRO , per cuocerli, aromatizza la vaporiera con le mandorle. QUIQUE DACOSTA prepara una meringa e la usa per racchiudere uno scampo di Dénia. Il sapore degli scampi sarà anche tutto nella coda, ma di certo è un concentrato di gusto indimenticabile! Giorgia Fieni

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PESCE D’ACQUA DOLCE

Trota? Quale trota? Pesce d’acqua dolce saporito e carnoso, ricca di sali minerali e di Ω-3, ne esistono diverse varietà. Le più comuni sono l’iridea, la fario e la salmonata. Bollita, impanata, marinata, al cartoccio o al forno, sono tantissimi i modi che la rendono appetitosa di Giorgia Fieni

Ci sono alcuni alimenti per i quali la denominazione generica non è sufficiente. Dove il sapere gastronomico è libero di circolare non si può semplicemente parlare di “trota”, ma ne va specificato il genere. Iridea? Fario? Salmonata? O addirittura affumicata? Perché ognuna di esse ha caratteristiche differenti e, di conseguenza, diverse possibilità di essere ricettata. È tempo quindi di conoscere meglio questa famiglia di salmonidi.

La TROTA IRIDEA è detta anche arcobaleno per il variegato colore del dorso (dal grigio-verde al brunoscuro, chiazzato di nero) e dei fianchi (una linea argento con sfumature dal verde all’azzurro al rosa). È arrivata in Europa dopo la scoperta dell’America, in compagnia del pomodoro e del tacchino, e in Spagna è stata subito favorevolmente accolta con una preparazione detta alla navarra che la vede ripiena, ricoperta con prosciutto crudo, gratinata in forno

e servita con un contorno di patate al burro, il tutto accompagnato da un vino rosso leggero di corpo. La TROTA FARIO invece è autoctona: provvista di macchioline rosse e nere, si trova nei torrenti di montagna. Il suo sapore naturale è ovviamente esaltato dalla cottura alla griglia (magari dopo averla farcita con aglio, prezzemolo e pepe) e da un condimento leggero di olio extravergine crudo, sale e gocce di limone, oppure dal cartoccio, in forno con

Trota salmonata al forno con patate (photo © www.gustoblog.it).

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Filetto di trota salmonata aromatizzato alla piastra (photo © www.contemporaneofood.com).

“La trota è una vera miniera di acidi grassi Ω-3. Povera di colesterolo, è particolarmente indicata nelle diete disintossicanti. Inoltre, ricca di sali minerali, quali sodio, potassio, calcio, fosforo, magnesio, ha notevoli quantità di fluoro, iodio e zinco, che stimolano il metabolismo”

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riccioli di burro e rametti di rosmarino. In padella con vino bianco e salsa di pomodoro o con aceto balsamico sarà ugualmente gustosa; se vogliamo arricchirla ulteriormente meglio puntare su porcini, capperi e pangrattato, oppure su un passaggio in farina, aromatizzata con aneto e senape, e mandorle. La TROTA SALMONATA è una iridea allevata e alimentata con crostacei, che rendono la sua pigmentazione più rosata. Viene servita con cipolla rossa in agrodolce e zabaione al limone oppure frullata con formaggio cremoso, capperi, aneto e limone, sui crostini. In modalità semplice bastano farina, burro, salvia e il forno. Per una ricetta più complessa, l’ausilio di erbe aromatiche (basilico, timo, cerfoglio) e semi di senape la trasformerà in una terrina cotta a bagnomaria. AUGUSTE ESCOFFIER, il 3 maggio 1903, la serve al vino Chambertin; ANDREA ALFIERI, in tempi più recenti, ne propone due varianti: Crostini con mousse di trota salmonata e cubi di polenta fritta con porcini e grana e Variazione di salmerino, gamberi di fiume, trota

salmonata con gelatina di mele verdi e zenzero. Per essere all’altezza di cotanti predecessori basta scottarla in infusione con tè freddo al bergamotto e servirla con salsa di soia, aceto balsamico e riduzione di anice stellato. La TROTA AFFUMICATA, infine, è quella che ha subito un processo di salatura a secco e un trattamento con legni non resinosi e bacche aromatiche. Il suo gusto forte e deciso viene smorzato servendola in insalata, con verdure e spicchi d’arancia oppure panna acida o fragole e mela verde. O anche in ricette insolite come i bignè salati con barbabietole e il panino al latte spalmato di burro assieme a frutti di bosco (cotti in acqua e mescolati ad aceto balsamico e miele millefiori) e rucola. È buona anche nel risotto con vino rosso e burrata, da presentarsi avvolto nel prosciutto crudo e in foglie di radicchio alla griglia. In Austria, con tuorli, albumi montati, dragoncello e groviera, la trasformano in un omelette-soufflé da servire su pomodori al basilico; in Polonia, invece, lo chef ZBIGNIEW

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Trota all’arancia (photo © www.nonnapaperina.it).

“La carne della trota ha un sapore molto delicato: è consigliabile cucinarla con preparazioni semplici, che non ne coprano il gusto. In padella, alla griglia o al forno, ottima semplicemente bollita o al vapore”

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KOZLIK prepara la mousse di trota affumicata della Bassa Slesia con insalata, pomodorini, semi di girasole. Se non siamo cultori di trote, per cui la sua specie non ci interessa particolarmente, ma vogliamo semplicemente metterci alla prova con questo pesce, meglio orientarci su ricette di altro calibro. Innanzitutto sul classico, bollendole e servendole, come suggeriva nel 1331 MAINO DE MANIERI nell’Opusculum de saporibus, con una peverata allo zafferano oppure con la salsa olandese (così come è arrivata in tavola il 29 marzo 1902 per celebrare la “Francesca da Rimini” portata in scena da Eleonora Duse), quella al tartufo o una semplice riduzione al vino rosso (come può essere il Nebbiolo o il Barbera), rafforzato dalla presenza dei chiodi di garofano. La mariniamo e poi la cuociamo con salsa di soia, sherry, zucchero di canna e crema d’aglio. Impanata (con granella di pinoli e farina oliata) la rosoliamo in padella. Ne prepariamo un pasticcio (frullandola con scalogno appassito e pane ammollato

al latte), cotto in forno a bagnomaria dopo l’aggiunta di uova, ricotta, prosciutto crudo, prezzemolo, scorza di limone e nocciole. In “turbante” è ancora più creativa se farcita con zucca e servita, con finferli croccanti, su crema di lattuga. Carina è anche l’idea di farne una crema, con sedano e rucola selvatica, e intervallarla a fette di pomodoro, presentandolo poi ricostruito. La mariniamo con limone e salmoriglio e la usiamo come farcitura dei fiori di zucca, fritti e serviti con salsa alle acciughe. Una menzione particolare va all’impiego in cucina delle uova di trota. DAVIDE OLDANI le usa come decorazione per un piatto di malfatti con quenelles di ricotta e granella di tapioca fritta, DAVIDE ZUNINO per ravioli il cui impasto è costituito da una sfoglia di olio extravergine (da olive taggiasche) e il ripieno da purè di cavolfiore. La difficoltà della trota sta dunque tutta nel reperirla e nel distinguerla… Una volta in cucina, il gioco è fatto! Giorgia Fieni

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LOCALI DI GUSTO

Kyo Fish, dal mare al piatto (anche di casa) Nella città dei fiori una pescheria con wine lounge per acquistare pesce di alta qualità e degustare crudité, vini e champagne

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Il banco pescheria di Kyo Fish Wine lounge.

“Kyo è un luogo dove si possono assaporare i prodotti del mari accompagnati da ottimi vini e champagne selezionati; un luogo in cui i pesci, crostacei e frutti di mare non vengono solo venduti, ma anche raccontati per sensibilizzare i clienti sulla sostenibilità dei prodotti ittici e creare una cultura di consumo consapevole”

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Ha aperto lo scorso febbraio durante la 66ª edizione del Festival della Canzone Italiana ed è stato subito un successo! Kyo Fish Wine lounge è un format interessante e moderno che a Sanremo abbina la vendita al pubblico di pesce fresco selezionato alla consumazione nel locale di piatti a base di pesce, accompagnati magari da un buon calice di champagne o da ottimi vini. Kyo — che in lingua giapponese significa letteralmente “la novità nella sua purezza” — è uno spazio multifunzione all’interno del quale si possono acquistare e degustare i prodotti del mar Ligure e non solo. La sua particolarità, infatti, è data soprattutto dal personale addetto alla vendita e al servizio: uno staff preparato che sa “raccontare” i pesci, crostacei e frutti di mare disponibili e che trasmette ai clienti informazioni sulla sostenibilità dei prodotti ittici, aiutandoli a sviluppare una cultura di consumo più consapevole. Un indirizzo speciale, in cui vengono svelati i segreti più semplici e veloci per cucinare e valorizzare al meglio i prodotti del mare acquistati e capace di offrire anche prodotti

“su misura”, ovvero pesce fresco, appositamente pulito e preparato per i meno esperti, che potranno comunque assaporare la genuinità di un prodotto ittico di qualità elevata con il vantaggio di essere già pronto per essere cucinato. Nell’offerta di pesce locale si possono anche trovare i gamberi e gli scampi di Oneglia, oltre ad una selezione di ostriche e frutti di mare. Quella di Saremo è la seconda pescheria con l’insegna Kyo Fish in Liguria, dopo l’apertura nel centro storico di Rapallo, Genova (www. kyofishbistro.it), sempre dedicata alla diffusione della cultura e dello straordinario patrimonio ittico del mare e legata soprattutto alla cucina mediterranea. Kyo Fish Wine lounge Piazza Sardi 16 (ang. Piazza Bresca) 18038 – Sanremo (IM) Telefono: 0154 991330 Web: www.facebook.com/kyofishsanremo Nota A pagina 76 il porto di Sanremo (photo © Dimitri Surkov).

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Le linee di prodotto di Kyo Fish Wine lounge sono quattro: i piatti di pesce (Kyo food), i pronti a cuocere, la linea take-away e “L’Aperikyo”, una selezione di specialità pensate per l’happy hour in abbinamento ad un calice di vino o di champagne.

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Ittica Marcato celebra la corsa rosa giunta alla sua 99a edizione 219 partecipanti per quasi 3.500 chilometri di strada: il “Giro” è una delle più importanti e storiche corse di ciclismo al mondo. La sede di Ittica Marcato di via Pacinotti 26/1, nella zona industriale di Noale (VE), ha perciò voluto celebrare con un grande striscione rosa (foto a lato) il 99o Giro d’Italia durante il suo passaggio nel Veneto: la tappa numero 12, infatti, è partita proprio da Noale il 19 maggio scorso per poi concludersi a Bibione. Dalla cittadina della Rocca, lo splendido Palazzo dei Tempesta (detto anche palazon), alla località turistica veneta nota per il mare e le sue terme. Ittica Marcato Group è un’azienda giovane e dinamica che ha sede a Noale, ma possiede diversi punti vendita variamente dislocati nelle province di Venezia e Padova che prendono il loro nome da quello della fondatrice, “nonna Teresa”, che avviò il mestiere nel 1947. Da novembre 2015, poi, Ittica Marcato ha acquistato Fimar Srl ditta grossista e commissionaria presso il mercato ittico di Venezia. Specializzata sul fresco ma anche sul vivo e congelato, Ittica Marcato, con 50 dipendenti, è diretta da Raffaele Marcato, amministratore unico. La moglie Litiana, invece, è a capo del marketing, importazioni, ispettivo dei punti vendita e del personale. “Dal mare alla tua tavola” è il loro motto. Una realtà vincente come questa straordinaria manifestazione sportiva vanto del nostro Paese. >> Link: www.itticamarcato.com

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SAPORE DI MARE

La saga partenopea dei Mattozzi, pizzaioli per tradizione dal 1852

L’Europeo, una storia napoletana al profumo di mare di Riccardo Lagorio

Una dinastia che ha attraversato tre secoli. La più antica e numerosa famiglia di pizzaioli napoletani tuttora operante è quella dei MATTOZZI che, per avere fornito alla storia più di 20 operatori in questa attività, tutti in stretto rapporto di parentela tra loro — padri, figli, fratelli, nipoti —, si può ben dire abbia segnato indelebilmente la storia della cucina del capoluogo campano. La genesi di questa casata risale al 1852, ma i documenti relativi alle sue origini risalgono all’ultimo decennio del Settecento. Capostipite E MIDDIO MATTOZZI, immigrato dalla Ciociaria: venditore ambulante di cibo da

strada. Mentre dal 1930 il Ristorante Mattozzi, accanto alla Camera di Commercio di Napoli, rappresenta uno spaccato della cucina di mare partenopea, con il suo arredamento e gli ambienti dai toni classici, i piatti di ceramica e i tegami in rame appesi alle pareti a comunicare la familiarità dei fornelli ma il nome aperto al mondo, Europeo, e le eleganti coloratissime stoviglie dipinte a mano a infondere eleganza. Sono ALFONSO e la figlia FABIANA a renderlo ancora più accogliente attraverso le buone maniere di cui i profumi marinari e le pizze d’incanto hanno bisogno per essere ricordati.

Così è peccato veniale che le comande passino di voce in voce dal tavolo al fornello — voglio convincermi: a causa dei capricci della disponibilità di mercato —, per i variegati e variopinti antipasti crudi: di conchiglia, come ostriche e noci di mare, o carpacci di pesce spada, scampi, gamberi; e quelli altrettanto generosi di insalate di polipo bollito o di mare, cozze gratinate o alici marinate che fanno a gara con i grandi, intramontabili di terra come la Mozzarella di Bufala Campana DOP dalle campagne d’Aversa, gigante e opalescente, e il casatiello napoletano, energetico e sfarzoso. E l’omaggio

Il locale guidato da Alfonso Mattozzi e dalla figlia Fabiana, dall’ambiente caldo e caratteristico, offre un saggio della classica accoglienza firmata da questa famiglia impegnata nel settore della ristorazione dal 1800.

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“La cucina è quella tradizionale partenopea, con ostriche e noci di mare o carpacci di pesce spada, scampi, gamberi, le straordinarie pizzelle di cicinielli, bianchetti passati in una pastella di uova e farina e fritti, la zuppa di frutti di mare con pomodorino del piennolo e peperoncino o la sorprendente passata di cicerchie e vongole. Seducenti le paste: i paccheri, con sciurilli e cozze o alla pescatora, i fusilli di Monteforte Cilento con vongole veraci e cime di broccoli o i tubettoni cozze e fagioli”

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I paccheri alla pescatora. a uno dei cibi da strada più originali del meridione d’Italia, le pizzelle di cicinielli, bianchetti passati in una pastella di uova e farina e fritti, dalla consistenza finale simile a pizzette. Un monumento gastronomico. Seducente per infinita varietà la proposta di primi piatti, con le paste in primo luogo. Si parte con i fusilli di Monteforte Cilento, con vongole veraci e cime di broccoli: la pasta della dimensione di un palmo di incava mediante un ferro a quadrello, sfilandola e lasciando in tutta la lunghezza della pasta un vuoto invaso dagli umori dei molluschi. I paccheri, con sciurilli (fiori di zucchine) e cozze o alla pescatora, con tocchetti ben presenti di pesce sodo; le linguine con vongole veraci o all’aragosta; i tubettoni cozze e fagioli, una tradizione che va avanti dal 1930. Rugose le paste quanto basta per sedurre e gravarsi delle sfumature dei sapori marinari. In ogni caso, nei nostri passaggi da qui, abbiamo ceduto, davanti alla miracolistica piacevolezza di ogni morso, a ricordi che ancora percepiamo come solenni. Ma anche zuppe e passate che accompagnano da sempre la saga dei Mattozzi: la zuppa di frutti di mare con pomodorino del piennolo e peperoncino o la sorprendente passata di cicerchie e vongole. Entusiasmante la proposta di prodotti ittici tra le seconde portate:

dal pesce bandiera (o il baccalà) alla pizzaiola, al filetto di spigola in crosta di patate; dalla pezzogna alle olive verdi al pesce spada alla griglia al profumo di menta. Meritano il podio i polipetti al pomodoro del piennolo in casseruola. Dalla griglia calamari e aragosta. I tempi di preparazione saranno sempre nell’ambito della sopportabilità. Impossibile, si diceva prima, stilare una carta delle pietanze valida per più d’un giorno. Vale a maggior ragione, per l’imprevedibilità di averla disponile, per quella frittura di fragaglia, ovvero di novellame di triglie, merluzzi, boghe e sardine, che a luglio e agosto diventa la più napoletana fravaglie di fragaglia, di sole alici. Un fritto gustoso e leggero, da mangiare con le mani, imprevedibile raccolto della pesca a strascico. Il giornalista americano ED LEVINE dichiarò qualche anno fa che la pizza dell’Europeo è una fetta di paradiso. Senza volere attribuire irrispettose similitudini, quella fragaglia, sì, al paradiso ci assomiglia non poco. Riccardo Lagorio Ristorante Europeo Via Marchese Campodisola 4 80133 Napoli Telefono: 081 5521323 Web: www.mattozzieuropeo.com/ home.htm

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Street food ittico a due passi dal mare della Costa degli Etruschi

Al Polpo Marino, polpo, chiacchiere e vino di Maurizio Dell’Agnello

Sulla Costa degli Etruschi esiste un luogo famoso per suoi affascinanti tramonti, il Golfo di Baratti, dove il sole scende lentamente in mare lambendo il promontorio di Populonia, tra l’Isola l’Elba, Capraia e la Corsica. Insomma, un posto che prima o poi riceverà la protezione dell’UNESCO, ne sono certo, tanto è lo spettacolo che ci mette gratuitamente a disposizione quel paesaggio. In questo magnifico luogo, a due passi

dalla battigia, da un po’ di tempo a questa parte è possibile apprezzare alcuni dei migliori prodotti che il mare è in grado di fornirci. Si tratta del chiosco “Al Polpo Marino, polpo chiacchiere e vino” che, tra Pratone e la Piazzetta dei Villini di Baratti, ha aperto i suoi battenti o, meglio, i suoi quattro sporti, di fronte ai quali si formano regolari ed ordinate file di persone che aspettano il proprio turno gustandosi con gli occhi la bellezza

dell’orizzonte. È una tradizione, quella del fish street food, che è stata singolarmente recuperata e anche un po’ originalmente reinventata dai titolari del chiosco e che si rifà ai vecchi tempi, quando Bille, famoso “polpaio” piombinese, gestiva la sua attività in pieno centro cittadino, tra gli anni ‘50 e ‘60, vendendo polpo lesso e frutti di mare crudi — ancora lo si poteva fare —, magari accompagnati da qualche goccia di

Il chiosco “Al Polpo Marino, polpo chiacchiere e vino” affacciato sul Golfo di Baratti.

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Il polpo al cartoccio del chiosco (photo © lasphigadigrano.it). limone sapientemente spremuta dallo stesso gestore e da un bicchiere di vino. Quest’anno il nuovo esercizio si prepara ad affrontare la sua prima stagione intera dopo l’apertura lo scorso agosto, accompagnata da tante polemiche. Tra le critiche avanzate all’originale iniziativa, la più ricorrente è stata lo stile architettonico del chioschetto, non proprio conforme all’ambiente nel quale è inserito, una zona adiacente all’area archeologica della necropoli etrusca. Al di là del fatto che l’esercizio abbia avuto la concessione e l’autorizzazione a seguito di un regolare bando, con criteri appositamente stabiliti, in effetti, non si può certo

dire che lo stile sia propriamente etrusco. Qualcuno ha scomodato le culture tirolesi, altri hanno tirato in campo le architetture cinesi, ma forse, senza andare troppo lontano, il riferimento artistico a cui si è ispirato il Polpo Marino si trova poco più a nord, nella città di Livorno, e più precisamente nello stile liberty di Viale Italia… Quindi una cosa tutta provinciale, se vogliamo. Ma lasciamo le polemiche ai politici e al loro mestiere, perché quando una cosa la si fa in base ad una concessione che ne ha definito criteri e limiti, per un periodo di tempo determinato (la struttura è smontabile), vivacizzando un luogo

“Polpo lesso, baccalà e frittura di pesce con patatine e schiacciata toscana con soppressata di polpo e pecorino. Ma la vera ciliegina sulla torta è rappresentata dagli arancini di mare: il riso viene cucinato in un brodo di crostacei, con cuore di gambero e mozzarella, il tutto impanato e fritto. Una proposta da grande chef”

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e rinnovando una tradizione, penso ci sia poco altro da dire, ma solo da gustare quello che ci viene proposto e, tutt’al più, giudicare quello. E allora vediamo cosa ci offre il menu di questo chiosco di legno anticato sormontato da una bella cupola di rame ossidato dal tempo. Piatti semplici, ma anche un po’ speciali, nei quali sono protagonisti, oltre al polpo lesso, il baccalà fritto, la frittura mista con le patatine e la schiacciata toscana accompagnata con soppressata di polpo e una nota di pecorino, forse l’unico elemento che si allontana dall’offerta marinara, ma che comunque ne arricchisce il gusto e ne qualifica l’offerta. Le porzioni non sono enormi, ma proporzionate al costo. Le pietanze vengono servite in piccoli contenitori in cartone, muniti di forchette di legno e ampia possibilità di scelta tra vino, birra e, ovviamente, acqua per gli “autisti” o per chi la preferisce. Si può mangiare in piedi, nel rigoroso rispetto dello street food, oppure seduti su una comoda panca alla base della struttura, ma anche direttamente sull’erba, magari sotto

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i famosi pini torti di Baratti, la cui forma è determinata dalla forza del vento di Ponente e del Maestrale che in certe giornate entrano nella baia. Principe del menu è ovviamente il polpo, morbidissimo, cotto con crismi e contro crismi e condito con olio, pepe, peperoncino, limone e accompagnato da una morbida salsa di patate. Ma c’è anche il fritto di calamari e gamberoni sgusciati cucinato alla richiesta e quindi servito caldo, croccante, davvero squisito. La vera ciliegina sulla torta, però, è rappresentata dagli arancini di mare, gustose pallottole di riso cucinato in un brodo di crostacei, con un cuore di gambero e mozzarella, il tutto impanato e fritto. Una proposta da grande chef, preparata con attenzione e cura. Ma sentiamo da TITO VERROCCHI, ideatore del progetto, cosa ci dice a proposito del polpo, della sua iniziativa e della sua cucina. Tito, come è nata questa idea? «Alla base del progetto c’è la

passione per i chioschi antichi, il mangiare per strada e la voglia di riportare in auge certe tradizioni della nostra storia gastronomica, una proposta che sul territorio mancava da molti anni». Forse a Baratti, a dire il vero, non c’è mai stata… «Forse no, non si può sapere con certezza, ma l’uso del polpo alla granfia servito per strada, a Piombino, e sulle nostre coste c’era sicuramente. E allora perché non proporlo anche ai turisti che in estate frequentano questo magnifico angolo della Costa etrusca?». A giudicare dalle code davanti al Polpo Marino mi pare che l’iniziativa abbia avuto successo no? «Siamo molto soddisfatti del gradimento dimostrato verso le nostre specialità di mare, considerando anche che l’apertura ha praticamente interessato solo la parte finale della scorsa stagione».

Su che cosa avete puntato in particolare? «Su tutto quello che può essere considerato cibo di strada a base di “polpo e dintorni”, cercando di puntare sul recupero di certi sapori e odori, con il profumo del banchetto del polpo lesso, il pentolone che brontola fumante, la granfia arricciata e bollente pronta per essere mangiata e, soprattutto, con il fresco ristoro di un buon sorso di vino delle nostre belle colline». Insomma, un’operazione profonda che ha voluto restaurare le sensazioni del gusto, dell’anima, della memoria… «In serto senso sì, anche se abbiamo cercato di accompagnare alla tradizione anche il piacere per una nuova convivialità che sfugga dal sapore omologato o al gusto a “taglia unica” dello stesso cibo di strada». E ci siete riusciti? «Noi ce la mettiamo tutta». Maurizio Dell’Agnello

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SAPORI DAL MONDO

Il salmone teriyaki È uno dei piatti tipici della cucina orientale, ma si può preparare anche con anguilla, pesce spada, gamberi o altre specie ittiche oppure con vari tipi di carne. Si cuoce a fiamma viva (yaki) e con una salsa dolce a base di soia, sake e mirin che conferisce lucentezza (teri) di Nunzia Manicardi

Capita sempre più spesso di imbattersi in cibi accompagnati dal termine teriyaki o anche in reparti di fast food indicati semplicemente come teriyaki. Guardando, ci si può fare un’idea immediata di che cosa offrano dal punto di vista gastronomico, ma… che cos’è esattamente il teriyaki? Un metodo di cottura e una salsa Con questo termine giapponese si indica una tecnica culinaria tipica

della cucina del Sol Levante — di cui costituisce una delle caratteristiche principali — e oggi ormai diffusa in tutto il mondo. Secondo tale tecnica i cibi (di solito pesce o carne) vengono grigliati o saltati nel wok dopo essere stati marinati in una salsa dolce a base di soia (la salsa teriyaki, detta anche tarè). Teriyaki indica quindi non solo la salsa ma anche il tipo di cottura, sempre a contatto con il ca-

lore diretto. Infatti teriyaki letteralmente significa: teri = lucido, splendente e yaki = cotto al grill, con riferimento alla patina lucida (una sorta di glassa) che la salsa forma intorno al cibo dopo che esso è stato cotto sulla griglia o saltato nel wok. Si parla perciò, in base all’ingrediente prescelto, di salmone teriyaki, pesce spada teriyaki, cernia teriyaki, gamberi teriyaki e così via. La

Spiedini di salmone teriyaki (photo © www.ifood.it).

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Salsa teriyaki (photo © www.ashleymarieskitchen.com).

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salsa teriyaki si abbina molto bene anche alla carne, dal pollo al maiale al manzo eccetera. Di solito il pesce o la carne vengono prima fatti a bocconcini e poi infilati in spiedini, spesso alternati con pezzetti di verdura (peperoni, carote, zucchine, cipolle…), poi lasciati a marinare per qualche minuto; vengono infine cotti su una griglia a fiamma vivace per pochissimi minuti in modo da mantenere tenera la carne (il wok è il tegame ideale: è una sorta di padella usata nella cucina cinese, di forma semi-sferica fonda, con la parte terminale concava, generalmente in ferro o in ghisa. Essendo piuttosto pesante consente di mantenere a lungo il calore, mentre la sua forma svasata permette di friggere in immersione pur utilizzando scarse dosi di olio). Al di fuori del Giappone o in un contesto cosmopolita il termine teriyaki viene invece ormai sbrigativamente utilizzato per indicare qualsiasi piatto genericamente preparato dopo marinatura nella salsa teriyaki o anche in una salsa simile ad essa (in cui cioè permane la soia ma vengono meno altri ingredienti o vengono sostituiti con altri prodotti). Ma, come abbiamo appena spiegato, non è questo il significato autentico e originario. Abbiamo già detto che la salsa teriyaki accompagna sia il pesce che la carne. Vedremo in questo articolo il primo caso. La preparazione della salsa rimane però la stessa. Se ne trovano in commercio di già pronte e di ottima qualità, ma è molto facile farla anche in casa. L’unico ingrediente di difficile reperibilità potrebbe essere il mirin, una sorta di sake dolce, ma ormai nei supermercati ben forniti e internazionalizzati si trova agevolmente e, in ogni caso, può essere sostituito aumentando la dose di sake oppure aggiungendo un cucchiaino di zucchero. È preferibile acquistare o comunque preparare la salsa di soia nella versione più dolce (ce ne sono alcune piuttosto salate) perché risulta più delicata e meno “coprente” rispetto al cibo da cucinare. Infine c’è chi consiglia di usare il miele al posto dello zucchero perché rende la salsa più densa e di

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conseguenza la glassa più avvolgente e vellutata. Ingredienti per la salsa teriyaki Gli ingredienti per la salsa teriyaki sono: salsa di soia, zucchero (o miele), mirin (sake dolce), sake, ajinomoto, hondashi. Ricordo che mirin e sake sono entrambi prodotti fermentati di riso (il mirin è leggermente meno alcolico del sake — 14% contro i 16-20% — e ha un gusto meno acidulo); ajinomoto è il glutammato monosodico brevettato dalla Ajinomoto Corporation of Japan nel 1909 e da allora noto anche con questo nome; hondashi è il dado granulare di carne o di pesce. Mettete sul fuoco una pentola dai bordi alti e scioglietevi la salsa di soia e lo zucchero. Le quantità potrebbero essere di 120 ml per la salsa e di 70 g per lo zucchero; se la volete più dolce aumentate ovviamente lo zucchero ma sempre senza esagerare. Quando lo zucchero risulterà completamente sciolto aggiungete circa 30 g di mirin e 30 g di sake, un pizzico di ajinomoto e 1 di hondashi e cuocete e fuoco basso per circa 2 ore fino a che la preparazione risulterà ridotta a 1/3 del volume iniziale. In alcune versioni si aggiunge anche lo zenzero (ginger) grattugiato; in altre, soprattutto negli Stati Uniti, è gradito l’aglio. In quest’ultimo caso fate bene attenzione a non inserirlo intero ma spremuto con l’apposito attrezzo per ricavarne il massimo del sapore. Sempre negli Stati Uniti non è raro l’inserimento del succo di ananas per aumentare la dolcezza e la tenerezza la carne. Per quanto riguarda la differenza tra la salsa teriyaki e quelle che vogliono imitarla si può notare che la teriyaki è tradizionalmente realizzata con sake e/o mirin mentre negli altri casi questi ingredienti vengono sostituiti con prodotti fermentati non giapponesi oppure la salsa è addizionata di altri ingredienti come il sesamo o il già ricordato zenzero. La salsa teriyaki può essere usata anche da sola, servita nelle tipiche ciotoline di ceramica giapponesi insieme alla salsa di soia per accompagnare il sushi e il sashimi. Incontra molto favore anche presso


Gamberetti con salsa teriyaki. Utilizzata per piatti di pesce e di carne, alle preparazioni in cui è utilizzata si accompagna il riso bollito, servito a parte (photo © www.ashleymarieskitchen.com). gli occidentali perché il suo sapore è più delicato e meno salato di quello della salsa di soia pura. La gradevolezza della teriyaki è conseguenza soprattutto dell’abbondantissima presenza nella salsa di soia del glutammato che deriva dalla degradazione, durante la fermentazione, delle proteine della soia. La salsa teriyaki può anche essere addensata mentre il pesce o la carne sono in cottura. Si prende quella rimasta nel pentolino, si aggiungono 3 g di amido (in un bicchiere asciutto per evitare la formazione di grumi) e si stempera bene, dopo di che si unisce al resto della salsa. Si fa cuocere per qualche minuto fino alla densità desiderata. Il salmone teriyaki… Scegliete del filetto di salmone abbastanza spesso e ricavatene dei pezzi regolari (potete sostituire al salmone altre specie: pesce spada, cernia, gamberi…). Se volete consumarlo poco cotto effettuate prima l’opera di

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abbattimento della carica microbica riponendo il pesce sottovuoto e poi in abbattitore, preferibilmente prima di tagliarlo a pezzi perché il taglio a freddo nella cultura orientale è sempre preferito ai fini della conservazione della qualità. Marinate i pezzi nella salsa teriyaki per almeno 2 ore e intanto grigliate le verdure tagliando le zucchine a rondelle e le carote a listarelle eccetera. Cuocete il pesce nel wok, leggermente se lo volete quasi crudo oppure a fiamma viva se lo volete ben rosolato. Aggiungete le verdure e, dopo aver ridotto la marinatura, versatela sul salmone. Nel frattempo cuocete il riso. …e il riso basmati Qualsiasi preparazione con la salsa teriyaki viene infatti accompagnata dal riso bollito, servito a parte. Si tratta per lo più di un riso basmati cotto pilaf, cioè con due parti di riso e tre di acqua fatte bollire insieme partendo da freddo (è meglio lavare prima il riso in acqua fredda

per eliminare un po’ di amido). Si porta a ebollizione coprendo senza mescolare, poi si mette a cuocere al minimo. Bastano di solito 8-10 minuti. Verificate se durante la cottura fuoriesce vapore dalla pentola. In caso contrario significa che non c’è più acqua e che quindi il riso sarà destinato a… bruciare! Nella cottura a salto si aggiungono, oltre alla salsa teriyaki, anche tanti altri “liquidi” di cui onestamente non saprei riportare né i nomi né gli ingredienti ma che hanno tutti validamente contribuito a creare un piatto che ha reso la mia giornata americana indimenticabile. Spiedini di gamberi teriyaki Gustosissimi sono anche gli spiedini di gamberi spennellati con la salsa teriyaki durante la cottura. A fine cottura addensare sulla griglia la salsa rimanente e poi versarla sugli spiedini disposti nel piatto e completati con le solite verdure tagliate finemente e saltate nel wok. Nunzia Manicardi

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TURISMO ENOGASTRONOMICO

Pescaturismo in Svezia

Bohuslän, il paradiso delle ostriche di Massimiliano Rella

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Per i turisti stanchi della solita vacanza al mare arriva in soccorso il pescaturismo, che è un modo intelligente, per un operatore della pesca, di integrare il proprio reddito. L’esperienza giunge dai bei mari nordici, contornati da fiordi e paesaggi incantevoli, dove ostriche, aringhe, gamberetti, scampi, cozze e aragoste attirano ogni anno centinaia di turisti golosi: da Göteborg, da Stoccolma e dai vicini confini norvegesi. Ci troviamo nella Svezia occidentale, nella storica provincia del Bohuslän, terra già ricca di boschi e laghi, che s’affaccia sul mare del Nord abbracciando oltre 7.000 isolotti. Il paradiso, per chi ama la barca e la pesca. Nei freschi fondali abbondano quelli che, con un pizzico di ironia vichinga, sono chiamati i big five, ovvero: cozze, ostriche, aragoste, scampi e gamberetti. L’abbondanza e la qualità della materia prima e le nuove formule di ospitalità favoriscono il pescaturismo: si va al largo con i pescatori e si cucina sul peschereccio

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oppure in un “approdo di fortuna”. C’è anche la possibilità di pernottare sulla terraferma vista mare, così vicino da sentire l’aria salmastra e lo sciabordio delle onde. Una decina di pescatori locali sono già attrezzati per il pescaturismo. In primavera e in estate si concentrano su scampi, cozze e ostriche; sui gamberetti tutto l’anno e sulle aragoste dal primo lunedì dopo il 20 settembre a fine novembre. La cittadina più a nord, Strömstad, a 166 km da Göteborg, si può raggiungere anche in bicicletta attraverso una rete di piste ciclabili e alberghi organizzati per le esigenze dei ciclo-turisti. Grebbestad, a 30 km in linea d’aria dal confine con la Norvegia, è uno dei più popolari villaggi del Bohuslän. Qui si raccoglie il 90% delle ostriche svedesi, il 50% delle aragoste e il 70% degli scampi. Un’abbondanza favorita dalla purezza delle acque e dalle correnti marine che — muovendosi dai fondali profondi tra la Norvegia a ovest

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Degustazione di ostriche in barca. e la Danimarca a sud — formano un circolo che attraversa il golfo nel Bohuslän settentrionale fino al Parco Nazionale di Kosterhavet, ostacolando la formazione di ghiaccio, che qui si crea raramente.

L’area più pescosa include Grebbestad, Grönemad e altri pittoreschi villaggi di pescatori in un raggio di 25 km. È caratterizzata da acque meno fredde, fondali senza fango ricoperti di frammenti di conchiglie.

“La pesca è controllata: si possono pescare non più di 100-150.000 ostriche l’anno. Domanda e offerta determinano il prezzo, così i pregiati molluschi arrivano a costare anche 5,00 € l’uno. Le ostriche pescate in questo arcipelago sono di forma circolare e hanno un sapore delicato e salmastro, la carne compatta”

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«Alle ostriche piacciono le conchiglie vecchie e per crescere si attaccano ai gusci vuoti sul fondale», ci spiega il pescatore PER KARLSSON, di Grönemad. «Ecco perché, ributtando le conchiglie in acqua, si favorisce il ripopolamento delle ostriche», aggiunge Per, che condivide questo lavoro insieme al fratello LARS. La pesca è controllata: si possono pescare non più di 100-150.000 ostriche l’anno. Domanda e offerta determinano il prezzo, così i pregiati molluschi arrivano a costare anche 5,00 € l’uno. Le ostriche pescate in questo arcipelago sono di forma circolare e hanno un sapore delicato e salmastro, la carne compatta. Sono catturate tra i 2 e i 10 metri di profondità dai sommozzatori, oppure a mano con rastrello e retino. Per le aragoste si usano invece piccole gabbie con esche formate da gamberetti, pezzi di maccarello e aringhe salate, gettate in acqua la notte prima e ritirate il giorno dopo. I fratelli Karlsson offrono ospitalità all’Everts Sjöbod (www. evertssjobod.se), un originale B&B in una “palafitta” in legno del XVIII secolo recentemente ristrutturata, con sei accoglienti camere e cucina. Propongono anche escursioni tra gli isolotti in barca, pesca di ostriche, aragoste e scampi, con degustazioni a bordo e cene tutte di pesce. Una piccola parte del pescato va a ristoranti locali. Escluso il periodo da gennaio a marzo, l’offerta di pescaturismo va avanti tutto l’anno. In alta stagione, cioè a ottobre, durante la pesca dell’aragosta, arrivano a ospitare 70-80 persone a settimana. Con le ostriche fanno invece 2-3 escursioni settimanali. Prezzo per una notte tutto compreso 2.400 sek (260,00 €) a persona; per le notti successive 700 sek (76,00 €) l’una. Una settimana 4.900 sek (530,00 €) a persona. Massimiliano Rella

Nota A pagg. 92 e 93 tramonto su Grönemad, villaggio marino del Bohuslän, in Svezia Occidentale. A pag. 93 scampi appena pescati a Smögen, (photo © Massimiliano Rella).

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WEEK-END

Mare, pesce, tradizione, turismo e ristorazione

Un “ittiturismo” ci salverà di Gian Omar Bison

Dici Chioggia (Venezia) e pensi ad una marineria imponente, armatori attrezzati ed esperti, pescherecci enormi, potenti, redditizi per quantità e remuneratività della cattura. E dici vongolari e vongole, in particolare veraci, bivalve, e pensi a un mercato del pesce importante e colorito. E poi pensi al turismo, alle spiagge da sempre frequentatissime, con una presenza copiosa di ospiti d’Oltralpe; ad una cucina sostanziosa, saporita, caratteristica come il linguaggio, che sarebbe riduttivo chiamare “dialetto”.

Mare, pesce, tradizione, turismo e ristorazione, un connubio vincente. Potevano mancare gli ittiturismi? Certamente no! Tra questi il primo, probabilmente il più conosciuto, è l’ittiturismo Da Alessandro (info@ittiturismodaalessandro.it; ittiturismodaalessandro.it). Ci troviamo a seicento metri dalla spiaggia di Sottomarina, sul molo sud del porto chioggiotto, dove A LESSANDRO BOSCOLO, nel 2005, ha raccolto l’eredità del nonno “Boscolo Albino Contadin”, classe 1922, ovvero un capanno da pesca con annessa rete di circa trecento metri per la cattura

con il cosiddetto “bilancione”. Da agosto 2011 il capanno è stato attrezzato per la cucina e il consumo del pesce catturato con la rete. Il tutto autorizzato e conseguente ad una specifica legislazione nazionale, recepita qualche anno fa dalla Regione Veneto come strumento dato ai “bilancieri” per diversificare l’attività. Apertura da marzo ad ottobre. «Quando ti accorgi, visivamente, che il quantitativo del pescato giornaliero è diminuito al punto da risultare insufficiente per una giusta redditività dell’azienda, devi pensare ad altro. Senza la

L’ittiturismo è nato nell’agosto 2011 come integrazione all’attività di pesca di Alessandro. Il capanno da pesca dove si svolge l’attività è una concessione demaniale che era di proprietà del nonno, “Boscolo Albino Contadin”.

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“La quasi totalità della proposta culinaria si basa sul pescato con il bilancione, che viene integrato, ad esempio, con cozze e vongole tipiche della zona. E l’80% dei commensali mangia su prenotazione, con trenta posti a sedere circa a disposizione. Parliamo di ricette tipiche di derivazione familiare, come gli spaghetti al nero di seppia o le sarde in saòr”

ristorazione — evidenzia Alessandro — saremmo stati costretti ad abbandonare questo tipo di pesca, tipico del territorio. È un problema generale che riguarda tutta la pesca e la conseguente e progressiva diminuzione del pescato in un Alto Adriatico, ridotto di fatto ad un laghetto. Le motivazioni? Troppe, dai cambiamenti climatici al sovrasfruttamento delle risorse marine». La struttura è nata negli anni Sessanta del secolo scorso ed ha raggiunto il suo massimo una decina di anni dopo. «Da allora — sentenzia Alessandro — il pescato è diminuito fi no al 70%. In particolare, la cattura di seppie». Il bilancione, in una giornata intensiva, può andare su e giù anche ogni venti minuti. «Su come e quanto “calare” non c’è una scienza esatta — prosegue Alessandro — e si va ancora molto ad occhio, a sensazione, conoscendo la situazione climatica, ambientale, la stagionalità e le abitudini dei pesci. Dopo una mareggiata ci aspettiamo un tipo di pesce e con il sole cocente e prolungato un altro. Ci sono giorni in cui si pesca di più e meglio di notte che di giorno. E così via. In generale io penso che questo sia il sistema di pesca professionale più rispettoso del mare e dei pesci. Noi “caliamo” anche 350 giorni all’anno per una cattura media di 15 kg di pesce al dì». La quasi totalità della proposta culinaria si basa sul pescato con il bilancione, che viene integrato, ad esempio, con cozze e vongole tipiche della zona. E l’80% dei commensali mangia su prenotazione, con trenta posti a sedere circa a disposizione. Parliamo di ricette tipiche di deriva-

Vongole e vino bianco, un classico intramontabile. zione familiare, come gli spaghetti al nero di seppia o le sarde in saòr. Ma la proposta spazia dalle tartine con alici alle vongole in cassopipa e pepata di cozze, spaghetti allo scoglio, vongole e risotto di seppie e radicchio, sgombro, cefalo e branzino alla griglia, sarde a scotta deo e frittura mista. Dolci? Zaleti (biscotti di farina di mais) e bissiole (biscotti a forma di serpentina), come è giusto che sia. Le difficoltà non mancano e trovandosi lungo una diga a quattrocento metri dall’area portuale di carico e scarico sono soprattutto di natura logistica. «Ci siamo attrezzati con biciclette elettriche e cestoni per il trasporto di alimenti, materiale, rifiuti, oli freschi ed esausti. Non è semplice. Ma anche questo fa parte di una specificità che vogliamo tutelare e preservare anche in futuro». Gian Omar Bison

Le Sarde in saòr sono uno dei piatti più antichi di Venezia, ancora oggi popolarissimo, a base di sarde fritte e cipolle, il tutto marinato con aceto e sale per almeno un giorno, meglio se per due. La marinatura come metodo di conservazione del pesce risale al tempo dei Romani, adottata largamente dai Veneziani, che così facendo conservavano il pesce a bordo delle imbarcazioni per settimane. Poi esiste la variante che, secondo tradizione, include una manciata di pinoli e uvetta. Le sardèle in saòr si mangiano tutto l’anno e sono spesso servite insieme ai più golosi cicheti, tipici delle osterie cittadine, accompagnate dalla classica ombra de vin. Si tratta di una pietanza tradizionalmente consumata sulle barche decorate a festa nel giorno solenne del Redentore, in attesa dello spettacolo pirotecnico.

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CURIOSITÀ

C’è vita sotto le piattaforme

Adriatico, altro che liscio, ombrelloni e piadine di Josette Baverez Blanco

Un amico, vero “lupo di mare”, mi ha raccontato con enfasi il piacere che prova a stupire gli appassionati di pesca sprovvisti di barca portandoli vicino alle piattaforme di estrazione di metano, vere e proprie “isole” in mare aperto. Ben lontano dalle discoteche rumorose, dalla vita ordinaria di spiaggia, Rimini offre ai pescatori un paradiso… sottomarino. Si esce dal bellissimo e modernissimo porto turistico di San Giuliano per andare a raggiungere l’obiettivo, una piattaforma di nome Daria con nessuno a

bordo, situata a 30 miglia da Rimini e a 16 da Fano. Come lei ce ne sono altre in zona. Si butta l’ancora a 500 metri di distanza, perché è vietato avvicinarsi di più, là dove il mare è profondo 54 metri. Riferisco quanto mi è stato raccontato: le correnti cambiano e condizionano il tipo di pesca, che può essere a scarroccio o a drifting leggero, dando ai pesci un mangime a base di sarde congelate e spezzate. All’inizio dell’estate meglio programmare di stare a lungo in mare, meteo permettendo, perché

le palamite mangiano soprattutto di notte e all’alba. Da agosto in poi si prendono anche di giorno questi grossi pesci, ma il tempo è più instabile. Bisogna quindi curare con attenzione tutte le condizioni per una permanenza tranquilla di una decina di ore al largo: barche sicure, motori revisionati, GPS, materiale di comunicazione elettronico, zattera di salvataggio e il necessario per mangiare e bere nonché quanto occorre per far abboccare i pesci. Contrariamente alle apparenze, l’A-

Piattaforma in Adriatico (photo © www.greenpeace.org).

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driatico può essere molto pericoloso con la tramontana o i venti del Nord. L’unico neo in questa magia in mare aperto sono i tre colpi di sirena“sparati” dalla piattaforma ogni quindici secondi per segnalare la sua presenza in caso di nebbia. Difficile descriverla, fa pensare ad una stazione spaziale immaginaria. Non mi sono molto meravigliata nel sapere quanti organismi popolano queste piattaforme. In effetti mi sono tornate in mente certe spedizioni subacquee organizzate per andare ad ammirare la vita attorno ai relitti: una galassia di animali e vegetali che hanno colonizzato queste strutture fin nei minimi anfratti. Su queste isole iniziava il primo anello della catena alimentare, dai microrganismi ai predatori passando attraverso pesci sempre più grandi. Palamite, tonni e squali, la verdesca, il volpe, persino il bianco! Nella categoria dei pesci medi abbondano occhiate, sugarelli e sgombri di oltre un chilo. Col l’arrivo della notte inizia la caccia dei predatori appena sotto il

tappeto di boghe che freme attorno alla barca. Ci vuole una tecnica ben precisa e il giusto materiale per calare l’amo con la sardina intera, facendola “passare” attraverso i pesci più piccoli fino al punto in cui si trovano i predatori. L’ideale è arrivare a quindici metri sotto, dove le palamite e gli sgombri si contendono il cibo. Anche qui ci vuole un’arte tutta particolare per far scendere l’esca con la massima naturalezza e azionare il mulinello in funzione del calibro della preda. Palamite e sgombri sono veramente combattivi, ma sempre meno dei tonni, difficili da pescare con la barca ferma per la considerevole mole. I gabbiani non perdono di vista la scena, ma sono i pescatori a far man bassa delle ricciole arrivate in gruppo dalla piattaforma. L’argomento “piattaforme dell’Agip” è di grande attualità, ma in questa sede vorrei elencare soltanto le cinque sorelle di Daria, che sono tra Rimini e Fano: • Basil è di fronte a Pesaro, a 12 miglia, con un fondale di 50 metri.

I pesci, tranne il tonno, sono i medesimi di Daria, ovvero palamite, ricciole, saraghi e sgombri, orate, ma si trovano anche le occhiate; • Brenda, vicina a Basil, ha gli stessi pesci. La pesca migliore si fa in autunno essendo una zona troppo battuta. Si possono vedere tonni solitari; • Annabella, di fronte a Rimini, a 20 miglia, con 50 metri di fondo, è anch’essa più propizia fuori stagione estiva per la medesima ragione. Ci si trovano soprattutto palamite e ricciole; • Annalisa, molto simile ad Annabella sia per la posizione che per la pesca; • Antonella, a 14 miglia da Rimini, è ottima per la pesca autunnale e offre al pescatore occhiate, saraghi e orate. Ho saputo che le migliori prese di tonno si fanno nel triangolo DariaBrenda-Annalisa, soprattutto in autunno, quando passano di frequente. Organizziamoci! Josette Baverez Blanco


RASSEGNE

La palamita in un Mare di Gusto di Maurizio Dell’Agnello

Si è chiusa domenica 1º maggio la nuova edizione della Festa della Palamita di San Vincenzo che ha trovato vecchi e nuovi amici già a partire dal titolo: Un Mare di Gusto. Palamita & Friends. L’edizione 2016 ha raccolto molti consensi e successo di pubblico, con lunghe e ordinate file davanti alle tante postazioni che, lungo le vie del centro cittadino, offrivano le gustose “creazioni” dei ristoranti e delle associazioni che hanno partecipato all’evento. Una formula vincente che, se pur con la pausa dello scorso anno, non ha perso il suo antico smalto, ritrovando tutta la forza di una comunicazione fatta di odori, sapori e saperi che da sempre la caratterizza. Nata nel Duemila da

una collaborazione tra il Comune di San Vincenzo e Slow Food, per celebrare il rapporto della cittadina della Costa degli Etruschi con il mare e i suoi prodotti, questa festa ha avuto importanti sostenitori e promotori, come il celebre cuoco FULVIO PIERANGELINI, del ristorante Gambero Rosso, che ha lasciato la sua personale impronta, di cui ancora oggi si sente l’influenza, puntando sull’eccellenza dalla materia prima, la palamita. È stata proprio l’attenzione sanvincenzina nei confronti di questa specie pescata da sempre nel Tirreno, ma forse poco sfruttata nell’uso in cucina, anche viste le ottime caratteristiche nutrizionali, ad accendere i riflettori sul tonnetto, oggi “protet-

to”, “tracciato” e “presidiato”. Da allora la palamita ha scalzato dal podio il suo parente più prossimo, l’allitterato, che per le sue qualità “intellettuali” era stato sempre il più ricercato. E così la Sarda sarda, vero nome e cognome della palamita, ha via via conquistato un posto in prima fila su giornali, pubblicità, vasetti di prodotto sottolio, ma soprattutto nelle pescherie. La formula vincente della manifestazione a lei dedicata ha attratto nel tempo personaggi famosi, legati al mondo della cucina e del giornalismo, celebrando e rinnovando la tradizione dello street food oggi di moda, ma soprattutto legando a sé realtà economiche e sociali locali quali produttori, commercianti e

Deborah Corsi, chef de “La Perla del mare” a San Vincenzo (LI) e direttrice artistica dell’evento “Un Mare di Gusto”.

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ristoratori, così come associazioni di volontariato e scuole, in un rapporto che ancora oggi, a oltre 15 anni di distanza, risulta molto stretto. L’edizione di quest’anno ha poi senza dubbio aperto nuove opportunità per il territorio, facendo scendere in campo stimati e affermati artisti ad esso strettamente collegati. Pensiamo alla presenza di GIAMPAOLO TALANI, sanvincenzino Doc, che ha contribuito a tirar fuori l’anima artistica della palamita attraverso l’inaugurazione della Passeggiata del Marinaio e l’esposizione del quadro Due uomini con pesci, selezionato per la 54ª edizione della Biennale. La vera anima della festa è stata però DEBORAH CORSI, chef JRE – Jeunes Restaurateurs d’Europe del ristorante La Perla del mare, che in qualità di direttrice artistica dell’iniziativa, supportata dallo staff dell’amministrazione pubblica, ha saputo gestire in maniera perfetta il tutto. All’evento ha collaborato anche CRISTINA GALLITI di Poverimabelliebuoni (poverimabelliebuoni.blogspot.com), che ha seguito il collegamento con gli altri food blogger che hanno dato grande visibilità alla manifestazione. Significativa per l’originalità e la simpatia che ha saputo suscitare è stata la performance di MARCO STABILE, chef JRE del ristorante fiorentino Ora d’Aria. A corollario della festa, tutta una serie di laboratori e seminari dedicati all’arte in cucina: dal dipingere col cibo ai piatti imbroglia-

Uscendo dal ristorante di Deborah Corsi certe sensazioni sono gradevolmente persistenti, tanto per l’atmosfera avvolgente del locale che ti accoglie a due passi dal mare, quanto per l’arte di Deborah, che è grande e sapiente. Lo si vede ma, soprattutto, lo si gusta nei suoi piatti, che impegnano tutti i sensi: il cibo si trasforma, si modella in forme inconsuete e colorate prospettive, si arricchisce di gustose salse e minutissime polveri che lo impreziosiscono e lo rendono unico, fino a quando il gusto richiama alla memoria tutta la fragranza della materia prima, sempre di primissima qualità. Ed ecco allora che il sapore delle seppie, dei calamari, delle alici, del baccalà, del tonno, del polpo deliziosamente croccante torna prepotentemente a conquistarsi il proscenio, rendendo unica questa coinvolgente esperienza sensoriale. Cenabis bene, mi Fabulle… avrebbe chiosato Catullo.

pargoli, dall’arte dell’impiattamento e dell’intaglio di frutta e verdura ai contest culinari, non dimenticando la tradizione e la storia di questo piccolo borgo costiero con gli spazi curati da RODOLFO TAGLIAFERRI e le sue antiche foto di pescatori e degli impianti di trasformazione ittica. Particolarmente originale è stata la partecipazione dell’Ape azzurra,

un particolare stand itinerante che, in collaborazione con Unicoop Tirreno, ha visto coinvolti gli studenti dell’istituto statale alberghiero Mattei di Rosignano e, grazie alla collaborazione della FISAR di Livorno, si è avvalso di assaggi “divini”. Con Bacco e Poseidone a far capolino dall’alto su questo mare di gusto… Maurizio Dell’Agnello

La Passeggiata del Marinaio è un percorso realizzato sulla diga foranea del nuovo porto di San Vincenzo, ufficialmente inaugurato il 24 aprile scorso, al termine di una serie di lavori di riqualificazione. Porta a Il Marinaio (in foto), realizzato da Giampaolo Talani nel 2010, che con i suoi sette metri di altezza rappresenta la più grande opera in bronzo collocata in un porto europeo. Il Marinaio, con il suo sguardo rivolto verso il vento di libeccio, che lo stesso Talani definisce “sincero, perché ti parla direttamente e ti vuole trovare pronto ad affrontarlo”, rappresenta il nuovo emblema di San Vincenzo, il faro per chi viene dal mare e il punto della costa più lontano per chi viene da terra. Esso guarda al mare e al futuro, con il fascino del sognatore. Percorrere questo nuovo sentiero guidati dal pesce Virgilio, che ci accoglie all’inizio della passeggiata, e accompagnati dai mosaici selezionati con il concorso nazionale dell’associazione FIDAPA, è come percorrere un cammino spirituale di riflessione che fa vedere la città da una nuova ottica, una San Vincenzo che nel tempo ha saputo rinnovarsi guardando avanti senza mai dimenticare il proprio passato e la strada da dove è venuta.

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FIERE

Seafood Expo e Seafood Processing Global: Bruxelles c’è

Seafood Expo Global e Seafood Processing Global, i due eventi fieristici che ogni anno chiamano a Bruxelles migliaia di operatori dell’industria ittica, quest’anno si sono svolti a poche settimane di distanza dagli attentati terroristici di marzo, che hanno messo a ferro e fuoco la città e le infrastrutture del trasporto aereo. Ciò nonostante, dal 26 al 28 aprile il quartiere fieristico della capitale belga ha accolto con la consueta professionalità e organizzazione oltre 22.000 buyer e fornitori del settore pesca e acquacoltura. Il format è collaudato ed efficace, improntato a massimizzare gli incontri tra visitatori ed espositori con aree dedicate al B2B.«I saloni hanno riunito i buyer e i responsabili acquisti dei prodotti ittici del mondo intero», ha detto LIZ PLIZGA, vicepresidente di Diversified Communications, ente organizzatore della fiera, confermando i numeri del 2016: 1.650 espositori provenienti da 80 Paesi e ben 72 spazi espositivi internazionali e regionali su una superficie fieristica di quasi 36.000 metri quadrati. Visitatori internazionali Il salone dell’ittico di Bruxelles mantiene una forte connotazione

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internazionale anche per la tipologia di visitatori, provenienti in gran numero da Brasile, Canada, Cina, Germania, Hong Kong, Italia, Norvegia, Polonia, Russia, Corea del Sud e Spagna. Anche quest’anno erano presenti i buyer dei principali gruppi della GDO, tra cui Sodexo, Metro, Ahold, Aldi, Lidl, Marks & Spencer, Alibaba, Intermarché e Delhaize. Ittico, un settore in crescita Nel 2015, dalle rilevazione ISMEA, l’industria mondiale dei prodotti ittici è stata caratterizzata dal crollo dei prezzi per molte specie e da alcuni importanti cambiamenti nella configurazione degli scambi. I Paesi in via di sviluppo hanno un ruolo importante nel commercio internazionale del pesce: India, Indonesia ed Ecuador detengono una quota significativa delle forniture internazionali di gamberetti, anche se si trovano ad affrontare un mercato depresso e le problematiche legate alla mortalità precoce della specie. I mercati della farina e dell’olio di pesce rimangono fortemente influenzati da El Niño, che provoca la volatilità dei prezzi. Secondo il Fish Price Index della FAO, nei primi sei mesi del 2015 i prezzi del pesce sono stati in media

l’8% più bassi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I prezzi del pesce, in particolare del merluzzo bianco, hanno subito un incremento, per effetto dell’aumento della domanda e delle minori catture. Seafood Prix d’Elite Anche nell’edizione 2016 non è mancata l’assegnazione dei premi per i migliori prodotti seafood scelti in termini di innovazione di mercato, packaging, componenti nutrizionali e rapporto qualità/prezzo. Tra le aziende premiate quest’anno ci sono state KERMARÉE di Blainville-surMer per l’huître Noisette; MARINE HARVEST di Boulogne-sur-Mer per le Mini Gourmandises; LA FAMILLE BOUTRAIS di Saint Coulomb per la Gold Special Oysters “Ostra Regal”; MARINE HARVEST FRANCE per il packaging del prodotto ASC Salmon Traiteur in Double Protection Packaging. Edizione 2017 Ora segnatevi in agenda le date delle prossime fiere: dal 25 al 27 aprile, naturalmente sempre a Bruxelles. >> Link: www.seafoodexpo.com www.facebook.com/seafoodexpoglobal

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1) Nello stand della Erede Rossi, Riccardo, Carlo, Niccola e Roberto Rossi. 2) Luigi Savino con Valerio De Gruttola, “Gli Specialisti del Vivo”. 3) Giuseppe Ciriolo e Vincenzo Ciullo, della Marevivo di Castro (LE). 4) Nello stand di Noriberica, Gino Stanghellini, Gianfranco Pascarella, Manuel Castro, Faik Abbara e Francisco del Rio. 5) Antonio Leone della Togie con un gruppo di clienti. 6) Seafood Excellence Global, l’area dedicata alle novità di prodotti.

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1) Lo staff al gran completo della Eurofish di Napoli. 2) Il ministro dell’Agricoltura e dello Sviluppo rurale dell’Albania Edmond Panariti con Niccola Rossi. 3) Francesca Zanzarelli con Mario Gioioso nello stand di Gioioso Ittica. 4) Alessio Sala e Mauro Marchetti della Perfetta. 5) Nello stand di Ittica San Giorgio Francesca Zaghi con Enrico Bertaglia.

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1) Hüseyin Arat e Sinan Kızıltan con tutto lo staff della turca Kiliç. 2) Nello stand di OP Bivalvia Veneto SC, Natale Salvador, Mauro Vio e Gabriele Chiodi. 3) Lo stand di Mitos. 4) Dituri, specializzata nella commercializzazione e distribuzione di molluschi bivalvi. 5) Lo stand della Kiliç Seafood di Bodrum, importante realtà nel settore dell’acquacoltura.

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1) Lo staff di Lepore Mare, Dalblu e Qualité Gorée. Gorée è una bellissima isola al largo di Dakar, un posto meraviglioso del Senegal a cui Lepore Mare ha dedicato questo marchio, nato per consolidare una vincente collaborazione con questo Paese. 2) La società francese Delanchy Transports. 3) Lo stand di Caviar Import. 4) Nieddittas, le cozze della Cooperativa Pescatori di Arborea (OR). 5) Nello stand della Fabo, Giacomo e Marco Fabbri.

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1) Michele Cattin, Hßseyin Arat, Mario Mario Bidischini, Alessandro Bergo e Luca Zavarin. 2) Nello stand della Coldfish, Massimiliano Chiesa e Francesco Armanini. 3) Lo stand della New Sea di Rosolina (RO), Paula Kocianova, Carlo Boscolo Ceggion e Alessandro Bergo. 4) Lo stand dell’Irlanda. 5) Pier Antonio Salvador, presidente API, Giuseppe Castiglione, sottosegretario MiPAAF, Giacomo Galioto, Jenny e Giada Giaveri.

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Seafood Processing Global

1) Angelo Basile della Gigante di Taranto, Valerio Sapucci di Adriatic Sea, azienda leader nel mondo nella progettazione, costruzione ed installazione di impianti a circuito chiuso di stoccaggio crostacei e pesce vivo e di impianti di depurazione molluschi, con il suo staff e lo chef Luca Angelini. 2) Lo stand di Stef, leader della logistica a temperatura controllata. Le attività internazionali sono gestite dalle società del gruppo presenti nei vari paesi: Stef Italia in Italia e Stef Iberia in Spagna e Portogallo. 3) La Bettcher Industries, annovera oltre 70 anni di successi ed innovazioni tecnologiche nel settore alimentare ed industriale. 4) La Bada di Romano d’Ezzelino (VI), azienda specializzata nella produzione e vendita di carrelli elevatori in acciaio inox studiati per il settore alimentare. 5) Presente anche il gruppo aziendale CSB-System, specializzato nel fornire soluzioni gestionali complete e modulari per l’intera filiera. 112

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1/2) Nello stand della Cocci Luciano Srl, Danilo Cocci, Miriam Boschetti, Giacomo Cocci, Franca Arduini, Alfredo Pasquinelli, Emanuele Dini e Pier Alberto Patacchiola. 3) L’Adriatic Sea di San Clemente (RN).

SEDE CENTRALE Via Milano, 162 M 16126 Genova Tel. +39 010 8599200 Fax +39 010 8599299 Web: www.verrini.com E-mail: verrini@verrini.com


Cibus 2016, quando le ciambelle escono col buco Parma si riprende il ruolo di guida del made in Italy agroalimentare: 3.000 aziende espositrici su 130.000 metri quadri, 72.000 visitatori di cui 16.000 operatori esteri e 2.200 top buyer. È la migliore edizione di sempre dicono gli organizzatori, che, tra un sorriso e l’altro, lanciano un nuovo evento per il 2017. Cibus è tornato! di Gaia Borghi

“Non sempre tutte le ciambelle escono col buco” si è soliti dire quando qualcosa, magari progettata da tempo, investendo tempo e fatica e riponendovi mille speranze, non va proprio come ci si aspettava. Ma non è questo il caso: dopo l’anno di

Expo e di Milano capitale, la ciambella Cibus 2016 preparata, cotta e servita da Fiere di Parma è riuscita anche meglio del previsto, anzi, ha sbalordito persino gli stessi organizzatori. Un’edizione da record, praticamente sotto ogni aspetto, e i

Questa è la migliore edizione di sempre, ha commentato Elda Ghiretti, Cibus brand manager. E sull’onda di questo entusiasmo, il salone raddoppia: l’appuntamento è infatti già nell’aprile del 2017 con il nuovo “Cibus Connect”.

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dati di fine fiera sono lì a dimostrarlo: 3.000 aziende espositrici su 130.000 m2 di superficie, 72.000 visitatori, dei quali 16.000 provenienti dall’estero, e 2.200 top buyer. Numeri mai toccati in precedenza si dice: si pensi solo che due anni fa i visitatori erano stati 67.000 e gli operatori esteri 13.000. La differenza c’è e si è vista. «È la migliore edizione di sempre — ha commentato ELDA GHIRETTI, Cibus brand manager — e ha visto il comparto agroalimentare italiano presentarsi con circa mille innovazioni di prodotto, pronte a conquistare i mercati esteri e recuperare posizioni su quello interno. Inoltre, abbiamo notizia di un alto volume di affari conclusi o ben avviati, con la piena soddisfazione delle aziende e dei buyer esteri e italiani». È vero, sul fronte della viabilità le cose da migliorare sono ancora parecchie e, magari, controllando il calendario fieristico annuale, si potrebbero scegliere date più consone per evitare di “scontrarsi” con altri saloni, agevolando la partecipazione degli espositori e degli operatori in visita, ma… Oggi non saranno i “ma” a richiamare la nostra attenzione. Oggi, come è giusto che sia, ci godiamo questo clima di rinnovato entusiasmo e guardiamo il bicchiere mezzo pieno, perché i successi e i meriti vanno prima di tutto riconosciuti e debitamente festeggiati. Cibus è tornato! «Bilancio semplicemente straordinario» sottolinea ANTONIO CELLIE, amministratore delegato di Fiere di Parma che, forte anche del nuovo accordo decennale firmato con FEDERALIMENTARE, riconsegna al salone parmense il ruolo di guida nella promozione mondiale del made in Italy alimentare. «Abbiamo raggiunto una visibilità incredibile» prosegue Cellie. «D’altronde, due anni fa lo avevamo promesso: avremmo riportato questa fiera al centro del made in Italy alimentare e ci siamo riusciti». E c’è di più: infatti, non solo Cibus ha vinto la propria sfida raggiungendo con successo il traguardo di questa brillante edizione ma ha scommesso sul futuro, proprio e del settore tutto, investendo in un nuovo format che si svolgerà negli anni dispari con il

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Alla cerimonia di apertura della rassegna hanno partecipato tre membri del Governo, che hanno preso la parola dopo l’intervento di Gian Domenico Auricchio, presidente di Fiere di Parma: Maurizio Martina, ministro delle Politiche agricole, Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, e Ivan Scalfarotto sottosegretario allo Sviluppo economico. nome di Cibus Connect e occuperà i padiglioni all’ingresso Ovest di Fiere di Parma. «In pratica Cibus ritorna annuale» osserva Celie. «L’edizione numero uno di Cibus Connect si svolgerà il 12 e 13 aprile 2017: praticamente quando finisce Vinitaly iniziamo noi, così possiamo ottimizzare l’incoming dal mondo creando in un’unica settimana il meglio del food & wine italiano». L’evento, come è stato spiegato durante la presentazione, comprenderà un forum internazionale con esperti del settore che arriveranno a Parma da tutto il mondo ed una forma espositiva più “leggera”, specificatamente indirizzata al mondo della Grande Distribuzione. «Questo format degli anni dispari — continua l’AD di Fiere di Parma — è conforme alle esigenze delle aziende alimentari, che, proprio in quello stesso periodo, hanno già fatto un grande investi-

mento con la fiera di Anuga a Colonia e quindi vogliono un evento dedicato solo al made in Italy in Italia e lo vogliono con un format leggero, ispirato al modello della fiera olandese del private label Plma. Niente stand, quindi, ma spazi modulari tipo desk e una vip lounge dove poter ricevere ospiti e far cucinare per loro». Parola d’ordine, semplificazione. Istituzioni presenti Uniti contro la pirateria e lotta dura alla contraffazione, migliorare la comunicazione e la promozione delle nostre eccellenze agroalimentari sui mercati esteri e affrontare le sfide sul piano della sicurezza e dell’innovazione delle filiere. E ancora, promuovere l’idea di un’alimentazione sana, equilibrata, che privilegi le tipicità regionali e vada a sfatare i nuovi miti dietetici oggi di moda, partendo da una sinergia tra imprenditoria

“Spazio al comparto ittico col progetto Seafood: durante la fiera, all’interno dell’area Agorà del pesce, si sono svolte alcune tavole rotonde e presentazioni con esperti ed operatori del settore sulla pesca sostenibile, l’incentivazione dell’acquacoltura e sul mercato in blu”

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Seafood Expo Cibus Parma, buona la prima! Tra le novità dell’edizione 2016 di Cibus c’è stata l’area dedicata ai prodotti ittici pescati e lavorati in Italia, una vera e propria Agorà del pesce, organizzata da Gabriele Chiodi della società riminese Chiodi Consulting. Una sezione del Padiglione 7, nei pressi dell’Ingresso Ovest del polo fieristico, ha infatti ospitato diverse aziende ittiche oltre ad uno spazio multifunzione della Direzione Generale della Pesca del Ministero delle Politiche Agricole con spazio congressuale e show cooking. L’obiettivo degli organizzatori era forte e chiaro: promuovere il consumo intelligente di pesce e dei prodotti ittici lavorati in un’Italia che, con i suoi 8.000 chilometri di coste, marinerie e prodotti unici, ha tutte le carte in regola per sviluppare ulteriormente l’industria ittica nazionale. Chiodi Consulting ha organizzato, in collaborazione con il MiPAAF, una serie d’incontri riguardanti la valorizzazione della filiera dei prodotti pescati in Italia (25% circa in valore del totale dei consumi) e la promozione, sui mercati nazionali ed esteri, dei prodotti ittici trasformati nel nostro Paese. In Italia sono presenti numerose aziende d’eccellenza che producono conserve, prodotti affumicati, ricettati pronti da cuocere o precotti, lavorando pesci, molluschi e crostacei provenienti dai mari di tutto il mondo, con la sapienza e la tradizionale attenzione ai gusti regionali che rendono unici i nostri prodotti a base di pesce. Dal tonno al salmone, dai crostacei ai molluschi, i prodotti ittici italiani hanno tutto il potenziale per penetrare sui mercati esteri migliorando le performance in termini di fatturato e redditività. Il “Seafood made in Italy” rappresenta oggi un settore importante del nostro agroalimentare, con una ben specifica identità che gli consentirebbe di recitare un ruolo da protagonista sui mercati nazionali ed esteri. Nell’Agorà del pesce sono stati organizzati incontri in collaborazione con le aziende del processing e packaging, come Sealed Air e Cryovac, che stanno stimolando il comparto a investire in nuove linee di prodotti. Non è mancata la presenza alle tavole rotonde delle grandi insegne della GDO, che hanno ragionato insieme per definire nuove referenze in linea con i gusti dei consumatori, sincronizzando la produzione con il mercato. I consumi di pesce e molluschi freschi, congelati, affumicati e in conserva sono in forte crescita poiché rispondono alle richieste di salubrità e praticità. Un focus importante è stato dedicato anche ai prodotti dell’acquacoltura italiana: trote, branzini, orate, storioni, sono produzioni italiane d’eccellenza anch’esse in forte crescita nei consumi, in ragione del calo del pescato e della scarsità di prodotti anche sui mercati mondiali. L’API, Associazione Piscicoltori Italiani, ha analizzato la propensione dei consumatori italiani a non considerare più il prodotto ittico allevato come un prodotto inferiore a quello pescato. A tal proposito è stato presentato un originale ed innovativo progetto dei pescatori di Caorle inerente la vongola di mare, recentemente promosso e finanziato dalla Direzione Generale della Pesca del MiPAAF.

Cibus ha rappresentato una vetrina ideale per favorire lo sviluppo di un comparto che vale un 10% del PIL agroalimentare italiano, con ampie possibilità di crescita in ragione del buon andamento dei consumi che i prodotti a base di pesce stanno riscuotendo sui mercati nazionali ed esteri. In foto i relatori di una tavola rotonda organizzata nella giornata inaugurale della fiera: Massimo Genari, presidente del Consorzio Pescatori di Goro, Gabriele Chiodi di Chiodi Consulting, Piergiorgio Vasi, responsabile Economia Ittica Regione Emilia-Romagna, e Mauro Vio, direttore OP Bivalvia di Caorle e COGEVO Venezia.

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In alto: Mauro Bernardini, della Bernardini Gastone di Cenaia Crespina (PI), salumi e prodotti affumicati anche ittici. In basso: STEF Italia, trasporti dei prodotti freschi e surgelati per le aziende agroalimentari. e ricerca scientifica, con medici e nutrizionisti alleati delle aziende per far chiarezza e fornire aiuto in termini di consapevolezza nell’acquisto ai consumatori confusi da allarmi spesso sproporzionati, paure e criminalizzazioni, sostenendo al contempo il comparto alimentare. Sono questi i tratti salienti che emergono dal messaggio “istituzionale” di Cibus, coi ministri MAURIZIO MARTINA, BEATRICE LORENZIN e il presidente di FEDERALIMENTARE LUIGI SCORDAMAGLIA in prima fila alla cerimonia inaugurale del salone. «Cibus — ha dichiarato ad esempio il ministro delle Politiche Agricole — è un’occasione per far avanzare l’esperienza agroalimentare nella sua unitarietà. Occorre

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infatti combattere da subito una certa idea anti-industriale che vedo, ahimè, emergere qua e là e che non fa bene al settore: maggiore collaborazione tra produttori e trasformatori è utile per tutti». Sulla questione TTIP, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, Martina ha poi sottolineato l’importanza dell’accordo, assolutamente necessario, ricordando però anche che «sulla sicurezza alimentare non si tratta. Guai a leggere il trattato e i suoi potenziali strumenti come un problema. Bisogna costruire un discorso pubblico sui problemi, ma pure sulle opportunità dell’accordo, anche perché non si può combattere l’Ita-

lian sounding se non si lavora su un accordo commerciale dove possiamo alzare i livelli di tutela delle nostre qualità agroalimentari». Per Beatrice Lorenzin, troppo spesso si dimentica che il cibo è il primo medicinale e malattie cardiovascolari, diabete e tante altre patologie possono essere prevenute e migliorate a partire dalla tavola. «Questo è il salone dell’alimentazione e l’alimentazione è appunto il primo passo per stare bene. Ecco perché spero che sul cartellone di ingresso del prossimo Cibus ci sia anche il logo del Ministero della Salute». Durante Cibus si è svolta anche l’assemblea pubblica annuale della federazione italiana dell’industria alimentare, quest’anno significativamente intitolata “Made in future. Il food and beverage italiano tra tradizione e innovazione”. E sul cambiamento e l’innovazione si è concentrato il discorso del presidente della federazione; due prospettive, due obiettivi da raggiungere non soltanto per l’industria alimentare quanto per il “sistema Paese”. «Con Expo il modello alimentare italiano è stato protagonista — ha dichiarato Scordamaglia — siamo riusciti a colpire il mondo intero parlando di una delle cose più antiche, ma facendolo con un linguaggio nuovo proiettato nel futuro ma sempre legato alla nostra grande tradizione. Non c’è Paese all’estero che non voglia il nostro modello e i nostri prodotti, quel binomio ormai entrato nell’accezione comune di made in Italy e di made with Italy». Facciamolo ora: osare, cambiare, innovare, senza stravolgere o rinnegare i valori della nostra storia, delle nostre tradizioni, perché lì risiede la nostra forza, «l’essere tradizione e innovazione, passato e futuro, sapienza antica e innovazione di processo e prodotto. I nostri prodotti devono evolversi e adattarsi alle esigenze di quei 1,2 miliardi di consumatori che li scelgono nel mondo. Al calo dei consumi si reagisce anche innovando i processi!» ha detto Scordamaglia. Infine, l’annuncio dell’istituzione del primo Osservatorio internazionale sull’Italian sounding alimentare, che costa al mercato italiano molto più

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di 60 miliardi di euro. «Se pensiamo che solo in America il fenomeno vale circa 23 miliardi, ecco che il valore complessivo e quindi il danno economico per l’industria alimentare italiana è ben più alto» sottolinea Scordamaglia. «Questa è una battaglia di tutto il sistema Italia e di tutta la filiera agroalimentare e l’industria alimentare del nostro Paese vuole essere in prima fila a combatterla». I convegni sull’ittico L’acquacoltura italiana fornisce prodotti dalle elevate proprietà organolettiche con la garanzia e la sicurezza dei severi controlli della legislazione italiana, la più avanzata in Europa in questo campo! Ne hanno parlato nello spazio “Agorà del pesce” gli esperti dell’API, l’Associazione Piscicoltori Italiani, nel corso dell’ultima giornata di fiera, durante l’evento “Il Futuro è sempre più blu: opportunità e prospettive per l’acquacoltura Italiana”. I pesci d’acquacoltura nelle diverse specie ittiche allevate sono nutriti con mangimi selezionati e risultano privi di metalli pesanti. Molto interessante e seguita la presentazione del progetto educativo rivolto agli alunni delle scuole elementari e medie “Pappa Fish” a cura della Regione Marche, sull’importanza di una corretta alimentazione a base di pesce locale e sulla conoscenza dei nostri mari. Gaia Borghi

Errata corrige Nell’articolo dedicato alla manifestazione fiorentina Taste 2016, pubblicato sul numero 2/2016 della nostra rivista a pag. 111, relativamente allo stand della Caviar Import di Gardigiano di Scorzè (VE), abbiamo erroneamente scritto “azienda leader nella produzione e importazione del caviale belga”, mentre la didascalia corretta doveva essere “azienda leader nella produzione di caviale italiano e importazione del caviale Beluga iraniano”. Ci scusiamo con i lettori e con i responsabili e gli operatori della Caviar Import per l’errore. Dalla fine degli anni ‘80 Caviar Import è leader in Italia nel commercio del caviale, prima come unica importatrice diretta di caviale iraniano in Italia e poi come produttore di caviale italiano. “Iran Darya” è lo storico marchio rappresentativo dell’azienda, oggi sinonimo della migliore qualità del caviale e garanzia per i gourmet più esigenti. L’arma vincente di Caviar Import è da sempre la cura nella selezione: soltanto quella parte del caviale che supera i severi criteri di controllo di freschezza, gusto, colore e dimensione dei loro Maestri Salatori iraniani può essere marchiata Iran Darya. I migliori chef stellati e negozi d’alta gastronomia ne sono più validi testimoni. >> Link: www.caviale.it

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LA PAGINA SCIENTIFICA

Nuovi scenari e prospettive future nella depurazione di Chamelea gallina di Luciano Boffo, Renzo Mioni, Irene Francescon e Laura Bille

La vongola di mare o lupino è una specie molto comune nel Mare Mediterraneo e nel Mar Nero; si trova anche nell’Atlantico orientale, dalla Norvegia all’Islanda, fino al Marocco. Chamelea gallina (LINNEO, 1758) gode di un buon interesse commerciale in tutta l’area del Mediterraneo, soprattutto sulla costa occidentale del mare Adriatico, sui cui mercati è regolarmente presente. Le carni sono apprezzate e facilmente digeribili: 100 grammi di parte edibile di vongole fresche contengono infatti 15,5 grammi di proteine, 1,7 grammi di carboidrati e 3,4 grammi di grassi. La vongola di mare è una specie fossoria, ovvero vive alloggiata

in fondali sabbiosi; la grandezza massima dell’adulto raggiunge i 50 millimetri, anche se le dimensioni più comuni sono comprese tra 25 e 35 millimetri. La taglia minima pescabile delle vongole è di 25 millimetri, come riportato nell’Allegato III del Reg. CE 1967/2006. Durante la pesca, per selezionare solo vongole di taglia adeguata, vengono utilizzati dei vagli, ovvero dei setacci formati da barre o reti metalliche di adeguate dimensioni. Chamelea gallina ha sessi separati e la maturità sessuale viene raggiunta a circa un anno di vita. Il periodo riproduttivo coincide generalmente con l’estate; i gameti sono

emessi direttamente nell’acqua, dove avviene la fecondazione. Le uova sono galleggianti e, dopo la schiusa, la larva conduce vita pelagica per 10-15 giorni, stabilendosi solo successivamente sul fondo. Morfologia Chamelea gallina (phylum Mollusca, classe Bivalvia, ordine Veneroida, famiglia Veneridae, genere Chamelea, specie gallina) presenta simmetria bilaterale, con un corpo racchiuso in una conchiglia equivalve, inequilaterale, di forma quasi triangolare. La faccia esterna delle due valve presenta numerose strie concentriche, di colore bianco-

Vongole di mare (photo © Anna Bellettato).

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IL PESCE, 3/16


Tabella 1 – Classificazione delle zone di produzione Zona di produzione

Standard microbiologico

Trattamento richiesto dopo la raccolta

A

≤ 230 E. coli per 100 g di polpa e liquido intervalvare di MBV

Nessuno

B

≤ 4.600 E. coli per 100 g di polpa e liquido intervalvare di MBV nel 90% dei campioni. Il rimanente 10% non deve superare i 46.000 E. coli per 100 g di polpa e liquido intervalvare di MBV

Depurazione, stabulazione o trasformazione

C

≤ 46.000 E. coli per 100 g di polpa e liquido intervalvare di MBV

Stabulazione o trasformazione

Vietata

> 46.000 E. coli per 100 g di polpa e liquido intervalvare di MBV

Raccolta non permessa

Tabella 2 – Elenco dei molluschi eduli lamellibranchi “depurabili” (DM 09-12-1983) Denominazione scientifica

Denominazione in lingua italiana

Crassostrea angulata

Ostrica portoghese

Ostrea edulis

Ostrica o ostrica piatta

Crassostrea gigas

Ostrica giapponese o concava

Mytilus galloprovincialis

Cozza o mitilo

Mytilus edulis

Cozza o mitilo

Modiola barbata

Cozza pelosa

Tapes decussatus o Venerupis decussatus

Vongola verace

Venus verrucosa

Tartufo o noce

Cardium edule o Cerastoderma edule, Acanthocardia

Cuore

Donax trunculus

Tellina

grigiastro, con punti, striature e linee spezzate brune piuttosto evidenti, che incrociano strie radiali molto sottili e irregolari (Immagine 1). Il corpo, molle, è circondato ventralmente da una cavità palleale, delimitata da un mantello, costituito da due lobi simmetrici, che si inseriscono sulla faccia interna di una delle due valve. Dal mantello, posteriormente, si originano due sifoni, uno ventrale o inalante e l’altro dorsale o esalante; il movimento delle ciglia vibratili presenti sulle branchie e sul mantello permette l’aspirazione e l’espulsione dell’acqua. Sul margine anteriore, vicino all’umbone, che è piccolo e rivolto in avanti, è presente una fossetta. Entrambe le valve sono prive di una protuberanza rugosa sotto il

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legamento; le due valve sono articolate fra loro mediante una cerniera, quella della valva sinistra è priva di denti laterali. Internamente le valve si presentano di colore biancastro, con una macchia violacea. Nella massa viscerale sono presenti: la bocca, che si apre anteriormente, l’ano, che si apre all’estremità opposta, lo stomaco e l’intestino, nonché il cuore, avvolto da un pericardio (Immagine 1B). I sinonimi in uso sono: • Chamelea gallina (LINNEO, 1758); • Venus striatula (COSTA, 1778); • Dosinia exoleta (LINNEO, 1758); • denominazioni FAO: – Striped venus (inglese), – Chirla (spagnolo), – Petite praire (francese); • Codice α 3: SVE; • Codice tassonomico: 3161100105.

La vongola Chamelea gallina è un mollusco bivalve endobentonico che vive, aggregato in banchi ad elevata densità, in fondali sabbiosi. L’alimentazione avviene mediante un sistema filtrante ed è basata sulla microfagia. Queste caratteristiche rendono la vongola un organismo particolarmente sensibile alla qualità dell’acqua e all’accumulo di eventuali microrganismi o sostanze inquinanti. La fascia costiera in cui è più frequente reperire Chamelea gallina è entro le 3 miglia dalla battigia, poiché predilige fondali sabbiosi poco profondi; è quindi più esposta, rispetto ad altre specie, all’inquinamento biologico e chimico legato ai fiumi, agli scarichi civili, zootecnici e industriali e a tutte le attività antropiche dell’uomo.

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Immagini 1-1B – Chamelea gallina. Depurabilità di Chamelea gallina: la normativa e alcuni studi Nei Regolamenti CE 853 e 854 del 2004 si afferma che “gli operatori del settore alimentare possono immettere sul mercato i molluschi bivalvi vivi, destinati al consumo umano diretto, raccolti nelle zone di produzione della classe A solo se soddisfano i requisiti microbiologici e biotossicologici” e che “l’autorità competente può classificare come zone di classe A le zone da cui possono essere raccolti molluschi bivalvi vivi direttamente destinati al consumo umano. I molluschi bivalvi vivi raccolti da queste zone devono soddisfare i requisiti sanitari”. Nelle Chamelea gallina, raccolte in zone classificate A, si devono quindi riscontrare valori di E. coli ≤ 230 MPN/100 grammi di polpa e liquido intervalvare (Tabella 1). Tuttavia, dal 1º gennaio 2017 si applicherà il nuovo Reg. (UE) 2285 dell’8 dicembre 2015, che afferma: “L’autorità competente può classificare come zone di classe A le zone in cui possono essere raccolti molluschi bivalvi vivi direttamente destinati al consumo umano. I molluschi bivalvi vivi immessi nel mercato e provenienti da queste zone devono soddisfare i requisiti sanitari per i molluschi bivalvi vivi stabiliti […] nel Regolamento (CE) n. 853/2004. I campioni

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di molluschi bivalvi vivi provenienti da queste zone non devono superare, nell’80% dei campioni raccolti durante il periodo di riesame, i 230 E. coli per 100 grammi di polpa e liquido intervalvare. Il restante 20% dei campioni non deve superare i 700 E. coli per 100 grammi di polpa e liquido intervalvare”. Queste nuove disposizioni normative aumenteranno il rischio di declassificazione di certi ambiti marini localizzati nelle vicinanze delle foci dei fiumi da zona A a B. Numerosi studi hanno dimostrato che i molluschi bivalvi sono sensibili alle variazioni dei fattori ambientali quali temperatura, pH, salinità, ossigeno disciolto, disponibilità di cibo e presenza di inquinanti. I fattori che possono contribuire all’insorgere di una positività in Chamelea gallina sono molteplici, tra i quali si può ricordare: l’influsso che possono avere le piogge abbondanti, che comportano un aumento dell’afflusso di acqua dolce portata dai fiumi con conseguente diminuzione della salinità e aumento di contaminanti biologici che raggiungono il mare, oppure le elevate temperature che si raggiungono durante l’estate. A tal proposito vale la pena ricordare che nelle Marche, ad esempio, per alcune zone di produzione di C. gallina è stata adottata una classificazione di

tipo stagionale, attribuendo a tali aree la classe A nei mesi meno piovosi (da maggio a ottobre) e la classe B nel restante periodo dell’anno. Lo studio di MONARI et al. (2007) riporta che C. gallina è molto sensibile alle alte temperature; in particolare, a 30°C, soprattutto durante l’estate, l’immunosoppressione può ridurre la resistenza delle vongole ai fattori stressanti endogeni e ambientali e aumenta la suscettibilità ai patogeni; in generale, con una temperatura superiore a 25°C, le capacità omeostatiche delle vongole appaiono pesantemente compromesse. Nello scenario futuro si potrebbe verificare, come sopra riportato, la declassificazione da A a B delle zone di produzione di Chamelea gallina, riscontrando quindi la necessità di sottoporre le vongole di mare al processo di depurazione prima di immetterle in commercio. Il DM 9 dicembre 1983 aveva escluso Chamelea gallina dalle specie depurabili (Tabella 2). Con l’applicazione del DLgs n. 530/92 scompare la distinzione tra specie depurabili e non depurabili. Il Decreto impone che tutti i molluschi pescati o allevati provenienti da zone classificate B e C siano sottoposti rispettivamente a processo di depurazione o trasferiti a una zona di stabulazione o ad uno stabilimento di trasformazione.

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Tabella 3 Parametro

Valore minimo

Valore massimo

Salinità ‰

25

38

Temperatura °C

10

20

Ossigeno %

70

110

pH

7,0

9,0

Ammoniaca

1 ppm

Chamelea gallina mostra una particolare sensibilità agli stress ambientali, quali le variazioni di salinità, temperatura, ossigeno disciolto e pH, e l’efficienza della sua capacità filtrante rispetto ai mitili (Mytilus galloprovincialis) e alle stesse vongole veraci (Tapes philippinarum) è stata oggetto di numerosi dibattiti. Si è discusso a lungo sulla sua adattabilità al processo di depurazione e sulla reale efficacia dello stesso. Ritenendo che il processo di depurazione potesse configurarsi come un evento molto stressante, si temeva che il processo non fosse applicabile a Chamelea gallina. Studi scientifici in merito alla depurazione dei molluschi sono documentati a partire dalla fine degli anni ‘80, ma nessuno studio riguarda in modo specifico Chamelea gallina. Tra il 1998 e il 2004, la regione Emilia-Romagna ha finanziato alcuni progetti di ricerca, svolti dal Centro Ricerche Marine

di Cesenatico in collaborazione con l’Università di Bologna. In uno studio di SERRATORE P. (2004), Mytilus raggiunge valori di E. coli compatibili con il consumo umano già dopo 9 ore di trattamento, mentre Chamelea raggiunge tale condizione solo dopo 24 ore. I risultati ottenuti in questo studio evidenziavano come il trattamento di depurazione fosse ben tollerato da Chamelea gallina. Per quanto riguarda l’efficacia del trattamento nella riduzione del titolo di E. coli, i risultati evidenziavano che l’efficacia della depurazione aumentava con l’aumentare dei tempi di trattamento in tutte le specie, con una migliore performance in Mytilus e Tapes rispetto a Chamelea, nella quale era preferibile adottare tempi di trattamento superiori alle 9 ore e possibilmente prossimi alle 24 ore. Uno studio condotto da MAFFEI M. et al. (2009) ha valutato alcuni

Immagine 2 – Quotidianamente è stata valutata la vitalità e la reattività delle vongole di mare.

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parametri microbiologici, la resa, il contenuto di sabbia e la mortalità dopo la depurazione di Chamelea gallina provenienti da acque classificate B. I risultati riportati in questo studio, condotto da ottobre 2002 a settembre 2003, hanno evidenziato una riduzione media, dopo la depurazione, del 62% per Escherichia coli e del 54% per i coliformi fecali. Dopo la depurazione non si sono verificati cali di resa significativi delle carni di Chamelea gallina; il contenuto di residui (per la maggior parte sabbia) è diminuito da 0,09 g/1000 g a 0,02 g/1000 g. È stata valutata la mortalità delle Chamelea (depurate e non) durante lo stoccaggio per otto giorni alla temperatura di refrigerazione (4-6°C). Non è stato riscontrato alcun incremento di mortalità dovuto all’applicazione del trattamento di depurazione, anzi, al contrario, dopo cinque giorni di stoccaggio, la mortalità rilevata è stata significativamente più bassa nelle Chamelea depurate (3,83%) rispetto a quelle non depurate (7,12%). La mortalità osservata dopo 8 giorni di stoccaggio è stata del 33,71% nelle depurate e del 39,55% nelle non depurate. La vitalità delle vongole non è influenzata negativamente dal processo di depurazione, anzi, nella maggior parte dei campioni è stato notato un aumento di vitalità. La diminuzione della mortalità dopo depurazione è stata particolarmente evidente nei campioni di giugno e agosto, caratterizzati dalla più alta mortalità nei campioni non depurati rispetto ai depurati. Valutazione dell’efficacia di depurazione e della vitalità di Chamelea gallina Il Reg. CE 853/2004 afferma che “il sistema di depurazione deve consentire che i molluschi bivalvi vivi riprendano rapidamente e continuino a nutrirsi mediante filtrazione, eliminino la contaminazione residua, non vengano ricontaminati e siano in grado, una volta depurati, di mantenere la propria vitalità in condizioni idonee per il confezionamento, la conservazione e il trasporto prima

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Tabella 4 – Valori di E. coli riscontrati (MPN/100 g) prima dell’inizio della depurazione (tempo T0) e dopo 6, 12, 24 ore di depurazione (rispettivamente T6,T12,T24) Specie

Prova n.

T0

T6

T12

T24

Tapes semidecussatus

1

17.000

78

45

< 18

Chamelea gallina

1

3.300

1.100

45

20

Chamelea gallina

2

1.300

110

78

20

Chamelea gallina

3

1.700

310

130

< 18

Chamelea gallina

4

11.000

2.300

780

45

di essere commercializzati”; è utile quindi fare delle prove per valutare l’efficacia, i tempi di depurazione e la vitalità delle vongole di mare dopo la depurazione (Immagine 4). È stato ritenuto utile effettuare uno studio per dimostrare la depurabilità delle vongole di mare perché non sempre le aree dove vengono raccolti questi molluschi

Immagine 3 – Tapes semidecussatus.

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rispondono ai criteri di sicurezza e alle condizioni per essere classificate di tipo A. Spesso, infatti, situazioni atmosferiche sfavorevoli come piovosità, piene di fiumi, mareggiate, sfiori di depuratori possono influire negativamente sulle aree di raccolta che sono dislocate in prossimità della costa. Va peraltro sottolineato che le nuove tecnologie di depurazione

hanno permesso di creare un ambiente molto simile a quello naturale, ponendo il mollusco in condizioni di benessere per poter favorire al massimo l’attività di filtrazione e la vitalità. Questo ha consentito di ridurre sensibilmente lo stress e la mortalità durante il processo. Lo studio sulla depurabilità di Chamelea gallina è fondamentale per evitare che in certe aree possa essere sospesa l’attività di raccolta a seguito della declassificazione da parte delle Aziende ULSS da zona di tipo A a zona di tipo B, per superamento dei limiti di E. coli (230 MPN/100 g). Si sottolinea che l’attuale normativa in materia non prevede alcuna deroga ai 230 E. coli, situazione piuttosto difficile da garantire durante tutto il periodo dell’anno. Dimostrando la depurabilità delle vongole di mare, queste potrebbero essere raccolte per essere inviate a un centro di depurazione per il trattamento. Sarà opportuno definire i tempi di depurazione in funzione del livello di contaminazione e la shelf-life del prodotto confezionato in retina o in skin. In un primo momento si è voluto valutare la vitalità delle vongole di mare dopo la depurazione: in diverse giornate dei mesi di giugno-luglio 2015 sono stati effettuati quattro campioni di Chamelea gallina da 4 kg l’uno. Si è voluto valutare la vitalità delle Chamelea gallina di ciascun campione, suddividendolo in tre parti uguali e sottoponendo una parte a 2 ore di depurazione, una a 4 e una a 6, presso un Centro di Depurazione Molluschi (CDM). Successivamente le vongole di mare sono state stoccate e conservate a temperatura di refrigerazione

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Immagine 4 – C.L.A.M. Cooperativa Lagunare Allevatori Molluschi, Chioggia. Immagine 5 – C.A.M. Srl, Chioggia. (4-6°C). Per ogni campione, una porzione delle vongole raccolte e sottoposte a diversi tempi di depurazione è stata confezionata sottovuoto, e anche la vitalità di quest’ultima è stata valutata per sette giorni consecutivi. Ogni giorno veniva valutata la vitalità delle vongole sottoposte a 2, 4, 6 ore di depurazione ponendo 10 soggetti, per ciascun tempo di depurazione, in contenitori separati, contenenti acqua di mare pulita. La stessa procedura veniva applicata alle Chamelea che erano state poste sottovuoto, dopo averle estratte dalla confezione. All’apertura della confezione venivano valutate anche le caratteristiche organolettiche. Tutte le prove sono state effettuate con lo stesso numero di vongole e alle medesime condizioni ambientali. Quotidianamente è stata valutata la vitalità e la reattività delle vongole di mare (Immagine 2). Le Chamelea gallina sono rimaste vive e vitali per 6 giorni in tre campioni e 7 giorni in un campione. In particolare è stata notata una maggiore reattività delle vongole confezionate sottovuoto, una volta reimmerse in acqua, rispetto a quelle tenute in retina. Successivamente, nell’ambito di un’attività di sperimentazione per valutare l’efficacia del processo di depurazione presso alcuni CDM, si è colta l’opportunità per valutare l’efficacia del trattamento di depurazione nelle vongole di mare relativamente al contenuto di E. coli e il tempo necessario a raggiungere valori entro i limiti di legge. A tal fine sono state effettuate n. 4 prove in due centri di depurazione molluschi.

IL PESCE, 3/16

Caratteristiche degli impianti in cui si è svolta la sperimentazione I CDM in cui si sono svolte le prove sono a circuito chiuso, a bins, alimentati con acqua di laguna di zona B, sottoposta a processi di filtrazione con filtri meccanici e biologici. Sono attivi anche impianti di schiumazione che, attraverso processi di flottazione, eliminano albumine e microimpurità presenti nell’acqua. Successivamente l’acqua subisce un trattamento con raggi UV che consentono di abbattere la carica microbica presente e rendere l’acqua con caratteristiche simili all’acqua di mare pulita. Il secondo impianto, oltre a impiegare i raggi UV per la sterilizzazione dell’acqua, utilizza anche l’ozono. Entrambi gli impianti lavorano con temperature dell’acqua comprese tra 10°C e 20°C, per ottimizzare l’attività di filtrazione dei molluschi e rispettare il benessere animale. Durante il periodo estivo la temperatura viene mantenuta intorno ai 20°C, durante il periodo invernale intorno ai 10°C, al fine di evitare stress termici che potrebbero influire negativamente sull’attività filtratoria. L’alimentazione dell’acqua dei bins è a caduta gravitazionale con docce che favoriscono l’ossigenazione. L’impianto è stato strutturato per depurare fino a 300 kg di molluschi bivalvi per bins nell’arco di 6-24 ore, in funzione del livello di inquinamento del prodotto; tuttavia le prove effettuate sono state condotte con densità di carico inferiori a quelle comunemente contenute nei bins dei CDM. Le analisi di laboratorio sono state sempre eseguite dalla Sezione

di Vicenza dell’Istituto Zooprofilattico delle Venezie, in regime di autocontrollo. Dopo ogni prova è stata valutata la vitalità delle vongole di mare sottoposte a depurazione e conservate a temperatura di refrigerazione (4°-6°C) per sei giorni: la mortalità riscontrata dopo tale periodo è stata praticamente nulla in tutte le prove, a conferma di quanto già riportato in bibliografia (Immagine 5). Parametri dell’acqua monitorati Al fine di tenere sotto controllo il processo di depurazione e il benessere animale sono stati costantemente monitorati i seguenti parametri: salinità, temperatura, ossigeno, pH e ammoniaca (Tabella 3). Qualora fossero stati riscontrati valori difformi dagli intervalli riportati in Tabella 3, l’attività di depurazione sarebbe stata sospesa e sarebbero stati informati i tecnici per l’individuazione delle cause. Le prove effettuate Prima prova Con la prima prova si è voluto verificare la capacità dell’impianto di portare livelli di contaminazione da E. coli all’interno dei parametri previsti dalla normativa in materia (≤ 230 MPN/100 g) partendo da molluschi bivalvi con valori di contaminazione rientranti nell’ambito di zona B per Chamelea gallina e di zona C per le vongole veraci, Tapes semidecussatus. Sono state analizzate due partite, una di vongole veraci (Tapes semidecussatus) e una di vongole di mare (Chamelea

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Risultati Tapes semidecussatus Per quanto riguarda Tapes semidecussatus le analisi effettuate sul campione a T0 hanno dato un risultato di 17.000 MPN/100 g (valore superiore a una zona classificata di tipo B). Il campione prelevato dopo 6 ore ha dato un risultato di 78 MPN/100 g dimostrando una elevatissima capacità depurativa di Tapes semidecussatus. Il campione prelevato dopo 12 ore ha dato un risultato di 45 MPN/100 g confermando il trend di riduzione. Il campione effettuato dopo 24 ore ha dato un valore < 18 MPN/100 g dimostrando anche in questo caso una efficienza elevata della capacità di depurazione (Immagine 3).

E. coli MPN/100 g.

Grafico 1

E. coli MPN/100 g.

Grafico 2

Valutazione dei risultati L’analisi del Grafico 1 permette di fare alcune considerazioni: • la capacità depurativa di Tapes semidecussatus risulta essere molto elevata, considerato che si è partiti da un prodotto con livelli di contaminazione elevati (17.000 MPN/100 g di E. coli); • l’andamento della curva del grafico dimostra che la capacità depurativa è notevole; si osserva una elevata riduzione di E. coli nelle prime 6 ore di depurazione, seguita da un calo più moderato nelle ore successive.

E. coli MPN/100 g.

Grafico 3

E. coli MPN/100 g.

Grafico 4

gallina) che presentavano, a tempo zero (T0), prima della depurazione, rispettivamente il seguente livello di contaminazione: • 17.000 MPN/100 g (valore superiore a una zona classificata di tipo B); • 3.300 MPN/100 g (valore rien-

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trante in una zona classificata di tipo B). Per verificare l’efficacia della depurazione sono stati effettuati i seguenti campioni: il primo a T0, il secondo dopo 6 ore di depurazione, il terzo dopo 12 ore e l’ultimo dopo 24 ore di depurazione.

Risultati Chamelea gallina Per quanto riguarda le Chamelea gallina, le analisi effettuate sul campione iniziale (al tempo zero – T0), prima dell’immissione nei bins per la depurazione, hanno dato un valore di E. coli di 3.300 MPN/100 g (valore rientrante in una zona classificata di tipo B). Nel campione prelevato dopo 6 ore è stato riscontrato un valore di E. coli di 1.100 MPN/100 g dimostrando una sensibile capacità depurativa del mollusco bivalve. Il campione prelevato dopo 12 ore ha dato un risultato di 45 MPN/100 g confermando il trend di riduzione: emerge pertanto che sono necessarie 12 ore di depurazione per portare il livello di contaminazione al di sotto dei 230 MPN/100 g. Il campione effettuato dopo 24 ore ha dato un valore di 20 MPN/100 g, dimostrando anche in questo caso una efficienza

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Valutazione dei risultati L’analisi del Grafico 2 permette di fare alcune considerazioni: • la capacità depurativa di Chamelea gallina risulta buona. Sono necessarie 12 ore di depurazione per portare i livelli di contaminazione di C. gallina entro i limiti di legge (≤ 230 MPN/100 g di E. coli); • Chamelea gallina ha una capacità depurativa sensibilmente inferiore rispetto alle vongole veraci, e questo deve essere tenuto in considerazione quando viene sottoposta a depurazione la vongola di mare; • l’andamento della curva del grafico dimostra che la capacità depurativa di Chamelea gallina è notevole; si osserva una progressiva riduzione del livello di contaminazione dei molluschi in relazione alle ore di depurazione: elevata nelle prime 12 ore di depurazione, seguita da un calo più moderato nelle ore successive.

Grafico 5

E. coli MPN/100 g.

elevata della capacità depurativa di Chamelea gallina e dell’impianto.

Seconda prova La seconda e la terza sperimentazione sono state eseguite in un CDM con impianto a bins che, oltre a impiegare i raggi UV per la sterilizzazione dell’acqua, utilizza anche l’ozono. Anche la seconda prova ha voluto valutare la capacità di depurazione delle vongole di mare, Chamelea gallina, con livelli di contaminazione da E. coli rientranti nel range di zona B. Le analisi effettuate sul campione iniziale (T0) hanno dato un

risultato di 1.300 MPN/100 g (valore rientrante in una zona classificata di tipo B). Il campione prelevato dopo 6 ore ha dato un risultato di 110 MPN/100 g, dimostrando una buona capacità di depurazione: 6 ore sono sufficienti per portare il livello di contaminazione al di sotto dei 230 E. coli MPN/100 g. Il campione prelevato dopo 12 ore ha dato un risultato di 78 MPN/100 g, confermando il trend di riduzione. Il campione effettuato dopo 24 ore


ha dato un valore di 20 MPN/100 g, dimostrando anche in questo caso la capacità depurativa di C. gallina. Valutazione dei risultati L’analisi del Grafico 3 permette di fare alcune considerazioni: • anche in questo caso la capacità depurativa di Chamelea gallina risulta buona. Sono sufficienti 6 ore di depurazione per portare i livelli di contaminazione di C. gallina entro i limiti di legge (≤ 230 MPN/100 g di E. coli); • l’andamento della curva del grafico dimostra che l’attività depurativa di C. gallina è continua nel tempo. Terza prova Anche con la terza prova si è voluto verificare l’efficacia della depurazione per portare i livelli di contaminazione da E. coli in C. gallina all’interno dei parametri previsti dalla normativa (≤ 230 MPN/100 g). Si è partiti da un prodotto con valori di E. coli rientranti nell’ambito della zona B. Le analisi effettuate sul campione iniziale (T0) hanno dato un risultato di 1.700 MPN/100 g. Il campione prelevato dopo 6 ore ha dato un risultato di 310 MPN/100 g, dimostrando la buona capacità di depurazione di C. gallina, tuttavia in questo caso non sufficiente a riportare il livello di E. coli al di sotto del valore di 230 MPN/100 g. Il campione prelevato dopo 12 ore ha dato un risultato di 130 MPN/100 g, confermando il trend di riduzione. Pertanto emerge che anche in questa prova, come nella prima, sono state necessarie 12 ore di depurazione per portare il livello di E. coli al di sotto dei 230 MPN/100 g. Il campione effettuato dopo 24 ore ha dato un valore < 18 MPN/100 g. Valutazione dei risultati Come si evince dal Grafico 4, sono necessarie 12 ore di depurazione per portare i livelli di E. coli di Chamelea gallina entro i limiti di legge. Quarta prova Con la quarta prova si è voluto verificare la capacità dell’impianto di depurare le Chamelea gallina con

130

livelli di contaminazione rientranti in zona C. Le analisi effettuate sul campione a tempo zero hanno dato un risultato di 11.000 MPN/100 g. Il campione prelevato dopo 6 ore ha dato un risultato di 2.300 MPN/100 g dimostrando una buona capacità di depurazione di C. gallina. Il campione prelevato dopo 12 ore ha dato un risultato di 780 MPN/100 g confermando il trend di riduzione, tuttavia non sufficiente a riportare i molluschi all’interno dei limiti di sicurezza alimentare previsti dal Reg. n. 2073/05. Il campione effettuato dopo 24 ore ha dato un valore pari a 45 MPN/100 g. Valutazione dei risultati L’analisi del grafico permette di fare alcune considerazioni: • la capacità depurativa risulta molto buona. Con 24 ore di depurazione è possibile portare i livelli di contaminazione di Chamelea gallina entro i limiti di legge (≤ 230 MPN/100 g di E. coli); • con questa prova è stato dimostrato che è possibile depurare in 24 ore anche vongole di mare con livelli di contaminazione rientranti nei limiti della zona C e riportarle entro i limiti di legge (≤ 230 MPN/100 g di E. coli). Conclusioni Le prove effettuate hanno dimostrato che Chamelea gallina reagisce bene al trattamento di depurazione, riprendendo e continuando a nutrirsi, eliminando la contaminazione residua ed essendo in grado, dopo la depurazione, di mantenere la propria vitalità per un’adeguata vita commerciale. I tempi di depurazione da noi ottenuti concordano con quelli riportati da altri studi presenti in bibliografia, essendo, in alcuni casi, anche inferiori. Tuttavia, i tempi di depurazione possono variare in modo significativo in funzione del grado di contaminazione iniziale. Nelle prove effettuate, per livelli di contaminazione iniziali rientranti nei limiti di area B, sono stati raggiunti i valori consentiti dalla normativa vigente per l’immissione in commercio (E. coli ≤ 230 MPN/100 g) dopo 12 ore di depurazione. È importante

sottolineare come i tempi di depurazione attuati (12-24 ore) si basino sul parametro batteriologico E. coli e non su parametri quali virus e vibrioni, che necessitano di periodi di depurazione più lunghi. Dott. Luciano Boffo Medico Veterinario Consulente Sicurezza Alimentare Dott. Renzo Mioni Direttore Struttura Complessa Valorizzazione delle Produzioni Alimentari, IZSVe Dott.ssa Irene Francescon Medico Veterinario Dott.ssa Laura Bille SCS4 Lab. epid. applicata ambiente acquatico IZSVe (PD) Bibliografia • BARILE N. et al. (2009), Study of the efficacy of a closed cycle depuration system on bivalve molluscs, Veterinaria Italiana, 45 (4), 541-553. • MAFFEI M. et al. (2009), Depuration of Striped Venus Clam (Chamelea gallina L.): Effects on Microorganisms, Sand Content, and Mortality, Journal of Food Science, vol. 74, n. 1. • MANZONI P., Grande enciclopedia illustrata dei crostacei, dei molluschi e dei ricci di mare, Ed. EuroFishmarket, nov. 2010. • MATOZZO V. et al. (2013), Can the combination of decreased pH and increased temperature values induce oxidative stress in the clam Chamelea gallina and the mussel Mytilus galloprovincialis?, Marine Pollution Bull. 72, 34-40. • MONARI M. et al. (2007), Effects of high temperatures on functional responses of haemocytes in the clam Chamelea gallina, Fish & Shellfish Immunology 22, 98-114. • SERRATORE P. (2004), Efficacia del trattamento di depurazione nei molluschi bivalve, Atti Società Italiana delle Scienze Veterinarie, Grado 2004, vol. LVIII: 196. • SERRATORE P. (2000), La depurazione di Chamelea gallina. Estratto dal rapporto “studio sull’efficacia del processo di depurazione in Chamelea gallina, IL PESCE n. 2/2000.

IL PESCE, 3/16



Fattori condizionanti la salubrità delle conserve ittiche Essendo stata recentemente riscontrata la presenza di Listeria monocytogenes in alcune confezioni di insalata di mare marinata, con conseguente ritiro dal commercio delle confezioni del lotto, sono state effettuate alcune indagini sperimentali atte ad attestare l’idoneità di tali prodotti di Carlo Cantoni e Simone Bona

La marinatura, un tempo usata per permettere e prolungare la conservazione dei cibi più a lungo, è anche un metodo di preparazione degli alimenti, che può sostituire, in alcuni casi, la cottura. Esistono quattro tipi di marinatura: acida, in olio, acido-salina e mista. Sul mercato il consumatore può disporre di una

molteplicità di alimenti marinati. Nello specifico, per i prodotti ittici sono commercializzati più di venti tipi di pesci: molluschi soli o miscelati preparati in salamoia acida, crudi o cotti, in olio di girasole e confezionati in vaschette di materiale plastico richiudibili. Si tratta di alimenti sicuri dal punto di vista batteriologico,

che hanno lunghi periodi di vita commerciale a +4°C. Essendo stata recentemente riscontrata la presenza di Listeria monocytogenes in numero inferiore a 10 ufc/g in alcune confezioni di insalata di mare marinata, con conseguente poco comprensibile obbligo di ritiro dal commercio di tutte le confezioni

Insalata di mare.

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IL PESCE, 3/16


del lotto, si è inteso condurre alcune indagini sperimentali atte ad attestare l’idoneità di tali prodotti, con la conseguente dimostrazione dell’efficacia antibatterica dell’olio di governo aggiunto e ricoprente completamente i prodotti ittici presenti nelle confezioni. Gli oli con cui i prodotti ittici sono addizionati sono l’olio di oliva, per preparazioni casalinghe o conviviali, e l’olio di girasole, per quelle commerciali di più ampio consumo. Di seguito si riportano le caratteristiche di tali oli. Olio di oliva Studi sui microrganismi presenti nell’olio di oliva sono limitati ma esaurienti. CIAFARDINI et al. (2002a, 2002b) hanno esaminato oli di oliva prodotti nell’Italia centrale effettuando le determinazioni dei batteri aerobi (con terreno Standard Plate Count agar), dei batteri lattici (con terreno MRS), dei lieviti (terreno Sabouraud agar) e delle muffe (terreno con glucosio e estratto di lievito agar addizionato con gentamicina e cloramfenicolo). Questi ricercatori hanno riscontrato la presenza costante di lieviti nell’olio all’inizio e durante la conservazione; le muffe sono state occasionalmente isolate e nessun batterio è mai stato rilevato. Le muffe appartenevano generalmente al genere Aspergillus. I lieviti isolati (50 ceppi) sono stati classificati come Saccharomyces cerevisiae e Candida wickerhamii in rapporto 3 a 1. CIAFARDINI e ZULLO (2002b) hanno determinato l’attività biochimica di questi lieviti e hanno pure dimostrato, mediante esame al microscopio ottico, che i microrganismi e le particelle solide erano intrappolati in micro-gocce di acqua che giacevano sospese nell’olio di oliva. CIAFARDINI et al. (2004) hanno isolato Williopsis californica e Candida boidinii in aggiunta a Saccharomyces cerevisiae e Candida wickerhamii nell’olio di oliva prodotto in Italia centrale. ZULLO e CIAFARDINI (2008) hanno trovato Candida parapsilosis in oli commerciali venduti in Italia. ZULLO et al. (2010) hanno studiato la distribuzione di lieviti dimorfici in oli extravergini commerciali di

IL PESCE, 3/16

23 produttori situati nel Nord Italia e nel Centro Italia. La popolazione totale dei lieviti nei campioni variava da 23 a 15.000 ufc/ml. Nei sei campioni che contenevano lieviti dimorfici, la popolazione era compresa tra 3 e 5.300 uf/ml. KOIDIS et al. (2008) hanno analizzato oli di oliva torbidi prodotti in Grecia, determinando i microbioti totali, i batteri lattici, i lieviti e le muffe usando gli stessi terreni di CIAFARDINI e ZULLO (2002a, 2002b). Essi hanno seguito l’evoluzione di queste conte in due campioni torbidi e in uno commerciale a intervalli di 15 giorni fino a 90 giorni, campionando la parte superiore e inferiore dell’olio conservato. Le conte totali iniziali dei microrganismi erano approssimativamente di 1-2 log ufc/ml. In generale la conta aerobica totale diminuiva nello strato superiore di tutti i campioni e rimaneva pari a quella iniziale negli strati inferiori. I batteri lattici rimanevano al basso livello iniziale, mentre i lieviti erano più numerosi nella parte inferiore rispetto alla superiore ma restavano sempre al di sotto di 1.000 ufc/ml. Nel corso della conservazione lieviti e batteri lattici diminuivano progressivamente fino a livelli non determinabili dopo 60 giorni nello strato superiore, ma continuavano ad essere presenti in quella inferiore dopo 90 giorni. I lieviti identificati sono stati Candida guilliermondii, Candida parapsilosis, Candida lusitaniae, Candida famata, Candida albicans e Rhotorula mucilaginosa 2 (PALUMBO et al., 2011). Componenti dell’olio di oliva che ostacolano la crescita microbica L’olio di oliva differisce dagli altri oli edibili non solo per la sua composizione in acidi grassi, ma per la presenza minoritaria di composti bioattivi in quanto consumato non raffinato. Tutti i tipi di oli d’oliva contengono gli stessi acidi grassi, ma non la medesima composizione e quantità di componenti minori quali: acidi triterpenici, alcoli, alfa-tocoferolo, squalene, acidi fenolici, lignani e polifenoli. I principali composti fenoli degli oli d’oliva sono generalmente distinti in fenoli semplici (p.e.

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Grafico 1 – Lysteria monocytogenes in insalata di mare classica confezionata sottovuoto

l’idrossitirosolo, il tirosolo, l’acido vanillico), secoiridoidi (p.e. l’oleuropeina, il glucoside oleuropeina), aldeidi dell’oleuropeina, polifenoli e flavonoidi. L’olio d’oliva fresco contiene piccole quantità di acqua Ricercatori greci (KOIDIS et al., 2007) hanno esaminato oli d’oliva freschi (torbidi) e oli d’oliva filtrati commerciali trovando contenuti di acqua compresi tra 0,17 e 0,49% negli oli torbidi e 0,08-0,09% negli oli commerciali. Tali concentrazioni non consentono alcuna crescita microbica. Le dimensioni delle gocce d’acqua nell’olio fresco erano comprese da 1 a 5 millimicron. Le piccole dimensioni di queste gocce limitano la disponibilità di utilizzare eventuali nutrienti e riducono al minimo lo spazio vitale per i microrganismi. Ciò vale anche per altri tipi di oli.

Le proprietà antimicrobiche dell’olio d’oliva La possibilità che l’olio d’oliva possegga proprietà antimicrobiche è nota da tempo. Uno studio italiano edito nel 1970 aveva segnalato che tonno inscatolato con olio d’oliva sottoposto a un trattamento calorico insufficiente a impedire lo sviluppo di Clostridium botulinum non presentava alcun segno della sua presenza o alterazioni del prodotto (DALLYN H., EVERTON J.R., 1970). Questi stessi ricercatori dimostrarono che un composto idrosolubile presente in molti oli d’oliva riduceva sensibilmente la resistenza termica delle spore di Clostridium sporogenes (l’anaerobio putrefacente simile al botulinum ma non tossigeno). La presenza di un inibitore dei batteri lattici nelle olive verdi è stata segnalata alla fine degli anni ‘60 (FLEMING et al., 1967; FLEMING et al., 1969) e JUVEN e HENIS (1970) hanno

identificato l’oleuropeina come uno dei composti antimicrobici presenti nelle olive e nell’olio. Studi sulla proprietà antimicrobica della oleuropeina sono stati eseguiti da TRANTER et al. (1993), KOUTSOUMANIS et al. (1998),TASSAU et al. (1994, 1995). MEDINA et al. (2006) hanno studiato l’attività antimicrobica di differenti oli edibili, trovando che gli oli d’oliva esercitano una forte attività battericida contro i batteri gram-positivi e gram-negativi. Riduzioni superiori a 4 log sono stati osservati dopo un’ora di esposizione in oli vergini di oliva “Picual” e “Arbequina” per ceppi di Lysteria monocytogenes, Staphylococcus aureus, Salmonella enterica, Yersinia spp. e Clostridium perfringens. Riduzioni di 1-2 e 24 log sono state verificate rispettivamente per singoli ceppi di E. coli e Shigella sonnei. Nessun olio ha dimostrato di inibire Candida albicans. Contemporaneamente sono stati identificati i composti fenolici degli oli e sono state stimate le loro concentrazioni. Le aldeidi della decarbossimetiloleuropeina, gli agliconi ligstrosidi, l’idrossitirosolo e il tirosolo sono risultati statisticamente con la sopravvivenza batterica. Oli vergini di oliva e oli prelevati sul mercato in Spagna hanno dimostrato di inibire i patogeni. Più di 4 log di riduzione sono stati registrati per ceppi di S. aureus, E. coli O157:H7, Lysteria monocytogenes, Shigella sonnei, Shigella enteritis e Yersinia spp. dopo 5 minuti di contatto con olio d’oliva. Riduzioni nell’olio d’oliva non vergine sono variate da 4 log per Staphylococcus

Tabella 1 – Conteggi di L. monocytogenes rilevati agli intervalli di tempo indicati (valori espressi in ufc/ml) Tempo

uu.cc

T0

250

250

260

– 0,13

247

1,79

T1

249

249

240

–1,35

243

1,78

T2

200

200

200

–19,18

197

1,69

T3

140

140

150

–32,20

133

1,52

T4

18

18

18

– 84,25

21

0,70

T5

9 (< 10)

9 (< 10)

9 (< 10)

–54,14

9

0,40

134

% di crescita

Valore medio ufc/g

Log ufc/g

IL PESCE, 3/16


PAVI M E NTI E R IVESTI M E NTI PE R L’I N DUSTR IA ALI M E NTAR E DAL 1962 24043 CARAVAGGIO (BG) ITALY via Leonardo da Vinci, 88 Tel.0363 50449/049 Fax 0363 350714 www.mombrini.it info@mombrini.it


Sardine in conserva (photo © thefoodinista.files.wordpress.com). aureus e Yersinia spp., a meno di 1 log per Lysteria monocytogenes (MEDINA et al., 2007). Oli vergini di oliva e oli raffinati (oliva, nocciola e canola) sono stati valutati per la loro attività antibatterica nei confronti di ceppi di E. coli O157:H7, Lysteria monocytogenes e Salmonella enteritidis da KARAOSMANOGLU et al. (2010). Gli oli raffinati sono stati analizzati perché posseggono una composizione simile di acidi grassi dell’olio vergine d’oliva, ma le loro concentrazioni in fenoli sono differenti. Le popolazioni dei patogeni diminuivano di 5 log cfu/ ml fino al limite di conteggio dopo un’ora di esposizione in due differenti oli di oliva extravergini. Una riduzione inferiore a 0,4 log cfu/ml si è riscontrata, viceversa, negli oli raffinati di oliva, nocciola e canola. L’inibizione batterica è risultata dipendere dai composti fenolici e dalle loro concentrazioni negli oli. I composti fenolici isolati dagli oli d’oliva turchi comprendevano: l’acido cinnamico, l’acido ferulico, l’acido 4-idrossibenzoico, la luteolina, l’acido siringico, il tirosolo, l’acido vanillico, e molti di questi posseggono attività inibente i patogeni. Olio di semi di girasole (Helianthus annuus) Questo olio, dotato di ottime qualità nutrizionali e benefiche per il consumatore, viene utilizzato come protettore nelle marinate commercializzate

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per il suo minor costo rispetto a quello dell’olio di oliva. Possiede anch’esso proprietà antibatteriche, come risulta da un recente studio nel quale ABOKI et al. (2012) hanno evidenziato la sua capacità antibatterica nei confronti di Pseudomonas aeruginosa, Escherichia coli, Bacillus subtilis, Staphylococcus aureus. L’azione antibatterica consegue alla presenza di acidi fenolici Essi sono liberi ed estereficati o insolubili. L’olio di semi di girasole contiene 1 mg/100 g di composti fenolici. I principali sono l’acido caffeico, l’acido clorogenico, il 4-acidoidrossibenzoico, l’acido ferulico, l’acido p-cumarico. Sono presenti anche piccole quantità di acido siringico. Il ritrovamento di Lysteria monocytogenes in quantità inferiori a 10 ufc/ ml in insalata di mare cotta, confezionata sottovuoto, hanno quindi reso necessario di eseguire uno studio apposito i cui obiettivi sono stati: a) la valutazione dell’andamento di L. monocytogenes nel prodotto insalata di mare classica confezionata sottovuoto conservata a +21°C per un periodo di 10 giorni; b) definire la curva di crescita nell’ambito del periodo del test (10 giorni); c) individuare il valore massimo accettabile in ufc/g che, applicato alla curva di crescita, permetta di non superare il limite di legge consentito durante la vita com-

merciale del prodotto (limite massimo 100 ufc/g); d) verificare l’intensità della correlazione tra le variabili prese in esame e definire la linea di tendenza. L’insalata di mare classica era composta da crostacei e molluschi (totani, cozze, gamberi sgusciati). Come specificato di seguito, si sono insemenzate con ceppi di Lysteria monocytogenes 15 confezioni di insalata di mare olio di semi di girasole sottovuoto. Il prodotto contenuto aveva un pH di 5 ed una aw di 0,981 sul prodotto non sgocciolato. I conteggi sono stati effettuati in varie fasi (steps), precisamente a: 1. T = 0; 2. T = 0 –> post inoculo; 3. T = –> +2 gg.; 4. T = 2 –> 4 gg.; 5. T = 3 –> 8 gg.; 6. T = 4 –> 10 gg. La temperatura di esecuzione della prova era di 21°C (+/–2°C). Il metodo utilizzato per l’analisi è quello descritto nella norma UNI EN ISO 11290-2 (2005), così da attestare l’assenza di Lysteria monocytogenes e assicurare l’assenza di interferenze alla sperimentazione. In particolare si sono analizzate 3 unità campionarie ad ogni step contaminate con Lysteria monocytogenes. È stata utilizzata come brodocoltura una miscela di 3 ceppi, 2 di riferimento (ATCC 19111) e uno isolato in campo dal laboratorio da matrici alimentari similari. Successivamente si è utilizzata una coltura di Lysteria monocytogenes di 24 ore in soluzione fisiologica, ad una sospensione tale da avere nei prodotti una concentrazione nominale dell’ordine di 102 ufc/g. Le singole colonie di Lysteria monocytogenes sono state prelevate dalla brodo-coltura e sospese in olio di semi di girasole. Tale procedura è stata adottata per evitare di inoculare insieme a soluzione acquosa e di usare la stessa tipologia di olio utilizzato nell’insalata di mare. La contaminazione è stata effettuata in laboratorio in vaschette appartenenti allo stesso lotto. Al fine di mantenere il vuoto nella vaschetta, sono stati apposti sulla stessa appositi gommini di tenuta. Mediante siringa

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ad ago è stata quindi introdotta la sospensione batterica in olio di semi di girasole. Nella Tabella 1 sono quindi riportati i risultati della sperimentazione, relativi ai conteggi di Lysteria monocytogenes. Questi dati hanno permesso di rappresentare graficamente la curva di crescita (Grafico 1) di Lysteria monocytogenes e la stessa è stata successivamente rapportata a un modello matematico predittivo, creato appositamente sulla tipologia del prodotto oggetto di studio. Si è quindi calcolato il potenziale di crescita di Lysteria monocytogenes applicando questa formula: potenziale di crescita = = log 10 ufc/g T5 – log10ufc/gT10 = = 0,40 – 1,79 = –1,39 Conclusioni L’insalata di mare confezionata sottovuoto ha quindi un potenziale di crescita (negativo) valutato a 10 gg, tale per cui il prodotto si deve ritenere come substrato che non permette la crescita di Lysteria monocytogenes. Le conclusioni che si traggono dalla sperimentazione sono quindi le seguenti: • l’insalata di mare sottolio confezionata sottovuoto costituisce un substrato che non supporta la crescita di L. monocytogenes; • la curva di crescita, con il suo tracciato, ha evidenziato l’incapacità di L. monocytogenes di moltiplicarsi e aumentare di numero nella matrice alimentare testata a temperature di conservazione estreme (+21°C +/-2°C); • ha indicato la possibilità di esprimersi in termini quantitativi (ufc/g) come previsto alla normativa vigente. Carlo Cantoni Libero docente in Ispezione degli alimenti di origine animale Simone Bona Tecnologo alimentare, Milano Bibliografia • ABOKI M.A, MOHAMMED M., MUSA S.H. et al. (2012), International Journal of Science and Technology 2, 151-154. • C I A FA R D I N I G., Z U L L O B.A. (2002a), Journal of Food Microbiology 75, 11.

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• C I A FA R D I N I G., Z U L L O B.A. (2002b), Food Microbiology 105, 109. • C IAFARDINI G.C., C IOCCA G., PERA G. et al. (2004), International Journal of Food Science 16, 105-111. • DALLYN H., EVERTON R. (1970), Journal of Applied Bacteriology 33, 603-608. • FLEMING H.P., ETCHELLS J.L. (1967), Applied Microbiology 15, 1178-1184. • FLEMING H.P., WALTERS W.W., ETCHELLS J.L. (1969), Journal of Applied Microbiology 18, 856-860. • JUVEN B., HENIS Y. (1970), Journal of Applied Bacteriology 33, 721-32. • KARAOSMANOGLU H.F., SOYER F., OZEN B. et al. (2010), Journal of Agricultural and Food Chemistry 58, 8238-8245. • KOIDIS A.E., TRINTAFOLLOU E., BOSKOU D., European Journal of Lipid Science and Technology 110, 164-171. • KOUTSOUMANIS K., TASSAU P.S., TAOUKIS R.S. et al. (1998), Journal of Applied Microbiology 84, 981-987. • MEDINA E.C., DE CASTRO A., ROMERO C. et al. (2006), Journal of Agricultural and Food Chemistry 56, 4954-4961. • MEDINA E.C., ROMERO C., BRENES. et al. (2007), Journal of Food Protection 70,1194-1199. • PALUMBO M., HARRIS L. (2011), Microbiological Food Safety of Olive Oil, Review 1-10, Olive Center UC Davis. • T ASSAU C.C., N YCHAS G.J.E. (1994), Journal of Food Protection 57,120-124. • T ASSAU C.C., N YCHAS G.J.E. (1995), Letters in Applied Microbiology 20, 120-124. • T RANTER H.S., T ASSOU C.C., NYCHAS G.J.E. (1993), Journal of Applied Bacteriology 74, 252-260. • Z ULLO B.A., C IAFARDINI G.C. (2008), Food Microbiology 25, 970-974. • ZULLO B.A., CIOCCIA G., CIAFARDINI G. (2010), Food Microbiology 27, 1035-1042.


TECNOLOGIE

In Sicilia un impianto di acquacoltura innovativo a basso impatto ambientale L’impianto sfrutta il ricircolo idrico per la filtrazione meccanica, biologica e chimica, abbattendo i costi elettrici ed utilizzando la tecnologia Xylem Nel 2006 un rapporto stilato dalla FAO ha rilevato che sono stati superati i limiti di sostenibilità della cattura dei prodotti ittici. Questo significa, in pratica, che da mari, laghi e fiumi vengono prelevati più pesci rispetto a quanti ne nascono. Una situazione che comporta un progressivo depauperamento delle risorse ittiche, con il rischio di rendere difficoltoso l’approvvigionamento nel prossimo futuro. Da qui la scelta, a livello mondiale, di ridurre progressivamente le licenze

di pesca incentivando, al contempo, la cosiddetta acquacoltura. Si tratta, in pratica, di creare allevamenti di specie ittiche da destinare all’alimentazione umana. L’attività, favorita da una serie di finanziamenti mirati, si è indirizzata, in una prima fase, verso gli allevamenti in mare aperto: autentiche gabbie in cui i pesci vengono fatti crescere e riprodurre sino al momento di essere prelevati e destinati alla trasformazione e al commercio alimentare.

Una simile scelta, pur essendo economica, in quanto non comporta l’impiego di sorgenti energetiche esterne, è esposta ad una serie di rischi “naturali”. Questo perché, complice il mutamento delle condizioni climatiche globali, la temperatura delle acque sta subendo progressive modificazioni e, poiché le specie confinate all’interno di una gabbia non sono in grado di spostarsi in funzione delle variazioni climatiche, potrebbero trovarsi in condizioni ambientali non adeguate alle loro

Gli impianti Ras sono la risposta al depauperamento delle risorse ittiche.

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L’impianto della Porrazzito Srl di Ragusa è composto da 12 vasche da 75 m3.

"Il continuo riciclo dell’acqua che, escludendo le perdite per evaporazione e quelle connesse al sistema di controlavaggio della filtrazione meccanica, viene completamente rimessa nelle vasche, ha il compito di favorire l’ossigenazione, ma anche di garantire un apporto di acqua sempre pulita, migliorando così la qualità del pesce”

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effettive esigenze fisiologiche. A questo si aggiunge il rischio dei fenomeni come le alluvioni o le mareggiate, che possono danneggiare le gabbie stesse. L’elevata concentrazione di pesci in uno spazio confinato non controllabile, inoltre, espone al rischio di malattie, così come all’intromissione di specie aliene, che potrebbero rivelarsi particolarmente aggressive o portatrici di virus. La soluzione è nei Ras A livello italiano, una delle prime regioni a cogliere le opportunità dell’acquacoltura è stata la Sicilia che, pur essendo circondata dal mare, è la regione italiana con la maggior superficie di bacini artificiali e, da sempre, ha imparato a sfruttare le risorse idriche del proprio territorio. In quest’ambito, in particolare, l’amministrazione regionale ha messo a disposizione una serie di incentivi economici indirizzati proprio all’acquacoltura e, in particolare, agli impianti al chiuso a totale ricircolo idrico, detti Ras (Recirculating aquaculture systems). Simili allevamenti, infatti, hanno anche il vantaggio di non rappresentare una

potenziale fonte di inquinamento per le acque superficiali. Una delle aziende all’avanguardia in quest’ambito è la Porrazzito Srl di Acate, in provincia di Ragusa, dove ha creato un impianto coperto (2.200 m2) in grado di riciclare completamente l’acqua impiegata all’interno delle vasche in cui si trovano i pesci. Il progetto, giudicato uno dei più innovativi a livello nazionale, è stato cofinanziato dalla Comunità europea. Questa tipologia di allevamento comporta, a carico dell’azienda, l’onere di affrontare costantemente significativi costi energetici necessari per il ricircolo idrico ed il trattamento delle acque in cui si trovano i pesci, in cambio di un profitto sicuro garantito da un sistema controllato con conseguente riuscita qualitativa del prodotto allevato. Infatti, oltre alla necessaria depurazione, è fondamentale garantire temperature stabili e controllate per l’intero ciclo di vita delle specie ittiche allevate che solo il Ras al chiuso riesce a garantire rispetto ai tradizionali impianti a ciclo aperto (incontrollabili). Le attrezzature tecniche, previste dal

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1) Le specie pregiate allevate dalla ditta Porrazzito devono trovarsi in condizioni ambientali ottimali. 2) La depurazione è fondamentale per consentire ai pesci di crescere in acqua pulita anche a fronte di concentrazioni molto superiori rispetto a quelle in natura. 3) Le torri di raffreddamento garantiscono le condizioni ideali anche nelle torride estati siciliane. 4) Le pompe 3102, classificate IE3 e distribuite da Xylem, riducono drasticamente i consumi energetici. 5)L’impianto a raggi UV di Wedeco elimina batteri e virus senza utilizzare sostanze chimiche potenzialmente dannose. 6) Le lampade UV LPHO, a bassa pressione ed elevate performance, sono progettate per migliorare l’efficienza energetica e la stabilità di funzionamento. progetto iniziale, comprese le pompe necessarie per la movimentazione dell’acqua nelle 12 vasche da 75 m3 l’una, richiedevano una potenza di 96 kW per ogni modulo (ridotto a 38 kW). Un valore che, considerando il funzionamento continuo, avrebbe comportato un significativo esborso

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economico, aggravato dal fatto che il calore prodotto dai motori stessi avrebbe innalzato ulteriormente la temperatura dell’acqua in cui vivono i pesci. Un fattore significativo in un clima come quello siciliano, dove le colonnine di mercurio, per mesi, sono sistematicamente sopra i 30 °C.

Vince l’efficienza Il progetto, benché apparentemente vincente, rischiava quindi di arenarsi a fronte degli elevati costi energetici, anche in considerazione del fatto che l’energia elettrica, in Italia, ha prezzi superiori rispetto agli altri Paesi.

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In alto: l’impianto LBX sfrutta un reattore multi-lampada in acciaio inox con lampade ad alta intensità disposte concentricamente e parallelamente al flusso d’acqua. In basso: una progettazione attenta a individuare le soluzioni più efficienti ed efficaci ha permesso un rapido ritorno dell’investimento. L’incontro sinergico fra Porrazzito e MASSIMO PAPPALARDO, titolare di Acquario 57, un’azienda specializzata proprio nella progettazione e nella realizzazione di ecosistemi acquatici, ha, invece, consentito di rilanciare il progetto. La Acquario 57 ha individuato una serie di correzioni in fase di realizzazione dell’impianto iniziale, come le innovative bio-torri di raffreddamento e degassazione, ma, soprattutto, ha cercato di sfruttare il ricircolo idrico per il funzionamento dei bio-filtri e dell’impianto di sterilizzazione UV mediante l’utilizzo di pompe caratterizzate da un’elevata

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affidabilità e da bassi consumi per ridurre i costi di gestione. «In ognuna delle vasche — come spiega il biologo ANTONIO COSTA, responsabile della produzione di Porrazzito — vengono allevati da mille a 4.000 pesci, in funzione dell’età e della taglia, oltre che delle specifiche esigenze di ogni specie. Nel caso delle carpe, infatti, si possono allevare anche 100 kg di pesce in ogni metro cubo d’acqua. In questo impianto, invece, la proprietà ha scelto di investire su animali più pregiati, come il persico spigola ed il persico trota, la cui concentrazione non deve superare i 15 kg al metro

cubo. A questo si aggiunge, in via sperimentale, l’allevamento di alcuni storioni siberiani, particolarmente apprezzati dai palati più esigenti, che offrono un maggior margine economico». Per garantire il funzionamento, pur contenendo i consumi energetici, la ditta Acquario 57 si è confrontata con FRANCESCO COSTANZO, sales engineer presso Xylem Water Solutions, per individuare la soluzione più adatta alle specifiche esigenze di questo impianto. La multinazionale specializzata nella movimentazione e nel trattamento delle acque, infatti, possiede una notevole esperienza proprio nel settore della produzione, dove l’affidabilità, ampiamente testata in migliaia di impianti in tutto il mondo, rappresenta un parametro imprescindibile insieme al contenimento dei costi. La scelta si è così orientata sulla pompa 3102, nella versione N, equipaggiata da un particolare girante auto-pulente ad elevata efficienza, abbinata ad un diffusore dotato di una scanalatura di espulsione. Grazie a queste caratteristiche, le 3102 permettono il passaggio di eventuali materiali fibrosi, che metterebbero in crisi altri tipi di idraulica. Benché questa eventualità sia abbastanza remota, il vero pregio dell’installazione è rappresentato dall’elevato rendimento idraulico, abbinato all’impiego di motori classificati IE3–Premium Efficiency, che certifica i bassi consumi. Tutto ciò all’interno di una struttura in hard-iron, una particolare lega che offre una durata di almeno quattro volte superiore rispetto alla ghisa grigia, e due volte superiore rispetto all’acciaio inossidabile duplex. Il tutto installato in aria e non in acqua. Una scelta non casuale, ma dettata dall’esigenza di garantire una facile accessibilità alle pompe a fronte di qualunque esigenza manutentiva. In questo modo, come spiega la stessa ditta realizzatrice dell’impianto, «si evita anche che il calore prodotto dalle pompe contribuisca ad innalzare ulteriormente la temperatura dell’acqua in cui si trovano i pesci». Il risultato delle scelte tecnologiche è stato quello di

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ridurre del 60% i consumi energetici. Consumi particolarmente significativi anche in considerazione del fatto che ogni pompa deve movimentare, costantemente, 50 litri d’acqua al secondo. Acqua pulita Il continuo riciclo dell’acqua che, escludendo le perdite per evaporazione e quelle connesse al sistema di controlavaggio della filtrazione meccanica, viene completamente rimessa nelle vasche, ha il compito di favorire l’ossigenazione, ma anche di garantire un apporto di acqua sempre pulita, migliorando così la qualità del pesce. Per tale ragione, lungo il circuito esterno alle vasche, è stata creata una serie di sistemi di depurazione in grado di trattenere le sostanze presenti nell’acqua. Queste soluzioni, che consentono anche di gestire correttamente la temperatura, non sono però in grado di eliminare eventuali agenti patogeni che, riproducendosi, potrebbero mettere a repentaglio l’intero allevamento. L’utilizzo di disinfettante, pur essendo efficace dal punto di vista batteriologico, comporta l’impiego di sostanze chimiche che, a loro volta, finirebbero nella vasca in cui si trovano i pesci, con effetti pericolosi per la salute degli animali, ma anche dei consumatori finali. Da qui l’idea di sfruttare uno dei sistemi oggi più efficaci e privi di controindicazione per la corretta disinfezione delle acque: i raggi ultravioletti. Le frequenze utilizzate dagli impianti di disinfezione UV vengono emesse anche dal sole, ma non possono raggiungere la Terra grazie alla barriera di ozono che ci protegge. In assenza di tale barriera, le radiazioni UV sono in grado di inibire la capacità di riprodursi di batteri e virus, agendo direttamente sul DNA. Per tale ragione vengono utilizzate da Xylem nella realizzazione di un impianto, dotato di 16 lampade a raggi UV, attraverso il quale vengono eliminati tutti i batteri e virus presenti nell’acqua, senza l’aggiunta di nessuna sostanza nociva. L’impianto, firmato Wedeco e distribuito da Xylem, è basato sul modello LBX, che sfrutta un reattore multi-lampada

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in acciaio inox con lampade ad alta intensità disposte concentricamente e parallelamente al flusso d’acqua. Una simile caratteristica prolunga il tempo di esposizione di virus e batteri alla luce emessa dalle lampade UV, consentendo la totale eliminazione di qualunque agente patogeno. Inoltre, operando in condotta chiusa, evita la possibilità di esposizione del personale impegnato sull’impianto ai raggi ultravioletti. Disinfezione a basso consumo Anche la scelta delle lampade è emblematica dell’attenzione prestata all’efficienza e al contenimento dei costi. A differenza delle lampade UV comunemente impiegate, Wedeco ha introdotto la nuova serie Ecoray, che rappresenta l’ultima generazione di lampade UV LPHO a bassa pressione ed elevate performance, progettate per migliorare l’efficienza energetica e la stabilità di funzionamento. Oltre a garantire una lunga durata, senza subire decadenze di prestazione nel tempo, queste lampade adottano una speciale composizione con l’80% in meno di mercurio, rispettando così i più severi standard ambientali. Il tutto a fronte di un’efficienza quasi del 50% superiore rispetto alle lampade tradizionali. Grazie a queste soluzioni, Porrazzito ha ridotto del 20% i consumi energetici del processo di disinfezione, pur a fronte di una vita utile garantita di 14.000 ore. «Questi accorgimenti — sintetizza Antonio Costa — ci permettono di stilare un piano economico conveniente e, contemporaneamente, di garantire le migliori condizioni per le migliaia di pesci che vengono allevati nelle nostre vasche e che verranno venduti nei mercati di tutta Italia».

Xylem Water Solutions Italia Srl Via Rossini 1/A –20020 Lainate (MI) Telefono: 02 90358.1 Fax 02 9019990 E-mail: watersolutions.italia@ xyleminc.com www.xylemwatersolutions.com/it


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6, Allee des Amandiers 35400 Saint Malo Tel.: +33 299 892 885 – Fax: +33 299 891 354 E-mail: togie@wanadoo.fr – Web: www.togie.fr


www.cocci.it

Cocci Luciano Srl - Via Maranello 1 - 47853 Coriano (RN) - Italy - Tel. 0541.658449 Fax 0541.657984 - email: cocci@cocci.it


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