Premiata Salumeria Italiana 1-2012

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Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXIV N. 1 Gennaio-Febbraio 2012

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N. 1 Anno XXIV Gennaio-Febbraio 2012

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Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988

Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910 In esclusiva gli articoli di Euposia

ASSOCIATO A:

A.N.E.S. ASSOCIAZIONE NAZIONALE EDITORIA PERIODICA SPECIALIZZATA

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti

Comitato di redazione Renato Bergonzini – Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni

Redazione New York Stefano Spadoni – Alessandra Rotondi P.O. Box 569, New York, NY 10101-0569 Tel./Fax +1 212 956 8566 E-mail: stefanony@stefanospadoni.com

Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Carlo Cantoni (Milano) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia)

Collaboratori Josette Baverez Blanco – Riccardo Lagorio – Massimiliano Rella

Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi

Segreteria di redazione Gaia Borghi – Federica Cornia

Fotocomposizione Rossana Balugani – Daniela Garuti

Fotografia Luigi Credi

Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CS3. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe Photoshop CS3.

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N. 1

In questo numero: Immagini

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Agenda

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Attualità

Il cotechino a Palazzo Chigi

John B. Dancer

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Il food in rete

Il meglio del web e delle app

Elena Benedetti

20

Dalla stalla all’iPhone: ecco il “Pig Brother”

Silvia Gibellini

24

Aziende

Nuove sfide per il Gruppo Brendolan

Gaia Borghi

28

Trasformazione

Würstel: salume europeo

Carlo Cantoni

32

Il prosciutto del Casentino

Roberto Villa

38

Antichi Sapori Camuni, il gusto sincero della terra bresciana

Riccardo Lagorio

42

Commercializzazione

Affettati “take away”, i salumi in versione moderna

Giorgio Montanari

45

Eventi

Serata di gala neozelandese con ospiti d’eccezione

48

SalumiAmo a Bruxelles

50

L’arte in cucina

Nico Jimenez e l’arte del taglio a coltello

Raffaele Bertolini

52

Lezioni di bon ton... a tavola

Clara Scaglioni

55

Gastronomia

Una cucina che legge e pensa il territorio

Giovanni Ballarini

59

Conservazione

La marinata

Giorgia Fieni

62

Sapori dal mondo

Chorizo e Jamón Serrano

Massimiliano Rella

64

La salumeria iraniana: prosciutto di pecora e insaccati di bovino firmati Gooshtiran

Riccardo Lagorio

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Premiate Salumerie Italiane Questo splendido quarantenne

Fabio Butturi

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Locali di gusto

Gaia Borghi

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‘O Fiore Mio: ingredienti eccellenti per pizze speciali

Turismo enogastronomico Quando la cultura del territorio non è solo uno slogan

Rassegne

Fabio Butturi

79

Pomerania: una terra per buongustai tutta da scoprire

Massimiliano Rella

85

Appuntamento a Bevagna con “Arte in tavola”

Josette Baverez Blanco

88

Dai sapori del territorio ai territori del sapore

Fabio Butturi

91

500 e non li dimostra

Gaia Borghi

95

Fiere

MarcabyBolognaFiere tutto il mondo della marca commerciale

101

Formaggio

La fabbrica diffusa di Beppino Occelli, laboratori sparsi sul territorio per avere latte e formaggi di eccellenza

Manrico Murzi

104

Reblochon: avanti Savoia!

Gemma Zubiani

108

Caseificio Pascoli, l’autentica tradizione casearia romagnola Alla Fattoria Ma’ Falda non si vive in un luogo ma del luogo Vino

110 Riccardo Lagorio

114

Cin cin: Casali brinda ai successi e al futuro, l’ambiente ringrazia

117

Un frizzante futuro per l’Italia

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I vini di PSI

Degustazione: Oltrepò Pavese

Analisi di settore

A tutta birra

Olio

L’olio dei Greci sulla costa ionica

Aceto

Il balsamico della tradizione secolare

Storia e cultura

VIP: Visti Io Personalmente

Angelo Valentini

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Libri

Le 100 ricette perdute e ritrovate di Teofilo Barla

Nunzia Manicardi

134

Guida ai ristoranti de Il Sole 24 ORE 2012

Laura Franchini

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Stefania Monaco

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In copertina: würstel e birra, abbinamento perfetto (foto di Massimiliano Rella).

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Immagini

Chorizo e Jamón Serrano, due specialità che non possono mancare sulla tavola degli spagnoli. Ce ne parla Massimiliano Rella a pag. 64 (Jamón Serrano in stagionatura, Azienda Martìnez Somalo, di Baños de Rio Tobìa, in Rioja, foto di Massimiliano Rella).

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un segreto che tramandiamo di generazione in generazione. ora potete scoprirlo anche voi.

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Battuto di lardo con spezie, cipolla e mela del ristorante Karczma Wygoda nel parco etnografico di Wdzydze Kiszewskie. Nato per celebrare la cultura rurale, la promuove anche dal punto di vista gastronomico con piatti contadini semplici e genuini. Nel servizio a pag. 85 di Massimiliano Rella i molti e sorprendenti tesori gastronomici della Pomerania, nel nord della Polonia.

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EN

9001:20 08 ISO

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Il caseificio Pascoli è un’azienda artigiana con sede a Savignano sul Rubicone, che si caratterizza per la produzione di formaggi freschi e stagionati tipici della gastronomia romagnola: squacquerone, raviggiolo, formaggio di Fossa di Sogliano.... Per saperne di più, leggete l’articolo a pag. 110 (foto gentilmente concessa da Coop).

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Agenda

Milano Si svolgerà a Milano dal 5 al 7 febbraio il congresso italiano di cucina d’autore Identità Golose, ideato e curato da Paolo Marchi, giunto quest’anno alla sua ottava edizione. Sul palco di Milano Convention Center si alterneranno grandi chef, cuochi e pasticceri. Segnaliamo nella giornata di martedì 7 febbraio “Identità di Carne, di cotte e di crude”, che presso la Sala Blu ospiterà nomi conosciuti del settore carne tra cui Parolo Parisi (Le Macchie a Usigliano di Lari, Pisa), Gian Pietro e Giorgio Damini (Damini Macelleria & Affini a Arzignano, Vicenza), Igles Corelli (Atman a Pescia, Pistoia), Sergio Motta (Macelleria Motta a Bellinzago Lombardo, Milano) e Daniel Canzian (Il Marchesino, Milano). www.identitagolose.it

Montpellier, Francia VINISUD, il salone internazionale dei vini e dei liquori mediterranei quest’anno alla 10ª edizione, si svolgerà dal 20 al 22 febbraio presso il Parc des Expositions di Montpellier. Si attendono 33.000 visitatori per un totale di 1.650 espositori, produttori di vini e liquori mediterranei. www.vinisud.com

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Rimini SAPORE Tasting Experience, il salone internazionale di gusti, riti e tendenze della ristorazione extradomestica, si svolgerà a Rimini Fiera dal 25 al 28 febbraio con il patrocinio del Ministero delle Risorse Agricole, Alimentari e Forestali, Regione Emilia-Romagna, Provincia di Rimini e UNIONALIMENTARI. Fra gli appuntamenti più importanti, da segnalare il ritorno del GDO Buyers’ Day (lunedì 27 febbraio), quest’anno col titolo “All They Can Eat: il “tanto per poco” come risposta alla crisi di ristorazione e retailer?”. Il titolo richiama la formula che sta spopolando dell’All You Can Eat (AYCE), risposta psicologica all’idea di sacrificio collegata allo stato di crisi che pervade il Paese e l’Europa. Per conquistarlo, occorre dare tutto quello che desidera il cliente pur se ad un “prezzo” non più soggettivo? E, di fronte a questo paradosso, come salvare il giusto profitto? Il coordinamento della giornata è a cura del professor Daniele Tirelli, presidente di POPAI ITALIA. Il programma prevede anche la proposta di una ricerca condotta sul tema, ovvero gli atteggiamenti dei clienti consumatori circa i prezzi delle consumazioni e la struttura dei ticket, la qualità e la rapidità dei servizi prestati. Insomma, l’importanza del basic rispetto al ruolo delle mode e degli “sfizi” pre-crisi. www.saporerimini.it

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Attualità Tradizione e scaramanzia nella cena di fine anno del Presidente del Consiglio

Il cotechino a Palazzo Chigi di John B. Dancer

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alazzo Chigi, sede per secoli di famiglie nobili romane, ha recentemente visto l’entrata nelle sue stanze del cotechino, anzi del cotechino con le lenticchie. Per un curioso incidente politico, infatti, tutti gli italiani hanno conosciuto il menu della cena (non diciamo “cenone”) della famiglia di Mario Monti, Presidente del Consiglio, l’ultimo dell’anno 2011: tortellini, cotechino e lenticchie, dolce. Il tutto preparato e servito dalla signora Monti. Un menu all’insegna della più sana e consolidata tradizione. Il Presidente in carica ha rispettato il suggerimento di molte organizzazioni, tra le quali l’Accademia Italiana della Cucina, di ritornare alle tradizioni familiari anche durante le feste di fine anno, valorizzando in questo modo i cibi e i prodotti alimentari italiani, oltre che risparmiando senza perdere di qualità. Ovviamente, dato il carattere privato e familiare della cena del Presidente, la tradizione è stata quella della sua famiglia, quindi di tipo settentrionale: tortellini, cotechino e lenticchie, tutte ricette scaramantiche. Nel confezionare i tortellini, era antica e nobile tradizione di confezionarne alcuni inserendo una (piccola) moneta d’oro, augurio di ricchezza per il futuro di chi si trovava nel piatto la preziosa sorpresa (nei codici attribuiti a Federico II è citato “De auro ponendo in pastillo”). Per lo stesso motivo, i meno abbienti si limitavano a presentare in tavola le lenticchie che, per la loro forma, ricordano le monete (possibilmente d’oro), e venivano (e vengono) per questo associate all’auspicio di future ricchezze. 20

Imperdibile la lettura del comunicato stampa lungo e dettagliato che il premier Mario Monti, a seguito dell’interrogazione presentata da Roberto Calderoli, ha pubblicato sul sito del governo e che descrive, con dovizia di particolari, lo svolgimento dei festeggiamenti, le persone presenti e le spese sostenute. Il cotechino non è più un cibo povero, ma con la sua entrata a Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio dello Stato italiano, ha ricevuto una sua patente di sia pur transitoria nobiltà. Questo salume, come lo zampone, contiene la cotica del maiale, richiamata anche dal suo nome, accanto alla sua innegabile bontà, ed ha un significato scaramantico in quanto evoca una difesa contro le avversità, salvaguardia quanto mai necessaria in questi periodi. Infatti, non bisogna dimenticare che la pelle o cotica del maiale, soprattutto selvatico, un tempo era conciata ed usata nella costruzione degli scudi, in particolare di quelli leggeri della cavalleria, denominati “parma” (la città di Parma deriva il suo nome dalla funzione di “scudo” che i Romani le avevano attribuito contro i Liguri che premevano ad occidente, arrivando fino agli attuali territori di Fidenza

e Fornovo Taro). Non conosciamo — e non vogliamo sapere anche per l’opportuna riservatezza — quali vini, ovviamente tradizionali, sono stati serviti. Come ipotesi, e sempre per motivi scaramantici, per l’anno che stava morendo si sarebbe potuto bere vini dalle denominazioni auguranti la fine di un non felice periodo, e quindi portare in tavola una bottiglia di Inferno (finanziario) e di Sangue di Giuda (tradimenti politici), mentre per brindare all’inizio del nuovo anno e con il dolce un Lacryma Christi (anche i cristiani pagheranno l’ICI/ IMU) oltre ad un sempre bene augurante Vin Santo. Ma, al di fuori di ogni rito propiziatorio, riteniamo che uno dei tanti, ottimi vini spumanti italiani abbia concluso la cena familiare del nostro Presidente del Consiglio, che certamente avrà libato alle fortune della nostra Patria. Premiata Salumeria Italiana,1/12


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Il food in rete

Il meglio del web e delle app di Elena Benedetti

www.jolandadecolo.it

www.carpano-speck.com

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Sapori autentici anche nel web Materie prime selezionatissime, processi di trasformazione all’avanguardia, grande cura nei rapporti con la clientela e, aggiungerei, un sito internet ricco di contenuti e dalla veste grafica elegante e garbata. Questo il mondo, anche web, di JOLANDA DE COLÒ, partita nel 1976 con l’allevamento di oche da fegato e oggi nome indiscusso non solo del foie gras ma anche di un catalogo di prodotti dedicati alla migliore ristorazione. La navigazione del portale www. jolandadecolo.it avviene per settori: c’è il foie gras, con la scelta della materia prima e la grande ricerca nella lavorazione, volta a soddisfare anche esigenze nel rispetto di altre fedi religiose come quella kosher. Ampio spazio è poi dedicato ai prodotti di salumeria, dai salumi regionali al Patanegra cotto. Le carni non sono da meno, riscoperte e recuperate in tutto il mondo nei sapori ricercati. Il pesce completa l’offerta dei prodotti. info@jolandadecolo.it

Speck e salumi delle Dolomiti anche on-line Con una sessantina di anni di vita l’azienda CARPANO è una bella realtà specializzata nella lavorazione di speck e salumi tipici delle nostre Dolomiti. A Pozza di Fassa la famiglia Carpano lavora artigianalmente carni e salumi, selezionando le carni, il budello animale e i processi di aromatizzazione. Sul sito web www. carpano-speck.com è possibile accedere al catalogo di questi salumi tipici delle Valli Dolomitiche e prendere contatto con il salumificio. carpanospeck@virgilio.it

Come comunicare il vino a 360° Rispetto delle tradizioni e forte attaccamento al territorio, ma anche innovazione e capacità di cogliere le tendenze del mercato. La filosofia di CASALI VITICULTORI si coglie al volo anche nel loro portale web www. casalivini.it, un contenitore che è storia dell’azienda vitivinicola ma anche mezzo per comunicare con appassionati e clienti, attraverso i social network, i canali video e fotografici, il negozio on-line attraverso il quale si possono acquistare le bottiglie spumanti e lambruschi via web. Sul sito della cantina di Pratissolo di Scandiano (RE), si accede alle schede dei vini (suddivise in Spumanti, Lambruschi, Bianchi di Scandiano, Malvasie e Riserve), alle ricette, al catalogo vini in pdf, a Facebook attraverso il link in homepage. Ci si iscrive alla newsletter, si può scorrere la rassegna stampa o aggiornarsi con le ultime notizie. È un sito pensato per promuovere uno scambio continuo con i visitatori. info@casalivini.it

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Cibi e Vini

Salumi

Il Dizionario de La Cucina Italiana

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Ecco una nuova app made in Bologna per scoprire il piatto migliore da abbinare a un vino, sviluppata in 5 lingue dal bolognese Giampietro Gamberini: italiano, inglese, francese, spagnolo e cinese. Sono 268 vini italiani (205 fermi secchi, 16 spumanti, 9 frizzanti, 38 passiti e dolci) in abbinamento a 215 piatti suddivisi tra 20 temi gastronomici, dagli appetizers per aperitivo, agli antipasti, fino ai dolci. In evidenza 21 ricette della cucina tradizionale di Bologna, quelle originali depositate con atto notarile presso la locale Camera di Commercio.

La app SALUMI è una guida ai prodotti di salumeria più diffusi a livello internazionale. La ricerca può essere fatta per prodotto (es. mortadella, lomo, lonza, prosciutto, ecc…) oppure per area geografica (Italia, Germania, Francia, Canada, Messico, Polonia, ecc.). Sviluppata in lingua inglese da Michael Graham, la app è in vendita sull’iTunes App Store della Apple al prezzo di 1,59 euro.

Il Dizionario gastronomico de LA CUCINA ITALIANA è il più ampio e completo vocabolario di cucina, un’app unica al mondo che raccoglie tutta la cultura italiana del buon mangiare, del buon bere, della tavola di oggi, senza trascurare le contaminazioni di altri Paesi. Da ognuno dei lemmi si passa facilmente a numerosissimi altri, in un’esplorazione immediata e potenzialmente infinita. Questa vera e propria “bibbia” culinaria da portare sempre con te è il frutto della lunga esperienza e dell’autorevolezza del brand La Cucina Italiana.

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The Wine Traveller guide/Italy Nasce la App per viaggiare e bere bene in Italia, con 1.200 cantine enoturistiche per il tempo libero È disponibile da poche settimane sugli iTunes App Stores di tutto il mondo una nuovissima applicazione per iPhone, iPad e iPod touch dedicata ai turisti italiani e stranieri interessati a scoprire un’Italia per molti aspetti ancora poco conosciuta, tra grandi bottiglie di vino, collezioni di arte in cantina, cantine di architettura, musei del vino, corsi di cucina e piscine tra le vigne. Tutto è raccolto, catalogato, raccontato in modo semplice e completo in The Wine Traveller guide/Italy. È un’applicazione georeferenziata, utilizzabile sia on-line che off-line, che segnala circa 1.200 cantine italiane di tutte le regioni che insieme ai buoni vini offrono tanti servizi per il turista: camere e relais per la notte, ristorante, piscina, centro benessere, vinoterapia, aree camper, corsi di cucina, collezioni di arte e siti di interesse architettonico. La guida è un’inedita fotografia su cosa si può fare e cosa si può vedere nelle migliori aziende vitivinicole italiane. Volete dormire in cantina? Ecco 369 indirizzi di camera con vigna. Cercate una cantina con piscina? Ecco 142 cantine per tuffarvi tra le vigne. Siete interessati a un corso di cucina? Eccone altre 48 che fanno lezioni di gastronomia. E ancora di più: le cantine con centro benessere, le cantine con l’area camper, quelle con i trattamenti di vinoterapia, con il museo del vino, i percorsi di arte o architettura, le strutture e i servizi per lo sport, gli spazi per cerimonie e matrimoni. E infine le cantine con le vigneti a conduzione biologica. Una fotografia dell’offerta enoturistica italiana ora sugli iTunes App Stores di tutto il mondo, nelle mani dei turisti del vino. – Camera con Vigna: 369 cantine. – Ristorante: 265. – Corsi di Cucina: in 48. – Cerimonie e Matrimoni: 64. – Area Camper: 36. – Piscina in Cantina: 142. – Museo del Vino: 56. – Arte e Architettura: 206. – Vigneti Bio: 127. – Centro Benessere: 33. – Vinoterapia: 11. – Sport: 89. – E oltre 300 cantine con i vini consigliati da Euposìa.

Gli ideatori • THE WINE TRAVELLER: www.thewinetraveller.it • EDIZIONI PUBBLICITÀ ITALIA: www.pubblicitaitalia.com • EUPOSÌA: www.euposia.it e www.italianwinejournal.com • AD SERVICE.

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La guida è disponibile in italiano e in inglese sull’App Store al costo di € 3,99

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Dalla stalla all’iPhone: ecco il “Pig Brother” Con il primo “Grande Fratello” in diretta dalla stalla, l’azienda agricola Ca’ Lumaco di Zocca ha vinto l’Oscar Green 2011, il premio per l’innovazione dei Giovani della Coldiretti. E ha reso possibile monitorare la vita dei futuri salami di Silvia Gibellini

È

il primo “Grande Fratello” che entra nella stalla e consente di seguire sul computer o sul telefonino i maiali durante la crescita controllandone alimentazione e benessere, per ottenere eccellenti salumi “supervisionati”. Con questa idea l’allevatore Emanuele Ferri si è aggiudicato il premio per l’innovazione dei Giovani della COLDIRETTI, l’Oscar Green 2011, nella categoria “Stile e cultura d’impresa”. Nella sua tenuta di Montetortore, una piccola frazione del comune di Zocca, nella fascia appenninica tra Modena e Bologna, l’azienda agricola Ca’ Lumaco ha infatti lanciato l’idea di un “Pig Brother” in salsa emiliana, in cui la vita dei suini destinati a diventare prosciutti e salami è ripresa 24 ore su 24. Grazie alla tecnologia i futuri proprietari dei salami, semplicemente collegandosi in rete con un’apposita applicazione scaricabile su iPhone, possono verificare la salute dei suini assicurandosi che siano rispettati i controlli veterinari, l’igiene dell’ambiente e sia seguita la corretta alimentazione. I maiali, infatti, sono sorvegliati costantemente da una web cam installata nell’allevamento in collaborazione con il Politecnico di Milano. Inoltre, grazie alla marchiatura con microchip, è possibile risalire all’intero albero genealogico dei suini. L’azienda agricola emiliana, nata nel 2001, si dedica all’allevamento brado della razza suina Mora Romagnola, 26

da cui si ricavano carni pregiate e prodotti biologici. Una filiera completa per garantire qualità e sicurezza La Mora Romagnola è un suino che nella prima metà del Novecento era molto diffuso in Romagna, in particolare nelle zone di montagna che si estendono fino alla Toscana e alle Marche. Oggi è in via d’estinzione a causa dell’introduzione di altre razze, soprattutto inglesi, più adatte all’allevamento intensivo e industriale. È proprio la tutela della Mora

Romagnola lo scopo di Ca’ Lumaco, la quale ha creato una filiera completa, concentrando in pochi ettari di terreno l’allevamento dell’animale, rigorosamente allo stato brado, e la produzione e vendita dei prodotti biologici. L’azienda si sviluppa su un vasto territorio, in gran parte formato da zona boschiva, dove i suini pascolano liberamente, cibandosi di ghiande, castagne, radici, tuberi, graminacee, e di tutto ciò che offre loro il terreno. La dieta degli animali viene inoltre integrata con orzo, fave e mais da

Con un’apposita applicazione scaricabile su iPhone, i futuri proprietari dei salami possono verificare la salute dei maiali ripresi in allevamento da una web cam installata in collaborazione con il Politecnico di Milano. Premiata Salumeria Italiana,1/12


agricoltura biologica, prodotti direttamente in azienda. L’allevamento è a ciclo chiuso, la fecondazione naturale e la riproduzione avviene all’aperto in tutti i periodi dell’anno. Il podere comprende anche un piccolo laboratorio, dove hanno luogo macellazione e lavorazione delle carni. La preparazione dei prodotti avviene secondo l’antica tradizione norcina, tramandata dal nonno Raffaele che, già negli anni Cinquanta, si recava alle case per la macellazione del maiale. Nel 2002 l’azienda ha ottenuto la certificazione ICEA, l’Istituto Certificazione Etica e Ambientale, per la produzione agricola biologica in regime di controllo CE. Maiali “sorvegliati speciali” 24 ore su 24 Emanuele Ferri ha reso i suoi maiali sorvegliati speciali dal primo giorno di vita, in modo da garantire un’altissima qualità e assoluta tracciabilità dei suoi salumi. Nella stalla, che non teme occhi indiscreti, ha creato una vera e propria sala parto con le fattrici libere di muoversi in completa auto-

Suini di Ca’ Lumaco marchiati con microchip. nomia fino al momento della nascita dei maialini: il tutto è supervisionato da sofisticate telecamere controllabili da un PC o un telefonino, da qualsiasi parte del mondo. Successivamente, la marchiatura avviene con un microchip che permette di risalire all’intero albero genealogico dei piccoli maiali.

Acquistando i salumi Ca’ Lumaco è quindi possibile conoscere anche il tipo di alimentazione, le attenzioni riservate agli animali, tutti i controlli veterinari, l’igiene degli ambienti e persino la cura della stagionatura delle carni. Silvia Gibellini

La “meglio gioventù” agli Oscar Green della Coldiretti: gli altri premiati Non c’è solo il primo “Grande Fratello” che entra nella stalla attraverso l’iPhone, ma anche l’imprenditore solidale che usa il linguaggio braille sull’etichetta del proprio miele, il vivaista artista che trasforma il suo estro in vere e proprie sculture verdi, l’imprenditore che vola in mongolfiera per promuovere i suoi prodotti. E ancora, l’abile casaro che propone un pecorino “vegetale” di fronte al boom di musulmani e vegetariani in Italia e chi, grazie ai suoi studi in farmacia, produce cosmetici naturali a base di olive. Sono solo alcune delle creative idee anti-crisi presentate al concorso Oscar Green 2011, il premio per l’innovazione dei Giovani della COLDIRETTI con l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Erano sei le categorie in gara, tra cui “Stile e cultura d’impresa”, che ha visto sul podio Emanuele Ferri. Per la categoria “Campagna Amica” è stato premiato Cristian Merlo, che è riuscito a produrre il primo yogurt con il latte di asina, prezioso alimento per tutti i bambini intolleranti. Erika Pedrini ha primeggiato nella categoria “Esportare il territorio”, prendendo in mano l’azienda storica di famiglia e recuperando i vitigni dell’impero Austro-Ungarico per produrre un ottimo vino d’altri tempi. Filippo Tramonti invece ha vinto per la categoria “Oltre la filiera”, consapevole che per essere protagonisti sul mercato occorre prendere in mano tutta la filiera, dal grano alla pasta. E così oggi fa parte di un consorzio che ha la sua punta di diamante nella pasta Ghigi, sesto produttore nazionale con 500.000 quintali di pasta italiana, rigorosamente OGM free. Elena Comollo si è aggiudicata il premio per la categoria “In-generation”: insieme a due suoi soci è la fondatrice di una innovativa cooperativa agricola, molto attenta al sociale, retta da giovani produttori piemontesi che operano nel rispetto di un’agricoltura eco-compatibile, privilegiando la filiera corta e promuovendo il consumo di prodotti agricoli di stagione, i gruppi di acquisto e soprattutto il chilometro zero. Fare della propria sensibilità un lavoro è una strategia vincente: questo il segreto di Gianni Infantino, vincitore della categoria “Sostieni lo sviluppo”, che ha inserito sui vasetti del suo miele l’etichetta in linguaggio braille, corredandoli anche di un libro che, attraverso le illustrazioni tattili, racconta il mondo delle api ai non vedenti. Insomma, c’è un’Italia che avanza, nonostante tutto, con i motori (verdi) al massimo. >> Link: www.oscargreen.it

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Aziende

Nuove sfide per il Gruppo Brendolan Obiettivo: specializzarsi sulle Dop nazionali e consolidarsi nella fascia alta del mercato, mantenendo un ottimo rapporto qualità-prezzo. Giuseppe Artuso nuovo Direttore Generale della storica azienda di Gaia Borghi

P

otrebbe essere la trama di un film o di un appassionante romanzo: vent’anni trascorsi a rincorrersi, fronteggiandosi dai lati opposti delle barricate (il mercato del “crudo”), rispettandosi reciprocamente, per poi ritrovarsi improvvisamente insieme, uno accanto all’altro, a combattere per la stessa

causa. Un po’ come nel racconto The Duel, scritto da Joseph Conrad, in cui la sfida a duello tra i due protagonisti si protrae per oltre 15 anni. «Ma il miglior romanzo è la vita» ci dice accogliendoci nei luminosi uffici della sede della Brendolan Prosciutti a Meledo di Sarego, in provincia di Vicenza, Maurizio Manfrè, direttore

Maurizio Manfrè e Giuseppe Artuso, rispettivamente Direttore Commerciale e Direttore Generale della Brendolan.

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La sede della Brendolan Prosciutti, con centro produttivo, a Meledo di Sarego, in provincia di Vicenza. commerciale dell’importante Gruppo veneto, insieme al nuovo direttore generale, Giuseppe Artuso. Ebbene sì, avete letto bene: Artuso, “uomo immagine” di una storica azienda del settore, dal mese di settembre 2011 è approdato alla Brendolan. Accantonata l’idea di una tranquilla pensione, ha deciso di mettere al servizio della nuova azienda tutto il proprio bagaglio di esperienze Nessun divorzio traumatico, quindi. «Avevo voglia di nuove sfide» ci confida Giuseppe Artuso. «La mia volontà oggi è quella di fare di più e meglio, facendo sì che la Brendolan possa presentarsi sul mercato con una nuova spinta, una nuova energia». Con oltre quarant’anni di esperienza nel settore, Artuso è parso l’uomo giusto al momento giusto. «Un uomo, e questo è bene sottolinearlo — specifica Manfrè — che ha fatto la storia del prosciutto San Daniele in Italia». «L’obiettivo di Brendolan era quello di effettuare una “ristrutturazione”, nel senso di una “re-impostazione” aziendale» continua Manfrè. «Era necessaria dunque la presenza di una persona di riferimento che facesse da trait d’union tra le varie e diversificate realtà del Gruppo. Artuso ha messo al servizio della Brendolan la propria rinnovata energia, unita a competenze al massimo livello. Tutto ciò, insieme alla storicità di un Gruppo come il nostro che è sul mercato dal 1927, si è tradotto

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Marchiatura dei prosciutti di San Daniele.

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in una nuova, ulteriore propulsione per l’azienda». Un’azienda storica appunto, che produce da oltre ottant’anni i migliori salumi della tradizione italiana, vantando autorevoli certificazioni e le tecnologie più evolute. Un marchio di riferimento che porta nei mercati di tutto il mondo, dagli USA al Canada fino al Giappone, una storia di eccellenza, profondamente radicata nel territorio di appartenenza. Con tre stabilimenti, più un centro di affettamento, ubicati a San Daniele del Friuli, uno stabilimento a Carpegna (la Carpegna Prosciutti, dove si produce il prelibato prosciutto di Carpegna DOP) e la sede a Meledo di Sarego, Brendolan Prosciutti si presenta come un’azienda che, esportando da tempo e con successo i propri prodotti in Europa e nel mondo, ha ampiamente consolidato il proprio ruolo di “ambasciatrice” dell’alta salumeria italiana ma che, come ci confermano i nostri interlocutori, ha le radici bel salde in terra veneta ed intende anche per il prossimo futuro confermare il proprio legame indissolubile con questa regione. «Proprio in virtù di queste premesse — ci dice Giuseppe Artuso — uno dei primi obiettivi aziendali è quello di rivalutare il Prosciutto Veneto Berico Euganeo a marchio DOP, un prosciutto di grande pregio che deve assolutamente tornare sulle tavole degli Italiani». Ricordiamo che la denominazione Prosciutto Veneto, rilasciata dall’Unione Europea già nel 1996, è riservata al prosciutto il cui ciclo di produzione ha luogo nei comuni di Montagnana, Saletto, Ospedaletto Euganeo, Este, Noventa Vicentina, Sossano, Sarego, Lonigo, Alonte, Orgiano, Pressana, Rovereto di Guà, Poiana Maggiore, Barbarano, Villaga. Protagonista negli ultimi anni, anche grazie ad azioni di marketing decisamente azzeccate da parte del

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Taglio a mano del prosciutto di Carpegna. Consorzio di tutela, di una notevole performance in termini di vendite e visibilità, e ricercato dai grandi chef e dell’alta risoluzione, il Prosciutto Veneto rimane ancora poco conosciuto al di fuori della regione di nascita. Eppure è un prodotto eccezionale, il cui caratteristico aroma delicato e la grande morbidezza lo rendono estremamente versatile in cucina, oltre ad essere perfetto naturalmente consumato al naturale, tra due fette di pane. «La volontà di Brendolan — prosegue Manfrè — è quella di specia-

lizzarsi sulle Dop nazionali: il San Daniele e il Carpegna, quindi, oltre appunto al Veneto Berico-Euganeo. Le chimere del facile mercato non ci interessano: l’importante per noi è consolidarci nella fascia alta del mercato, mantenendo un ottimo rapporto qualità-prezzo». Gaia Borghi Brendolan Prosciutti Spa 36040 Meledo di Sarego (VI) Via Meledo Alto 1 Tel.: 0444 822211 – Fax: 0444 822233 E-mail: info@brendolan.it Web: www.brendolan.it

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Trasformazione

Würstel: salume europeo di Carlo Cantoni

I

l termine würstel, “piccola salsiccia”, proviene dal diminutivo della parola würst, “insaccato”, secondo i dialetti tedeschi meridionali, laddove la parola in Hochdeutsch, alto tedesco, suonerebbe würstchen. Prodotto inizialmente in Nord e Centro Europa e poi anche in Italia, il würstel è un insaccato cotto ottenuto con un misto di carni tritate bovine, suine, di pollo e di tacchino. Il würstel in Italia Il würstel commercializzato in Italia corrisponde generalmente al Wiener o Wiener würstchen (“salsicciotto di Vienna” o “viennese”) reperibile in Germania. Lo stesso prodotto in Svizzera è chiamato Wienerli e in Austria

Frankfurter würstel, letteralmente “salsicciotto di Francoforte”, sebbene in origine le due tipologie (Wiener e Frankfurten) non siano identiche: il primo più corto e servito appaiato ad un altro, il secondo lungo e servito da solo. Di recente il würstel italiano ha raggiunto una propria individualità, così da rappresentare una tipologia parzialmente distinta. Un cenno a parte meritano i würstel del Sud Tirolo-Alto Adige. Qui, infatti, i würstel fanno da sempre parte della locale cultura e relativa dieta. Si usa solo carne suina magra e scelta. Il segreto del gusto di questi würstel sta nelle spezie e nella tradizionale affumicatura. Essi si distinguono in: a. Wiener: questo würstel nasce nel 1800 a Vienna e viene immediata-

mente apprezzato in tutto il regno Asburgico, del quale il Sud Tirolo era parte integrante; b. Meraner: anch’esso prende origine dal Wiener e ha più spezie e una maggior affumicatura rispetto al precedente; c. Servelade: si presenta come il Wiener ma è più versatile. Infatti, la sua forma e speziatura lo rendono particolarmente indicato ad essere consumato freddo nelle insalate con riso, formaggio, cipolla e sottaceti. Anch’esso è di sola carne suina. Come si produce L’impasto del würstel è un’emulsione carnea ottenuta solubilizzando le proteine della carne con sale,

Economici e proposti con numerose varianti di aromatizzazione e tipo di carne, i würstel forniscono sempre un pasto gradito e saziante, ancor meglio se accompagnati da una buona birra.

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acqua o ghiaccio, e sospendendo le particelle di grasso nella soluzione proteica. Le proteine miofibrillari, miosina, ricoprono le particelle di grasso intrappolandole ed impedendo la separazione delle due fasi. Carne Indicate carni a pH elevato per forte capacità legante. Carni tritate e congelate in pre-rigor e trattate in cutter senza scongelarle, presalaggio di carni a pH normale o alto. Specie della carne: suino o altre specie, compreso volatili e selvaggina. Involucro: naturale, a base di collagene, cellulosico o di materiale plastico.

Schema generale di lavorazione würstel FASI IN CUTTER ←

(Purea di cotenne)

Caseinato, plasma

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Diluenti (ghiaccio, acqua)

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Soluzione gel proteico Temperatura 6-8°C

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Emulsione grassa

1 Carne magra

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Nitrati-nitriti

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Sale, spezie

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(Polifosfati)

5 6

Grasso

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Antiossidanti

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Grasso Grasso di buona qualità, bianco, fresco, consistente; per carni essudative grasso più morbido e insaturo. I grassi presentano due tempi di fusione: una prima fusione, meno rilevante, tra 8 e 14°C, e una seconda tra 18 e 30°C per i grassi di suino e tra 10-12°C e 22-28°C per il grasso bovino. Per avere impasti stabili la temperatura finale non dovrà superare i 14-18°C. La temperatura influenza la distribuzione delle particelle di grasso e, a sua volta, dipende dalla costituzione dell’impasto (viscosità, tessuto connettivo).

Zuccheri → Temperatura 12-14°C

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Lavorazione e altri ingredienti L’eventuale cotenna deve essere già in purea e introdotta nel cutter come primo ingrediente. Il sale va aggiunto alla carne e così i nitrati e i nitriti. Sono aggiunti caseinati in soluzione o in gel, poi gli zuccheri, per non modificare la viscosità, infine gli ascorbati. La presenza di polifosfati causa l’aumento della frazione solubile (dal 25 al 30%) favorendo l’emulsionabilità; diminuisce la viscosità. Devono essere aggiunti ad incorporamento iniziato. Durante l’emulsionamento, che avviene in cutter ad alta velocità, il calore che si genera potrebbe far coagulare le proteine con conseguente separazione delle fasi, ma questo viene evitato con aggiunta di ghiaccio o acqua fredda, che facilita l’emulsione e rende più morbido l’impasto per l’insaccamento. Durante l’emulsio-

Pelatura

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FASI SUCCESSIVE AL CUTTER Insacco e legatura Asciugatura o stufatura (MbNO) T 45-50°C UR 42-44% T 60°C UR 38-40%

tempo 35' tempo 60'

Affumicatura T 60°C

UR 45-50%

tempo 1h15'

Cottura T 74-76°C

UR 75-100%

tempo 20-25'

Raffreddamento

Confezionamento namento il collagene si imbibisce di notevoli quantità d’acqua. Aspetti dell’emulsionamento in cutter: • I tempo: formazione della fase disperdente (rigonfiamento delle proteine e loro solubilizzazione): da colloide a gel. Distribuzione della fase dispersa (grasso) in modo eterogeneo con particelle di dimensioni diverse (T 0 – 6°C); • II tempo: particelle di grasso di dimensioni uguali e omogeneamente distribuite e corretto legame tra le due fasi. Aumenta la densità dell’impasto, viene eliminata parte dell’aria. I polifosfati aumentano la stabilità del sistema. La durata del I tempo di cutterag-

gio dipende dalla qualità degli ingredienti e degli additivi, che possono modificare la capacità di rigonfiamento della carne. Se la velocità è troppo alta, l’impasto incorpora aria, la quale tende a riunirsi, e se il cutteraggio è troppo prolungato, a liberarsi facendo aumentare la viscosità. Questo può essere evitato lavorando sottovuoto, operazione che favorisce la formazione di MbNO e limita la degradazione dei grassi. Al termine del cutteraggio, il colore da rosa pronunciato diventa rosa pallido. Segue l’insacco mediante una tramoggia in una insaccatriceporzionatrice che forma i würstel torcendo il budello (sintetico, a facile pelatura). Si procede poi con l’asciu-

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gatura o stufatura, durante la quale si formano MbNO, aroma, sapore. Poi l’affumicatura e infine la cottura a 75°C per 20-25 minuti o a 85-90°C per pochi minuti. Infine la docciatura, il raffreddamento e la pelatura (vedi schema generale di lavorazione nella pagina precedente). Caratteristiche organolettiche – Forma cilindrica e pesatura: variabile con diametro da meno di 1 a 3 centimetri e oltre. Lunghezza da 5 a 20 centimetri e oltre; – peso: variabile da pochi grammi fino ad oltre 60 grammi; – affumicatura: possono essere affumicati o meno; – aspetto esterno: superficie liscia e lucida; colore da ocra a nocciola a rosato uniforme; – farcia: finemente granulare con e senza evidenza di particolari granulosità di componenti che si vogliono evidenziare; – aspetto generale: si presenta in serie di pezzi, uniformi per aspetto e pezzatura, variamente confezionati. Cenni nutrizionali La composizione dei würstel è estremamente variabile a seconda della qualità e quantità degli ingredienti che lo compongono. I valori medi proposti dalle tabelle dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli alimenti e la nutrizione sono riportati in Tabella 1. Generalmente nelle composizioni rilevate non è riportata la percentuale di fibra, impiegata solo da pochi anni nell’impasto al fine di garantirne la compattezza. Sarebbe opportuno chiarire quest’aspetto con adeguate indagini. Parimenti, mancano dati nutrizionali dei nuovi

tipi di würstel (ad esempio di quelli con formaggio). Dinamica del consumo La produzione industriale del würstel in Italia ha preso avvio nel 1970. Dati indicativi riportano un volume di mercato di 38.000 tonnellate con una tendenza all’aumento di consumo annuo di +9,9% e di valore del +67%. Quanto alla produzione, essa è localizzata in Lombardia (maggior numero di produttori), Alto AdigeTrentino, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Romagna, Abruzzo, Lazio, Puglia e Campania. Tipologie di würstel prodotti in Italia Le case di produzione immettono sul mercato würstel di puro suino, würstel di carne suina e carne di pollo, würstel al prosciutto cotto, würstel al legno affumicato di faggio, würstel leggeri di sola carne di pollo, würstel Fest, o würstel preparati secondo una classica ricetta tedesca (più del 90% di suino); würstel di vitello; Weißwurst preparato con ricetta bavarese con carne suina (82%) e vitello (7%) e würstel con formaggio. Come involucro per i würstel si utilizza il budello naturale (raramente) o il budello artificiale. Oggi si producono anche i “senza pelle”, cioè würstel privi di involucro, generalmente confezionati in lattine metalliche insieme ad un liquido di governo; altri ancora sono confezionati sottovuoto in un contenuto di film plastico. Come si consumano i würstel I würstel si consumano nelle insalate estive, arrostiti o lessati, abbinati con senape o con crauti. L’abbinamento con la senape è documentato

Würstelland, la terra del würstel Würstelland, che letteralmente significa “terra del würstel”, è il termine utilizzato per indicare quella zona dell’UE in cui è predominante la cultura culinaria del salsicciotto su quella della pizza, la cui terra d’elezione è nota invece come Pizzaland. Attualmente i suoi confini sono delineati dal perimetro di Germania, Austria e giù giù, grazie a un continuum spazio-culturale, fino in Trentino-Alto Adige. Nei Paesi compresi nella Würstelland i würstel, oltre che confezionati, vengono venduti caldi anche in caratteristiche bancarelle o da semplici carrettini assieme ad un panino un po’ di senape e altre salse.

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Tabella 1 — Composizione del würstel (valori medi) Energia

271 Kcal (1130 KJ)

Acqua

58,9%

Proteine

13,7%

Lipidi

23,3% (saturi 7%)

Carboidrati 1,4% Fonte: INRAN in Germania fin dal 1865. La senape usata veniva prodotta a Digione dalla famosa Maison Maille, che già dal 1747 aveva un punto vendita a Parigi. Anche oggi, come allora, i tipi di senape di possibile combinazione sono: la senape forte, la senape antica, la Digione con grani, la senape al pepe verde, la senape dolce al miele. Altro abbinamento consueto, certamente più usato, è quello con i crauti. Il würstel nel panino Classico modo per consumare il würstel è all’interno di un panino. Tale prassi si usava (e ancora si usa) a Trieste e, per quello che mi riguarda, anche a Milano, da prima della seconda guerra mondiale. Qui, sin dal 1930, si consumava il panino con würstel e crauti in una sola Crota (cantina) Piemunteisa, sita in piazza Beccaria (dietro al Duomo). I consumatori erano soprattutto studenti liceali e impiegati. Già prima del XX secolo negli Stati Uniti si consumava un würstel con panino denominato hot dog (“cane caldo”). Oggi l’hot dog è un panino farcito con un würstel, spesso condito con ketchup, maionese o senape e talvolta accompagnato con crauti. Per realizzarlo si usa un pane morbido di forma oblunga, tagliato a metà come per i sandwich. Esistono anche strumenti appositi che consentono di praticare nel panino un foro adatto a contenere il würstel, il quale può quindi essere inserito nel panino senza che quest’ultimo venga tagliato in due parti. Sono varie le ipotesi avanzate per spiegare l’origine del termine hot dog. Secondo una prima versione dog è un termine inglese usato per identificare non solo il cane ma anche le briglie

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I crauti

Weisswurst o weißwurst. di ferro (lunghe circa 15 cm) usate dai ferrovieri per bloccare le rotaie alle traversine di legno, e proprio dalla somiglianza con queste ultime deriverebbe hot dog. Una seconda versione fa risalire l’origine del termine alla vicenda di un uomo il quale, non riuscendo a vendere i propri würstel allo stadio, per attirare l’attenzione si inventò la storia che questi fossero a base di carne di cane e da qui dunque hot dog. Secondo una terza versione, generalmente la più accreditata, l’hot dog nacque da un’invenzione di un americano distributore di panini alle enormi folle accalcate nello stadio dove si disputavano le partite di football americano. In quel periodo il würstel caldo era molto di moda ma complicato da distribuire nelle tribune, allora il signor Stevens ebbe l’idea di riscaldare dei lunghi panini e di infilarvi la salsiccia. All’inizio furono chiamati “redhots”, perché insieme alla salsiccia riscaldata Stevens aveva messo uno strato di senape piccante. Poi nel 1903, il disegnatore di vignette sportive TAD (THOMAS ALOYSIUS DORGAN) fece un disegno raffigurante un bassotto al posto del würstel dentro il panino, giocando sul fatto che ambedue erano lunghi, rossi e tedeschi. Fu lui a coniare il nome “hot dog” e l’espressione diventò molto popolare. Purtroppo, qualcuno insinuò il dubbio che ci fosse veramente carne di cane nelle salsicce e la faccenda diventò

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Il termine “crauti”, sempre usato al plurale, deriva dal tedesco kraut “erba, erbaggio”. Mentre nella lingua d’origine tutti gli ortaggi a foglia e persino alcune spezie sono considerati kräuter, l’italiano crauti corrisponde piuttosto a sauerkräuter, ovvero i cavoli acidi. Sono così frequenti nella dieta germanica che in Italia formano, insieme a patate e salsicce, il cliché nutrizionale generalmente attribuito ai tedeschi. Nello stretto significato italiano, la parola indica dunque una preparazione a base di cavolo cappuccio, sottoposto a fermentazione lattica naturale e controllata con aggiunte di sale da cucina. Il procedimento, usato principalmente come metodo di conservazione, modifica il profilo organolettico del vegetale e conferisce ai crauti il tipico sapore deciso e un po’ aspro. Il risultato è un alimento ricco di vitamine e sali minerali. Contrariamente a quanto si pensi, i crauti non disturbano la digestione, anzi la favoriscono, poiché rinforzano la flora intestinale, allontanando così batteri e virus patogeni. Preparazione dei crauti I cavoli cappucci vengono lavati, privati del torsolo e delle foglie esterne; sono poi tagliati con un’apposita affettatrice e deposti a strati in un alto contenitore, alternati ad una manciata di sale. Alcuni aggiungono aromi quali semi di cumino e bacche di ginepro. I futuri crauti vengono quindi ben pressati e coperti con qualche foglia di cavolo, e fatti fermentare a temperatura ambiente per una settimana, poi al fresco di una cantina per almeno 3-4 settimane coperti da una stoffa ed un coperchio di legno sormontato da una pietra. In queste condizioni i fermenti lattici (tra cui quelli dello yogurt) trasformano gli zuccheri presenti in acido lattico. Si arriva così ad una progressiva acidificazione dell’ambiente fino alla sua stabilizzazione che favorisce la conservazione dei crauti per parecchi mesi. Questo è il metodo tradizionale, ovviamente le industrie alimentari utilizzano metodi moderni più rapidi e controllati, che garantiscono la standardizzazione del prodotto e le perfette condizioni igieniche. Caratteristiche nutrizionali Nella preparazione dei crauti non vengono aggiunti alimenti calorici (a parte l’aceto, che fornisce un contributo calorico tutto sommato trascurabile) e quindi i crauti hanno gli stessi valori nutrizionali del cavolo, maggiorati dal fatto che durante la fermentazione perdono acqua (assorbita dal sale) e quindi vengono concentrati, un po’ come se fossero cotti. Il valore nutritivo aumenta di molto poco, infatti i crauti hanno circa 25 kcal contro le 19 del cavolo cappuccio crudo. Il sapore piuttosto intenso li rende molto più appetibili dei cavoli crudi, e li rende consumabili anche senza aggiunta di condimenti grassi. Se si acquistano crauti in scatola, bisogna controllare che siano “al naturale” e non conditi con alimenti grassi.

talmente drammatica che la Camera di Commercio fu costretta a bandire il termine hot dog da qualunque tipo di pubblicità. Un nome così azzeccato non poteva certo scomparire dalle scene e infatti ancor oggi si usa in tutto il mondo. Würstel e feste popolari Sebbene l’Italia produca würstel e la popolazione lo consumi non può a rigor di logica essere considerata ancora

come facente parte del Würstelland, dal momento che sono altre specialità nazionali a connotare la gastronomia italiana, soprattutto la pizza (da cui Pizzaland, “la terra della pizza”). Tuttavia, l’affermazione è solo parzialmente veritiera, dal momento che nel nostro Paese si consuma ovunque la mortadella, la quale, tecnicamente, per le modalità di lavorazione e di composizione, fa parte della famiglia dei würstel.

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Classico modo per consumare il würstel è all’interno di un panino. Non bisogna dimenticare poi che esistono anche zone limitate, come per esempio la Riviera Adriatica in particolari periodi dell’anno, le quali potrebbero essere considerate parte del regno di Würstelland. Nel periodo estivo i würstel diventano i protagonisti di numerosissime feste popolari in cui vengono consumati abbinati con la birra. Birra e würstel si fanno binomio indissolubile e indispensabile per allietare il palato dei partecipanti a tali feste e sagre che da maggio a ottobre fioriscono un po’ in tutta Italia. La birra, ottima compagna Per completezza, dopo aver dissertato sul würstel, è doveroso fornire notizie sulla bevanda che lo accompagna tanto spesso, la birra. Durante la famosa Festa di Ottobre, l’Oktoberfest, le birre storiche di Monaco di Baviera (Paulaner, Spaten, Hofbräu, HackerPschorr, Augustiner e Löwenbräu) sono immancabilmente accompagnate da würstel. Di feste simili se ne tengono in altre città del mondo (ma non della Germania), e birra e würstel ne sono ovviamente gli immancabili protagonisti. Una delle bevande più antiche prodotte dall’uomo, la birra probabilmente è databile addirittura

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al settimo millennio a.C., registrata nella storia scritta dell’antico Egitto e della Mesopotamia. Poiché qualsiasi sostanza liquida contenente carboidrati può andare incontro a fermentazione per inquinamento dei lieviti ambientali, è probabile che bevande simili alla birra siano state preparate, l’una indipendentemente dall’altra, da diverse culture in ogni parte del mondo. Si hanno testimonianze di produzione della birra addirittura presso i Sumeri. Due erano le principali tipologie prodotte nelle case della birra: una birra d’orzo chiamata sikaru (pane liquido) e un’altra di farro detta kurunnu. La più antica legge che regolamenta la produzione e la vendita di birra è, senza alcun dubbio, il Codice di Hammurabi (1728-1686 a.C.) che condannava a morte chi non rispettava i criteri di fabbricazione indicati (ad esempio, annacquava la birra) e chi apriva un locale di vendita senza autorizzazione. La birra prodotta prima della rivoluzione industriale era principalmente fatta e venduta su scala domestica, nonostante già dal VII d.C. venisse prodotta e messa in vendita da monasteri europei. Durante la rivoluzione industriale la produzione di birra passò da una dimensione artigianale

ad una prettamente industriale, e la manifattura domestica cessò di essere significativa a livello commerciale dalla fine del XIX secolo. Lo sviluppo di densimetri e termometri cambiò la fabbricazione della birra, permettendo al birraio più controlli sul processo e maggiori nozioni sul risultato finale. Bevanda alcolica nazionale tedesca, la birra oggi è tanto diffusa nel Paese oltre che per motivi culturali — anticamente tra le genti del Nord Europa era considerata una bevanda sacra per i guerrieri: come ogni liquido fermentato infatti, subisce un processo di purificazione che si pensava potesse trasmettere all’uomo le energie della terra nella loro totalità — anche perché il vino ha in Germania costi molto elevati. Concludendo… Economici e proposti con numerose varianti di aromatizzazione e tipo di carne i würstel forniscono sempre un pasto gradito e saziante in molteplici situazioni; ancor meglio poi se accompagnati da una buona birra. Carlo Cantoni L.D. in Ispezione alimenti origine animale, Milano

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Il prosciutto del Casentino di Roberto Villa

L

a produzione del prosciutto del Casentino non rappresenta una realtà relegata al passato, anzi, ha la sua rilevanza economica all’interno del territorio, come testimoniato dall’attività di produzione e vendita svolta dai laboratori artigianali locali. In tali strutture è costante l’impegno a rispettare la tradizione, sia nella scelta dei suini, sia nella lavorazione e nella stagionatura delle cosce, al fine di ottenere un prodotto di eccellenza e in linea con le peculiari caratteristiche che lo hanno reso famoso.

Le testimonianze storiche del legame con il territorio Come estesamente documenta il Disciplinare, la produzione del prosciutto del Casentino risale al XVIII secolo e la sua fama è in parte dovuta ai maiali con i quali veniva preparato. Questi suini, infatti, vivevano bradi nei boschi del Casentino, dove trovavano abbondante nutrimento in quanto, negli ultimi secoli del Medioevo, era stato introdotto massicciamente il castagno che, grazie ai miglioramenti colturali, venne trasformato in albero da frutto. Le razze allora più diffuse erano la Rossa Casentinese, la Cappuccia e la Cinta del Casentino. Fra le prime testimonianze storiche riguardo la bontà del prosciutto del Casentino si ricorda che, nel 1722, il celebre dottor Cocchi di Firenze ricevette, come ricompensa per le cure date all’amico poeta Tommaso Crudeli di Poppi, «squisiti prosciutti del Casentino». Nel 1778, LUIGI TRAMONTANI, illustre cultore di scienze fisiche di Pratovecchio, scriveva che il Casentino esportava, fra l’altro, carni salate «che per dono del cielo quella provincia squisitamente prepara superiormente ad ogni altro luogo d’Italia». Sempre il dottor Tramontani, nel suo Istoria naturale del Casentino,

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del 1801, così descrive la fama di questo prosciutto: «La Provincia di cui si parla è resa famosa specialmente per l’eccellenza delle carni salate particolarmente del Majale, o del Porco domestico. La sodezza, il sapore, la durata sono caratteri, che non sono comuni non solo al restante della Toscana, ma ancora al resto d’Italia, e della maggior parte d’Europa. Sono queste, e specialmente la coscia, e il prosciutto ricercati da tutti. Sono passati nell’Inghilterra e nella Germania e dovunque con universale approvazione per le mense più splendide». Una delle cause della squisitezza dei prosciutti del Casentino è indicata dal Tramontani che, nell’opera sopra citata, scrive: «I Casentinesi… tengono per lungo tempo le loro carni salate dentro i camini delle loro cucine, dove quasi costantemente è il fuoco nella invernale stagione, e questo ancora tende a quel prosciugamento, e consolidazione, di cui sono dotate».

Nel 1865, la fama del prosciutto del Casentino viene così ricordata dallo storico e abate PORCELLOTTI nella sua guida sul Casentino: «Dove termina il faggio e l’abete, là comincia la querce e il castagno. Col prodotto delle querci che miste ai cerri in vari luoghi scendono fino alle sponde dell’Arno, si alimentano mandrie numerose di porci, che i Casentinesi vendono nei propri mercati e dai quali ricavano quei sodi e saporiti prosciutti, famosi non tanto in Italia, quanto in molte altre regioni d’Europa». È datata 1889 un’antica ricetta del prosciutto del Casentino. In tale ricetta vengono elencate le spezie, con le relative quantità, che dovranno insaporire il prosciutto. Fra queste spiccano le bacche di ginepro macinate, che dovranno essere miscelate alle altre droghe e distribuite sopra il prosciutto. Viene specificato che la salatura avvenga in tre volte, a intervalli di tempo ben precisi. Successivamente il prosciutto dovrà essere

Il periodo di stagionatura del prosciutto del Casentino non deve essere inferiore a 18 mesi. Trascorso questo tempo, il personale dell’APA di Arezzo appone sui prosciutti conformi alle caratteristiche prescritte nel Disciplinare un contrassegno a fuoco in cui compare la scritta “Consorzio Prosciutto Casentino”, disposta su tre righe sovrapposte.

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Il “Consorzio Prosciutto Casentino” è stato creato nel 2004. attaccato al camino e affumicato. La stagionatura dovrà durare circa sette mesi, al termine dei quali il prosciutto del Casentino sarà pronto. Nel Manuale del salumiere e dell’allevatore del maiale, datato 1897, il dottor LAVOIT afferma che fra i migliori prosciutti italiani c’è anche quello del Casentino. Nella prima edizione, risalente al 1931, della Guida gastronomica d’Italia del Touring Club viene citato il prosciutto del Casentino fra le specialità salumiere toscane. La produzione del prosciutto del Casentino ha profondi legami con gli elementi propri di questo territorio, con le sue tradizioni e i suoi elementi sociali. Le specifiche caratteristiche di questo ambiente ricco di boschi e di castagni ha infatti incentivato l’allevamento allo stato brado dei suini, le cui carni, particolarmente adatte ad essere trasformate, unitamente alla tradizione produttiva dei norcini locali, hanno reso famoso e unico questo prosciutto. L’esistenza di un forte legame tra il prosciutto del Casentino e il suo territorio d’origine non si limita solo ai fattori naturali, ma anche a quelli umani. A tal proposito MARIO BANDIERA, nel suo scritto sulla vita sociale di Stia negli anni ‘50-‘60, mette in risalto come la lavorazione della carne di maiale per la preparazione sia degli insaccati, sia del prosciutto vedeva la presenza di una persona esperta, il norcino, il quale riceveva la collaborazione dei vari componenti della famiglia, che contribuivano ciascuno secondo le proprie capacità. Un’ulteriore conferma del profondo legame esistente tra questo prosciutto e il suo territorio d’origi-

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La forma del prosciutto del Casentino è tondeggiante, leggermente allungata, tendente al piatto; il peso va da 8 a 15 chilogrammi; al taglio è di un bel colore rosso vivo con una buona percentuale di grasso candido. ne si riscontra anche nell’impiego, durante il processo produttivo, dei camini, sempre presenti nelle case coloniche casentinesi. Grazie ad essi prosciutti venivano fatti asciugare con il calore del fuoco alimentato da legna di quercia, ginepro, alloro e pino silvestre, acquisendo, nel contempo, una gradevole affumicatura naturale che completava l’opera della natura e dell’uomo. Allevamento brado e alimentazione con ghiande e castagne La zona di produzione del prosciutto del Casentino ricade nella provincia di Arezzo e comprende l’intero territorio amministrativo dei seguenti comuni: Bibbiena, Capolona, Castel Focogna-

no, Castel San Niccolò, Chitignano, Chiusi della Verna, Montemignaio, Ortignano Raggiolo, Poppi, Pratovecchio, Stia, Subbiano e Talla. In quest’area devono nascere ed essere allevati i soggetti le cui cosce sono destinate ad essere trasformate. I suini devono obbligatoriamente derivare da incroci di prima generazione tra capi, iscritti ai relativi libri genealogici, appartenenti alle razze Large White o Landrace o Duroc con le razze Cinta Senese o Mora Romagnola. Al momento dello svezzamento sulle cosce di ogni suino viene apposto, da parte del personale dell’Associazione Provinciale Allevatori di Arezzo, un codice di identificazione.

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Caratteristica è la presenza di una cornice carnosa oltre la testa del femore, priva della parte distale e provvista di tendine. A partire dal terzo mese di vita i suini devono essere allevati all’aperto, con ricorso al pascolo del sottobosco e un’integrazione alimentare basata su una miscela di cereali e leguminose (principalmente orzo, granturco e favino). È escluso l’utilizzo di farine di pesce, di sottoprodotti della lavorazione industriale, eccettuata la crusca, e di qualsiasi tipo di additivo, ad esclusione degli integratori vitaminico-minerali. È consentito l’utilizzo di soia solo fino al terzo mese di vita dei suini. La macellazione e la trasformazione Il peso medio della singola partita

(peso vivo) inviata alla macellazione deve essere pari a 175 kg, più o meno il 10%. L’età minima di macellazione non può essere inferiore ai 14 mesi. La macellazione deve avvenire in apposite strutture, situate esclusivamente all’interno del territorio amministrativo della provincia di Arezzo. Il periodo di macellazione deve essere esclusivamente compreso tra il 1º ottobre e il 31 marzo di ogni anno. Le cosce devono essere munite di un timbro indelebile a cura del macellatore, riportante il numero identificativo del macello, e a cura del personale dell’Associazione Provinciale Allevatori (APA) di Arezzo

per quanto riguarda la data della macellazione espressa in giorno, mese e anno. Il personale dell’APA apporrà il timbro dopo aver verificato la corrispondenza della materia prima ai requisiti previsti dal Disciplinare. Entro 60 ore dalla macellazione la carne deve giungere presso le imprese di lavorazione, dove le cosce vengono rifilate con un taglio ad arco eseguito in modo tale da lasciare, oltre la testa del femore, una cornice carnosa che, a stagionatura ultimata, non sia inferiore a 10 cm né superiore a 18 cm. Si procede all’asportazione del piedino, qualora tale operazione non sia stata effettuata dal macellatore, della cotenna e del grasso sottocutaneo interno alla coscia (corona) tramite taglio a triangolo con vertice all’inizio del gambo. Entro 24 ore dall’arrivo presso il produttore le cosce devono essere sottoposte a un massaggio manuale a cui segue la salatura. La salatura viene fatta con il metodo “a secco”, impiegando obbligatoriamente sale marino macinato e aglio, a cui è consentito aggiungere pepe, bacche di ginepro macinate e altre spezie e piante aromatiche. Durante la salagione, che dura non meno di tre settimane, le cosce stazionano in ambienti caratterizzati da temperature comprese tra 1 e 5°C. Al termine della salagione, il sale in eccesso viene eliminato mediante battitura, spazzolatura o lavaggio.

I produttori

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AZIENDA AGRICOLA CLAUDIO ORLANDI Laboratorio artigianale “Le selve di Vallolmo” Loc. Vallolmo – 52015 Pratovecchio (AR) Tel. 0575 550085-550368; 333 4052305 Fax 0575 454141 leselvedivallolmo@alice.it orlandiclaudio@aliceposta.it www.leselvedivallolmo.it

NORCINERIA “LA BOTTEGA DEL SAMBUDELLO” di Giuliano e Giacomo Gallai Loc. Prato di Strada, 36 52018 Castel San Niccolò (AR) Tel. abitazione 0575 572853 Tel. laboratorio 0575 572976 Fax 0575 572976 labottegadelsambudello@virgilio.it

ANTICA MACELLERIA FRACASSI di Simone Fracassi Piazza Mazzini, 24 – Loc. Rassina 52016 Castel Focognano (AR) Tel. 0575 591480; 335 343186 Fax 0575 592583 macelleriafracassi@alice.it

CASENTINO SALUMI SNC di Pertichini Donatella & F.lli Loc. Barbiano, 91/A 52018 Castel San Niccolò (AR) Tel. 0575 572642; 333 7302532; 333 8344568 pertichini@casentinosalumi.com www.casentinosalumi.com

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Successivamente si passa alla fase di asciugatura, di durata non inferiore ai 40 giorni, che si effettua in ambienti con temperature comprese tra 4-15°C, tali da assicurare un idoneo riposo del prodotto. Durante l’asciugatura è consentito anche l’utilizzo dell’aria calda prodotta dai tradizionali camini a legna, se presenti o adiacenti al locale di asciugatura. La stagionatura avviene in ambienti freschi e asciutti, privi di qualsiasi tipo di impianto di forzatura; è ammessa la movimentazione di aria con pale. Durante la stagionatura è ammessa la sugnatura, che consiste nel rivestimento superficiale, parziale o totale, della polpa con un impasto costituito esclusivamente da sugna, farina di grano o riso, sale, pepe e altre spezie e piante aromatiche. In tutte le fasi di lavorazione è vietato l’uso di additivi chimici. Il periodo di stagionatura, dalla macellazione alla commercializzazione, non deve essere inferiore a 18 mesi. A fine stagionatura, il personale dell’APA di Arezzo appone sui prosciutti conformi alle caratteristiche prescritte nel Disciplinare un contrassegno a fuoco in cui compare la scritta “Consorzio Prosciutto Casentino”, disposta su tre righe sovrapposte. Un prosciutto sapido, lievemente affumicato La forma è leggermente allungata, tendente al piatto, tondeggiante ad arco sulla sommità per la presenza di una cornice carnosa oltre la testa del femore compresa tra 10 e 15 cm, priva della parte distale (piedino) e provvista di tendine. La parte carnosa si presenta ricoperta da un sottile strato di pepe nero macinato finemente. Il peso è compreso tra gli 8 e i 15 kg. Al taglio presenta colore della polpa dal rosso vivo al rosso chiaro, grasso sottocutaneo di colore bianco con leggere venature rosate, compatto, privo di linee di scollamento fra gli strati e ben aderente alla sottostante superficie muscolare. L’aroma è fragrante e caratteristico, con note di affumicato che possono essere date dall’asciugatura vicino a camini in cui viene fatta ardere legna di alloro, olivo e ginepro. Il sapore è delicato con una giusta sapidità. Roberto Villa

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Antichi Sapori Camuni, il gusto sincero della terra bresciana di Riccardo Lagorio

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he i Camuni fossero un popolo antico e fiero lo sappiamo dalle incisioni rupestri che richiamano migliaia di turisti ogni anno a Capo di Ponte, il primo sito riconosciuto patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO in Italia. Era il 1979. Il più imponente complesso di arte preistorica di tutto il continente europeo: guerrieri, ma soprattutto cacciatori che sembrano danzare sulle rocce, dal paleolitico alla conquista di Roma. Scontato quindi che la cultura alimentare di questo vasto territorio vallivo, che fa parte della provincia bresciana, affondi le proprie radici in una storia remota. Lo si scopre purtroppo in un numero limitato di locali, come la trattoria Cantina di Esine (telefono 0364 466411), dove la superba cucina legata al territorio è arricchita da fenomenali formaggi e mirabili salumi. Quegli stessi salumi che un genio della norcineria valligiana propone da quasi quarant’anni a un pubblico di cultori e appassionati. Se abitasse, Vanni Forchini, in uno di quei luoghi baciati dalla fortuna (e dalla capacità di promuoversi) tanto da essere presi d’assalto da (facoltosi o meno) turisti stranieri, ecco sarebbe salito agli onori delle cronache come pochi altri. Vanni Forchini si definisce un macellaio-salumiere che svolge semplicemente il proprio lavoro. Ma lo fa con dedizione, attenzione ai dettagli, cura dei particolari. E queste sono le qualità che lo rendono grande. Nel 2007 Vanni conosce un imprenditore illuminato, Maurizio Alberti, che desidera ampliare l’offerta turistica della Valle Camonica affiancando all’allevamento di animali la lavorazione delle loro carni per la ristorazione e la vendita nello spaccio aziendale.

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Un’impresa ardita e originale, in cui l’abilità dell’uno completa la competenza dell’altro. Bestiame libero nei pascoli montani, prevalentemente intorno alle stalle e all’agriturismo oppure affidato ad aziende agricole che seguono un modello di allevamento centrato sulla naturalità e spontaneità. Come accade per i bovini, di razza Bruna alpina e Pezzata rossa, che sono cresciuti a Borno, un pugno di pochi chilometri di distanza da Pian Camuno, allo stato brado. Dai muscoli si ottiene uno dei più caratteristici salumi della Val Camonica, la carne salata, la cui produzione è comune con l’adiacente area trentina. Mantenute le parti anatomiche per 40 giorni in concia con pepe, aglio, alloro e sale e rigirate ogni 10, si procede a bollitura per circa tre ore e si attende il successivo raffreddamento

nel proprio brodo. Infine, si affettano e si condiscono con cipolla, olio e aceto, a cui molto spesso i Camuni aggiungono fagioli bianchi. Dai ritagli di fesa e spalla, Vanni ha riafferrato la tradizionale preparazione della slinzega, diffusa anche in Valtellina, con i magri e minuti ritagli di fesa e spalla. Robusta salamoia di aromi: aglio, cannella, chiodi di garofano, pepe e alloro; periodo di stagionatura di circa un mese, tanto per raggiungere la consistenza adatta per uno stuzzichino, quando sia stata affettata sottile sottile. A seguito dell’affumicatura con legno di faggio e successiva stagionatura di cinque mesi della noce di vitello, questa viene immersa in strutto di maiale e avvolta in una calza di cotone a maglie rade per 6 mesi. Il processo chimico e naturale trasforma l’originario prodotto in

Vanni Forchini e Maurizio Alberti (foto: http://madeinbrescia.org).

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una ghiotta invenzione dal gusto leggermente affumicato, armonioso e degradante verso quegli aromi che ricordano i prosciutti. Ovviamente con la carne bovina si preparano anche salami (con ritagli di fesa e altre parti più magre) e salsicce (con l’utilizzo di collo, spalla, pancetta e punta), di norma macinate più finemente e con un periodo di stagionatura più breve, intorno alle tre settimane, quando possono essere consumate ancora alla brace. Con la fesa dei tacchini allevati in giganti voliere sui ripidi crinali si ottengono squisiti salumi affumicati, magrissimi e sfiziosi, ideali come aperitivo. Gli ovini, che pascolano lì accanto, procurano materia prima per il salame, elaborato con le carni migliori mondate del grasso eccetto la coscia, che diventa violino, ovvero prosciutto. In autunno si procede alla realizzazione della salsiccia di castrato (di cui si è ampiamente scritto sulle pagine di PREMIATA SALUMERIA ITALIANA numero 5 del 2007) e della berna, segmenti di carne messi in infusione con aglio, alloro, ginepro e rosmarino, messi a essiccare al sole, ma riparate da apposite reti per due settimane. Un salume ancestrale, che sino a metà del Novecento i pastori approntavano nelle pelli degli stessi animali per le transumanze. La stessa composizione di spezie che aromatizza il carré di capra, affumicato con ginepro e faggio. Il carré disossato del centinaio di suini nati e cresciuti in azienda viene disossato e affumicato con legno di nocciolo e frasche di ginepro lasciando bene evidenziati il lardo (alto almeno quattro dita, tengono a sottolineare con orgoglio) e la cotenna. Taglio grosso o a mano per il salame di maiale, stagionato per un anno intero e insaccato in crespone. Spezie macinate al momento, di cui si conosce l’elenco ma non l’esatto rapporto: cannella, pepe, chiodi di garofano, noce moscata. Sull’aglio pestato scorre del vino rosso locale, per dare un sentore leggero di entrambi all’impasto. Ma dove davvero l’arte norcina supera se stessa è nel petto d’anatra

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In alto: salami e coppe. In basso: violini d’agnello (foto: cortesia di Christian Penocchio, http://madeinbrescia.org). affumicato. I volatili scorrazzano nei prati terrazzati sin dalla nascita. Poi il petto viene accuratamente selezionato, ripulito del grasso e lasciato in salamoia per una ventina di giorni completo della sua pelle. L’affumicatura con legno di faggio e bacche mature di ginepro lo completa con una sapidità possente ma ponderata, lasciando dietro di sé un’acrobazia di fragranze percepibili nettamente e una miriade di allusioni gustative che sono sottintese e vanno svelate

perfezionando i sensi. Al pari di quelle incisioni su pietra, affascinanti e rare, che sono vanto di un popolo fiero e antico, ma che deve essere ancora colto e compreso. Riccardo Lagorio Antichi Sapori Camuni Via Fane, 50 25050 Pian Camuno (BS) Telefono: 0364 599325-590086 E-mail: info@antichisaporicamuni.it Web: www.antichisaporicamuni.it

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ho chiesto e voglio BARABINO Barabino, buono come pochi altri. Molto pochi.

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S.S. per Alessandria, 44 - 15050 Torre Garofoli - TORTONA (AL) Tel. 0131 868396 - 861449 / Fax 0131 821016Premiata Salumeria Italiana,1/12 www.barabino.com


Commercializzazione

Affettati “take away”, i salumi in versione moderna di Giorgio Montanari

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l progresso tecnologico, il cambiamento negli stili di vita, l’aumento dell’occupazione femminile (un tempo le donne erano le responsabili dell’approvvigionamento del nucleo famigliare), la dilatazione degli orari di apertura dei negozi, oltre a tanti altri micro-fattori hanno tessuto la ragnatela di ciò che, oggi, rappresenta una corposa fetta del mercato nei salumi: gli affettati in vaschetta “take away”. Stiamo parlando della versione “moderna” dei salumi tradizionali: prodotti già affettati, disposti in vaschette di pla-

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stica ricoperte da un film trasparente, nati per essere presi a libero servizio, senza bisogno di assistenza dell’operatore (da qui il termine “take away”, “prendi e porta via”). Pensati per un consumo comodo e veloce (magari per un acquisto di impulso dettato dal packaging invitante o da una piacevole disposizione delle fette), i preaffettati rispondono alle esigenze di praticità negli acquisti e rapidità nella preparazione. Si tratta dunque di un “prodottoservizio”. Il canale in cui è più facile trovarli è quello della Grande Distri-

buzione Organizzata, ma non è raro reperire le vaschette anche in negozi tradizionali (panetteria, ortofrutta). I salumi italiani necessitano di cultura ed abilità di preparazione e non tutti i clienti esteri conoscono i “rituali” di taglio, pulizia o conservazione necessari per lavorare i prodotti interi: i pre-affettati si rivelano dunque un prodotto strategico per le vendite export. Flessibilità “Flessibilità” è una delle parole chiave quando si parla di salumi affettati.

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Sono disponibili tanti formati di prodotto (a peso fisso o variabile): da quelli “per l’intera famiglia” (500 grammi ogni vaschetta!) a quelli “per chi è in dieta ferrea” (30 grammi). Nel nostro Paese quelli di maggior successo variano dagli 80 grammi ai 125 grammi al pezzo. Ovviamente, a diverse grammature corrispondono differenti battute di cassa unitarie: per il rivenditore è infatti importante puntare su un “prezzo psicologico”, ossia un valore limite al di sopra del quale il consumatore finale è apparentemente frenato all’acquisto. Questione di costi Visto che non tutti ne sono al corrente, è bene sapere che, a parità di insegna, i salumi in vaschetta hanno un prezzo/kg superiore rispetto a quelli presenti al banco assistito. In parole povere: facendo la spesa nel medesimo supermercato, lo stesso prodotto (ad esempio: un capocollo) della stessa marca, tendenzialmente costerà di meno se acquistato al banco (invece che preso in vaschetta). Il motivo è presto spiegato: l’industria ha dei costi ben diversi nella produzione dei pre-affettati. Quando un salume passa dal centro affettamento, quest’ultimo ne deve “sacrificare” una parte (il cosiddetto “sfrido”); in più, oltre alla necessità di ottenere su ogni vaschetta il giusto peso unitario, c’è anche l’esigenza di un’attenta selezione per offrire la miglior qualità (ad esempio: scarto di fette rotte o con troppo grasso). Se allo “sfrido” si sommano il costo orario dei macchinari, il costo delle vaschette e dei film, e tutte le altre spese accessorie, il conto è presto fatto… Camere bianche Le moderne industrie di affettamento sono organizzate in “camere bianche”. Si tratta di zone sterili nelle quali è costantemente monitorata la presenza delle particelle aerotrasportate. Simili locali, concepiti per ridurre al minimo l’ingresso di elementi contaminanti, sono in grado di mantenere le caratteristiche organolettiche originali dei salumi: si minimizza così il deterioramento del semilavorato per favorirne una vita

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residua superiore, sempre nel mantenimento delle peculiarità distintive del bene. I complessi macchinari sono in grado di produrre migliaia di vaschette ogni ora, quindi l’azienda deve tenere sotto controllo i processi massimizzando la produttività (vaschette/ora). Gli operatori agiscono nel rispetto di severe norme igienico-sanitarie: indossano uniformi, mascherine, guanti e protezioni ad hoc; puliscono i macchinari prima di ogni cambio di lavorazione (“sanificazione operativa” ogni volta che varia il salume da affettare). Insomma, la produzione è al servizio della sicurezza alimentare. Preformate e termoformate Le vaschette si dividono prevalentemente in due tipi: preformate; termoformate. Le termoformate donano al prodotto finito un aspetto più “industriale”, in quanto il posizionamento del prodotto avviene a livello automatico; mentre i vassoi preformati donano un’idea di artigianalità, dato che le fette sono disposte a mano. La fetta può essere mossa o stesa. Nel primo caso (tipico delle preformate) la vaschetta sembra più “ariosa”, tant’è che simili casistiche sono destinate ad un prodotto d’élite, che richiami la disposizione manuale dei salumieri tradizionali. L’utilizzo della fetta stesa è abituale nei packaging termoformati. Alcuni fornitori offrono vaschette con fette interfogliate, ossia separate l’una dall’altra con un foglio di carta alimentare, che ne facilitano la presa. “Anche l’occhio vuole la sua parte” Così recita un vecchio proverbio. I produttori puntano quindi a conquistare il cliente già a livello visivo. Nel proporre i salumi affettati si possono percorrere due strade: 1. la prima vede il salume stesso come unico protagonista, in quanto il packaging (vaschetta + film) è totalmente trasparente (con la sola presenza di un’etichettina dove sono riportati i dati di legge); 2. la seconda opzione vuole “vestire” il film top (la pellicola

plastica che chiude la vaschetta), in modo da monopolizzare l’attenzione con colori e con una grafica accattivante. Il consumatore medio ha una percezione più “naturale” delle confezioni col film neutro (che sovente accolgono prodotti a fetta mossa), e leggermente più “elaborata” delle vaschette ricche di particolari grafici. Sul mercato sono disponibili tantissime varietà di salumi, provenienti da tutte le regioni d’Italia. Fra i tanti prodotti offerti dall’EmiliaRomagna spicca sicuramente il crudo di Parma. Non tutti sanno ad esempio che questa specialità, essendo tutelata da Denominazione di Origine Protetta, può essere affettata solo da aziende ubicate nelle zone incluse nel disciplinare; oltre a ciò, durante le fasi di affettamento, deve essere presente un incaricato del Consorzio di Tutela per vigilare sulla rispondenza di ogni singola coscia alle rigide disposizioni di legge. Shelf-life La shelf-life (vita utile del prodotto) varia a seconda del prodotti. I salumi stagionati hanno un tempo massimo di conservazione superiore rispetto ai prodotti cotti, a causa delle differenti caratteristiche chimico-fisiche e microbiologiche. Si consiglia, inoltre, di aprire sempre la vaschetta una decina di minuti prima del consumo del prodotto per permettere allo stesso di raggiungere la temperatura ottimale. Il futuro è già qui Per chi non ha tempo di recarsi dal salumiere o chi non ha praticità con l’affettatrice, i salumi in vaschetta “take away”, rappresentano un trend in costante crescita, in grado di ottenere riscontri positivi anche dai consumatori scettici. Giorgio Montanari Note • L’autore gradirebbe ringraziare la DOTT.SSA ELISA ROZZI per la gentilissima collaborazione; • A pagina 45 immagine di salumi in vaschetta.

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Eventi

Serata di gala neozelandese con ospiti d’eccezione Nella cornice altoatesina dell’Hidalgo Restaurant & Events, presentata una selezione delle migliori carni neozelandesi. Manzo e agnello di prima qualità distribuiti in Italia dalla Bervini Srl

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n’occasione speciale, per palati speciali: erano almeno 160 i ristoratori d’alta fascia del Trentino Alto Adige riuniti nei locali dell’Hidalgo Restaurant & Events di Postal, Bolzano, per la presentazione di carni selezionate dalla Nuova Zelanda distribuite in Italia dalla Bervini Primo Srl. Tra gli organizzatori dell’evento anche l’azienda di Salvaterra di Casalgrande, in provincia di Reggio Emilia, che già due anni fa, nella stessa cornice, aveva presentato sul mercato italiano un altro prodotto neozelandese, la carne di cervo. In grado di offrire una ricca e qualificata gamma di prodotti ed un servizio accurato al mercato del catering e retail in Italia come all’estero, Bervini riconferma il suo primato quale distributore di carni provenienti da uno dei Paesi il cui ambiente naturale è tra i più intatti e integri del mondo. Protagoniste indiscusse del ricco menu della serata, preparato per l’occasione dallo staff di Otto Mattivi, sono state le carni di manzo e d’agnello. La pasta firmata Boccedi & Pifferi, genuino contrappunto nazionale all’esotismo del Pacifico Sud-occidentale, ha coronato magistralmente il matrimonio tra Italia e Nuova Zelanda. Per iniziare, filetto di manzo “tataki” con schiuma alla zucca e schiena d’agnello cotta in olio d’oliva con insalatina di patate viola e mirtillo. Garganelli con ragout di

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manzo brasato e formaggio di malga affumicato al fieno e raviolini all’ortica con filetti di scamone rosa e cappelletti con cuore di scamone brasato, i primi. Filetto d’agnello e scamone d’agnello con purea piccante di sedano e roast beef di manzo Greenstone Creek con millefoglie croccante di patate, i secondi. Infine, una mousse di yogurt e streusel con kiwi gialli marinati per chiudere in dolcezza. Queste le raffinate portate ideate per svelare i tratti distintivi della carne neozelandese a marchio Canterbury e Riverlands commercializzata da Bervini, che ne garantisce la fornitura durante tutto l’arco dell’anno anche refrigerata e confezionata nei più svariati tagli. Nel primo caso si tratta sia di carne di manzo che di carne d’agnello ottenuta da capi allevati nei pascoli del Canterbury

appunto, con le sue vaste e fertili pianure, ideale mangiatoia naturale per gli animali e da cui nasce la pregiata linea Greenstone Creek. Nel secondo caso si tratta di carne di manzo dalla tenerezza certificata, Certified Tender, ottenuta da capi allevati nella provincia attorno al monte Taranaki, montagna sacra ai Maori. Pascolo libero del bestiame all’aperto in ambienti incontaminati: è questo il segreto della bontà di una carne dal gusto pienamente naturale e finemente strutturato, una carne magra ma nutriente di cui è garantita la tracciabilità, che risponde a precisi standard di sicurezza, una carne approvata USDA/UE e con certificazione halal. Requisiti di qualità, affidabilità e responsabilità, ecco il bel biglietto da visita della carne neozelandese per conquistare il mercato nostrano.

Carne d’agnello neozelandese Maori Lakes.

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1) Fabio Bervini, Flavia Straulino, del Consolato Generale della Nuova Zelanda di Milano, e Renzo Bervini. 2) Cristiana ed Eugenio Furlan della E.D.E.MAR di Chioggia. 3) Mattivi con due bellissime ospiti.

Boccedi

& Pifferi: l’emilianità a tavola

Nel 1962, in una piccola città della provincia modenese, due volonterosi coniugi, Gino Boccedi e Norma Pifferi, fondano il laboratorio di pasta fresca tipica emiliana che porta il loro nome, secondo i più rigorosi principi della emilianità a tavola; presto la pasta trova consenso e notorietà. Trent’anni dopo, l’azienda viene rilevata da altri due coniugi pastai artigiani che spostano l’attività a Reggio Emilia e si propongono di dare continuità a quella tradizione tutta emiliana fatta di qualità, artigianalità e passione. Oggi l’azienda appartiene alla Real Pasta Srl, le cui quote sono possedute da un industriale reggiano già operante nel settore agroindustriale e presente nel mercato della moderna distribuzione e del food service. L’obiettivo che ha spinto l’attuale proprietà ad investire nel settore della pasta fresca è molto ambizioso: fare conoscere ed apprezzare in Italia e all’estero il meglio della tradizione gastronomica emiliana, e, indirettamente, il territorio al quale i prodotti Real Pasta sono indissolubilmente legati. Grazie alle materie prime locali accuratamente selezionate, alla competenza nel trasformarle seguendo rigidamente le ricette tradizionali senza nessun compromesso, e attraverso i moderni impianti produttivi e l’applicazione delle più avanzate tecniche di gestione della produzione, oggi Real Pasta è in grado di assicurare la qualità ed il gusto della pasta fresca ripiena “come se fosse fatta in casa” e i più elevati standard igienico-qualitativi (certificazione IFS e BRC) dell’industria agroalimentare. • La vedi: non c’è bisogno di aguzzare la vista. Che la pasta fresca Boccedi & Pifferi sia così mirabilmente ruvida lo si nota al primo sguardo, anche quando è sull’espositore del negozio o del supermercato, debitamente protetta dalla sua confezione salva igiene e salva freschezza. • La tocchi: al tatto, anche da cruda, la pasta fresca continuerà a rivelare la sua superba, orgogliosa ruvidezza. E allora non resta che l’ultima prova… • La senti: cuocetela per i minuti indicati sulla confezione e portatela fumante in tavola. Alla prova del brodo, tortellini e cappelletti rivelano le loro nobili origini emergendo come piccole isole di sapore. A quella del sugo, sono le isole di sapore del ragù che diventano arcipelago, circondando la pasta e aderendo morbidamente ad ogni sua piega. Sapore si aggiunge a sapore, per il piacere di chi la porta in tavola. E di chi a quella tavola siede. >> Link: www.boccediepifferi.it

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Tre giorni di degustazioni per 2.200 funzionari

SalumiAmo a Bruxelles

Nicola Levoni e Lisa Ferrarini insieme ai giornalisti premiati.

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profumi e i sapori inconfondibili dei salumi italiani DOP e IGP hanno conquistato i funzionari della Commissione europea che sono accorsi a migliaia durante le tre giornate (28-30 novembre) della seconda edizione di SalumiAmo promossa dall’Istituto valorizzazione salumi italiani (IVSI) in collaborazione con l’Istituto salumi italiani tutelati (ISIT), ASS.I.CA. (Associazione Industriali delle Carni) e l’Ufficio ICE di Bruxelles. Anche il vicepresidente della Commissione europea, Antonio Tajani, responsabile per l’industria e l’imprenditoria, è stato uno degli oltre 2.200 fan, che hanno potuto degustare nel cuore del Berlaymont i salumi della grande tradizione italiana. Le 27 nazionalità dell’UE erano presenti e hanno seguito un percorso degustativo che permetteva loro di informarsi su ognuno dei 19 salumi

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DOP e IGP presentati dai Consorzi ISIT, conoscerne i territori e i processi di produzione e quelli nutrizionali, oltre che di assaporarne la qualità. Non a caso, è stato necessario il lavoro di tre chef salumieri, che nei tre giorni della manifestazione hanno affettato circa 370 kg di salumi. Sui vassoi del percorso degustativo era rappresentata tutta l’Italia: dalla bresaola della Valtellina, al capocollo di Calabria, dalla coppa piacentina, al cotechino Modena. E poi il culatello di Zibello, la mortadella Bologna, la pancetta di Calabria, la pancetta piacentina, il prosciutto di Modena, il prosciutto di San Daniele, il prosciutto toscano, il salame Brianza, il salame di Varzi, il salame piacentino, i salamini italiani alla cacciatora, la salsiccia di Calabria, la soppressata di Calabria, lo speck Alto Adige e lo zampone

Modena. Il grande lavoro di promozione portato avanti dal comparto porta i suoi frutti: nei primi sei mesi del 2011 la vendita dei salumi italiani è aumentata in quantità del 10% (+63.000 tonnellate) e in valore (490 milioni di euro) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (fonte ASS.I.CA.). Reporter del Gusto Gli eventi di degustazione sono stati anticipati da una serata molto importante, il 24 novembre, dedicata alla sesta edizione del Reporter del Gusto, premio che celebra l’opera divulgativa e informativa dei giornalisti che si occupano di agroalimentare e della salumeria italiana, contribuendo così alla valorizzazione di questi prodotti. I giornalisti premiati dal presidente IVSI, Nicola Levoni, quest’anno, sono stati:

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Johanna Westman (TV svedese SVT). Motivazione del premio: contribuire a far conoscere la tradizione dei cibi, la loro storia e le eccellenze all’interno del programma Go kväll (Buonasera) sulla TV nazionale svedese (SVT). Per la capacità di presentare al suo pubblico ogni settimana una rubrica originale e innovativa, in cui i prodotti sono sempre presentati con dovizia di particolari, dalla loro storia al procedimento di produzione, fino alle ricette che li vedono protagonisti. Per la cura con cui ha raccontato i salumi italiani, permettendo ai nostri prodotti DOP e IGP di entrare nelle case del pubblico svedese, come accaduto nella puntata dell’8 ottobre 2011, contribuendo alla diffusione del made in Italy. Patrizia Lenzarini (Agenzia ANSA). Motivazione del premio: informare gli organi di stampa con un aggiornamento quotidiano, con le news provenienti dal panorama agroalimentare italiano ed europeo. Un ruolo fondamentale che sottolinea l’importanza di tale compito, con l’impegno e l’autorevolezza che contraddistinguono la prima agenzia di stampa italiana, soprattutto quando questo è svolto nel cuore d’Europa. Per la cura con cui racconta il mondo agroalimentare, le norme che lo regolano e il suo rapporto con le istituzioni. Per la professionalità e l’attenzione che ha sempre trasmesso nei suoi contributi informativi.

Dario Di Vico (Corriere della Sera). Motivazione del premio: riportare notizie del panorama economico italiano ed europeo, con particolare attenzione a quei settori produttivi che rendono il mercato italiano unico nel mondo, fra cui quello dell’agroalimentare, è un punto fermo per lo sviluppo del made in Italy. Dal punto vista informativo, è altresì fondamentale affrontare tematiche generali che riguardano l’economia e lo stato di salute di un settore, per preservarne le sorti e promuoverne lo sviluppo. Per il rigore giornalistico con cui racconta le dinamiche del mercato italiano e l’attenzione meticolosa che applica nel diffondere le notizie che scrive; per la competenza con cui affronta i temi cari all’industria italiana anche del comparto agroalimentare.

Premi ASS.I.CA. Oltre ai premi Reporter del Gusto, sono stati assegnati i premi ASS.I.CA. a rappresentanti delle istituzioni europee che con il loro lavoro contribuiscono al valore dell’Europa. La presidente ASS.I.CA., Lisa Ferrarini, ha premiato Andrea Dionisi, rappresentante permanente del Ministero della Salute a Bruxelles, responsabile della questioni sanitarie della rappresentanza italiana e Lorenzo Terzi, capo Unità “Affari internazionali bilaterali” della Direzione Generale Salute e Tutela dei Consumatori della Commissione europea.

IVSI Istituto Valorizzazione Salumi Italiani L’Istituto Valorizzazione Salumi Italiani è un Consorzio volontario, senza fini di lucro, che si è costituito nel 1985 in risposta alle crescenti esigenze di informazione da parte dei consumatori e con lo scopo di valorizzare l’immagine dei salumi italiani e di promuoverne lo sviluppo dei mercati. Collabora con varie Istituzioni pubblici e privati per diffondere una corretta informazione nutrizionale e far conoscere l’alto livello qualitativo dei salumi italiani. Sul territorio nazionale, oltre alle iniziative di comunicazione rivolte ai mass media, alla classe medica e ai consumatori, l’Istituto ha promosso ricerche di mercato, indagini tecniche, analisi sui prodotti e studi sui principali aspetti e problematiche del mercato. >> Link: www.salumi-italiani.it

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L’arte in cucina

Nico Jimenez e l’arte del taglio a coltello di Raffaele Bertolini

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resentandosi al pubblico vestito interamente di nero, non fosse per qualche colpo di luce sulle spalle e sul pettorale della giacchetta dovuto alla presenza dei badge degli sponsor, il pluripremiato campione di taglio a coltello di prosciutto iberico Nico Jimenez, dal palco della sala riunioni del NH hotel di Rho, lo scorso 24 ottobre si è esibito in una veloce dimostrazione di taglio a coltello di prosciutto iberico. Il pubblico era piuttosto numeroso, molto attento alle parole e soprattutto alla gestualità professionale di Jimenez.

Dopo una breve introduzione autocelebrativa a mezzo audiovisivo, il cortador si è messo a disposizione del pubblico per rispondere alle curiosità, e così abbiamo saputo che il prosciutto iberico vanta la possibilità di offrire al fortunato degustatore ben 5 aromi differenti, in corrispondenza di 5 punti specifici: uno nel gambetto, uno in corrispondenza del fiocco, due nella punta e uno in corrispondenza del fiocchetto (babilla in spagnolo). Un prosciutto tagliato a coltello permette di esprimere queste sue cinque potenzialità aromatiche, vo-

lendo, nello stesso istante: difatti, una volta aperto e raggiunto un certo livello di taglio, si può beneficiare della dolcezza del gambuccio, della succulenza del fiocco, del leggero tocco amarognolo della punta e della sapidità del fiocchetto. E chi temesse eventuali irrancidimenti e ossidazioni non si deve preoccupare: il mercato spagnolo, all’avanguardia per questo tipo di offerta, ha già risposto a questi inconvenienti con un prodotto che protegge la parte aperta del prosciutto per mesi, impedendole di ossidarsi e di asciugarsi.

Il pluripremiato campione di taglio a coltello di prosciutto iberico Nico Jimenez.

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Il prosciutto iberico vanta la possibilità di offrire degustatore 5 aromi differenti, in corrispondenza di 5 punti specifici: uno nel gambetto, uno in corrispondenza del fiocco, due nella punta e uno in corrispondenza del fiocchetto. E ci si chiede allora come mai in Italia, uno dei paesi europei più fortemente votati alla produzione e al consumo di prosciutto crudo, abbia quasi dimenticato l’arte del taglio a coltello. È vero che esistono nicchie di mercato, soprattutto nel centro e sud Italia, dove anche in taluni supermercati il prosciutto viene tagliato a coltello. Ancor di più se ci troviamo all’interno di spazi di ristorazione casereccia, come agriturismi, osterie e locande. Anche presso alcune famiglie toscane e umbre il taglio del prosciutto è un “rito” a cui si ricorre soprattutto durante occasioni importanti. Ma il grosso della vendita e del consumo è riservato al taglio a macchina. Bisogna innanzitutto sfatare la falsa credenza che vuole che la lama dell’affettatrice riscaldi, e quindi danneggi, da un punto di vista organo-

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lettico, la fetta di prosciutto. Secondo studi analitici non è l’affettatrice che danneggia il prodotto, ma il disosso del prosciutto che quel tipo di utilizzo implica. Tagliare il prosciutto a coltello, infatti, richiede la presenza dell’osso, tant’è vero che nelle gare di taglio che si svolgono in diverse località spagnole è severamente vietato asportare qualsiasi frammento osseo. La presenza dell’osso impedisce l’ossidazione e l’ammuffimento del centro del prosciutto e aiuta a mantenere inalterata la carica aromatica. D’altra parte il disosso richiesto per il taglio a macchina apre le porte a fenomeni degenerativi a scapito del profumo, del sapore e degli aromi del prodotto finale. Il fatto stesso che in Italia non esistano delle morse adeguate per il taglio a coltello è di per sé una dimostrazione che questo tipo di arte sia

andata scomparendo. Non per niente il nostro campione era accompagnato da una “limousine” del taglio a coltello, un porta-prosciutto di ultima generazione, che permette di ruotare il prosciutto di 360° sia su se stesso che attorno all’asse mediano, oltre che di essere regolabile in senso ortogonale per facilitare la visuale al pubblico durante le esibizioni. Sarebbe un motivo ulteriore di orgoglio poter dimostrare che anche l’Italia riesce ad essere competitiva in questo tipo di servizio: il taglio a coltello ha in sé qualcosa di ancestrale, di mascolino. È una specie di tauromachia rappacificata, dove la lotta tra uomo e animale si è sublimata a livello sensuale, tra i nostri occhi, preda della gestualità artistica del cortador, e il nostro palato e olfatto, che vibrano nell’attesa del piacere dell’assaggio! Raffaele Bertolini

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Lezioni di bon ton... a tavola di Clara Scaglioni

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l bon ton a tavola, o galateo dell’ospitalità, comprende una serie di regole su come è più opportuno comportarsi da padrona di casa, in presenza di ospiti, o in qualità di ospite, in casa altrui. Lo stare a tavola è un momento di forte convivialità, ma anche di educazione e rispetto sia nei confronti degli altri commensali che di se stessi. Ecco dunque di seguito alcune regole che è bene tenere presenti, qualche piccolo suggerimento che ci renderà senz’altro la vita più facile da ospiti e da ospitati.

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* A tavola... * Il tovagliolo, dopo essere stato aperto, deve sempre essere tenuto in grembo. A tavola si sta seduti ben diritti ed in nessun caso la bocca deve abbassarsi al cibo ma il cibo deve andare alla bocca. * Non si appoggiano mai i gomiti sul tavolo: i gomiti debbono essere accostati alla persona anche quando si taglia la carne. In passato, per insegnare le buone maniere nei collegi maschili e femminili, prima di andare a tavola venivano messe delle matite con la punta appena fatta sotto le ascelle dei ragazzi, i quali dovevano tenerle ben strette e farle cadere per non essere puniti (se avessero consegnato una matita spuntata). * Quando si mangia la minestra il cucchiaio deve essere riempito con un movimento che, partendo dall’interno del piatto, si muove verso il bordo esterno dello stesso, in direzione del centro tavola. Se alla fine resterà solo un poco di liquido all’interno del piatto, inclinando lo stesso verso il centro del tavolo, il cucchiaio raccoglierà la minestra o il brodo rimasti con un movimento che va sempre in direzione del centro del tavolo. Quando si è finito di mangiare

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la minestra, il cucchiaio andrà lasciato nel piatto con il manico a destra, parallelo al bordo della tavola ma, se la minestra viene servita in tazza, il cucchiaio si dovrà posare nel piattino sotto a questa. Qualunque liquido servito in una tazza con il manico va sorbito dalla tazza stessa, ad esempio caffè e te. Il cucchiaino serve solo a mescolare. Non si debbono mai asciugare gli angoli della bocca con troppa delicatezza. Ogni affettazione a tavola va bandita. Il cibo nel piatto deve restare sempre al centro e mai lontano dal bordo o sparpagliato, schiacciato, tagliuzzato: deve essere tagliato e messo sulla forchetta con garbo, senza mai caricarla eccessivamente.

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La carne deve essere tagliata un pezzetto alla volta, via via che si porta alla bocca. Quando ci si arresta un momento nel mangiare, per bere o prendere un pezzetto di pane, la forchetta e il coltello saranno sistemati in modo da formare le ore “quattro e venti”. La lama del coltello andrà sistemata verso il commensale e la punta della forchetta verso l’interno del piatto. Mai mettere le posate con il manico sulla tovaglia e la punta sul bordo del piatto. Quando si smetterà di mangiare il coltello e la forchetta verranno messi paralleli rispetto al tavolo. La bocca deve sempre essere pulita prima di accostare le labbra al bicchiere e non si deve mai bere con la bocca piena. Il pane deve essere spezzato con

Alberto Sordi nella celebre scena del film “Un americano a Roma”. Una vera e propria lezione di bon ton...

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le mani e fatto a piccoli pezzetti prima di essere portato alla bocca per essere consumato. I grissini si spezzano con le mani. Le salse non dovrebbero mai essere raccolte con i pezzetti di pane, specie con le mani (la famosa “scarpetta”). Se si pensa di farlo è bene mettere il pezzetto di pane sui rebbi della forchetta. Ricordate... niente biscotti inzuppati nel te, nella cioccolata o nel caffè. L’insalata non sarà mai tagliata con la forchetta. Qualsiasi cosa debba essere tolta dalla bocca e riportata sul piatto seguirà questa regola molto semplice: “ciò che viene portato alla bocca con il cucchiaio verrà riportato sul piatto con il cucchiaio”. Si fa eccezione quando si tratta di piccole cose pulite come le lische del pesce ed i pallini da schioppo che si possono trovare nella cacciagione. In questo caso, pur avendo portato il cibo alla bocca con la forchetta, si useranno le

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mani, facendolo con la massima disinvoltura. Non si usa mai la propria forchetta per servirsi dal piatto comune, specialmente in un buffet. Le salse dense che spesso accompagnano alcuni piatti di carne o i dolci non vanno mai prese dalla salsiera e versate sul cibo che accompagnano ma vanno messe accanto. Le salse liquide come i sughi o il burro fuso vanno invece versati sul cibo che debbono condire.

Qualche accenno alla coppa lava dita... La coppa lava dita può essere portata in tavola sul piatto da frutta posato su un sottocoppa rotondo (potrebbe essere anche di stoffa ricamato). In questo caso si toglie il lava dita con il sottocoppa e si appoggia a sinistra in alto, accanto al proprio piatto. Se il lava dita viene presentato col sottocoppa ed un piattino (o d’argento o di cristallo), che posa a sua volta sul piatto della frutta,

si prendono lava dita sottocoppa e piattino e si posano sempre a sinistra sulla tovaglia. Come si servono alcune pietanze speciali * Frutti di mare ed ostriche: ostriche e frutti di mare vengono presentati al naturale, dentro alla metà del proprio guscio, di solito su di un letto di ghiaccio ed accompagnati da spicchi di limone presentati o nel piatto stesso o in un piccolo piattino a parte. Per mangiare le ostriche si dovrebbe utilizzare la posata apposita, studiata per staccarla delicatamente dalla sua conchiglia. * Caviale: il caviale si può servire su delle fettine di pane tostato imburrate o su crostini come aperitivo. Come antipasto, ricco ed elegante, il modo migliore è quello di metterlo dentro ad una coppa di cristallo, tenendo presente che, nel servirsi, si deve usare l’apposito cucchiaino in osso. Le coppe da utilizzare sono

Non si usa mai la propria forchetta per servirsi da un piatto comune (nemmeno se si tratta di bacchette)!

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quelle in cui una sta dentro ad un’altra riempita di ghiaccio, così che il caviale messo nella prima possa restare sempre ben freddo. In questo caso, insieme al caviale, si portano in tavola anche una serie di piattini: alcuni con fettine di pane tostato, altri con riccioli di burro ed il suo coltellino, con uova sode tagliate finemente, con cipolla tenera tagliata a fettine sottilissime, con limone a fette con accanto l’apposita forchettina. Ogni commensale si servirà degli ingredienti preferiti e li gusterà insieme ai crostini di pane sul proprio piattino già al suo posto. Paté: i paté o di fegato o di cacciagione si possono servire sul pane tostato a mo’ di tartina ma possono anche essere considerati degli antipasti e, in questo caso, ne vengono messe sui piattini singoli delle fettine sottili in accompagnamento a crostini di pane, tartellette di pasta brisé o, meglio ancora, piccoli panini di pan-brioche, insieme a qualche foglia di insalata come decorazione.

Come si mangiano alcuni cibi * Asparagi: si portano alla bocca tenendoli con due dita. * Carciofi: i carciofi crudi serviti in pinzimonio o qualsiasi altra salsa si mangiano staccando le foglie una per una. Quando si arriva al cuore, lo si taglia con il coltello. * Frutta: la frutta servita a tavola (pere, mele, pesche od altro) viene consumata dopo essere stata tagliata a pezzi con il coltello e poi sbucciata con l’ausilio della forchetta. Se ne prende un quarto, lo si infila nella forchetta, lo si sbuccia col coltello tenuto nella mano destra e, dopo averlo appoggiato nel piatto, lo si suddivide in tanti piccoli bocconi. La frutta a formato piccolo, come albicocche e susine, deve essere sbucciata intera. Quella a polpa molle, come fichi, pere mature ed agrumi, verrà sbucciata con forchetta e coltello senza essere sollevata dal piatto.

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Carciofi ripieni (foto: www.quandopasta.it). I carciofi crudi serviti in pinzimonio o qualsiasi altra salsa si mangiano staccando le foglie una per una. *

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Ciliegie: le ciliegie si mangiano intere ed il nocciolo viene posato sul piatto con le dita. Pesce: quando il pesce viene servito intero con la testa e la coda, bisogna disliscarlo nel modo più corretto, cioè tagliare col coltello da pesce la testa e la coda e metterla da un lato nel piatto e poi col coltello e la forchetta aprirlo in due parti ben nette in modo da togliere la lisca centrale. Se nel mangiare si dovesse trovare qualche piccola lisca che non si è potuta togliere prima di portare alla bocca il boccone, si toglierà con garbo dalla bocca stessa con le dita della mano e si appoggerà

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sull’orlo del piatto. Olive: le olive, specie se sono un po’ grandi, non si dovrebbero mai mettere in bocca intere. Si terranno quindi tra due dita e se ne mangerà la polpa un po’ alla volta. Uova: le uova si mangiano con la forchetta e per nessuna ragione, anche quando sono sode, si tagliano con il coltello. Le uova da bere si mangiano servendosi di un cucchiaino. La frittata non deve mai essere tagliata con il coltello e per dividerla a pezzetti ci si servirà della costa della forchetta. Clara Scaglioni

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Gastronomia

Una cucina che legge e pensa il territorio di Giovanni Ballarini

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he non esista una cucina italiana, ma solo cucine che si richiamano alle specificità dei territori che formano l’Italia, fino a parlare di “cucine del campanile”, non solo è acquisito, ma è divenuto un concetto tanto diffuso da aver perso quasi di significato. Quale cucina del territorio? Di chi lo possiede, lo abita e lo lavora, o invece di chi è capace di leggerlo e pensarlo? Possedere un territorio, abitarlo o lavorarlo non genera necessariamente valori culturali. Acquisire un territorio, impiantarvi colture dove con mano d’opera anche straniera sono coltivati vegetali di concezione (genetica) perfino esotica non porta ad alcuna cucina del territorio. Lo stesso è per la cucina di carni di animali anche di razze indigene, ma allevati

con sistemi industriali e intensivi, per di più nutriti con alimenti non locali, ma importati. In modo analogo non è cucina del territorio quella solo pressappoco stagionale o che si limita a proporre un’imitazione di quanto si pensa che nel territorio avvenisse in un passato solo spesso immaginato, se non sognato. Necessariamente non è cucina del territorio quella a “chilometri zero” o, come meglio definiscono i francesi, la cuisine de proximité. Meno che mai è cucina del territorio quella che sempre più frequentemente vediamo proporre da cuochi e perfino da industrie, con ricette che presentano una denominazione più o meno territoriale, quando non errata (la “parmigiana” identifica una struttura della preparazione e non ha niente a che fare con Parma o con la cucina di

quel territorio). Cucina del territorio significa prima di tutto “leggere” e poi “pensare il territorio”. Leggere nel suo significato etimologico più autentico e profondo significa raccogliere e collegare, quindi vuol dire, per un territorio, scegliere e raccogliere con cognizione di causa i cibi con le loro caratteristiche. Pensare un territorio si collega strettamente a un “buono da pensare, buono da mangiare”. Leggere e pensare il territorio non è solo storia o geografia, le due grandi direttrici sulle quali si sono sviluppate le cucine tradizionali italiane, ma è conoscere, interpretare e vivere le tradizioni di conoscenza e di uso degli alimenti, le tecniche culinarie e gastronomiche di trasformazione, in tutta la complessa diversità della loro evoluzione spontanea, e in con-

Bollito misto, un piatto tipicamente invernale (foto: www.pensallapanza.it). Premiata Salumeria Italiana, 1/12

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Cotechini (foto di Andrea Pellati). seguenza degli interventi umani. Leggere e pensare il territorio è dare voce al cibo locale, e chi cucina diventa il tramite indispensabile per una cucina nella quale il cibo evoca una città, una vallata, un territorio con le loro culture specifiche. Leggere e pensare il territorio è quindi ben altro che possedere una terra o una ricetta locale, un’idea di dominio tipico di una società consumistica e di un’industria senz’anima. Pensare il territorio non è la difesa, non di rado conflittuale, o la protezione commerciale di un nome territoriale, come avviene per non poche indicazioni geografiche, che al massimo fanno riferimento a una tipologia di preparazione senza alcuna, vera relazione con il territorio. Molte

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denominazioni industrializzate, infatti, non hanno più alcun rapporto con un territorio che solo un tempo, non oggi, ne determinava caratteristiche rapportate a un ambiente non solo fisico, ma anche umano e sociale. La cucina del territorio è espressione di un ambiente umano che si è formato nel corso del tempo, con l’evoluzione di tecniche produttive di coltivazione dei vegetali e di allevamento degli animali, spesso in stretto rapporto. Una certa razza di maiali diviene un elemento di un territorio non solo per la sua denominazione, ma perché allevata e nutrita con alimenti locali e seguendo i cicli del microclima locale. In una stessa regione, ad esempio, il microclima della pianura non è quello della fascia

collinare e pedemontana o montana, e su questa linea vi è chi ha giustamente parlato di una cucina del microclima di un territorio. Cucina del territorio è anche quella espressa da una cultura umana urbana, con tutte le sue differenziazioni antropologiche. Uno stesso cibo assume aspetti e soprattutto significati differenti se inserito in una cultura piuttosto che in un’altra, anche se nello stesso ambito territoriale, come avviene, ad esempio, per le comunità che in una stessa città seguono precise regole religiose. Una cucina del territorio, come sopra delineata, è uno strumento di conoscenza e costituisce un’importante dimensione della civiltà della tavola, quindi un rilevante elemento culturale, oltre che un indispensabile mezzo per la difesa e la valorizzazione di un territorio, che non può essere un ambiente fisico da usare, se non da abusare, ma deve ritornare ad essere un luogo da vivere, anche attraverso una dimensione sacrale. Sacri erano nel passato taluni territori e i loro prodotti, un concetto che non deve sorprendere, in quanto “sacro” deriva dal latino arcaico sakros, che significa qualcosa a cui è stata conferita validità e che è al posto giusto. Dal territorio giusto origina il cibo e la cucina giusta, perché pensata bene. Sotto questo profilo non sono tanto i chilometri o la prossimità che contano, quanto la cultura e la conoscenza che determinano una vera cucina del territorio, che non può essere improvvisata e nella quale è possibile ricuperare e valorizzare antiche saggezze, anche popolari, in una tutela delle tradizioni. Quanta cucina del territorio vi è ancora in un’Italia sempre più cementificata e industrializzata, dove i saperi umani locali sono stati sovvertiti? Senza cadere nel più nero pessimismo, bisogna riconoscere che esistono ancora isole territoriali più o meno felici, e che si nota la persistenza, anzi l’aumento, di persone che ritornano al territorio pensandolo con un rispetto sacrale delle sue caratteristiche, compiendo un’opera di ricupero dei suoi doni. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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Conservazione Un metodo antico, dai risultati sempre attuali

La marinata di Giorgia Fieni

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a conservazione dei prodotti alimentari ha sempre rappresentato un problema per l’uomo. Fin dai tempi antichi, quando era ancora nomade e si spostava alla ricerca del cibo, se capitava che ne trovasse in abbondanza si chiedeva come mantenerlo commestibile il più a lungo possibile. Attraverso l’utilizzo del caldo e del freddo, la conservazione dei prodotti alimentari ha sempre rappresentato un problema per l’uomo. Fin dai tempi antichi, quando era ancora nomade e si spostava alla ricerca del cibo, se capitava che ne trovasse in abbondanza si chiedeva come mantenerlo commestibile il più a lungo possibile. Attraverso l’utilizzo del caldo e del freddo ebbe di certo le prime risposte a questa domanda e anche il sale fu uno dei primi elementi usati a tale scopo. Quest’ultimo ha tra l’altro anche la caratteristica, assolutamente non trascurabile, di abbattere la carica patogena delle materie prime con cui viene a contatto, perciò il suo utilizzo è sempre stato particolarmente indicato. Lo stesso dicasi di alcune spezie: ricordiamo solo l’abbondante consumo che se ne faceva in età medievale, quando i nobili (oltre a farne sfoggio come di oggetti preziosi, in quanto reperibili solo in luoghi esotici) le usavano per coprire il sapore di certe carni non proprio fresche e per di più sottoposte a lunghe e differenti cotture. Mescolare il sale alle spezie e ad altri elementi dalle simili funzioni è a poco a poco diventato un modo perfetto per mantenere la freschezza del pesce appena pescato e della carne appena macellata, oltre che per ammorbidirli ed esaltarne il sapore naturale. Col tempo le metodologie si sono affinate, perciò alcuni autori hanno ascritto alla marinata (il cui

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nome potrebbe derivare dall’acqua di mare, usata come conservante proprio per il suo contenuto salino) quattro tipologie di ingredienti: acidi (quali aceto, birra, vino e succo di agrumi, che aiutano la decomposizione delle proteine rendendo l’alimento più tenero), oli (capaci di trattenere le componenti olfattive: è preferito l’extravergine di oliva), aromi (spezie, erbe — meglio quelle fortemente caratterizzate, come timo, alloro, salvia e rosmarino — e droghe, che insaporiscono) e salse (oltre al sapore, la Barbecue, la Worcestershire o qualsiasi altra tipologia ammorbidiscono la preparazione e potrebbero da sole sostituire tutti gli altri ingredienti). Questa dunque la regola generale. Ma come possiamo procedere? La marinata cotta di carne potrebbe consistere in carote, cipolle, prezzemolo, olio, alloro, maggiorana, vino secco, sale e pepe fatti bollire e versati previo

raffreddamento; per il pesce, invece, si possono usare aceto bianco, aglio e rosmarino. La marinata cruda per la carne potrebbe essere di carote, sedano cipolla, prezzemolo, chiodi di garofano, pepe, alloro, sale, bacche di ginepro e vino secco, mentre per il pesce potrebbero essere sufficienti aglio, limone, olio e prezzemolo. Per ottenere gusti particolari da maiale, anatra, pollo e selvaggina, si possono usare sapori agrodolci (aggiungendo senape); carne e pesce si abbinano bene alla marinata orientale (con salsa di soia) e pollo e maiale sono ottimi anche piccanti (con peperoncino, zenzero, cannella, noce moscata e cardamomo). Queste sono solo possibilità, ma tali modalità sono soggette a variazioni sempre in divenire. Al convegno Identità Golose del 2010, per esempio, lo chef friulano Emanuele Scarello ha usato miele di rosmarino al posto del

Zucchine alla scapece (foto di ©Laura Mycol, www.panoramio.com).

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sale ed ha sfruttato il sottovuoto ed una temperatura di 4°C, dimostrando che la carne (nello specifico, si trattava di sella di cervo) rimaneva più morbida rispetto alle tradizionali metodologie. A complicarci ulteriormente le idee ci pensano carpione, saor e scapece (denominazione che si pensa derivi da esca Apicii (cibo di APICIO) dato che nella sua opera “De re coquinaria” del I secolo compariva una pietanza simile, che viene usata anche in Spagna come “escabeche”). Nel carpione la materia prima è infarinata e fritta con aromi (carota, sedano, alloro o salvia, cipolla); poi la si lascia un giorno nel fondo, a cui nel frattempo sono stati aggiunti acqua e aceto. Il saor veneto (per il capretto, ad esempio) si prepara con limone, alloro, aglio, olio, pepe, rosmarino e salvia; quello friulano (per i sardoni) con cipolla e aceto di vino bianco (talvolta alloro e timo selvatico o aglio e prezzemolo, o pinoli e uva sultanina, per un gusto orientale). Lo scapece abruzzese (simile a quello pugliese) è di aceto e zafferano caldo (a Vasto è versato su pesce infarinato e fritto); quello calabrese per le sarde è di olio e aceto versati a crudo; quello campano per le zucchine (citato anche da “Armonia perduta” di RAFFAELE LA CAPRIA, anno 1968) è di aceto e menta. Se ci spostiamo poi fuori dai confini italiani, troviamo abbinamenti più particolari, quali l’uso per esempio di yogurt intero naturale per la spalla d’agnello in Algeria; una miscela di coriandolo, aglio, burro, peperoncino, curcuma, timo, latte di cocco, sherry e concentrato di pomodoro per il pollo in Kenya; un uso prevalente di succo di limone (con abbinate diverse spezie a seconda della materia prima) in Libano; cipolla, scalogni, succo d’arancia amara, peperoncino verde piccante, timo, sale e pepe per il maiale ad Haiti; aceto e salsa di soia per l’Adobo filippino; la prevalenza di succo di lime in Messico; olio d’oliva, succo di limone, rum invecchiato, sale, pepe nero e chili per i gamberoni in Nicaragua; succo di lime, scalogno, chili rosso, salsa di soia e olio di sesamo per filetti di alligatore in USA. E ancora: in Cina è comune la

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Carne di manzo con marinata cruda. salsa di soia, così come in Giappone, abbinata o meno a salsa shoyu, mirin e sakè; in Iran non manca lo zafferano sciolto in acqua, così come in Tailandia la pasta curry (verde, rossa o gialla a seconda delle spezie di cui è composta). JAMIE OLIVER, invece, ha avuto modo di notare l’abitudine svedese di marinare le aringhe: Le prendono incredibilmente sul serio. Iniziano a lavorarle e a farle marinare in novembre, perché a quel punto i pesci hanno già smesso di fare le uova e la loro carne tornerà ad avere una consistenza soda e deliziosa. Sono stato molto contento di riavvicinarmi ai piaceri dell’aringa durante questa visita perché ho scoperto ingredienti per insaporirla davvero creativi e imprevedibili: praticamente di tutto, dall’aneto alla cipolla rossa ai chiodi di garofano e persino la maionese al curry! Oltre alla composizione della marinata occorre anche fare attenzione ai materiali, predisponendo il

tutto in un recipiente adatto, come la ceramica, la porcellana, il policarbonato, l’acciaio inox, il vetro o il pyrex, evitando metallo e plastica, e coprendo con pellicola per alimenti o un piatto così da aiutare il compimento del processo desiderato, al riparo da aria e luce. Un altro elemento da non sottovalutare è il tempo: se la marinata è cotta, bastano dai 30 minuti alle poche ore, mentre se è a crudo occorrono dalle 24 alle 36 ore (ma molto dipende anche dal tipo di materia prima e dalla temperatura a cui la si compie). Nella nouvelle cuisine le lunghe marinature sono state abbandonate: bastano un paio d’ore, con i giusti quantitativi, per ottenere un ottimo risultato. Ricapitolando, dunque, una marinata perfetta necessita di: ingredienti giusti, utensili corretti, tempo sotto controllo… Un notevole passo avanti dal recipiente qualsiasi in cui raccogliere acqua di mare! Giorgia Fieni

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Sapori dal mondo

Chorizo e Jamón Serrano di Massimiliano Rella

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horizo e Jamón Serrano, due specialità che non possono mancare sulla tavola degli spagnoli. Diffuse in tutto il paese iberico, sono un po’ come il nostro prosciutto di montagna, fatto in tante varianti locali quanti sono i monti che popolano il Belpaese. Il chorizo, invece, è un cugino dei nostri salami, con la differenza più evidente di un insaccato di carne e grasso di maiale che viene impastato insieme a una bella dose di pimentòs secos, peperoni rossi seccati e macinati, che gli danno un vivace colore sanguigno. Noi siamo andati in Rioja, la terra vitivinicola più famosa della Spagna, e tra una cantina e un buon ristorante abbiamo scovato anche uno dei principali produttori di chorizo e

jamón serrano della regione: l’azienda MARTÌNEZ SOMALO di Baños de Rio Tobìa, a una cinquantina di chilometri dalla capitale Logroño. Fondata nel 1900, è una realtà a conduzione familiare che oggi dà lavoro a ben 60 persone. Nel 2010 ha fatturato 11 milioni di euro nella sola Spagna. Altri 800.000 euro sono arrivati dall’esportazione, di cui 653.000 dal mercato europeo. Per un totale di oltre 12,5 milioni di euro di fatturato. E con una stima di crescita del 10% sul 2011. Insomma, un’azienda che non conosce crisi in un’Europa che da mesi si è messa a fare i conti in tasca agli Stati più deboli dal punto di vista della sostenibilità del debito, l’Italia come la Spagna.

MARTÌNEZ SOMALO è un’azienda sana, con impianti di lavorazione e locali di stagionatura, il tutto distribuito su una superficie di 16.000 m2. Produce in media 390.000 pezzi di Jamón Serrano, dalla tipologia Reserva alla Reserva disossata, fino a quella che conserva l’osso della coscia posteriore del maiale: un suino bianco allevato rigorosamente nei confini del paese iberico, in buona parte nella stessa Rioja. Oltre al prosciutto di montagna, MARTÌNEZ SOMALO produce più di un milione di salumi tra Chorizo IGP Riojano, Salchichón Ibérico, Lomo, Lomito Embuchado e altre piccole specialità. Tutto sottoposto al know how di un’azienda centenaria e delle sue maestranze qualificate.

Stagionatura del jamón serrano: Pepe Martìnez Garnica, dell’azienda Martìnez Somalo, fa una prova organolettica all’olfatto (foto di Massimiliano Rella).

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Ma anche a una fitta ragnatela di controlli che fanno capo a certificazioni di processo e di prodotto, come la ISO 9001/2000, la ISO 14001:2004 di gestione ambientale; e ancora: il certificato di Specialità Tradizionale Garantita; la certificazione di produzione per celiaci; le regole produttive dell’IGP per il Chorizo Riojano e quelle del Consorzio del Jamón Serrano. Una montagna di burocrazia e vigilanza che comporta dei costi, ma anche il beneficio della garanzia. Giunta ormai alla quarta generazione, oggi l’azienda è guidata da Don Lino Martìnez Uruñuela e dai figli Juan José e José Martìnez Garnica (in Spagna il secondo cognome si acquisisce per linea materna). A capo della direzione commerciale c’è invece la manager Mercedes Rubio Pablo. I principali prodotti di Martìnez Somalo sono il prosciutto di montagna (Jamón Serrano) e gli insaccati Chorizo, Lomo e Salchichón. Jamón Serrano È un prosciutto che si ottiene con carni di maiali allevati in Spagna, alimentati in modo composto. Esistono diversi tipi di prosciutti spagnoli, differenti tra loro in base alle seguenti caratteristiche: la razza suina, il tipo di alimentazione, le parti del maiale impiegate, il metodo di lavorazione. Per fare un esempio: il prodotto di eccellenza è il Jamón Ibérico de Bellota, il cosiddetto patanegra, ottenuto dalle carni di maiali neri iberici, allevati allo stato brado e alimentati di sole ghiande.

Chorizo, classico salame spagnolo dell’Azienda Martìnez Somalo, di Baños de Rio Tobìa, in Rioja (foto di Massimiliano Rella).

Chorizo Riojano Igp Di origini antiche, la produzione del Chorizo Riojano Igp adotta ancora oggi peculiari tecniche di elaborazione e stagionatura tradizionali del territorio riojano. Nel XIX secolo, questo prodotto intraprese la via dell’industrializzazione con la comparsa delle prime aziende familiari. Le prime citazioni scritte risalgono al 1890, reperibili nell’Archivio Storico Municipale (Archivo Histórico Municipal), che fa riferimento ad una fabbrica di insaccati sita in Logroño e nel documento dell’avvocato e industriale Julio Farias, in cui si descrive il metodo di spedizione delle salsicce da La Rioja a Cuba. Inoltre, se ne trova testimonianza nell’opera del 1979 di Javier Herce Galarreta, che raccoglie numerosi articoli pubblicati nella Gaceta del Norte in cui si faceva riferimento al Chorizo Riojano, e nell’Inventario Español de Productos Tradicionales. La depressione economica degli anni Trenta del Novecento causò la chiusura di molti stabilimenti, rendendo Baños de Río Tobìa il principale centro di produzione, anche grazie al clima, secco e freddo, particolarmente adatto alla elaborazione di insaccati, che ne fa ancora oggi la città con maggior numero di aziende produttrici. Il Chorizo Riojano Igp va conservato in luogo fresco per mantenere inalterate le sue caratteristiche. Può essere accompagnato ad aperitivi, tagliato a fette di un certo spessore, o come ingrediente di piatti tipici. I piatti più rinomati sono il calderete, ossia patate con salsiccia, salsicce cotte al sarmento, panini ripieni di salsiccia chiamati preñaditos e minestre di verdura e salsiccia.

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Sugnatura o “stuccatura”. Dopo l’essiccazione per 5 mesi le forme perdono il 30% di acqua, poi vengono spalmate di grasso prima della stagionatura (foto di Massimiliano Rella). A cascata troviamo prosciutti di maiali alimentati in modo “integrato” fino al più economico Serrano, un prodotto più quotidiano, dal buon rapporto qualità/prezzo, che a seconda della materia prima e della capacità del produttore può assumere punte di qualità decisamente interessanti. Il Serrano viene ottenuto dalle zampe posteriori del suino. Con le zampe anteriori si può fare invece un prodotto simile chiamato paleta o paletilla. Abbiamo seguito il processo fase per fase nell’azienda MARTÌNEZ SOMALO, accompagnati e introdotti al mondo del Serrano dal giovane José, la quarta generazione del marchio di famiglia. La prima fase consiste nella salagione delle cosce per 10-12 giorni e nel lavaggio successivo in apposite macchine a “doccia”. La seconda fase consiste nella post-salagione: dura 5 mesi e i prosciutti vengono riposti in celle a una temperatura che passa gradualmente da 4 a 24 gradi centigradi. «In questo modo si ha una perdita di acqua del 30%», ci spiega José.

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La terza fase consiste nella stagionatura, da 5 a un massimo di 22 mesi, a seconda del prodotto. A seguire c’è la quarta fase della manipolazione, cioè la scotennatura e il confezionamento. Circa il 90% del prosciutto di MARTÌNEZ SOMALO viene fatto a pezzi e imbustato. I prezzi al punto vendita dell’azienda variano dai 6 euro al chilo per l’imbustato ai 9 euro al chilo per l’altro. Chorizo, Lomo e Salchichón Ibérico Il chorizo è un termine che indica vari tipi di insaccati e salsicce, solitamente a base di carne bovina o suina, speziati con paprica. Sono tipici della penisola iberica e delle ex colonie spagnole, da Portorico al Messico. In Portogallo si chiama chouriço. Possiamo trovarlo sotto forma di salsiccia fresca, da cucinare “prima dell’uso”, oppure essiccato, come fa l’azienda di Baños de Rio Tobìa. Il suo colore rosso sanguigno deriva dall’impasto di peperone rosso secco e tritato, che va a condire la carne e il grasso di suino macinati a grana medio-sottile.

In Messico, ad esempio, al posto della paprica viene aggiunto il peperoncino piccante. E al posto di un po’ di vino bianco, come si usa normalmente in Spagna, viene aggiunto aceto. Questo per indicare qualche variante internazionale di un insaccato che attraverso il colonialismo dei secoli scorsi ha fatto il giro del mondo. Ma solo quello Riojano ha ottenuto la IGP, il marchio europeo di indicazione geografica protetta. Il chorizo si può mangiare a fette, si può friggere o mettere sul barbecue (meglio, in tal caso, la versione fresca). Il salchichón, invece, è una specie di chorizo più grande e morbido, fatto senza l’aggiunta di paprica ma con granuli di pepe nero. Il lomo, infine, è una specie di lonza o lombata di maiale marinata, insaccata e stagionata, da mangiare a fette. Massimiliano Rella Azienda Martìnez Somalo Plaza Mayor 1 Baños de Rio Tobìa, La Rioja Tel.: +34 941 375030 Web: www.martinezsomalo.com

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Il nuovo coltello elettrico WHIZARD® 925M2 è stato progettato e costruito per la lavorazione del prosciutto stagionato nelle varie fasi, ma soprattutto per la pelatura del prosciutto in fase di disosso. Una serie di innovazioni permettono una maggior durata delle parti ed una maggior velocità nelle operazioni. L’impugnatura laterale supplementare permette l’impiego di entrambe le mani per una minor fatica e miglior resa dell’operatore, il dell’operatore di nuovo limitatore limitat taglio, di facile regolaun zione, permette permet risparmio ri isparmio notevole notevo dello sscarto sc aarto ed un tagli taglio netto dell la superficie per p della un m mi glior aspetto visivo. miglior

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La salumeria iraniana: prosciutto di pecora e insaccati di bovino firmati Gooshtiran Leader di mercato nella salumeria e nella produzione di piatti preconfezionati in questo Paese di oltre 70 milioni di abitanti, Gooshtiran è un’impresa gestita sotto la direzione generale di un ente statale e governativo che ha sede nei pressi di Teheran di Riccardo Lagorio

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a salumeria italiana si caratterizza, sintetizzando con un azzardo, per la preparazione di prodotti crudi e cotti. Modalità che il mondo apprezza a tal punto che la stima talvolta sfocia in plagio. Accade per la salumeria, ma esistono tristi esempi concreti anche nell’arte casearia o pastaia. L’autentica cultura alimentare persiana, la stessa che è stata al centro della diffusione delle spezie dal sud del Caucaso verso l’Europa ed ha propagato l’agricoltura nel Mediterraneo, è legata in maniera maniacale ai gusti acidi ed agrodolci che si sono rivelati utili per gli elementi nutritivi (come accade per la frutta e lo yogurt, ricchi di microcostituenti e vitamine) e la stessa salute (si tratta spesso di antisettici naturali. Piccoli limoni verdi sono onnipresenti nelle pietanze di fattura familiare, nelle minestre o negli stufati di carne, nella versione essiccata o in succo). Ma anche nella caratteristica doppia cottura del riso (che assume il termine di chelo se viene servito in bianco e polo qualora si ricuocia con altri ingredienti) risiede la volontà di eliminare l’amido in eccesso. Questo modello salutista della cucina prevede che le carni, di conseguenza i salumi, siano sempre (molto) cotte al momento del consumo. Leader di mercato nella salumeria e nella produzione di piatti preconfezionati

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in questo Paese di oltre 70 milioni di abitanti è Gooshtiran, un’impresa gestita sotto la direzione generale di un ente statale e governativo, che ha sede nella zona a Sud-ovest della capitale Teheran. Gooshtiran vide la luce più di cent’anni fa, nel 1908, grazie alla solerzia di un imprenditore dalle origini armene, Arezoo Man Avansian e di un suo connazionale, Liscensky, con il quale due anni più tardi creò la prima vera azienda iraniana di salumi, con una capacità produttiva di circa

50 kg giornalieri. Durante i primi anni di produzione, che avveniva con macchinari non convenzionali e con l’ausilio di soli 4 operai, venivano macellati mezza dozzina di suini e due bovini alla settimana. Dopo quarant’anni l’attuale Gooshtiran impiegava oltre 150 dipendenti e, sino al 1979, quando venne abolita tramite apposita normativa la possibilità di utilizzo di carni suine, l’azienda esportava parte della produzione di würstel e salsicce affumicate anche in Europa. Da allora si è sostituita la

Macchinario per l’impasto delle carni presso Gooshtiran.

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carne di maiale con quella di avicoli e bovini per la produzione di numerosi insaccati ma, soprattutto, per elaborare un raro prosciutto cotto di ovino. Le pecore vengono allevate al pascolo e, da buone camminatrici, sviluppano arti posteriori adatti per la produzione di prosciutto. Mahmoud Karim Nejad e Fatemeh Moghadam, i due maggiori tecnologi alimentari di Gooshtiran, rammentano che sono essenzialmente tre le razze utilizzate per la preparazione del prosciutto cotto di pecora, la Mehraban, la Khorasani e la Moghani, allevate nell’area intorno alla città di Ardebil, nell’Iran nord-occidentale. La pecora Mehraban è stata inizialmente selezionata nelle zone rurali della provincia di Hamedan per la doppia attitudine di produzione di carne e lana (utilizzata per la tessitura di tappeti) e oggi se ne contano circa 3 milioni di capi. Ha un’elevata propensione per i parti gemellari e la crescita di peso è buona. La pecora Khorasani è stata tra le prime razze addomesticate dall’uomo ed è conosciuta anche come Astrakhan, con il cui appellativo si ricordano anche i cappotti d’origine persiana poiché viene utilizzata la lana proveniente da tale pecora, a triplice attitudine. Il peso dei maschi adulti raggiunge con facilità i 70 kg e la popolazione rappresenta circa lo 0,5% di tutti gli ovini presenti in Iran. Di taglia di poco inferiore, la Moghani esprime l’ideale di crescita per ottenere il prosciutto: elevato muscolo, raggiungimento di 55-64 kg in circa 80 giorni, costo d’ingrasso contenuto, basso tasso di mortalità degli agnelli. Per ottenere il prosciutto cotto di ovino, le cosce degli agnelloni, opportunamente lavorate togliendovi il grasso più superficiale, vengono massaggiate con spezie (cannella, cardamomo e chiodi di garofano, nient’affatto pepe) e sale (pochissimo), rimanendo a contatto con gli aromi per 3 giorni ad una temperatura variabile tra 0 e 4°C. A seguire, passano nella sala di cottura, dove rimangono alla temperatura di 85°C per almeno 8 ore ed infine, una volta raffreddate completamente, nell’affumicatoio. Le parti anatomiche vengono posizionate su appositi ripiani forati che

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A sinistra: insaccato bovino. A destra: insaccato di bovino affumicato. permettono l’uniforme distribuzione del fumo, generato dalla combustione di legna di ciliegio ed albicocco. Il prosciutto così ottenuto, dal peso medio di 4 kg, va consumato entro tre mesi dalla produzione poiché non vi si aggiungono conservanti. È considerato un prodotto di lusso e la vendita avviene per lo più durante il periodo a cavallo del Nuovo Anno, il Norouz, che nel calendario persiano cade il 21 marzo. Il prosciutto possiede profumo spiccato di essenze legnose pregiate, appena si colgono al naso le spezie e su queste domina la freschezza del cardamomo. Affettato sottile o a coltello per apprezzarne meglio il gusto delicato, risulta equilibrato e tuttavia persistente nel suo ovino tratto essenziale. Banco di prova per studenti dei corsi di Scienze alimentari, stretta collaborazione con le Università e luogo di brevi periodi di tirocinio per il personale tecnico delle industrie alimentari, Gooshtiran è in possesso di certificati che provano la grande professionalità e responsabilità del personale nelle fasi produttive (ISO 9001), anche grazie all’utilizzo di moderni macchinari. È soggetto a frequenti controlli periodici da parte del Servizio di controllo veterinario e dell’Organizzazione per il monitoraggio e controllo sui generi alimentari. Oltre il prosciutto di pecora affumicato, almeno sessanta referenze ne caratterizzano la produzione: dagli insaccati (sempre di carne bollita, simile a würstel con parti più o meno integre

di carne) di bovino (il 50% è di provenienza iraniana, il resto, in omaggio alla regola aurea della globalizzazione, proviene da India e Brasile), a quelli di pollo (con aggiunta di verdure o funghi, paprica o formaggio per rendere più gustoso il prodotto finale), ai nuggets di varie simpatiche forme e gusti (anche gamberetti, che provengono dal Golfo Persico) adatte al consumo da parte dei bimbi o nelle friggitorie, ai bocconcini di kebab già pronti per l’uso da mettere nel forno a microonde o preparare veloci sulla griglia. Proprio tra i numerosissimi riconoscimenti, l’attenzione alle nuove tendenze del mercato ha valso a Gooshtiran il premio come migliore stabilimento d’Iran da parte dell’Istituto per le ricerche Industriali nel 2008, mentre la stretta osservanza al codice dei diritti dei lavoratori ha valso nel 2006 un Attestato di merito da parte del relativo Ministero. Testimonianze che fanno di Gooshtiran un leader non solo sotto il profilo di marketing, ma anche nelle relazioni industriali. Riccardo Lagorio Gooshtiran 17th. Shahrivar St. in Shadabad Area Old Karaj Road Teheran Telefono: 0098 21 66807786-7 Web: www.gooshtiran.com Nota Si ringrazia la PROF.SSA AZADEH ASGARI per il servizio di traduzione durante la visita a Gooshtiran e del materiale promozionale concesso dall’azienda.

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Premiate Salumerie Italiane F.lli Borin: una vita in viale Umbria

Questo splendido quarantenne A gennaio sono state 41 le candeline spente dalla storica salumeria milanese. Fedele ai suoi marchi, con Negroni e Cav. Boschi sugli scudi nel reparto affettati, più la galantina di produzione domestica, ha il suo punto nevralgico nella gastronomia, cucinata nel laboratorio retrostante il bancone. Sette dipendenti affiancano i fratelli Dino e Adriano garantendo un catering a tutto tondo di Fabio Butturi

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arà la circonvallazione esterna, il secondo anello concentrico rispetto alla cerchia dei Bastioni a Milano, sarà il capolinea della 90/91, il filobus che solca la circolare, ma al civico numero 5 di viale Umbria sembra di essere in piena zona uno. Il merito è da ascrivere ai fratelli Borin, Dino

e Adriano, che il primo gennaio del 1971 hanno inaugurato la salumeria entrata nelle consuetudini dei milanesi. Dai 35 metri quadri dell’apertura, la superficie è lievitata nel 1995, allargandosi di oltre quattro volte; da allora l’attività si sviluppa in circa 150 metri, equamente distribuiti nella “bottega”, riservata all’esposizione e

alla vendita, e nel retro, destinato al laboratorio. Perché la vocazione della “bottega” dei fratelli Borin è da sempre quella della gastronomia e ora più che mai si conferma fornitore a 360 gradi di utenti privati come di operatori professionali. Il banco centrale non tradisce l’impronta delle origini, monopolizzato dal reparto salumeria,

Dino Borin mostra il maxi-cotechini del Cavalier Boschi.

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con la batteria al completo di prosciutti crudi, Parma e San Daniele, penzolanti a scopo coreografico o alloggiati su due ripiani, a portata di Berkel, l’inconfondibile distintivo rosso e cromato delle salumerie di un tempo. Di seguito le coppe del Ducato, quella di Zibello e la piacentina, si rimane in terra parmense con il culatello e con la bresaola punta d’anca si torna invece abbondantemente al di qua del Po. Transitando verso i ripiani sull’ala destra del negozio, ci s’imbatte sulla morsa dedicata al Jamón serrano del consorzio Real Ibérico. Ma è proseguendo sulla “linea aerea” che si può ammirare la galantina, un insaccato di parti nobili del vitello come punta e spalla, che viene farcita con tartufo nero e pistacchi. La galantina rappresenta il fiore all’occhiello della salumeria, essendo un prodotto lavorato artigianalmente direttamente dai fratelli Borin; una primizia che è valsa il riconoscimento del CAPAC (Politecnico del Commercio). A banco non è da meno la scelta dei formaggi, con un occhio di riguardo della clientela per il Castelmagno, la fontina, i provoloni, le tome, i formaggi di fossa e quelli aromatizzati al tartufo e le delizie piemontesi come il Testùn alle vinacce di Barolo. Tra i marchi che compongono il firmamento dei Fratelli Borin la stella di Negroni (e in questo caso il richiamo al jingle pubblicitario non è casuale) brilla con particolare intensità, come possono dimostrare gli attestati di benemerenza del marchio di Cremona che fornisce, tra gli altri, coppe di Zibello e culatelli (dal salumificio nella cittadina della bassa parmense). Non difetta certamente né in termini di volumi all’interno del negozio né in termini di blasone nemmeno la Cavalier Umberto Boschi, da Felino, che confeziona i cotechini in esclusiva per la salumeria gastronomia milanese. E se le verdure arrivano direttamente dall’Ortomercato, la carta dei vini soddisfa i palati più esigenti, con una rosa di produttori tra cui spicca la Cantina Valtidone, che ha assegnato un riconoscimento ai fratelli Borin alla festa del vino Novello. Anche nella rassegna degli ortaggi va però fatta qualche eccezione rispetto alla

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In alto: Jamón serrano del consorzio Real Ibérico. Al centro: cotechini del Salumificio Beretta Vittorio. In basso: tra le varie prelibatezze, dal laboratorio della bottega dei fratelli Borin esce la pasta fresca.

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In alto: galantina di vitello, il pezzo forte della bottega e lingua di vitello. In basso: bresaola coppa di Zibello, coppa piacentina e coppa di Parma. linea privilegiata con l’Ortomercato, come quella relativa a funghi e carciofi, che vengono coltivati direttamente dai gestori, per essere trasformati nel laboratorio retrostante il bancone. La “tavola imbandita” presenta un assortimento completo. Tra i piatti freddi più in voga ci sono i vari paté, in prima battuta quello di foie gras, le insalate russe e quelle tartare, elaborazioni di selvaggina, e il marbré di lepre, un piatto tipico della tradizione lombarda. E, a proposito, non poteva certo mancare la cassoeula, che fa la sua apparizione il mercoledì e il sabato, al pari della trippa. Restando nei paraggi del costume culinario meneghino, il sabato sono disponibili anche gli ossibuchi. E c’è naturalmente spazio per il pesce, in quella che

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è forse la città più marinara d’Italia, pur senza nemmeno l’ombra del mare: il venerdì sono almeno una ventina le varietà esposte e cucinate, come il baccalà, preparato alla vicentina o mantecato. Per descrivere la pasta fresca prende la parola direttamente Giacomo Martini, che tra i nove membri dell’equipaggio, compresi i titolari, si occupa della Dominioni, la trafilatrice per la pasta laminata, e della Parmigiana, la raviolatrice per i tortelli di zucca, tortellini, o ravioli ai funghi, ai carciofi, alla borragine (come i pansoti liguri), con la carne d’oca o altro ancora, come gli gnocchi di patate, preparati con l’apposita “gnoccatrice”. I quintali di pasta che escono dal retrobottega (ogni macchina ha una portata al massimo regime

di 60/65 kg all’ora) sono realizzati con farina di grano duro al 70%, uova e la rimanente parte di farine di grano tenero. Martini si occupa anche della lavorazione dei carciofi e dei funghi “domestici”, scottati in acqua e aceto e conditi alla bisogna. Paolo Raimondo è invece il mago dei cocktail. Perché da quando il termine inglese catering è diventato di uso comune, anche i Fratelli Borin hanno declinato il sostantivo e l’hanno fatto compilando un menu all inclusive. Per una clientela che spazia dai privati agli studi fotografici, da istituti di credito ad ASSINDUSTRIA MILANO e ad alcuni uffici comunali, la personalizzazione della proposta alimentare è una sicura leva di marketing. E se “il pranzo — o la cena — è servito” dall’antipasto al dessert, perché far mancare il beverage? È a questo punto che si illumina la creatività di Raimondo, specializzato nella personalizzazione, che prevede anche l’eventuale connotazione cromatica delle bevande. Il segreto è utilizzare solo purea di frutta per conferire un tono omogeneo a seconda del colore aziendale o dei desiderata (l’ultimo catering è stato integralmente verde, per esempio). Non tramontano mai la vodka e il Martini, che restano i più gettonati nelle scelte dei clienti e vengono proposti, come per qualsiasi cocktail, in versione dolce e dry. Al lombardissimo Eugenio Brambilla spetta un duplice ruolo. Come naturale continuatore del lavoro del collega Martini, si dedica alla preparazione dei primi piatti. Ma la nota più dolce proviene dalla seconda mansione, quando mi indica le crostate di albicocca e di frutti di bosco in quel momento esposte e le torte di mele o di pere a impasto morbido. Cambiando vetrina, le altre creazioni di Brambilla sono i dolci al cucchiaio, preparati rigorosamente con albumi d’uovo, senza colla di pesce, coloranti o tuorli d’uovo pastorizzati, dal mascarpone a crème caramel e panne cotte, e le torte col pan di spagna, fino alla Saint Honoré, su richiesta. Nel caso aveste ecceduto, nel conto sono compresi anche gli ammazzacaffè, a partire dall’assortimento di grappe. Fabio Butturi

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Locali di gusto A Faenza, non solo piadina

‘O Fiore Mio: ingredienti eccellenti per pizze speciali di Gaia Borghi

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inquanta coperti e 15 pizze, cinque “classiche”, cinque “della tradizione”, cinque “di stagione”, una delle quali firmata da un grande chef del territorio; una selezione di salumi e formaggi accuratamente scelti tra i presidi Slow Food e il meglio delle produzioni locali e italiane certificate. Il tutto servito con cura e attenzione al piano terra di uno stabile primo ‘900, un ex-forno ristrutturato ai margini del centro storico di Faenza. Così si presenta la neonata creatura (l’ouverture è datata 28 ottobre 2011)

di Davide Fiorentini (da cui il nome stesso del locale), titolare dell’omonima storica pasticceria-gelateria cittadina, più volte balzata agli onori delle cronache “gastronomiche” per i tanti premi ricevuti dalla critica specializzata (ultima in ordine di tempo l’elezione a “miglior Bar di Faenza” con 3 tazzine e due chicchi sulla Guida ai Bar d’Italia del Gambero Rosso 2012) e dai cui laboratori escono anche i gelati, i semifreddi, le torte e i sorbetti artigianali con cui il cliente del nuovo locale può chiudere il pasto in “dolcezza”. Con-

siderata nel mondo uno dei simboli indiscussi del nostro Paese, la pizza è forse il cibo più amato e “mangiato” dai nostri connazionali, di qualsiasi età. Decisamente democratico, è uno di quei comfortable food in grado di “consolare” chi lo gusta e riscaldare l’atmosfera di una serata più o meno informale. Ma, perché c’è un ma, la pizza, soprattutto in Italia, deve essere prima di tutto buona, cosa che non sempre avviene. Colpevoli, spesso, ingredienti di scarsa qualità e errata lievitazione. Davide Fiorentini sembra aver scelto una strada diversa...

Materia prima eccelsa significa salumi di elevato valore, sostiene Davide Fiorentini. Per la pizza ’O Fiore Mio, una delle pizze più vendute nel locale, ad esempio, solo prosciutto di Parma 24 mesi selezione S. Ilario.

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Da “pasticcere” a “pizzaiolo“. Come è nato il desiderio di tentare questa nuova avventura? «La pizza è sempre stato il mio piatto preferito. Allora mi sono detto: se mio padre ha avviato con successo una pasticceria, anch’io devo realizzare il sogno che ho nel cassetto. Voglio aprire una pizzeria. Non è stato facile. Con caparbia, impegno e i giusti collaboratori sono riuscito ad aprire ’O Fiore Mio, che è un gioco di parole e una banalità al tempo stesso. Gioco di parole perché a Faenza il mio soprannome è Fiore; banalità, perché molte pizzerie nel mondo si chiamano ’O Sole Mio». Quali sono le caratteristiche delle vostre pizze? «Sono realizzate con farine ottenute da cereali biologici macinati a pietra. Per ogni stagione realizziamo 3 impasti diversi. Siamo partiti con farro e grano spezzato, grano tenero e kamut. Utilizziamo solo il lievito madre ed effettuiamo la cottura in forno a legna. Le pizze sono tagliate in 8 spicchi, dopodiché alcune vengono farcite al momento, come nel caso della Margherita, con pomodoro San Marzano, mozzarella Fior di Latte a crudo e basilico; altre non vengono condite o decorate perché nascono per una cottura in forno completa. È il caso della pizza con salsiccia e friarielli. L’obiettivo è esaltare il gusto delle materie prime. Sono pizze altamente digeribili perché l’impasto subisce una lunga maturazione: dalle 24 alle 48 ore a seconda degli impasti. Non voglio dimenticare che con tutte le nostre pizze suggeriamo degli abbinamenti con i migliori oli extra vergine di oliva italiani. Gli oli di oliva sono eccellenze alimentari che nemmeno gli chef più affermati considerano nella loro cucina. Figuriamoci i pizzaioli. Noi siamo stati i primi a introdurre questa novità e speriamo di essere copiati. Personalmente non ne posso più di trovare in ristoranti e pizzerie oli scadenti o difettati». Parlando di salumi, che solitamente nelle pizzerie “classiche” non brillano certamente per l’eccelsa qualità, avete optato per una scelta particolare?

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Il logo della pizzeria ’O Fiore Mio. «Sì, indubbiamente. Materia prima eccelsa significa salumi di elevato valore. Per la pizza ’O Fiore Mio, una delle nostre pizze più vendute, con burrata fresca di Andria, utilizziamo un prosciutto di Parma 24 mesi selezione S. Ilario, a nostro parere il miglior produttore di Parma e provincia. Nella Diavola, con pomodorino del Piennolo, utilizziamo un salame piccante realizzato assieme al nostro macellaio di fiducia, Gilberto Montanari. Nella Capricciosa, invece, acquistiamo un prosciutto cotto in forno da Cura Natura, ottenuto da suini allevati con metodiche naturali e rispettose della salute degli animali. Infine, con le nostre focacce proponiamo una selezione di salumi di Mora Romagnola, prodotti tra l’altro dal nostro pizzaiolo che è anche allevatore, Giuseppe Merlini di Purocielo». Questa grande attenzione al discorso della qualità vale anche per quanto

riguarda le bevande (vini, di più arduo abbinamento forse, e birre in particolare)? «Non è vero che il vino sia di difficile abbinamento con la pizza, anzi. LUIGI VERONELLI 36 anni fa sosteneva il contrario, proponendo l’abbinamento con un vino bianco tipico dell’area campana, l’Asprino. Di recentemente abbiamo poi partecipato ad un happening pizza-vino assieme a molti giornalisti enogastronomici assai famosi: l’abbinamento vincitore è stato con un noto Lambrusco di Sorbara. Davvero un abbinamento fantastico. Alla Pizzeria ’O Fiore Mio proponiamo infatti sei vini e sei birre che variano quattro volte l’anno così come le pizze. È vero, tuttavia, che in Italia è ormai tradizione consumare la pizza con la birra. Noi suggeriamo sei birre: tre alla spina e tre in bottiglia, tra artigianali e industriali. Parlando di birre artigianali, abbiamo avviato una collaborazione speciale con un piccolo birrificio locale che è anche

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Con le focacce viene proposta una selezione di salumi di Mora Romagnola prodotti da Giuseppe Merlini. azienda agricola, La Mata, che produce in casa tutto l’occorrente per la produzione della birra: l’acqua, il luppolo, l’orzo e i lieviti. Un’esclusiva alla spina che ci distingue e che inorgoglisce lo stesso produttore». Come e da chi è composta la “brigata” del locale? «Ovviamente il sottoscritto. Apprendista in ogni settore. Almeno per quest’anno sarò presente in pizzeria tutti i giorni poi nel futuro si vedrà. Inoltre, abbiamo un Maestro Pizzaiolo esperto nella lavorazione del lievito madre, Beniamino Bilali. È stato uno dei primi a ripensare la pizza partendo dal lievito madre. È colui che ha avviato la pizzeria O’ Malomm a San Patrignano. Abbiamo un esperto pizzaiolo che è anche un allevatore e produttore di salumi di Mora Romagnola, Giuseppe Merlini. Infine, due giovani ragazzi che stanno imparando il mestiere». Il cliente ideale? «Il cliente che preferiamo è colui che si lascia guidare nel percorso di degustazione che suggeriamo. E quasi tutti si lasciano convincere con piacere. La nostra è un’offerta piuttosto rigida: 15 pizze, 6 birre, 6 vini, 1 primo piatto e una selezione

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accurata di salumi e formaggi. Nessuna variazione sul tema». Dalla data dell’apertura (anche se non è trascorso ancora molto tempo), può dirsi soddisfatto? «Dico la verità, non credevo davvero che il progetto riscuotesse così tanto successo. Il locale è piccolo ma per trovare posto occorre prenotare con 3/4 giorni di anticipo. Ogni sera siamo costretti a mandare via una ventina di persone e dobbiamo organizzare la cena con tre turnazioni. Sono felice perché i clienti hanno capito il messaggio della nostra pizza. Speriamo che in primavera e in estate si possano aumentare i coperti utilizzando il giardino pubblico davanti al locale». Per la prima volta sul palco di Enologica-Salone del Gusto dell’EmiliaRomagna i qualità di relatore. Come è andata? «Un’esperienza bellissima. Enologica è da anni la più bella manifestazione enogastronomica dell’EmiliaRomagna tanto che Massimo Bottura ha fatto proprio a Faenza la sua prima uscita pubblica dopo aver meritato le 3 stelle Michelin. Per noi è stato un onore essere invitati assieme ai migliori cuochi del territorio in questo

prestigioso palcoscenico. Poi è stata la prima volta che hanno invitato una pizzeria. La pizza eletta a protagonista come merita. Abbiamo proposto la nostra pizza Margherita come omaggio al tema dell’Unità d’Italia, la pizza Dagli Appennini al Vesuvio, per rispettare il tema dell’edizione 2011, ispirandoci ad una frase di J.L. BORGES: “Nessuno è la patria, tutti insieme lo siamo”. Una pizza con pomodoro del Piennolo, Parmigiano Reggiano di montagna e scalogno di Romagna». Per finire, qual è il segreto della pizza perfetta? «Nessun segreto. Noi crediamo nel lievito madre e nel forno a legna. Tuttavia, rispettiamo anche chi la pensa diversamente. È fondamentale l’eccellenza delle materie prime, che per noi significa ad esempio cereali bio macinati a pietra, i San Marzano di Terra Amore e Fantasia, una mozzarella Fior di Latte che arriva fresca 3 volte alla settimana da un piccolo caseificio artigianale di Andria, un grandissimo prosciutto di Parma S. Ilario 24 mesi o l’origano intenso e profumatissimo che arriva dall’isola di Salina». Gaia Borghi >> Link: www.ofioremio.it

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Turismo enogastronomico

“Sei proprio un salame”: la Cascina Caremma tra filiera corta ed elegia rurale

Quando la cultura del territorio non è solo uno slogan di Fabio Butturi

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asta girare l’angolo di quel condominio in zona San Cristoforo, nel capoluogo meneghino, percorrere qualche chilometro e si rivela un insospettabile angolo di campagna praticamente intatta, a ridosso della

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Lomellina. Per la precisione nel territorio di Besate, accogliente comune di appena duemila anime, è censita la Cascina Caremma. Seguendo le indicazioni per il Parco del Ticino ci si imbatte in un complesso colonico sfumato dalla foschia e disegnato nel

più schietto layout rurale delle cascine lombarde. In questa struttura, il 16 novembre 2011, si è tenuto il seminario conviviale dal titolo “Sei proprio un salame!”, 13ª edizione delle serate a tema gastronomico organizzate da GABRIELE CORTI, il titolare dell’azienda

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agrituristica insediata in prossimità dell’argine del Ticino. Anteprima di “Abbiategusto”, consumata per celebrare il crepuscolo della stagione agricola, cessati gli arnesi e la raccolta, ha visto prendere la parola, oltre al padrone di casa, i gestori delle cascine Bullona, Cirenaica e, fresca conoscenza di PREMIATA SALUMERIA ITALIANA, dell’Oca di Sant’Albino, della famiglia Gallina, che ha difeso la causa degli insaccati d’oca e degli avicoli in genere.

Dopo la degustazione di gnocchetti di castagne con guanciale, proiezione di foto a tema (rurale e salumiero, s’intende. Quest’anno, come si evince chiaramente, la materia del discorrere si è focalizzata su “La salumeria”), e ancora protagonista la tavola, con bottaggio di verze e verzini, mortadella di fegato e polenta, mentre l’epilogo è stata la rievocazione della tradizione dei “masular”, i norcini dell’Est Ticino, con un tributo alla memoria di Elio Sgarella.

Scomparso di recente, Sgarella è stato l’inossidabile sodale di Gabriele Corti nella saga della Caremma, con una biografia professionale scritta a quattro mani nel corso di trent’anni di servizio. Dai due maiali macellati agli esordi, adesso sono un centinaio i capi di bestiame incrocio Large White che grufolano liberamente nello spazio certificato secondo il verbo del bio. Verbo che dal 2005 predica la filiera corta anzi, cortissima, e la produ-

In alto: bovini, razza Fassone. In basso: suini allo stato brado alla Cascina Caremma.

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zione in loco di cereali e di proteine senza sostanze chimiche di sintesi. E, come anticipato, corretti rapporti dimensionali tra le bestie e il loro spazio di vita. La superficie stabulativa, in pratica l’area ricreativa degli animali, rispetta infatti i parametri di legge nella percentuale di terreno pro capite. Peculiare della Cascina Caremma è il tipo di rotazione cui sono soggetti i pascoli: diviso da una recinzione, il terreno si presta all’accoglienza dei suini allo stato brado, mentre l’altra metà viene coltivata a mais. Il rapporto si inverte l’anno successivo, con la superficie calpestata e concimata dagli animali che viene riservata alla semina. E dei maiali, come da manuale, non si butta via niente: coppe, lonze, pancette e pochi prosciutti, 4 o 5 all’anno, da godere per Capodanno e per Pasqua. Tra i cotti i cotechini e il sanguinaccio, retaggio di una società rurale ormai consegnata agli annali di storia. Tra i macinati i salamini, la mortadella di fegato stagionata, il salame crudo, il crespone, salume autoctono con una percentuale del 10-15% di reale di manzo, la bogia, o “mulèta”, insaccato nella vescica, dalla lunga stagionatura, per farsi trovare affettato verso ferragosto, e il “salsisòn”, prodotto tipicamente padano, insaccato nel cosiddetto budello gentile, l’intestino crasso del maiale. I locali adibiti alla stagionatura si trovano nella Casa dei Famigli, l’antica abitazione dei mungitori, dalle cui travi di abete penzola il fior fiore del maiale raccontato in queste righe. Se all’ingresso dell’azienda agricola, all’altezza del parcheggio, si possono ammirare gli spazi suinicoli all’aperto, poco avanti, sul fronte opposto si stagliano le stalle per i bovini, razza Fassone, sacrificati sull’altare della tavola nella misura di dodici all’anno. Razza Piemontese, del resto il Monferrato dista in linea d’aria appena 28 chilometri, e i muggiti non sono l’unica similitudine con quel territorio. Alla Caremma, infatti, tre anni or addietro sono stati impiantati da Gabriele Corti dei vigneti di Freisa,

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Il seminario conviviale dal titolo “Sei proprio un salame!”, tenutosi il 16 novembre alla Cascina Caremma. ancora in fase sperimentale di vinificazione. Questa iniziativa prende spunto da una ricerca filologica, che ha scovato la presenza di quel vigneto in mappe catastali del ‘600 e del ‘700 e rintracciabile fino alla fine del XIX secolo. Addirittura, secondo il catasto teresiano (implacabile, da tradizione austro-ungarica, nel setacciare per il fisco i beni di proprietà), il vino ha rappresentato il secondo prodotto di Besate in termini di peso. E, a proposito di peso, attualmente alla Caremma si imbottigliano 1.500 bottiglie di Mès e Mès (metà e metà, Ndr), il più gettonato, vinificato per metà del tempo in botte di acciaio e per metà in botte di legno, e degli altri due o tre derivati dalla Freisa. In aggiunta, oltre 40 etichette, spesso menzionate nel CRITICAL WINE dell’indimenticato Luigi Veronelli.

Tutti i prodotti, salumi e vini, ma non bisogna scordare la birra, fermentata con orzo distico coltivato a Besate, direttamente nei confini dell’azienda, e birrificata dall’Officina della birra di Bresso, col marchio della Caremma sull’etichetta (Birra del Ticino), sono disponibili presso lo spaccio, dal lunedì alla domenica nella fascia oraria tra le 10 e le 20, e presso un circuito selezionato di botteghe e soprattutto di gruppi di acquisto solidale. Ma la dispensa non finisce qui. Non è un caso che l’orzo sia domestico e il birrificio disti meno di 40 chilometri, come per tutti i fornitori dei formaggi e degli ortaggi non trasformati o coltivati in loco. Se dovessimo scomodare un parolone da filosofi, la Weltanschauung (o “visione del mondo”, agroalimentare, aggiungo io) di Gabriele Corti è

“Immersa nel Parco del Ticino, Cascina Caremma si propone come punto di equilibrio per donare benessere al palato e al corpo. Circa 100 maiali allevati open air vengono trasformati ogni anno secondo le ricette della tradizione, insieme alle mucche fassone, per allietare i commensali al ristorante o essere venduti allo spaccio o nel circuito gas, insieme a vino, birra, farine, conserve, marmellate...” 83


Tutti i salumi della Cascina Caremma, compresi i tipicamente lombardi bogia e salsisòn, sono disponibili nello spaccio aziendale, insieme a formaggi, farine, marmellate, conserve, birra e vino. Tra i più gettonati, il Mès e Mès. l’ortodossia della filiera corta. Così corta da essere a chilometro zero, come nel caso degli insaccati, delle carni suine e bovine, del vino, del riso (il primo a marchio “Parco Ticino”) e delle farine. Il frumento della Cascina è macinato a pietra nel mulino ad acqua dei Fratelli Biava di Abbiategrasso, a una manciata di chilometri, così puro e indenne da alterazioni termiche da rifornire la catena di pizzerie bio milanese Ecopizza. Sono farine di grano tenero di tipo 0 e di tipo integrale, di mais da polenta e di segale.

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Al capitolo riso, l’ubertoso terreno della Caremma riserva una sorpresa: non è il carnaroli a monopolizzare le risaie, ma l’arborio, riso superfino dal chicco più consistente, che richiede cura nella cottura, regalando, però, soddisfazione al palato se fatto mantecare con riguardo. È prevista anche la declinazione integrale, peraltro non così comune, consigliata per interpretazioni macrobiotiche e pratiche dimagranti (e depurative). Proseguendo nella filiera alimentare, la Caremma si compone anche

di un ettaro di bosco che non regala solo passeggiate bucoliche ma pure i suoi frutti, che si trasformano in 4 o 5 tipi di confetture, che sugli scaffali dello spaccio e sui tavoli del ristorante si accompagnano ai prodotti dell’orto, in forma di melanzane sottolio e giardiniera. A proposito di ristorante, rifornito dai 36 ettari a rotazione quadriennale, che oltre ad allevamento, cereali e riso sono dedicati a leguminose e borlotti di Vigevano, assorbe l’intera trasformazione della carne bovina e tanta parte del “made in Caremma”,

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vantando la certificazione della Provincia di Milano che riconosce il 69% di origine domestica tra gli ingredienti utilizzati in cucina. Basta dare una scorsa al menu dicembrino (la lista varia in base alla disponibilità stagionale delle materie prime) per prenderne atto: dal pane casereccio, lievitato e cotto con le farine macinate dai Fratelli Biava, all’immancabile tagliere di salumi, a parte è il salame di testa su letto di insalatine, risotto con salsiccia e cavolo nero, zuppa di legumi o i pizzoccheri di farina di segale. Per i secondi, le costine di maiale alle prugne, coppa di maiale al forno e

il rotolo d’anatra. Non compare nel mese delle abbuffate ma rappresenta un must, autentica espressione del territorio, il pan mejin, o pan meino, dolce che miscela farine (mais, grano tenero integrale e tipo 0), zucchero, burro, uovo e Marsala e li sostanzia in questi biscottini spolverati di zucchero a velo. Il modello Cascina Caremma non è rimasto confinato nel cuneo tra Milano, Pavia e il Piemonte: il 15 settembre del 2011 una delegazione del Parlamento tedesco ha fatto visita a Gabriele Corti per prendere contatto de visu con questa oasi immersa nella quiete della campagna, che oltre alla

dimensione enogastronomica si prende carico del ricovero degli avventori, nelle 14 camere situate nelle stanze dei braccianti, e del benessere fisico, con la SPA. Fabio Butturi Cascina Caremma Strada per il Ticino 20080 Besate (MI) Telefono: 02 9050020 E-mail: info@caremma.com Nota In foto a pag. 79 Gabriele Corti, titolare dell’azienda agrituristica Cascina Caremma.

Quando il benessere non passa solo dalla pancia Cascina Caremma è dal 1989 molto di più di un casolare ristrutturato dove si conservano i sapori di un tempo. Premiata dall’ISNART (Istituto Nazionale Ricerche Turistiche) in collaborazione con UNIONCAMERE “per l’impegno profuso nella ricerca della qualità” — l’ambito riconoscimento è stato consegnato a Gabriele Corti, fondatore di cascina Caremma, nel corso dell’edizione 2010 di AGRI@TOUR, salone nazionale dell’agriturismo svoltosi ad Arezzo il 12-13-14 novembre 2010 — ha infatti sposato la formula dell’agriturismo con alloggio. Sono 14 le camere, vista boschi, che ospitano circa il 10-15% di turisti stranieri, che da qui si trovano immersi nel Parco del Ticino, in posizione baricentrica tra Milano, la meravigliosa Piazza di Vigevano e la Certosa di Pavia. La maggioranza degli ospiti però, sono, come dire, coerenti alla filosofia del “corto raggio”. Generalmente, non macinano più di una trentina di chilometri, per cercare un momento di relax agreste, magari avvalendosi delle audio-guide, addirittura in tanti si concedono una semplice giornata di fuga dallo stress milanese, pagando il pacchetto che gli consente lunghe camminate, saune e bagni turchi e lauta cena. Perché se gli operatori zoo-agricoli strictu sensu della Cascina sono tre, salgono complessivamente a tredici gli addetti tra ristorazione e centro benessere. Nei 500 m2 della SPA non ci si limita ai canonici bagno turco e sauna, ma sono contemplati doccia scrub, percorso Kneipp, water walking, cromoterapia e altro ancora. E se non bastasse si possono richiedere massaggi olistici, shiatsu, esfolianti, aroma terapeutici… E prima di fare ritorno al parcheggio, all’interno dello spaccio alcuni scaffali espongono la linea di cosmesi, sviluppata nei laboratori di aziende del settore con erbe coltivate (o spontanee) e piante officinali della Caremma, tra cui il lavandino, un ibrido naturale di lavanda officinalis e lavanda spica, da cui ricavano oli ed essenze.

A sinistra: una delle stanze. A destra: la piscina del centro benessere.

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PROSCIUTTIFICIO IL CONTE S.p.A. Via S. Ambrogio, 1 43020 BAZZANO PARMENSE (PR) - Comune di Neviano degli Arduini Premiata Salumeria Italiana,1/12


Pomerania: una terra per buongustai tutta da scoprire di Massimiliano Rella

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a Pomerania, a nord della Polonia, è una regione di sapori “mari e monti”. Bagnata dalle coste del Baltico, e attraversata da vari fiumi, ha una gastronomia locale con un’interessante offerta di pescato, sia d’acqua dolce che salata. È anche terra di vasti boschi, una miniera di funghi e bacche selvatiche, che i migliori chef riutilizzano in gustose ricette. Siamo tornati in Polonia a pochi mesi dagli Europei di calcio 2012, che accenderanno i riflettori sulla locomotiva dell’Est, un Paese ancora poco conosciuto ma sorprendentemente carico di cultura, arte, gastronomia. Il Voivodato della Pomerania ha come capitale Danzica, la città delle lotte operaie di Solidarność e del suo leader Lech Wałęsa che, a fine anni ‘80, misero fine ai duri e grigi anni del comunismo. Danzica (Gdansk), per chi fosse interessato, è una città “da camminare” con lentezza, tante sono le curiosità che sfilano sotto gli occhi. Imperdibile una passeggiata lungo il canale dove alloggia da secoli la fa-

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mosa Gru medievale, una gigantesca leva che veniva usata per pesare il carico di merci trasportato via fiume o via mare. Il nostro primo incontro gastronomico è con il pesce di ARTUR MOROZ, chef del ristorante Bulaj, di Sopot, la “Riccione” del Baltico, una frequentata cittadina di mare a 20 minuti dalla capitale. Qui in estate migliaia di persone popolano le spiagge per una tintarella, altrettante assistono a spettacoli di artisti di strada, siedono per un caffè, passeggiano lungo Franciszka Mamuszki, il viale alberato che costeggia le spiagge. Moroz è uno chef poco più che trentenne che da otto anni gestisce con filosofia slow food un piccolo ristorante, impiegando il più possibile ingredienti freschi, locali e di stagione. In frigo tanti pesci del Baltico e d’acqua dolce, comprati da pescatori di fiducia: tinche, anguille, storioni, salmoni, siluri, abramidi, aringhe. Grazie al delta della Vistola il golfo di Danzica ha una bassa salinità così molti pesci d’acqua dolce, come luc-

cio e carpa, finiscono per nuotare in mare, senza allontanarsi troppo dalle coste. Se dunque proverete un siluro arrosto con salsa di erba brusca, o l’anguilla affumicata con funghi gallinacci, andrete sul sicuro (conto 70 zloti, circa 18 €, www.bulaj.pl). Dopo una camminata sul molo di Sopot per riprendere fiato, o un caffè come si deve al Piccolo Byron, un cafè-gallery con esposizione di opere d’arte, possiamo prendere un aperitivo nell’elegante Grand Hotel, del gruppo Sofitel, prima di passare decisamente a cena nelle raffinate sale del suo ristorante interno, l’Art Decò. Un nome che non tradisce le aspettative di quegli ospiti alla ricerca di gusto ed eleganza in un colpo solo. In questo spazio sono passati alcuni dei personaggi più famosi della terra: Fidel Castro, Charles de Gaulle, Greta Garbo, Marlene Dietrich, Omar Sharif. La cucina propone specialità polacche ricombinate con prodotti internazionali, piatti come la crema di asparagi bianchi con olio tartufato;

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In alto: zuppa all’ambra, una specialità di Andzej Tawniczak. In basso: zuppa di carote, con brodo di gallina, pezzetti di gallina bollita, patate, panna acida e aneto del ristorante Karczma Wygoda.

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lo zurek — famosa zuppa polacca — con uova di quaglia e salsiccia bianca; l’halibut in salsa di noccioline, con finocchi, pomodorini, patate novelle; o il salmone piccante su pak choi con salsa orientale e coriandolo. Il conto di appena 25 € (100 zloti) è addolcito dal cambio molto favorevole. Un altro prodotto del mare è l’ambra, una resina fossile molto diffusa sul Baltico per la presenza di numerose conifere. Usata per oggetti della casa, soprammobili e soprattutto gioielli, mai avremmo pensato che potessimo mangiarla. Ebbene sì, abbiamo assaggiato una delicata zuppa all’ambra cucinata per noi a titolo divulgativo-promozionale da ANDZEJ TAWNICZAK, chef e direttore dell’Accademia Culinaria della Pomerania (Pomorska Akademia Culinaria), con sede a Danzica. Si tratta di una scuola di cucina professionale, aperta anche a gruppi di turisti interessati alla gastronomia locale. La zuppa all’ambra ha una base di pesce e viene aromatizzata con gocce e granelli della “magica pozione”. È una vecchia tradizione andata scomparsa, che oggi Tawniczak sta riproponendo. Tale è la considerazione verso l’Accademia che i suoi chef sono stati chiamati a gestire i menu dei ristoranti del nuovo stadio di Danzica e alcuni banchetti del cibo di strada in occasione dei prossimi Europei di calcio. Per la gioia pure dei tifosi. Tra le altre specialità della Pomerania ci sono indubbiamente i funghi che, grazie ad ampi boschi, rappresentano un’interessante voce dell’agroalimentare. A Brusy, piccola cittadina a un’ora da Danzica, da oltre 20 anni opera Fungopol, azienda di trasformazione di funghi e frutti di bosco. Lavorano 9 tipi di funghi, dai porcini ai cantarelli, con l’aiuto di 36 dipendenti fissi più gli stagionali. I funghi sono evidentemente prodotti di stagione, da mangiare freschi o essiccati. Da giugno a settembre troviamo i gallinacci, da luglio anche i porcini. Uno dei fondatori, JACEK CIS-BANKIEWICZ, insieme al direttore ROBERT SKORCZEWSKI, ci guida in una visita illustrativa che si conclude con una piacevole degustazione finale. Sorpresa: i polacchi non conservano i funghi sottolio — visto che

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Jacek Cis-Bankiewicz, fondatore di Fungopol. non ne producono — ma in marinette, una soluzione di aceto, acqua, zucchero, sale e pepe. Proprio niente male, però. Fungopol vende il raccolto fresco al mercato locale ed essicca soprattutto per l’estero. Tra i principali importatori c’è l’Italia, al primo posto, seguita da Austria, Germania e Regno Unito. Nel nostro Paese Fungopol opera attraverso una partnership con la società lombarda Fungorobica. Un affare niente male per chi volesse importare funghi dalla Polonia a prezzi convertiti in valuta europea di appena 2 € per un chilo di galletti e di 3 € per un chilo di porcini. «I freschi in un giorno sono in Italia, ma vanno mangiati entro cinque giorni dalla raccolta. I secchi vanno bene anche un anno dopo. Noi però non siamo disponibili a trovare altri importatori nel vostro Paese perché ci lega un accordo con Fungorobica, di cui siamo soddisfatti», puntualizza Jacek Cis-Bankiewicz. Oltre ai funghi l’azienda di Brusy produce confetture, marmellate, gelatine e frutti di bosco congelati (www.fungopol.pl). Un altro interessante caso gastronomico è quello di una piccola regione interna della Pomerania, Kaszuby, non lontano da Danzica. Oggi in ricordo della vita contadina e delle abitudini sane dei Kaszuby c’è il parco etnografico di Wdzydze Kiszewskie, un altro nome difficile che popola l’insidiosa lingua polacca.

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Grucholec, sformato di patate, uova, pancetta, cipolla e funghi galletti da gustare al ristorante Karczma Wygoda. Nel suo genere il parco è il più grande della Polonia, nato ad inizio ‘900 per celebrare la cultura rurale di questa zona interna e della sua popolazione. Dopo una visita a mulini e vecchie case contadine in legno merita una sosta — prendetevi un paio d’ore — il ristorante del parco, gestito dallo chef MARCIN BORKOWSKI, un giovane che guarda con ammirazione alle radici kaszube. La sua è una cucina di piatti semplici, contadini, genuini, dai sapori interessanti. C’è il trok, un pesce d’acqua dolce della specie dei salmoni, marinato con aceto, limone e aneto, pescato nei bassi fondali del lago Wdzydze. Ci sono i crostini con funghi galletti, un velo di pancetta e

una copertura di formaggio fuso Morski; c’è il battuto di lardo con spezie, cipolla e mela. E ci sono la zuppa di carote, con brodo di gallina, pezzetti di gallina bollita, patate, panna acida e aneto; o il grucholec, uno sformato di patate, uova, pancetta, cipolla e funghi galletti. Ingredienti più o meno poveri, come le frittelle di mela e zucchero, i ruchanki. Bel Paese la Polonia. Una terra per buongustai ancora tutta da scoprire. Massimiliano Rella Note A pag. 85 la gru medievale a Danzica. Tutte le foto sono di Massimiliano Rella.

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Appuntamento a Bevagna con “Arte in tavola” In un’atmosfera pittoresca, questa manifestazione presenta tutte le tipicità del territorio, tra mostre e convegni. Assieme al Mercato delle Gaite, rievocazione storica che si svolge in giugno, è uno degli eventi più attesi nel circuito del turismo enogastronomico umbro di Josette Baverez Blanco

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ndando alla ricerca dell’Umbria più segreta, quella che ha ispirato i mistici al ritiro e alla preghiera, quella dei piccoli borghi medievali aggrappati alle pendici delle colline, quella delle preziose ma sconosciute chiese romaniche, dei monasteri oggi spesso

trasformati in alloggi per turisti, delle fortificazioni insospettate, ci siamo trovati per caso a Bevagna, durante la manifestazione annuale Arte in tavola. Si tratta di una mostra mercato di prodotti agricoli e ghiottonerie sulla Strada del Sagrantino che si tiene presso il chiostro di San Domenico.

Questa minuscola città ci ha affascinato per gli splendori dell’antico borgo medievale costruito su un abitato romano, Mevania. Ci sono i resti dell’antico teatro, dell’anfiteatro e dei templi pagani. E non mancano quelli di un edificio termale, complesso di cui è testimone un grandissimo mo-

Durante il Mercato delle Gaite Bevagna ritorna medioevale: nascosti i segni della moderna civiltà, gli abitanti si ritrovano a vivere come i loro avi. Il culmine della festa è la ricostruzione del mercato cittadino.

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saico bianco e nero che rappresenta una scena marina con delfini, aragoste e tritoni. Le mura medievali si appoggiano a quelle romane e nel 1200 è stata creata una grandissima piazza, semplice ma monumentale con, al centro, una bella fontana. Per celebrare queste ricche e pregevoli testimonianze, Comune e Pro Loco hanno saputo creare due eventi notevoli: l’uno, Arte in tavola appunto, che si tiene tra aprile e maggio, l’altro, la Festa delle Gaite, ossia i quattro quartieri in cui era anticamente divisa Bevagna, che si svolge nel mese di giugno. Regione contadina da sempre, l’Umbria è molto attenta alla buona cucina e alla valorizzazione dei suoi numerosi prodotti tipici. Gli orti forniscono verdure e frutta fresca, gli oliveti un olio saporito, gli allevamenti pregiati salumi e i laghi una gran varietà di pesci d’acqua dolce. Nei boschi si trovano funghi e tartufi bianchi e neri. Vini e formaggi vanno di pari passo e non possiamo non citare le famose piccole lenticchie di Castelluccio di Norcia, le uniche italiane rassomiglianti a quelle francesi. Il cosiddetto “turismo enogastronomico”, in sempre maggior ascesa in Italia, va di pari passo con la valorizzazione dell’artigianato. “Arte in tavola” è una manifestazione espositiva e degustativa con appuntamenti culturali e artigianali. Ci si trova quindi non solo cibo per il palato ma anche per gli occhi (varie mostre) e per il cervello (numerosi convegni), il tutto in un’atmosfera folcloristica. Rimanendo in tema di folclore, molto suggestiva è la rievocazione storica durante il “Mercato delle Gaite” (nel 2011 la manifestazione ha ricevuto il primo premio Italia Medievale) della vita quotidiana nel comune di Bevagna tra il 1250 e il

La gastronomia umbra, e in particolare quella del comune di Bevagna, è ricca di ingredienti importanti e raffinati. Il prelibato tartufo ed il genuino olio d’oliva della zona, ad esempio, accompagnano i primi ed i secondi piatti e condiscono croccanti bruschette da servire come antipasto insieme a salumi e crostini. In alto: bucatini al gorgonzola e cerfoglio. In basso: brasato di manzo al Barbera e ai frutti di bosco (foto: Moenia Cafè Restaurant). 1350. Per dieci giorni la città si “ritrova” improvvisamente medievale, con i suoi abitanti ad impersonare quelli che erano i loro avi indossando gli indumenti dell’epoca con stoffe di nobili, popolani, magistrati o artigiani.

“Regione contadina da sempre, l’Umbria è molto attenta alla buona cucina e alla valorizzazione dei suoi numerosi prodotti tipici. Gli orti forniscono verdure e frutta fresca, gli oliveti un olio saporito, gli allevamenti pregiati salumi e i laghi una gran varietà di pesci d’acqua dolce” Premiata Salumeria Italiana, 1/12

Tutti i segni della moderna civiltà vengono eliminati: l’illuminazione viene assicurata da torce, le cabine telefoniche e i cartelli pubblicitari sono camuffati con teli di sacco, le vetrine dei negozi sono oscurate. La festa raggiunge il suo culmine con la ricostruzione del mercato cittadino: banchi, vecchie botteghe artigianali e taverne dove assaporare antiche preparazioni tratte da ricettari medievali. La necessità sempre più avvertita di fare festa, rievocando anche il passato e le tradizioni regionali, spiega il successo di queste manifestazioni. Josette Baverez Blanco

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Rassegne Abbiategusto: quando lo slow si fa veloce

Dai sapori del territorio ai territori del sapore Il sigillo di Fiera Nazionale alla 12ª edizione di Abbiategusto consacra la manifestazione nata all’interno della Fiera agricola di Abbiategrasso. 40.000 i visitatori dei 75 stand, presenti 19 regioni italiane e 21 città slow. Protagonisti di degustazioni e laboratori la bresaola di Varzese, i salumi del Ticino, coppa toscana e piacentina e i prosciutti. Tra i formaggi, brilla la stella del Gorgonzola di Fabio Butturi

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al debutto nell’anno giubilare ne è passato del tempo e Abbiategusto è stata finalmente riconosciuta come vetrina panoramica che ha da

esporre molto più di qualche specialità del sud-ovest milanese. La rassegna numero dodici, che si è tenuta il 25, 26 e 27 novembre 2011 nei padiglioni fieristici di Abbiategrasso, ha infatti

elevato la manifestazione promossa dalla Fondazione Abbiatense al rango di Fiera Nazionale, formalizzando il respiro che aveva spontaneamente assunto da alcuni anni. In questa

Si conferma il successo di Abbiategusto che nell’edizione del 2011 ha debuttato come fiera nazionale.

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Per tre giorni Abbiategrasso si è proposta come piccola capitale del gusto, distribuendo la sue attrazioni tra i padiglioni espositivi e la città. Protagoniste eccellenze nazionali ma anche d’Oltralpe. cittadina a cavallo delle province di Milano e Pavia, nella traiettoria del Naviglio Grande, le lingue e i sapori che si declinano nei 75 stand eccedono da diverso tempo i confini dei Visconti e degli Sforza. La penisola è infatti fedelmente rappresentata: i produttori di 19 regioni su 20 hanno piantato la bandierina (l’eccezione è costituita dal Lazio) a ridosso del Castello Visconteo, ma occorre valicare le Alpi per identificare il Barone D’Armagnac, il presidente del consorzio che tutela il distillato della Guascogna, nel sud-ovest della Francia. Una presenza che getta il cuore ben oltre l’ostacolo alpino, conferendo un’aurea internazionale confermata dalla presenza di un’altra città slow dell’Esagono, Segonzac, regione del Poitou-Charentes, per capirci meglio l’epicentro del Cognac, e Domfront, che fa rima con Calvados. Tutte indifferentemente città slow, quelle francesi, alla stregua di Abbiategrasso: sono 21 i presidi certificati, da San Daniele a Positano, Orvieto, Todi, Greve in Chianti, Fontanellato, Acqualagna, Levanto San Miniato, San Vincenzo e Tirano.

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E pensare che le prime due edizioni, datate 2000 e 2001, furono inserite nel calendario della Fiera agricola, che relegava Abbiategusto alla dimensione locale, per quanto autorevole di 500 anni di storia. Ma i 40.000 visitatori di Abbiategusto 2011 la dicono lunga su quanto sia stato intelligente lo spin off della rassegna. Sfogliando Abbiategusto come fosse un libro, tra i capitoli dedicati a carne, vino, cognac, distillati e formaggi, non passano inosservate le pagine dedicate alla salumeria. A partire dai due laboratori conclusivi, accessibili alla più che modica cifra di dieci euro, dal titolo “Lombardia sconosciuta” e “Una Varzese per amica”. L’oggetto del primo laboratorio è stato il caleidoscopio di declinazioni casearie e salumiere del comprensorio, illustrato — e degustato — per voce e mano dei saperi artigiani lombardi. Del resto, alla voce “espositori” giganteggia il Consorzio produttori del Ticino e sono comparsi o piccoli produttori, come un salumificio di Morimondo, presente nell’edizione 2010, fedele all’ortodossia del budello gentile alla pari de Il Salame del

nonno di Magenta che, tra gli altri insaccati, lavora e stagiona la filzetta magentina. Tornando ai laboratori, “Una Varzese per amica” ha proposto la riscoperta della bresaola e di altri salumi di bovini di razza Varzese, ceppo autoctono a rischio estinzione e che invece è stato recentemente rivitalizzato. Varcando il Po si trovano invece tre tipi di prosciutti, la culaccia di Fontanellato, il culatello di Zibello e il San Daniele. Discorrendo di prodotti tipici, non può passare in second’ordine la parata d formaggi, capitanati dal saporitissimo gorgonzola. Ad aprire la parata dei caseifici è Arioli di Ozzero, che vanta un premio, anzi, il premio per antonomasia: l’Oscar. Perché nel 2009 ben dieci forme da 12 chili l’una del formaggio premiato a Roma come best in class tra i gorgonzola piccanti, hanno deliziato i pretenziosi palati dei “vippissimi” commensali. Una consacrazione stellare per il caseificio che sta veleggiando verso i 200 anni di storia e si rifornisce con il latte di tre cascine circondariali, per la precisione di Morimondo e Zelo Surrigone.

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Portabandiera di Abbiategrasso è invece Cairati, che eccelle nello “zola” dolce e nel 2010 alla Fiera di Castelnovo ne’ Monti, in provincia di Reggio Emilia, all’interno del circuito città slow, ha letteralmente bruciato 430 chili di gorgonzola. E a proposito di “bruciare”, la metafora rende in modo efficace quanto successo alle mozzarelle di bufala de Il Casolare di Caiazzo, ennesima città slow. Sulle bancarelle montate ad Abbiategusto sono stati spazzati via circa 250 chili di mozzarella in meno di un giorno, costringendo i gestori casertani ad “abbassare le saracinesche” con largo anticipo. Sorte condivisa con tempistiche simili dal Fornacione, latteria sociale a Felina di Castelnovo ne’ Monti, causa polverizzazione delle forme di Parmigiano-Reggiano. Per chiudere la parentesi casearia, la diversificazione della “monocoltura gorgonzola” ha portato alla genesi di formaggi di capra, diffusi in tutta l’area che gravita intorno a Milano (dalle Prealpi varesotte alla Brianza,

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dal lodigiano al basso pavese), e al revival di quartirolo e taleggio, che però ancora non scalfiscono il primato di Sua Maestà lo Zola. Il cartellone della kermesse abbiatense non si è esaurito ai 17.500 m2 della superficie espositiva, dei quali un settimo coperti, e ha contaminato le vie del centro storico con le passeggiate, le strade e le botteghe del gusto. Ma la location che ha esordito insieme al respiro nazionale è lo spazio Oltrepo pavese, degustazione vinicola ospitata nei seminterrati del Castello. Particolarmente nutrito il programma delle cene, a partire da quelle che si tengono nell’ex Convento dell’Annunciata, edificio risalente al 1487. Star assoluta Gualtiero Marchesi, ma non sono stati da meno il sabato con Salvatore Toscano di Greve in Chianti e la disfida a suon di versi (poetici) e tagli (alla fiorentina) tra i macellai Peppe Cotto e Dario Cecchini, come toscano proveniente dal Chianti, volto noto ai palinsesti TV, nella serata dal titolo: “Duello all’ultimo sangue (della costata)”.

Tra le cene a tema, “Gustando il bollito” e la serata “Sei proprio un salame!!!” alla Cascina Caremma di Besate. La Fondazione Abbiatense contribuisce anche all’organizzazione di Veloslow, percorso a tappe in bici con degustazione. Per fare un esempio, nel 2010 si è tenuta a Milano, con un itinerario ad anello che ha visto una quarantina di bancarelle del circuito slow, con prosciutti di San Daniele, Culatello di Zibello, Bresaola di Chiavenna, salumi del Parco del Ticino, salsiccia di Bra e risotto al gorgonzola, il tutto innaffiato da selezioni dell’Oltrepo pavese e della Valtellina. Nel 2006 il battesimo di Veloslow a Piazza Santa Croce a Firenze, per toccare negli anni successivi Mantova, Brescia, Bruxelles. Perché i sapori slow possano essere di stimolo a contaminare anche i luoghi di vita più caotici, come le città, e forgiarle a misura di sano metabolismo. E di palato fine. Fabio Butturi

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500 e non li dimostra Un’edizione speciale, la ventitreesima, per celebrare i 500 anni della nascita dello zampone. A Castelnuovo Rangone il Superzampone 2011, organizzato come sempre dall’Ordine dei Maestri Salumieri di Modena, si conferma un appuntamento imperdibile. Coinvolto anche il super chef Bottura di Gaia Borghi

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n bel colorito roseo invitante, una linea sinuosa, paffuto quanto basta, e un profumo inebriante. Non c’è che dire: anche se ha compiuto 500 anni, lo zampone modenese non ha perso un briciolo del suo fascino, sprizzando letteralmente da tutti i

pori un’energia coinvolgente. Anzi, pare che il tempo lo abbia persino migliorato, tanto che le analisi nutrizionali più recenti lo hanno trovato talmente in forma a livello calorico da indicarlo, accanto alla decisamente più triste pasta scondita, come piatto da inserire nella dieta di chi sta atten-

to alla propria linea. Altro che sensi di colpa o musi lunghi: d’ora in poi, all’interno di uno schema alimentare equilibrato e razionale, anche una bella fetta di zampone con contorno di verdure potrà far raggiungere con successo l’agognato traguardo della prova bikini.

L’atteso taglio della prima fetta del Superzampone! Protagonisti, Alessandro Di Pietro, volto della trasmissione RAI “Occhio alla Spesa”, il “re dello zampone” Sante Bortolamasi, Andrea Barbi, il vicesindaco di Castelnuovo, Massimiliano Meschiari, e Tatiana Tissino, Miss Superzampone 2011.

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In alto: a sinistra, Massimo Bottura. A destra: in alto; il “festeggiato�; in basso, la preparazione dei ravioli allo zampone e lenticchie. In basso: la sfilata storica per le vie del centro di Modena.

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La sagra dello zampone più grande del mondo Nessun record raggiunto ma nessuna faccia triste tra le migliaia di appassionati gourmet e golosi giunti affamati nella piazza di Castelnuovo Rangone lo scorso 4 dicembre per assistere alla classica sagra del Superzampone, organizzata come sempre con meticolosità e tanta passione dall’Ordine dei Maestri Salumieri di Modena. Il Superzampone 2011 (cotto per la prima volta presso lo stabilimento Vecchi di Castelnuovo e non sotto il Torrione come in passato), infatti, si è avvicinato alla tonnellata (890 chilogrammi) ma non ha superato il record di 942 stabilito nel 2008 e regolarmente registrato nel Guinness dei Primati. Per il resto, tutto si è svolto secondo tradizione: a mezzogiorno in punto il Superzampone è stato collocato sul palco allestito nel centro del paese, poi è stato tagliato e distribuito gratuitamente in migliaia di porzioni, con un sostanzioso contorno di fagioloni e, ciliegina sulla torta, lambrusco, per brindare come si deve ad un compleanno così importante. A fare gli onori di casa, il “re dello zampone”, Sante Bortolamasi, e il vicesindaco di Castelnuovo, Massimiliano Meschiari, che hanno voluto ricordare, prima di dare il via alla festa, l’ex sindaco, Maria Laura Reggiani, recentemente scomparsa. Insieme a loro, personalità dello sport e dello spettacolo locali, con un conduttore d’eccezione: Alessandro Di Pietro, volto della nota trasmissione “Occhio alla Spesa”, che da tempo si rivolge ai consumatori italiani promuovendo qualità, salute e risparmio a tavola. Tutta Modena celebra lo zampone Parlando di traguardi, festeggiare 500 anni richiede certamente la preparazione di un “palcoscenico” adeguato, un evento speciale al quale invitare quanti più amici possibili. Ecco perché, solo per quest’anno, il giorno prima della sagra castelnovese tutta la città di Modena si è vestita a festa in onore del più “nobile” tra gli insaccati suini. Un prodotto che, secondo la leggenda, avrebbe fatto la sua prima apparizione a Mirandola

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Paolo Ferrari, presidente Consorzio Zampone Modena Cotechino Modena.

Non solo per le feste: Zampone Modena e Cotechino Modena più sani e più magri Un piatto di zampone è un peccato di gola da concedersi senza troppi sensi di colpa. Dalle ultime analisi effettuate dall’INRAN (Istituto Nazionale Ricerca Alimenti Nutrizione) sui valori nutrizionali dei salumi italiani, risulta infatti che i cotechini e gli zamponi siano prodotti più sani e più magri rispetto al passato. Le nuove analisi hanno considerato lo zampone e il cotechino bollito, pronto per il consumo, ed è risultato che, rispetto al dato delle precedenti analisi (risalenti al 1993), si è avuto un calo del 18% delle chilocalorie arrivando così a 260 Kcal (meno di un piatto di pasta scondita o ad una mozzarella). Un calo, quello delle calorie, determinato dalla netta diminuzione dei grassi, -34%. In più la quota di grassi “buoni” è superiore a quella dei “cattivi”. Zampone e cotechino sono due prodotti che, oltre ad essere gustosi, sono molto versatili in cucina. Per chi ama il classico, lessato con i fagioli, le verze o la polenta piace sempre a tutti. Oppure in crosta, in polpette e polpettoni, come sugo per la pasta e il risotto. Ma questo simbolo della tradizione si presta anche a rivisitazioni moderne. Lessato e tagliato a fette sottili arricchisce le insalate; a cubetti con verdurine si serve come antipasto; sminuzzato è perfetto per farcire tartellette, panini o fagottini di sfoglia, ottimi come finger food per il buffet di Capodanno. Cresce la produzione La storia cinquecentenaria dello Zampone Modena e del Cotechino Modena sembra rafforzare l’apprezzamento sul mercato di cui godono le due IGP. Infatti, il trend degli ultimi anni vede una decisa crescita sia della produzione che delle vendite. Secondo i dati forniti dal Consorzio Zampone Modena Cotechino Modena, il 2010 si è chiuso con una produzione complessiva di circa 4.540 tonnellate (+25% rispetto al 2009) per entrambi i prodotti. Anche il 2011 sembra promettente. I dati produttivi relativi ai primi 9 mesi dell’anno rivelano un +13% rispetto allo stesso periodo del già ottimo 2010.

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1) Tra i tanti protagonisti dell’edizione 2011 del Superzampone anche l’imprenditore Giovanni Rana, fotografato insieme a Davide Nini, presidente del Consorzio del Prosciutto di Modena Dop. 2) Le migliaia di persone in piazza in attesa dell’assaggio. 3) Il Cavalier Sante Bortolamasi, “re dello zampone”, con il vicesindaco di Castelnuovo, Massimiliano Meschiari, e Attilio Montorsi in rappresentanza dell’Ordine dei Maestri Salumieri di Modena. 4) «Quando iniziai a fare i tortellini mi occorreva carne di qualità e la mia scelta cadde proprio su Sante Levoni di Castelnuovo Rangone. Un rapporto che oggi continua e che si è ampliato con altri produttori della zona. Ecco perché sono qui a festeggiare con lui e con gli altri maestri salumieri» ha dichiarato Giovanni Rana, qui in compagnia di Sante Levoni. nel 1511 ed è oggi unanimemente riconosciuto come simbolo della città di Modena e dell’abbondanza e della ricchezza delle sue tavole e della sua cucina. «Abbiamo pensato ad attività per conquistare i pubblici di tutte le età e i gusti» aveva dichiarato nelle settimane precedenti all’evento Paolo Ferrari, presidente del Consorzio Zampone Modena Cotechino Modena. Inutile dire che gli obiettivi prefissati sono stati ampiamente raggiunti: incontri, rappresentazioni

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teatrali, monologhi sul maiale, annullo speciale filatelico, sfilata storica, degustazioni gratuite... Se vale il detto che per arrivare al cuore di un uomo bisogna passare per lo stomaco, il cuore dei modenesi palpita decisamente d’amore per lo zampone! Compreso quello di un modenese d’eccezione, lo chef recentemente insignito delle tre stelle Michelin Massimo Bottura, protagonista di uno “show cooking” seguitissimo, durante il quale ha realizzato, con la sua

brigata di cuochi e otto straordinarie “sfogline”, i “ravioli allo zampone e lenticchie”. Che vogliate cimentarvi in nuove ed originali ricette, preparandolo in crosta o utilizzandolo nel sugo per la pasta o per il risotto, o preferiate deliziare i vostri ospiti rimanendo sul classico, portandolo in tavola con i fagioli e le lenticchie, il purè o la polenta, non potrete certamente esimervi dall’augurare allo zampone almeno altri 500 anni di vita… in cucina! Gaia Borghi

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Fiere

MarcabyBolognaFiere tutto il mondo della marca commerciale

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rande successo di espositori e di pubblico per l’ottava edizione di MARCABYBOLOGNAFIERE – Private Label Conference and Exhibition, la manifestazione rivolta al mondo della marca commerciale, che si è accreditata come rendez-vous di eccellenza per la business community del settore, registrando, negli anni, un costante trend di crescita delle presenze. L’evento, organizzato da BolognaFiere, svoltosi a Bologna il 18 e 19 gennaio scorsi, è espressione di un territorio in cui il settore dell’agroalimentare ha raggiunto punte di eccellenza che coniugano le tipicità del territorio con una spiccata sensibilità verso la qualità dei prodotti, la ricerca e l’innovazione. Un territorio in cui anche la distribuzione si è affermata su scala nazionale per i successi raggiunti (sia per le cooperative di dettaglianti, sia per quelle di consumatori). Le vendite dei prodotti a marchio del distributore hanno raggiunto un valore di quasi 9 miliardi, registrando una crescita del 18% negli ultimi quattro anni. Un andamento che è non solo la risposta alla crisi economica che porta il consumatore a premiare il buon rapporto fra qualità e prezzo dei prodotti a marchio del distributore, ma anche un consenso del consumatore nei confronti di interlocutori — le grandi insegne — che rispondono alle esigenze di qualità, di assortimento e di affidabilità dei loro prodotti. Parallelamente la marca commerciale è, oggi, un elemento di sviluppo per la

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Le vendite dei prodotti a marchio del distributore hanno raggiunto un valore di quasi 9 miliardi, registrando una crescita del 18% negli ultimi quattro anni. rete di PMI italiane che individuano nel rapporto con le grandi insegne un fattore strategico per il business e in MarcabyBolognaFiere l’occasione per entrare in contatto con i rappresentanti delle maggiori insegne della GDO. In questo scenario, il continuo

miglioramento degli standard riferiti alla produzione, all’innovazione dei prodotti, ai processi produttivi e al packaging diviene ancora più funzionale se realizzato in collaborazione con la distribuzione moderna, al fine di rispondere con sempre maggiore

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puntualità alle esigenze del mercato. Un mix di fattori caratterizza il successo di MarcabyBolognaFiere che, oltre ad essere il punto di incontro fra industria e grandi insegne, è, parallelamente, una “piattaforma per la formazione e l’informazione” del settore che si sviluppa in fiera e in una serie di appuntamenti diluiti nell’anno. Unico nel panorama fieristico internazionale il coinvolgimento delle principali insegne della GDO e della DO che, oltre ad essere fra i protagonisti del Comitato Tecnico Scientifico, espongono a MarcabyBolognaFiere assicurando attualità e forte dinamismo all’evento.

In alto: lo stand di Fattorie Giacobazzi Srl di Nonantola (MO). Al centro: Marcello Palmieri del Salumificio Mec Palmieri di San Prospero sulla Secchia (MO). In basso: lo stand di Raspini Spa di Scalenghe (TO).

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Analisi di mercato e confronto Fin dalla sua prima edizione MarcabyBolognaFiere ha evidenziato una vocazione decisamente innovativa nel panorama fieristico. Non solo fiera, bensì “format espositivo” che integra la componente merceologica (di prestigio) con analisi di mercato, convegni, dibattiti, rapporti. MarcabyBolognaFiere è, quindi, uno “strumento” per analizzare i trend e gli scenari di mercato; un interlocutore prezioso per gli operatori ed i protagonisti della marca commerciale, ai quali offre informazioni essenziali per sviluppare opportunità commerciali, pure in termini di internazionalizzazione. L’edizione 2012 si è aperta con un grande convegno inaugurale dedicato a “Crisi economica e dei consumi: la distribuzione moderna e la marca commerciale come opportunità per il consumatore e motore per l’economia”, che ha visto gli interventi di Camillo De Berardinis, presidente ADM, Giovanni Cobolli Gigli, presidente FEDERDISTRIBUZIONE, Vincenzo Tassinari, presidente Consiglio di Gestione COOP ITALIA, Piero Cavallini, direttore commerciale VALBONA, Maurizio Gardini, presidente CONSERVE ITALIA e Guido Cristini, ordinario di Marketing all’Università di Parma. Il convegno ha analizzato il ruolo della marca del distributore per il comparto manifatturiero italiano e, parallelamente, ha approfondito le determinanti alla base delle decisioni di acquisto dei prodotti a marchio del distributore. Nell’ambito del

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convegno, in particolare, sono stati presentati i principali risultati della ricerca realizzata sul consumatore italiano di marca del distributore, incentrati sui fattori di attrattività di tale marca e sul grado di fiducia che i diversi segmenti della domanda finale sembrano manifestare in comparazione anche con le altre marche in offerta. La presentazione del rapporto annuale sull’evoluzione della marca commerciale si è tenuto il 19 gennaio: l’elaborato ha illustrato, anche in questa edizione, il quadro di mercato della marca commerciale nel nostro Paese alla luce dell’evoluzione dei consumi che ha connotato l’anno appena terminato, evidenziando, in particolare, un ulteriore ampliamento dell’offerta di marca commerciale associato ad un maggior ricorso alla leva promozionale tra gli aspetti che maggiormente hanno caratterizzato il 2011. Ne hanno discusso, dopo la presentazione del rapporto redatto dal prof. Cristini dell’Università di Parma in collaborazione con IRI, i

Paola Spiezia del Salumificio Fratelli Spiezia di San Vitaliano (NA). principali responsabili della marca del distributore delle più importanti insegne. Da segnalare anche la tavola rotonda “Le strategie di valorizzazione del reparto carni al giudizio del consumatore”, nel corso della quale sono stati presentati i risultati

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Formaggio

La fabbrica diffusa di Beppino Occelli, laboratori sparsi sul territorio per avere latte e formaggi di eccellenza La materia prima locale è l’ingrediente indispensabile del successo di formaggi richiestissimi come l'Occelli al Barolo, i Cusiè, il Valcasotto, l’Escarun, l’Occelli nel fieno Maggengo di Manrico Murzi

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arigliano è un paese laborioso tra la pianura di Cuneo, le colline di Langa e le montagne di Mondovì, conosciuto tra l’altro per la “festa dell’uva” e per la curiosa “festa dei puciu”: piacevole frutto povero, detto “nespola germanica”, che simboleggia la fine della stagione agricola e l’inizio dell’inverno. Sagra che si celebra, ogni anno, verso il 6 dicembre, festa di S. Nicolao, patrono del paese. Qui si trova la casa madre dell’azienda di Beppino Occelli: nome, questo, ormai conosciuto in gran parte del mondo per l’eccellenza dei suoi prodotti caseari. Siamo ritornati, alla metà di dicembre, a Farigliano, appena dopo un anno, giacché l’attività che la Occelli svolge è articolata in modo tale da presentare di continuo nuove idee e nuovi progetti che vogliamo raccontare ai nostri lettori. Incontriamo il direttore dell’ufficio stampa dell’azienda, Domenico Milano. Egli sa ben illustrare le

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Valcasotto Occelli, formaggio a latte crudo di vacca. In omaggio alle sue origini regali si accompagna con grandi vini nobili come il Barolo o il Barbaresco.

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tradizioni che animano i territori di quella parte del Piemonte e delle Alpi Marittime. Ne conosce segreti e genuini valori di vita agricola e pastorale, descrivendo, con parole chiare e semplici, tecniche e costumi del tempo che fu, i quali meritano di tornare a vantaggio di questi luoghi, con la schiettezza e la purezza dei prodotti tradizionali. Alla nostra domanda di come procedano sul mercato alcuni formaggi ultra stagionati (fino a due anni), che costituiscono la Gran Riserva, come l’Occelli al Barolo, i Cusiè, il Valcasotto, l’Escarun o l’Occelli nel fieno Maggengo, risponde: «Nonostante la produzione di questi formaggi sia abbastanza robusta, ci vengono a mancare e fatichiamo ad accontentare la clientela». Aggiunge: «La Occelli è in fondo un’azienda piccola, anche se non troppo, con diversi laboratori sparsi sul territorio. Ne abbiamo uno qui sotto, uno di fronte al paese verso la fondovalle, abbiamo le stagionature in montagna a Valcasotto e stiamo sviluppando nuove attività nei luoghi dove abitualmente acquistiamo il formaggio dai malgari: ad esempio a Castelmagno, dove si produce l’omonimo famosissimo formaggio. Siamo in Valgrana, valle che ospita i tre comuni di Monterosso, Pradleves e Castelmagno, paese, quest’ultimo, di origine, giacché gli altri due sono stati aggiunti con il disciplinare del 1982. Infatti un tempo questo formaggio si faceva solo a Castelmagno, tra i 1.000 e i 2.000 metri». Proprio a Campomolino, cuore del territorio di Castelmagno, Beppino Occelli sta terminando la ricostruzione di un laboratorio e di una bellissima stagionatura per maturare i formaggi dei margari locali e specialmente il Castelmagno d’Alpeggio fin dal primo momento della produzione e direttamente sul posto. Domenico Milano ci spiega come vengano seguiti i prodotti e la materia prima nelle varie località: «Da Castelmagno passiamo a Villanova, dove abbiamo il più grande centro caprino del Piemonte (centinaia e centinaia di capre di razza Saanen in lattazione), poi saliamo a Valcasotto dove si trovano le grandi stagionature; infine scendiamo a Farigliano, dove

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In alto: l’Escarun, rarissimo formaggio a pasta rotta e a latte di pecora e vacca. In basso: robiola Mondovì, tuma fresca ripresa da una ricetta antichissima e riproposta da Beppino Occelli.

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funzionano a pieno ritmo il burrificio e il caseificio. Non si tratta di una grande fabbrica che concentra la materia prima: noi andiamo a costruire, a fare e a produrre nel luogo in cui nasce e si trova la materia prima di eccellenza». A Castelmagno la Occelli non solo ha ripristinato un gioiello di stagionatura che era abbandonato, ma ha acquisito tutta una serie di pascoli tra i 1.500 e i 2.000 metri per darli a pastori in vista di una eventuale produzione di Castelmagno di Alpeggio fatta direttamente (anche se ottenere i permessi è al momento difficile): un formaggio di prestigio, con una storia millenaria, che merita di essere prodotto all’altitudine giusta per un risultato genuino e di tradizione e per dimenticare il Castelmagno bianco, fresco e gessoso prodotto a valle e che abitualmente circola in commercio. L’obiettivo dunque non è soltanto commerciale, ma culturale! Vi è una crisi generale, ma vi è anche una crisi della montagna: i margari, i pastori non si trovano più. Il pastore anziano abbandona e non c’è il giovane che prende il suo posto e continua tradizioni, costumi e modi di operare. Beppino Occelli si pone quindi l’obiettivo anche di riportare i pastori sui monti di Castelmagno con le loro vacche di razza alpina. A Castelmagno l’azienda Occelli collabora con il Comune da un lato e dall’altro con un gruppo di vignaioli di Langa assieme ai quali ha comprato alcune borgate, totalmente abbandonate nell’immediato dopoguerra: a Valliera (1.500 m) e a Campo Fey (1.600 m) nei vecchi edifici troviamo ancora i mobili, gli arredi, gli strumenti di lavoro, perfino scarpe e scarponi. Tra questi vignaioli, amici della montagna, ricordiamo i fratelli Montanaro da Alba, i fratelli Boglietti, Elio Altare e Cordero di Montezemolo da La Morra, Chiara Boschis da Barolo, Conterno e Fantino da Monforte. Questi vignaioli hanno già realizzato a Valliera un caseificio dove tentano di produrre il Castelmagno di Alpeggio. L’idea è quella di recuperare la tradizione e la purezza degli antichi metodi di produzione. Per ora sono riusciti a rendere evidente la differenza

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Pecore al pascolo (antica razza Frabosana-Roaschina). tra il Castelmagno di Alpeggio (con latte prodotto oltre i 1000 metri) e il Castelmagno di vallata (con latte prodotto in stalla tra i 600 e i 1000 metri). Intanto la Occelli produce, acquista e stagiona le grandi forme di montagna a Valcasotto, con il latte di capra totalmente in autonomia, ma anche di vacca o di pecora attraverso numerosi pastori che curano le sue mandrie Inoltre, Beppino Occelli acquista in tutte le vallate e su tutte le montagne, da Farigliano fino a Castelmagno, tutto ciò che può servire per un allevamento ed un latte di qualità: l’azienda Occelli è e vuole essere legata “mani e piedi” al territorio, proprio perché l’eccellenza del prodotto dipende anzitutto dalla materia prima locale. L’insieme dei prodotti di montagna (cioè le grandi forme a lunga maturazione da 3 a 8 kg) passa tutto a Valcasotto, dove un intero borgo è dedicato alla stagionatura: 12 cantine dove si stagiona in base al microclima locale — aria, acqua, temperatura, umidità — attrezzate però a mettere in moto i sistemi di condizionamento per difendere i formaggi dalle alte temperature estive e da quelle rigide dell’inverno. Sempre a Valcasotto, la Occelli ha ristrutturato diversi edifici: una foresteria, un ristorante, uno spaccio… Sì, perché l’azienda ha anche una sezione agricola e produce mais, grano, grano saraceno e castagne. E ha un mulino a

tre pietre d’epoca napoleonica (1802) dove macina quel che produce sui suoi terreni e poi vende nello spaccio con il burro e i formaggi. La Val Casotto prende il nome dai casotti, piccoli edifici nati sulle sorgenti nei boschi: nell’acqua si teneva il burro, sui piani di legno dapprima i formaggi freschi, poi gli altri formaggi a più lunga stagionatura. I casotti erano una specie di frigorifero naturale del Medioevo. La Occelli ha mantenuto questa tradizione nelle proprie cantine, dove l’acqua scorre, se ce n’è bisogno, sul pavimento inclinato verso valle. Un altro progetto è quello di accordarsi con la Regione Piemonte per restaurare la “Correria” (il nome deriva da Cureria, ovvero sede dell’amministrazione dei beni agricoli, Ndr) che fa parte dell’antica Certosa di Val Casotto, divenuta poi castello di caccia dei Savoia, ora di proprietà della Regione. Scopo finale: rimettere in sesto l’antico caseificio dei monaci cistercensi che per quasi mille anni si sono dedicati, fra l’altro, anche al formaggio. In conclusione, appare di tutta evidenza che il nome di Beppino Occelli e della sua azienda non richiama soltanto burro e formaggi, ma anche storia, cultura e tradizione ed in questo senso è una grande sfida per il futuro di queste terre. Manrico Murzi

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Reblochon: avanti Savoia! di Gemma Zubiani

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uesta potrebbe essere la guerra ai magri, agli inappetenti, ai macrobiotici, ai vegani... Potrebbe essere un’armata del gusto che porta avanti dall’Alta Savoia il gusto di un formaggio che ha qualcosa di sublime e raffinato pur essendo il prodotto della più sana tradizione della terra... Potrebbe essere una simbolica crociata di difesa del latte e dei suoi prodotti, di sostegno alle attività casearie francesi, di diffusione di un formaggio ottimo e di un prodotto tipicissimo… Quale che sia la guerra a cui stiamo assistendo, il

grido è uno solo: Reblochon, avanti Savoia! Il Reblochon AOC Partiamo da una serie di utili definizioni: che cos’è la Savoia? La Savoia, o meglio Alta Savoia, è un dipartimento francese a ridosso delle Alpi. La città principale è Annecy e lì vive la famiglia della mia cara amica Carolyn! Vi sarà utile sapere che Carolyn mi ha insegnato tutto sul Reblochon e, soprattutto, la miglior ricetta che si può fare con cotanto gustosissimo formaggio. Lasciando da parte tutti i dettagli storici che riguardano la Fran-

cia, i Savoia, il loro rientro in Italia, il loro esilio… Veniamo al sodo: che cos’è il Reblochon? Scientificamente è un formaggio AOC (Appellation d’Origine Contrôlée, corrispondente alla nostra DOP) dal 1958. Ha pasta morbida forgiata in una formella di circa 13 cm di diametro e meno di 4 cm di spessore. Una forma pesa circa 500 grammi ed ha un contenuto di grassi del 45% circa. La produzione non prevede cottura ma solo latte crudo cagliato naturalmente. Il caglio separato viene messo nelle forme e pressato per qualche ora. Mentre si forma viene deposta una pastiglia

La tartiflette, piatto tipico dell’Alta Savoia composto da formaggio Reblochon, patate, cipolle e pancetta. Viene consumato principalmente durante la stagione invernale.

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Formaggio Reblochon (foto: www. atable.pl). colorata di caseina commestibile che garantisce l’AOC. Dopo, subisce un procedimento di salatura, essiccatura, pulizia continua per poi passare alla cantina di stagionatura. Riconoscerlo è facile proprio per la pastiglia colorata che lo identifica (un po’ come la marchiatura del Parmigiano): è verde se si tratta di Reblochon de Savoie Fermier, prodotto interamente a mano in fattorie autorizzate con il latte della fattoria stessa. Ha un sapore più deciso di quello dal bollino rosso, prodotto invece in caseifici che raccolgono il latte da diversi produttori. Sopra viene riportato anche un numero identificativo che permette di risalire a tutti i passaggi produttivi grazie alla tracciabilità dei produttori autorizzati e riconosciuti. E questa è la sostanza scientifica del Reblochon: ma c’è tutta una storia che ci parla di lui e vale la pena di raccontare come mai si chiama così. I contadini del XIII secolo della valle di Thône subivano le visite dei proprietari dei terreni che avevano un diritto di proprietà sui terreni basato sulla quantità di latte prodotto dalle loro vacche. Per questo, i furbi contadini mungevano le vacche in loro presenza e lasciavano deliberatamente il lavoro a metà per pagare meno gabella. Una volta allontanato l’esattore tornavano

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a mungere la vacca facendo quella che in gergo si chiamava la rebloche: questa seconda mungitura dava un latte non troppo abbondante ma molto più ricco di grasso e cremoso ideale per fare il formaggio che deve il suo nome a questa piccola frode. Poi la Savoia ha iniziato a diventare destinazione di ricchi sciatori e, insieme al turismo, è cresciuta la sua fama e la sua diffusione. Fino al 1958, quando l’assegnazione delle AOC ha protetto la zona di produzione e valorizzato la sua origine e la sua specialità. Ma non è solo scienza, non è solo storia. Il Reblochon è prima di tutto gusto! Il suo profumo ha qualcosa di diverso dal suo sapore in bocca e per questo sorprende fin dal primo boccone. È cremoso, con una leggera crosta bianca come il Camembert ma più leggera, come fosse solo un velo di dolcezza per avvolgere il gusto saporito della crema. Trovarlo non è difficile e si possono cucinare tante ottime ricette che si trovano anche on-line sul sito www.reblochon.fr, dove suggeriscono anche il vino per accompagnarlo e il pane migliore per gustarlo. La tartiflette La mia amica Carolyn mi ha insegnato a fare la tartiflette, la più tradizionale delle ricette delle sue parti. Basta prendere delle patate lesse, della panna (crème fraîche, per essere più precisi, che sarebbe una panna più liquida), cipolle, pancetta e sale. E naturalmente il Reblochon! Basta mettere insieme pezzi di patate e di Reblochon e mescolarlo con la cipolla e la pancetta saltate in padella e la panna. Aggiungete poi sale e pepe. Dopo 15 minuti di forno il timballo è pronto e vi garantisco che è una bontà assoluta e che, oltre a rappresentare un piatto più che unico, è anche gustosissimo e piace proprio a tutti! È semplicissimo naturalmente come tutti i piatti della tradizione montanara, molto calorico e grasso, nutrientissimo e dal sapore incredibile. Ora che ci penso, dall’ultima tartiflette che ho cucinato ne è rimasto un po’… Vado a farmi uno spuntino di pane, Reblochon e culatello. Buon appetito a voi! Gemma Zubiani

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Caseificio Pascoli, l’autentica tradizione casearia romagnola Lo squacquerone di Romagna, il formaggio di Fossa di Sogliano al Rubicone, il Raviggiolo, i pecorini affinati in Albana e nel Sangiovese, la ricotta, le caciotte e persino un formaggio rosa...

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l caseificio Pascoli è un’azienda artigiana con sede a Savignano sul Rubicone, che si caratterizza per la produzione di formaggi freschi e stagionati tipici nella gastronomia romagnola. Il caseificio si è affermato rapidamente nel territorio in primis grazie alla qualità delle sue produzioni (formaggi freschi e stagionati, ricotte e mozzarella) ma, altrettanto fondamentale in questo senso, si è rivelata l’operazione culturale di riscoperta e valorizzazione di antiche tradizioni rurali e casearie messa in atto dalla famiglia Raduano. La storia e le produzioni di qualità Aperta nel 1954 dal cav. Michelino Raduano (ma già esistente prima in vesti societarie), l’azienda viene rilevata nel 1987 dal figlio Luciano, il quale, insieme alla moglie Marinella, avvia una importante riorganizzazione produttiva, puntando sulle tipicità locali, in una logica d’innovazione e riscoperta delle tradizioni. Una logica che, negli anni ‘80, andava contro corrente rispetto alla produzione di massa — mozzarella per pizzerie soprattutto — richiesta dal mercato della Riviera romagnola e dal business turistico, ma che significava anche

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globalizzazione dei sapori e appiattimento dei gusti, dimenticando le tradizioni locali. Altro diktat sposato dall’impresa romagnola è senz’altro l’impegno per la tutela del consumatore: il Caseificio Pascoli, infatti, è stata la prima azienda in Italia — in tempi non sospetti: stiamo parlando di una decina di anni fa — a certificare lo Squacquerone di Romagna attraverso un ente esterno, il CERMET. «Lo Squacquerone Pascoli — ci dicono in azienda Luciano, Marinella e Annalisa Raduano — è il primo Squacquerone certificato in Italia. Dopo questo primo passo importantissimo, è stata

formalmente avviata anche la procedura di richiesta della DOP, la tutela comunitaria portata avanti insieme all’associazione caseifici produttori di Squacquerone di Romagna». La certificazione di filiera garantisce l’utilizzo per la produzione del tipico formaggio romagnolo di latte locale, del sale dolce di Cervia e dei fermenti. Materie prime locali e passione, salubrità del prodotto ma anche nessuna aggiunta di panna e rispetto delle caratteristiche organolettiche per questo celebre formaggio molle, sposo perfetto della piadina romagnola che affonda le sue radici nel 1800.

Salatura caciotte (foto gentilmente concessa da Coop).

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Lo squacquerone rosa, prodotto in occasione della “Notte Rosa”, il capodanno dell’estate nella riviera romagnola.

Lo squacquerone di Romagna Pascoli custodisce un sapore dolce e fresco, così come era in passato (foto gentilmente concessa da Coop). «Grazie alla certificazione tuteliamo i consumatori perché ogni processo di produzione dal reperimento delle materie prime alla produzione è garantito. La qualità della nostra produzione è costante nel tempo; si può risalire alla stalla di produzione del latte utilizzato, alla vacca che l’ha prodotto… Tanto per essere chiari!».

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Il Caseificio Pascoli ha da sempre ed intensamente promosso la valorizzazione e la riscoperta dei prodotti caseari meno noti ma forse più ricercati per le loro particolarità organolettiche, come i pecorini affinati in Albana e nel Sangiovese, nel fieno, sotto le foglie di noce, il Raviggiolo, antico formaggio dell’appennino Tosco Romagnolo, la casatella,

la ricotta mista e di siero o di latte vaccino, che in azienda a mezzogiorno si può acquistare ancora calda. Tutte queste gustose prelibatezze sono state raccolte in un paniere di prodotti battezzati “Sapori del Rubicone” e “Terre Malatestiane”. L’azienda, che lavora con sistema di qualità UNI ENI ISO 22000, è anche membro del consorzio del Formaggio di Fossa di Sogliano al Rubicone che in questi anni ha molto lavorato per il riconoscimento e la DOP che tutela questo formaggio prodotto in Romagna. Altro che quote rose... In un quadro societario che vede la maggioranza di donne, nel 2010 è stata eletta presidente della società Marinella Conti. Protagonista di un recente servizio per RAI 3 (gennaio 2012), oltre ad illustrare la filiera della produzione dello Squacquerone di Romagna, la signora Conti ha focalizzato l’attenzione del pubblico e della stampa sulle principali problematiche

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Marinella, Luciano e Annalisa Raduano all’esterno dell’azienda.

Il Caseificio Pascoli ha da tempo promosso la valorizzazione e la riscoperta dei prodotti caseari meno noti come i pecorini affinati in Albana e nel Sangiovese, nel fieno o sotto le foglie di noce. del settore, legate principalmente ai piccoli produttori. Rimanendo in tema di “rosa”, e di innovazione, il Caseificio ha fatto molto parlare di sé per la produzione dello Squacquerone rosa, realizzato in occasione della celebre “Notte rosa”, ormai definito il capodanno dell’estate sulla riviera romagnola. A dimostrazione del fatto che con creatività, impegno e fantasia, è possibile rivisitare in chiave moderna e portare all’attenzione del grande pubblico antiche tradizioni locali, facendo accendere i riflettori su una piccola realtà locale. Questa voglia di fare si traduce anche in un vasto e costante lavoro di comunicazione e di promozione delle tradizioni rurali, casearie e gastrono-

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miche, come le visite didattiche per gli istituti alberghieri, in una logica di rete e trasmissione di conoscenza delle produzioni tipiche. In quest’ambito va ricordata anche la visita di una delegazione di imprenditori brasiliani giunti direttamente in azienda, a Savignano sul Rubicone, per imparare a fare i formaggi freschi. Un paniere di formaggi che vuole valorizzare le tradizioni culturali e rurali romagnole Attivissimo in ambito regionale, con la presenza a degustazioni e kermesse gastronomiche, il caseificio Pascoli promuove anche specifiche cene a tema. La signor Marinella — “la signora dello Squacquerone”,

così l’hanno ribattezzata amici e clienti — è infatti un’ottima cuoca. Si diverte a riscoprire le ricette locali, curiosando con esperti e professori negli archivi storici del territorio: ad esempio, a San Mauro Pascoli (che si trova a meno di 2 km da dove ha sede l’azienda) è andata a ricercare quali erano le ricette preferite dal famoso poeta — di cui quest’anno ricorre il centenario della morte — scoprendo alcune pietanze descritte nei suoi testi, come le tagliatelle con un ragù romagnolo, il risotto con fegatelli, i “ragazull” (in dialetto locale un radiccho) e, oltre ai tipici salumi romagnoli, i formaggi. Per celebrare Pascoli, autore anche di un’ode vera e propria alla piadina, il paese che gli ha dato i natali sta organizzando iniziative mirate che si svolgeranno durante l’anno, tra cui alcune cene, in programma la prossima primavera e il prossimo autunno a villa Torlonia, con menu stagionali ideati sulla base delle memorie lasciate nei suoi scritti. Le serate saranno organizzate in colloborazione con il Caseificio Pascoli, che dedica infatti il suo nome all’illustre poeta. >> Link: www.caseificiopascoli.com

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar Premiata Salumeria Italiana, 1/12 115 perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


Alla Fattoria Ma’ Falda non si vive in un luogo ma del luogo Dalle capre il latte: formaggi caprini a pasta molle, fino al crottino irresistibile per la cremosità di Riccardo Lagorio

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viandanti che nel Settecento transitavano sulla strada tra Todi e Orvieto — la stessa via che nel Medioevo fu teatro di numerosi scontri tra le due cittadine per il controllo della valle del Tevere — trovavano accoglienza a Frascarelle. Frascarelle era un casolare, ancora luogo d’ospitalità, incontri e dibattiti tra giovani negli anni Settanta del secolo scorso, centro da cui il fermento culturale si irradiava nei dintorni grazie ad una cooperativa che presidiava il territorio circostante, fatto di selve e querceti. Poi anni di abbandono, sino a quando FLAVIO

COVA, milanese trapiantato a Firenze, la sua compagna Anne Line Redtroen, norvegese, sua sorella Åste e il compagno di quest’ultima, il franco-tedesco Herbert Baldzuhn, si stabilirono su questo piccolo altipiano. Provenienze plurali, interessi plurali, ma un’unica motivazione: conoscere, nella seconda parte della vita, ciò che è ignoto. Frequentare gli animali, riconoscere i fiori, godere del ritmo della natura svegliandosi di buon mattino sono diventati per le due composite coppie uno stile di vita. Complice un’amica francese dei quattro che, qualche anno fa, dovette

cambiare il gregge e spedì parte di esso tra le colline umbre. Ed ecco che la zona, prima monopolio di formaggi ovini, si sta distinguendo per caprini di grande pregio. Gli animali, di razza Camosciata delle Alpi, sono nutriti con fieno, erba medica e cereali provenienti dagli appezzamenti dell’azienda. La stabulazione avviene in un’elegante struttura dalle capriate di legno, alta su un poggio, dove di tanto in tanto qualche capra che maggia rompe il silenzio. Per la verità il silenzio c’è raramente: Anne Line e Åste hanno capito che le capre diventano raggianti

A sinistra: il formaggio a pasta dura, ideale per un fine pasto o per la grattugia. A destra: alla fattoria Ma’ Falda la lavorazione del latte è interamente manuale. Il prodotto di punta, straordinario sotto il profilo organolettico per l’intenso gusto fungino, è un formaggio a pasta molle.

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Alla Fattoria Ma’ Falda le capre diventano addirittura raggianti all’ascolto di motivi di musica classica, privilegiando su tutti Arcangelo Corelli. all’ascolto di motivi di musica classica, privilegiando su tutti Arcangelo Corelli. Così è molto facile imbattersi in brani che forse tengono lontano lo stress dagli animali, ma di sicuro anche dai numerosi visitatori che la fattoria nel frattempo si è conquistata. Dalle capre, il latte. La lavorazione del latte è interamente manuale. Il prodotto di punta, straordinario sotto il profilo organolettico per l’intenso gusto fungino, è un formaggio a pasta molle, derivato da latte che coagula lentamente in un’ora e che si ottiene rompendo poi la cagliata grossolanamente. La stessa viene messa nelle fuscelle senza successivo riscaldamento. Ottenuto il formaggio, viene rigirato su se stesso dopo 24 ore salandone una faccia e, dopo altre 12 ore, cospargendo di sale l’altra faccia. Durante le fasi di riscaldamento del latte si aggiunge del penicillium candidum, che conferirà la caratteristica piumatura alla crosta, tenuta ad opportuno tasso di umidità. Doppia cottura della cagliata e, a temperatura più elevata, rottura

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della cagliata più sottile, assicurano la buona riuscita dei formaggi a pasta dura, ideali per un fine pasto o per la grattugia. Irresistibile per la cremosità è il crottino, formaggio dalle ridotte dimensioni, derivato da lavorazione lattica. Subito dopo la mungitura, unitamente a una piccola quantità di caglio si aggiunge del siero inacidito della giornata precedente che fa rapprendere il latte nel giro di 24 ore. Una rottura appena accennata della cagliata per ottenere lo sgrondo necessario ed ecco pronti i formaggetti dallo scalzo di una decina di cm e diametro di 5. A seconda delle richieste di mercato, sulla superficie viene cosparsa della cenere di carbone di vite. In un caso e nell’altro, pochi giorni dopo la lavorazione si creerà una gustosa proteolisi sotto crosta, che con l’andare del tempo penetrerà verso il cuore del formaggio, accompagnata da muffe di Geotrichum candidum spontanee, a testimoniare l’originalità dell’ambiente. Il siero risultante

dalla lavorazione servirà per produrre una dolcissima ricotta. Da questa, il latticello andrà alle 7 scrofe ed al verro di cinta senese per ottenerne animali venduti ai macellai locali. Ricercate dai gourmet anche le due dozzine di pecore di razza Ouessant, di elevata adattabilità e originarie dell’omonima isola al largo della Bretagna. Di stazza piccola e dalla lana colore nero o bruno, sono principalmente apprezzate dai ristoratori per la succulenza ed il gusto delicato. La predisposizione ad ottenere buona carne è insita nella razza, ma l’alimentazione con materie prime locali la rende ancora migliore. Perché, come dicono i quattro, è imprescindibile non vivere in un preciso luogo, ma vivere del luogo. Riccardo Lagorio Fattoria Ma’ Falda S.S. 79 bis, km 21 05010 San Venanzo (TR) Telefono: 0758 749646 Web: www.fattoriamafalda.com

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Vino

Cin cin: Casali brinda ai successi e al futuro, l’ambiente ringrazia 131 tonnellate di Co2 in meno immesse nell’atmosfera ogni anno: il nuovo impianto fotovoltaico installato sul tetto della sede di Casali Viticultori conferma l’impegno per l’ambiente della storica cantina di Pratissolo di Scandiano, che festeggia insieme ad amici ed operatori del settore i tanti successi raggiunti sul mercato

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n risparmio energetico pari a 44 tonnellate di petrolio e 131 tonnellate di anidride carbonica (Co2) in meno immesse nell’atmosfera ogni anno. Sono questi i maggiori vantaggi che porterà il nuovo impianto fotovoltaico installato sul tetto della sede di Casali Viticultori, storica cantina di Pratissolo di Scandiano. La potenza complessiva del nuovo dispositivo, allacciato in tarda estate ed entrato in funzione all’inizio di novembre, è di 193,6 kwp e sarà in grado di produrre attraverso energia rinnovabile circa il 70% del fabbisogno totale dell’azienda. La sostituzione della precedente copertura con i pannelli solari garantirà, inoltre, un maggiore isolamento termico, riducendo ulteriormente i consumi. A scoprire il pannello riportante i dati sul funzionamento del nuovo dispositivo — durante una serata di festeggiamenti che ha visto presenti autorità locali, le rappresentanze dell’AIS, di Slow Food, del Consorzio per la tutela dei Vini Reggiani e, naturalmente, anche la nostra testata — il sindaco di Scandiano, Alessio Mam-

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mi, il quale ha ringraziato a nome della cittadinanza tutta: «questa impresa che continua ad investire, rendendo celebri nel mondo (ricordiamo che la Casali esporta in più di trenta Paesi, Ndr) il nostro territorio e le nostre tradizioni vitivinicole». L’impegno per l’ambiente di Casali va comunque oltre questa importante novità. L’azienda da tempo offre infatti ai propri clienti la possibilità di restituire i vuoti delle bottiglie acquistate, con il rimborso del reso. Le bottiglie riportate in cantina vengono accuratamente rilavate, sottoposte ai necessari controlli di sicurezza e

riutilizzate nell’imbottigliamento. Questa iniziativa, nel 2010, ha portato al riutilizzo di più di 230.000 bottiglie! Un brindisi al 2012 all’insegna della crescita e dell’energia pulita Durante la tradizionale “Cena del Vino Novello” che si è svolta dopo l’inaugurazione del nuovo impianto fotovoltaico, il presidente della Casali Viticultori, CAMILLO GALAVERNI, ha sottolineato la crescita ed elencato alcuni dei traguardi raggiunti dalla cantina. «Anche in un contesto economico non facile — ha spiegato

Il dispositivo da 193,6 kwp installato sul tetto della cantina reggiana consentirà un risparmio annuo pari a 44 tonnellate di petrolio e contribuirà a minori emissioni di Co2 per 131 tonnellate.

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Sono circa 60 gli ettari, tra terreni di proprietà e in affitto, di proprietà della Casali Viticultori, vocati a diversi vitigni, dal Sauvignon al Cabernet, con una forte presenza di cultivar autoctone, come il Malbo Gentile, il Grasparossa, l’Ancellotta e il Montericco. Fra tutti spicca l’uva Spergola, le cui origini risalgono addirittura al XV secolo.

Sanmartein È il primo frutto della vendemmia 2011: il Sanmartein Novello Malbo Gentile Colli di Scandiano e di Canossa DOC, vino dal colore rosso porpora intenso, profumo fragrante e sapore stuzzicante, può essere servito in abbinamento con le caldarroste, ma è perfetto anche con i bolliti e lo stinco al forno. • • • • • • • •

Vitigno: Malbo Gentile. Territorio: pedecollinare. Colore: rosso porpora di vivace intensità. Profumo: fragrante e fruttato con netta predominanza di more e lamponi, vinoso, invitante. Sapore: secco e piacevolmente stuzzicante, di media struttura e gradevole persistenza. Temperatura di servizio: 14-16°C. Gradazione: alcool 12% vol. Capacità: 75 cl.

Casali Viticultori Srl Via delle scuole, 7 42019 Pratissolo di Scandiano (RE) Tel.: 0522 855441 – Fax: 0522 984092 E-mail: info@casalivini.it Web: www.casalivini.it

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Galaverni — siamo riusciti a superare i risultati economici del 2010. Questo anche grazie all’apertura di nuovi importanti mercati come Bielorussia, Taiwan, Hong Kong, Australia, Canada e Malesia». «Se i mercati esteri si sono rivelati particolarmente ricettivi verso i prodotti di Casali Viticultori — ha aggiunto Giovanni Sidoli, AD ed export manager di Casali — anche in Italia gli operatori del settore hanno riconosciuto l’importante lavoro svolto negli ultimi anni per la crescita e la qualificazione dei nostri vini, come testimoniano i tanti premi ricevuti nel corso del 2011». Ottime anche le prospettive per il 2012, grazie ad una vendemmia di qualità, sui cui mosti sta lavorando la squadra composta dal direttore di produzione, Iacopo Michele Giannotti, e dall’enologo Luca D’Attoma, noto professionista del settore, che collabora da gennaio scorso come consulente della cantina.

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La 46ª edizione del Salone internazionale da domenica 25 a mercoledì 28 marzo

Con VIVIT Vinitaly presenta le produzioni enologiche da agricoltura biologica e biodinamica Si chiama Vivit – Vigne, Vignaioli, Terroir il salone che Vinitaly dedica quest’anno per la prima volta ai vini naturali prodotti da agricoltura biologica e biodinamica. Lo spazio sarà allestito al 1° piano del Palaexpo, ingresso A. «Con questa iniziativa Vinitaly — spiega Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere — coglie la richiesta che viene dal mercato di conoscere meglio i vini da agricoltura biologica e biodinamica. Il nostro approccio, già sperimentato con successo in varie edizioni, ultimo Sparkling Italy nel 2011, mira a dare evidenza a singoli segmenti produttivi con focus dedicati per mettere in contatto con efficacia offerta e domanda». Il dibattito attorno ai vini da agricoltura biologica e biodinamica è in corso già da alcuni anni, perché le tecniche adottate non sono supportate, nella legislazione comunitaria, da regole a cui attenersi lungo tutto il processo di lavorazione. Per questo, dal punto di vista giuridico, si può parlare solo di “vino ottenuto da uve coltivate biologicamente”. Proprio per evitare fraintendimenti su quali vini saranno in esposizione, Vinitaly ha chiesto alle aziende partecipanti a ViVit di sottoscrivere un’autocertificazione molto restrittiva sui metodi di produzione applicati sia in vigneto che in cantina. L’idea che il più grande appuntamento internazionale dedicato al vino, in programma a Verona dal 25 al 28 marzo 2012, apra a queste produzioni ha suscitato interesse tra i produttori e sono circa un centinaio le aziende, provenienti dai principali Paesi vitivinicoli, ad aver già aderito all’iniziativa. «Noi partecipanti a ViViT — afferma Elena Pantaleoni, dell’azienda biologica La Stoppa — siamo vignaioli che hanno come obiettivo primario fare vini legati al territorio. Come dicono i francesi: vins de terroir. Spesso pratichiamo agricoltura biologica o biodinamica, ma non sempre siamo certificati. In cantina mettiamo in atto pratiche che non alterino le caratteristiche del territorio, ma anche dell’annata e del vitigno; cerchiamo con i nostri vini di esprimere l’unicità e la personalità propria di ogni zona vocata». Produrre con metodo biodinamico, cioè senza l’applicazione di metodi intensivi, lasciando al terreno la capacità di nutrire le piante senza alcun aiuto esterno «non è, di per sé, una garanzia assoluta di qualità — spiega Nicolas Joly, fondatore de La Renaissance des Appellations, l’associazione di vignaioli creata 2001 che conta circa 200 produttori di 14 Paesi, dei quali 34 in Italia — il risultato dipende dal luogo dove si coltiva, dal vitigno scelto, però quando si assaggia uno di questi vini si capisce la differenza perché si torna alla verità del gusto». Difficile avere dati precisi sulla viticoltura da agricoltura biodinamica, di territorio o naturali, anche se numerose sono le associazioni attive a livello sovranazionale con un numero di aderenti piccolo, ma significativo. Più monitorato il biologico: secondo il SINAB (Sistema informativo nazionale sull’agricoltura biologica) tra superfici già convertite e quelle in conversione, il biologico in Italia rappresentava nel 2009 poco più del 6% del totale vitato, pari a oltre 43.600 ettari. Le più coinvolte sono le regioni centro-meridionali, mentre tra le regioni grandi produttrici di vini solo la Toscana è interessata con una percentuale rilevante, pari al 10%. >> Link: www.vinitaly.com

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Un ideale giro del mondo tra le bollicine

Un frizzante futuro per l’Italia

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empre più bollicine nel futuro del vino italiano. Secondo i dati dell’Osservatorio che fa capo all’economista Giampietro Comolli, sono state 420 milioni circa le bottiglie di spumanti italiani stappate nel 2011, pari a 1,2 miliardi di euro, come valore alla produzione, e 2,9 miliardi al consumo. Di queste, ben 280 milioni sono state vendute all’estero, con Asti e Prosecco leader incontrastati delle vendite. In Italia il consumo si è attestato a 150 milioni di bottiglie di produzione nazionale (-1%), cui si sono aggiunte 7 milioni di bottiglie di spumanti importati, quasi totalmente di provenienza francese, con 2 milioni di bottiglie di Champagne che, appena arrivate in Italia, hanno preso immediatamente la strada di altre destinazioni internazionali. Il consumo pro capite italiano di bollicine resta però inferiore a quello di tedeschi, francesi, russi e spagnoli e questo dato alimenta — evidentemente — l’ottimismo che pervade in questo inizio d’anno tutti i produttori di bollicine italiane. Ci sono infatti ampi margini per la crescita del mercato nel nostro Paese con una gamma di tipologie e prezzi davvero notevole. Delle bollicine importate appena 500.000 non sono francesi: 200.000 Cava spagnoli e circa 300.000 bottiglie di produttori di altri Paesi con l’ingresso sul nostro mercato dei primi Metodo classico inglesi. Uno dei frutti positivi del global warming che ha innalzato, e di non poco, la soglia ottimale di coltivazione della vite. Da questi dati, l’idea di percorrere un ideale “giro del mondo” fra le bollicine di diversi Paesi. Ferrari, Riserva Lunelli 2004 Presentata giusto due anni fa, col Millesimo 2002, la Riserva Lunelli rappresenta oggi la punta di diamante

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— assieme al Giulio Ferrari — della produzione della maison trentina che, per la prima volta, inserisce il nome di famiglia sui propri Trentodoc di alto profilo, destinati alla ristorazione top. Una “firma” che pesa, e che vuol pesare, per questo spumante che proviene da sole uve Chardonnay, prodotte nei vigneti di proprietà che circondano la cinquecentesca Villa Margon (altro gioiello di famiglia) sulle colline che sovrastano Trento. I vigneti sono posti a circa 500 metri sul mare, sulla destra Adige, a sud-ovest della città, su un terreno prevalentemente sabbioso, con una larga presenza di scheletro. Il Millesimo 2004 ha beneficiato di ottime condizioni climatiche: dall’inizio della vendemmia si sono

registrate solo due giornate di pioggia, alle quali è seguito tempo asciutto e ventilato, con temperature notturne molto fresche. L’eccezionalità dell’andamento meteorologico si è tradotto nella raccolta di uve perfettamente sane, con ottime gradazioni zuccherine e buoni tenori acidi. I conferimenti sono iniziati nei primi giorni di settembre con le uve base spumante (con circa due settimane di ritardo rispetto al 2003). La Riserva Lunelli vanta una lunghissima permanenza sui lieviti, ben otto anni, inserendosi quindi in una ben precisa fascia di prodotto e di aspettative. Il mosto eleva anche in legno, in botti grandi di rovere austriaco. Di perfetto impatto visivo

Ferrari, Riserva Lunelli 2004.

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è esplosivo nei profumi, con frutto in grande evidenza, frutta gialla matura e note di cedro candito che si fonde coi profumi di lievito, tostatura e crema pasticcera. In degustazione è pieno, ampio, ricco e cremoso: la complessità fa aggio su tutto, con un bellissimo equilibrio. Vitalissimo e fresco, ha una gradevolissima nota ossidata che attraversa tutto il palato (in degustazione: 98). Baron Fuente, Champagne Galipettes bio Non sono molti gli Champagne denominati bio, ma il trend di crescita di questo segmento di mercato è molto forte, in alcuni Paesi del Nord Europa si viaggia al ritmo del 40% annuo, e questa forte richiesta ha portato la maison di Charly-sur-Marne a selezionare alcuni terreni, portarli alla certificazione ambientale, e quindi ad avviare poi una produzione piccola, ma di soddisfazione. Si tratta infatti di appena 10.000 bottiglie — 5.000 sono prenotate da Scandinavia e Finlandia ancora mentre evolvono sulle pupitre — che non riescono proprio ad “invecchiare”. Sui lieviti lo Champagne rimane ben quattro anni e Galipettes viene prodotto soltanto nelle annate migliori: nel 2010, ad esempio, non c’è stato imbottigliamento. Il blend vede il Pinot Meunier al 60% con Chardonnay al 60 e Pinot noir al 10. Al naso immediate note floreali e minerali, ma è il palato — con una immediata freschezza, l’ottima spalla acida, l’immediata eleganza — che si impone. Lungo, con un ritorno fruttato, di uva passa e mela golden, su un finale aggrumato (in degustazione: 92). Cantine Riondo, Excelsa Soave Castelforte Doc Spumante Brut Per evitare di passare in meno di una stagione da estimatori del Prosecco a “tutto fuorché Prosecco”, si può cercare nella tradizione vinicola di casa nostra qualche altra tipologia spumante che mantenga anch’essa il legame col territorio d’origine, salvaguardi il frutto senza distruggerlo in autoclave, e sia un buon vino da bere. Un esempio è l’ultimo nato di Cantine Riondo, lo Spumante Brut della linea Excelsa, che arriva da

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Azienda Agricola Bellaveder. vigneti collinari a Soave, Colognola ai Colli e Monteforte d’Alpone. La lavorazione è quella classica: pressatura soffice e decantazione a freddo del mosto. Fermentazione a temperatura controllata, quattro mesi sui lieviti in autoclave più due di affinamento in bottiglia. Il risultato è un Soave assai gradevole, con un gradevole ingresso in bocca, con bollicine molto fini, senza la grossolanità di tanti altri Charmat dove si percepisce più la fretta del fare che non la cura della lavorazione. Al naso è ricco di profumi, con note fruttate marcate e sensazioni floreali eleganti. Il palato è coerente, ha una bella spalla acida ed un finale molto lungo che termina con una nota di mandorla molto equilibrata che lascia un palato pulito, senza sensazioni amare o, al contrario, sdolcinate (in degustazione: 86). Bellaveder, Trentodoc Riserva 2006 Questo Blanc de Blancs, 100% Chardonnay, nasce sulle colline di Faedo, in un singolo vigneto di poco più di sette ettari che circonda un antico maso, registrato dal Catasto imperiale sin dal 1780. La proprietà è immediatamente a monte dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, dominando così la Piana Rotaliana da un’altitudine media di 280 metri sul mare, con un’esposizione a sud-sud ovest. Una zona bellissima, ricca di ventilazione, perfettamente esposta con un differenziale di temperature

fra giorno e notte molto importante. Al maso è stata affiancata recentemente una moderna cantina che è stata scavata in profondità ex novo nella roccia e poi ricoperta di terreno agricolo su cui sono state impiantate nuove viti. Per la produzione del Metodo classico — di questa annata sono disponibili soltanto 6.000 bottiglie — vengono utilizzati due impianti di Chardonnay che risalgono al 1982 ed all’87; in parte sono allevati a pergola trentina ed in parte a spalliera. La produzione è fissata in 90 quintali ettari con una resa in mosto del 60%.

Champagne Galipettes bio Baron Fuente.

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Questa Riserva, con 36 mesi di permanenza sui lieviti, vede il mosto fermentare parte in acciaio e parte in barrique. L’estrema cura in cantina si palesa immediatamente al naso dai tipici sentori di lievito, crosta di pane e crema pasticcera che si fondono con le note fruttate di mela a pasta gialla, tropicale e gradevolmente aggrumate. Al palato si presenta cremoso, caldo, con note di frutta cotta, di mele al forno caramellate. Finale dove ritornano note fruttate aggrumate, molto piacevoli ed eleganti (in degustazione: 88). Cave de Hunawihr, Cremant d’Alsace Il blend è formato da Chardonnay, Pinot Blanc, Pinot Gris e Pinot Auxerrois. La cantina è sorta dopo la seconda guerra mondiale per permettere ai coltivatori di Hunawihr e di altri due comuni limitrofi di mettere ordine nella produzione e nella commercializzazione, portando a reddito la loro attività uscita distrutta dalla guerra. Cinquant’anni dopo, e tanto duro lavoro alle spalle, la Cantina è stata premiata come miglior coop alsaziana e terza di Francia. L’esperienza vinicola di Hunawihr è comunque di primaria grandezza, con tradizioni che risalgono al 1100. Sono 200 gli ettari coltivati dal 130 soci: 13 sono destinati esclusivamente ai Cremant, ben 12 sono Grand Cru: Rosacker, Froehn, Sporen, Schoenenbourg e Osterberg. Venendo al Cremant, al

naso sono marcati i profumi di fiori bianchi e brioche; in bocca questo Cremant si presenta muscoloso, abbastanza potente, con una bella spalla acida. Tornano le note di brioche e di pane fresco; sul finale note più gentili d’agrumi. Un metodo classico molto raffinato (in degustazione: 88). Camel Valley Vineyard, Cornwall Brut 2009, Pinot Noir Rosè 2009 Con 2 milioni di bottiglie di spumante prodotti ogni anno, l’Inghilterra sta conquistando non soltanto il mercato domestico, ma anche schiere di affezionati consumatori in tutta Europa. Tanto che i vini non riescono ad affinare al meglio, venendo subito venduti per soddisfare la domanda. Camel Valley è la “culla” di Camelot e di Re Artù, e qui — in una proprietà che degrada su un fiume ricco di salmoni — un ex pilota della RAF, Bob Lindo, ha deciso di impiantare i suoi vigneti. Con Bob lavora tutta la sua famiglia, e suo figlio — Sam — è stato proclamato per due anni di seguito miglior enologo del Regno Unito. I suoi metodo classico, sia Blanc de Blancs che Rosè si sono imposti in molte competizioni internazionali e con la “collega” Nyetimber, Camel Valley rappresenta la punta di diamante della produzione vinicola inglese. Questo Rosè, ad esempio, non sfigura affatto davanti ai migliori Champagne con profumi netti e marcati, un’eleganza davvero importante ed una invidiabile facilità di beva (in degustazione: 91).

Cremant d’Alsace Cave de Hunawihr. Vinicola de Nulles, Adernats Brut Cava Il Metodo classico spagnolo — catalano, in verità — vanta numeri di tutto interesse: sono quasi 300 infatti i milioni di bottiglie realizzate ogni anno. Prodotto con uve autoctone, negli ultimi tempi ha lasciato un po’ di spazio anche alle varietà internazionali: questo per rendere più “facile” il Cava perdendo un po’ delle spigolosità che si riscontravano nel passato, ma che ne rappresentavano anche il carattere distintivo. Ad ogni modo, questo Adernats Brut è prodotto con le varietà tipiche e tradizionali del Cava — Macabeu, Xarel-lo e Parellada — da una delle storiche cooperative della zona di Tarragona e presenta un’eleganza e una freschezza davvero invidiabili pur rimanendo intatte tutte le caratteristiche aromatiche proprie dello spumante catalano. Impatto floreale al naso, immediato e potente, bilanciato al palato con note fruttate d’agrumi, col cedro in evidenza, e toni tropicali. Sapido e di bella mineralità. Molto gradevole, invitante e, come per tutti i Cava, con un rapporto qualità/prezzo da far impallidire (in degustazione: 89).

Vinicola de Nulles.

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Wine & Food Photography: la cantina diventa set Il photo shooting del Sagrantino: da Antonelli San Marco un corso di scatti enogastronomici per raccontare il vino e la cucina attraverso le immagini. A Montefalco, dall’11 al 13 maggio, con Alfio Garozzo Sarà un fine settimana di ricerca fotografica e visiva. Tutti a sistemare le luci, a comporre la scena, a puntare gli obiettivi, per poi fare click e valutare insieme il risultato finale. Un corso di due giorni sulla fotografia applicata al mondo del vino, della gastronomia, dell’enoturismo, tenuto dal fotografo siciliano Alfio Garozzo, collaboratore delle più importanti riviste italiane di turismo. Il set scelto per questo speciale fine settimana sarà la cantina Antonelli San Marco, una realtà vitivinicola molto scenografica: un antico palazzo circondato da vigne e ulivi sulle morbide colline umbre, dove nascono le uve per il Sagrantino di Montefalco. All’interno di quest’antica tenuta troviamo camere ben arredate per la notte, un’ampia sala degustazione con punto vendita, una scuola di cucina con ristorante umbro, un vigneto in corso di conversione biologica e una moderna cantina in cui i processi produttivi avvengono per caduta, in un’ottica di sostenibilità e risparmio energetico. Il corso è rivolto a un massimo di 10 partecipanti ed è organizzato dalla cantina Antonelli San Marco (www.antonellisanmarco.it) in collaborazione con il fotografo Alfio Garozzo (www.alfiogarozzo.it) e con The Wine Traveller, testata giornalistica on-line di turismo enogastronomico (www.thewinetraveller.it). 11-13 maggio 2012, a Montefalco (Perugia) Il programma prevede due giorni di corso, pernottamento per due notti in agriturismo, colazione, pranzi e cene. Il venerdì sera ci sarà la cena di benvenuto con il vignaiolo Filippo Antonelli e la presentazione del corso. Il sabato tutto il giorno corso di fotografia tra le vigne e la cantina, con tecniche di ripresa del paesaggio, degli interni e ritratto fotografico. La sera cena presso l’enoteca L’Alchimista di Montefalco, a base di prodotti locali. La domenica mattina il corso si svolgerà negli spazi della Cucina in Cantina, concentrandosi sul food. I partecipanti, divisi in due gruppi, si alterneranno tra fornelli, schemi luce e macchine fotografiche. Il pranzo conclusivo sarà a base di specialità umbre preparate direttamente dai corsisti sotto la supervisione delle cuoche casalinghe della scuola di cucina di Antonelli San Marco. Tutti i pasti saranno sempre accompagnati dai vini di Antonelli. La quota di partecipazione è di 500 € a persona, tutto compreso secondo programma. Per informazioni e adesioni: Antonelli San Marco, Casale Satriano Tel.: 0742 379158 – E-mail: info@antonellisanmarco.it

Cantina Antonelli San Marco (foto di Massimiliano Rella).

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I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione: di Laura

U

na realtà agricola che ha trovato nelle sue interpretazioni vinicole un’ottima rappresentanza, con risultati considerevoli, di gusto e di vendite. L’area di coltivazione e produzione si sviluppa a sud del fiume Po e si spinge fino a parte delle colline sottostanti l’Appennino. In particolare il Pinot Nero ha scoperto un terreno più che favorevole alla sua coltivazione, con oltre 3.000 ettari vitati. Si ipotizza che i genotipi originali del Pinot Nero vi fossero già coltivati dai Romani,

che con grande probabilità l’importarono dalla Francia del Sud. La tipologia Oltrepò Pavese Spumante, prodotto con il Metodo Classico, prevede un uvaggio di Pinot Nero per un minimo del 70%, Pinot Bianco, Pinot Grigio o Chardonnay, soli o congiunti, per un massimo del rimanente 30%. Può essere vinificato nelle versioni Bianco o Rosato ed è prevista anche la versione Millesimato, se ottenuto con le sole uve di un’annata particolarmente buona, che deve essere chiaramente riportata in etichetta ed effettuare un

Pinot Nero Brut Rosè de Noir Il Montù

Oltrepò Pavese DOCG Brut Vergomberra 2006 Bruno Verdi

Oltrepò Pavese DOCG Pinot Nero Fiamberti Cruasé 2008 Fiamberti Giulio

La Cantina Storica di Montù Beccaria, conosciuta come “Il Montù”, nasce sulle ceneri dell’antica Cantina Sociale fondata nel 1902, realtà particolarmente importante per il territorio. I vini prodotti da questa cantina, come le grappe, sono infatti da sempre un punto di riferimento. Il Pinot Nero Rosè de Noir, prodotto con sole uve di Pinot Nero vinificate in rosato, si presenta di un bel rosato leggero con un perlage fine e persistente, che anche al palato risulta morbido. Al naso si apre con lenta eleganza, centellinando sentori di lieviti, nocciole, floreale e leggeri toni fruttati. In bocca la degustazione continua confermando le sensazioni di charme avute durante l’analisi olfattiva. Morbido con una bella e ben presente spalla acida a sostegno, fragrante e rotondo, chiude in equilibrio. Calice da aperitivi, ampie le possibilità d’abbinamento, in particolare con i salumi dell’Oltrepò Pavese.

È Paolo Verdi, figlio di Bruno, a portare avanti con entusiasmo le tradizioni della cantina, proponendo vini convincenti e di ottima qualità. In particolare, il Vergomberra 2006 ha regalato copiose note d’eleganza, convincendo senza remore durante la degustazione. Brillante il perlage, al naso si apre pulito con profumi fruttati di piccola frutta rossa, nocciola tostata, tenue rosellina di bosco, sentori fragrante e netti di lieviti. Una piccola parte del mosto fermenta in piccoli carati di legno, donando al prodotto una complessità olfattiva degna di nota. In bocca è decisamente armonico, pulito e rotondo, non è aggressiva la schiuma, equilibrato tra le parti. Grande la varietà di abbinamento, a partire dai fritti, in particolare di pesce, per terminare con le coppe stagionate e i salami saporiti.

L’azienda Fiamberti ha radici lontane: parte, infatti, nel XVI secolo la storia di questa cantina, che con coerenza continua a produrre vini di grande tradizione e gusto. Uve di Pinot Nero in purezza per questo splendido calice brillante e dalla spuma consistente, raffinata. Al naso si presenta molto fine e con sentori netti e carichi di ribes, vinosità, mandorle e nocciole, crostate al burro, ricordi vegetali e lieviti. Al palato la degustazione continua con coerenza, entra morbido, schiuma elegante, buona la trama e la freschezza, armonico con chiusura rotonda. Vista la complessità è ampia la gamma degli abbinamenti, è certamente un vino adatto al rito dell’aperitivo, su finger food sfiziosi, ma si presta decisamente per essere bevuto a tutto pasto.

Cantina Storica di Montù Beccaria Srl Via Marconi, 10 27040 Montù Beccaria (PV) Tel.: 0385 262252 – Fax 0385 262942 ilmontu@ilmontu.com

Azienda Agricola Verdi Paolo Via Vergomberra, 5 27044 Canneto Pavese (PV) Tel.: 0385 88023 – Fax: 0385 241623 info@brunoverdi.it

Azienda Agricola Giulio Fiamberti Via Chiesa, 17 27044 Canneto Pavese (PV) Tel.: 0385 88019 – Fax: 0385 88414 info@fiambertivini.it

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Oltrepò Pavese Franchini

invecchiamento di almeno 24 mesi. Le tipologie previste dal Disciplinare di produzione della DOCG sono Oltrepò Pavese Metodo Classico, Oltrepò Pavese Metodo Classico Rosè, Oltrepò Pavese Metodo Classico Pinot Nero, Oltrepò Pavese Metodo Classico Pinot Nero Rosè, e il Cruasè. Il Consorzio dell’Oltrepò Pavese è depositario anche del marchio “Cruasè”, Metodo Classico rosato ottenuto da sole uve di Pinot Nero. Il Cruasé fa riferimento, come metodo produttivo, agli standard specificati dalla DOCG,

a cui si aggiunge un affinamento sui lieviti di minimo 24 mesi e può essere prodotto nelle tipologie Brut e Brut Nature. Il marchio “Cruasè” nasce dalla congiunzione della parola “cruà”, che era l’antico nome del vitigno e del vino per eccellenza prodotto nell’Oltrepò Pavese a cavallo del 1700, di tipologia rosato, e ovviamente della parola “rosè”, a ricordarne il colore. Si tratta del primo rosè naturale per nascita, prodotto con cuvée da uve bianche e rosse, da mosti o da vini.

Oltrepò Pavese DOC Brut Monsupello

Oltrepò Pavese DOCG Pinot Nero Oltrenero Cruasé 2007 Il Bosco

Mazzolino Blanc de Blanc 2008 Tenuta Mazzolino

Una realtà vinicola dell’Oltrepò Pavese particolarmente di successo quella di Monsupello, che produce circa 270.000 bottiglie in quel di Torricella Verzate. Il vino Oltrepò Pavese Doc Brut, prodotto con grande prevalenza di uve di Pinot Nero, è decisamente convincente ed affascinante, già dal calice, brillante. Al naso rivela tutta la sua suadenza, con note fruttate di ribes rosso e cassi, fiori rossi, rose appassite e piccola speziatura a corredo. Note dolci di lieviti. Anche al palato conferma coerenza e circolarità, grazie ad un equilibrio tra parti morbide e dure davvero eccellente. Un’armonia straordinaria unita ad un gusto deciso, che rende questo vino adatto a molteplici abbinamenti, partendo dagli aperitivi. Da provare con olive all’ascolana, fritture di pesce, creme al formaggio.

Produce circa un milione di bottiglie questa cantina, che si vede particolarmente impegnata nella coltivazione e vinificazione del Pinot Nero, con risultati eccellenti. In particolare abbiamo apprezzato il fascino risoluto dell’Oltrenero Cruasé, che già visivamente conquista con un bel rosato brillante con riflessi violacei. Ma è all’olfattiva che sprigiona deciso note suadenti di frutta rossa, fragole, lamponi e ribes, vinoso con ricordi fragranti e vegetali. In bocca la circolarità è regina, con un grande equilibrio. Buona la spalla acida e il perlage, assolutamente fine, persistente e impetuoso nella sua classe. Un vino da tutto pasto, splendido compagno di aperitivi raffinati così come di panini al salame, coppe piacentine, prosciutti crudi.

Questo calice di grande fascino è prodotto con solo uve Chardonnay, in purezza quindi. Un bel giallo paglierino piuttosto carico e brillante anticipa le successive soddisfazioni olfattive e gustative. Sono profumi fini ed intensi di fiori, ginestre e gelsomini, uniti a ricordi di frutta bianca, in particolare esotica, frutta secca e ricordi di caramelle alla banana a contorno. Al palato si presenta morbido, dalla bella schiuma avvolgente, non manca la freschezza, oltre modo necessaria, che rende il calice assolutamente equilibrato. Una gran bella armonia, assolutamente elegante. Se ne consiglia l’abbinamento con risotti cremosi, formaggi morbidi, crostini con lardo o pancetta, fritti misti, lingua salmistrata.

MonsupelloEredidiBoattiCarloSoc.Agr. Via San Lazzaro, 5 27050 Torricella Verzate (PV) Tel: 0383 896043 – Fax: 0383.896391 monsupello@monsupello.it

Tenuta Il Bosco Località Il Bosco 27049 Zenevredo (PV) Tel.: 0385 245326 – Fax 0385 245324 info@ilbosco.com

Az. Agr. Tenuta Mazzolino Via Mazzolino, 26 27050 Corvino S. Quirico (PV) Tel.: 0383 876122 – Fax: 038 89648 info@tenuta-mazzolino.com

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Analisi di settore

A tutta Birra In un anno 7 milioni di consumatori in più. La bevanda alcolica preferita dai 30-40enni, piace sempre più alle donne

N

el 2011 hanno scoperto la birra 7 milioni di neo consumatori, portando a 36 milioni il totale dei suoi appassionati. A rivelarlo è la ricerca ISPO/ASSOBIRRA “Gli italiani e la birra 2011”, che per il 15mo anno consecutivo studia l’evoluzione dei consumi e della percezione di chiare, rosse e scure. Secondo l’indagine, realizzata su un campione di 1.200 individui rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, in un anno il consumo totale dichiarato di birra passa infatti dal 58,5% al 72,4% dei nostri connazionali: un aumento pari al 14% del totale dei maggiorenni che posiziona oggi la birra sullo stesso piano del vino, che ha un bacino di estimatori pari al 79,5% della popolazione. Come i jeans, easy e versatile «Semplice, ma non semplicistica, bella ma non snob o pretenziosa. Per gli italiani — commenta Renato Mannheimer, presidente ISPO — la birra è easy, un piacere che si offre al gusto senza complicazione. È come i jeans, democratica. E, quindi, unica

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e insostituibile. Lo è soprattutto per le generazione dei 30-40enni, che l’hanno eletta a loro bevanda preferita. Questo avvicinamento, impensabile fino a pochi anni fa, certifica l’amore crescente degli italiani per le bevande fermentate. Birra e vino oggi raccolgono quasi equamente il gradimento dei nostri connazionali, qualificandosi come le bevande alcoliche più apprezzate e scelte dagli italiani, con un significativo margine su cocktail e superalcolici, rispettivamente di 17 e 24 punti percentuali». Dai 45 anni in su è invece il vino a riaffermare con decisione il suo primato nel gradimento del Belpaese. Dati confermati da una ricerca VINITALY/CONFCOMMERCIO, da cui emerge che il consumatore abituale di vino ha, mediamente, più di 50 anni. In altre parole, se chiediamo agli italiani qual è la bevanda alcolica preferita in assoluto, la popolazione si divide per età: gli under 44 rispondono soprattutto birra e gli over 45 soprattutto votano vino. Prevale il consumo moderato Al di là dei numeri assoluti, colpisce l’approccio, sempre più responsabile,

al consumo della birra, ormai connotato nell’area dell’assaggio e della degustazione. A trainare questo trend positivo è, infatti, soprattutto la fascia dei consumatori che la bevono meno di una volta a settimana, aumentati in un anno di quasi il 40% (passando dal 26,3% al 35,3%), mentre crescono del 20% quelli “abituali”, che si concedono lo sfizio di una birra almeno una volta a settimana (da 24,6% a 29,9%). Sostanzialmente invariata, anzi, in leggero ribasso di –0,4%, la percentuale di quanti (3,6 milioni) la consumano tutti i giorni. Birra regina nei pasti fuori casa Per gli italiani la birra è ormai a tutti gli effetti una bevanda da pasto. La beviamo quasi sempre in accompagnamento al cibo, come consigliano i nutrizionisti. In quest’ambito, la birra si conferma bevanda regina: soprattutto nei pasti dei giorni festivi al ristorante (42,6%) e nelle cene fuori dei giorni feriali (30,9%). Del resto, sono ormai più di 300 i ristoranti forniti di carta delle birre, per non parlare delle pizzerie, dove l’accoppiata “pizza & birra” è una bandiera del gusto low

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cost da oltre 30 anni. La riduzione della “forbice” tra birra e vino è evidente se si analizza l’andamento dell’ultimo decennio. Otto anni fa non c’era storia: per ogni italiano che al ristorante ordinava una birra, ce ne erano 2 che bevevano vino. Oggi, invece, la situazione si è equilibrata, con un leggero vantaggio per la bionda. Che, nei pasti fuori casa del fine settimana affianca il vino (42,6% la birra, 41,9% il nettare di bacco), mentre in quelli feriali lo supera ormai di circa 2 punti percentuali, 21,8% a 19,6%. Tutt’altra situazione, invece, nei pasti in casa, dove il vino resta di gran lunga la bevanda preferita dagli italiani (dopo l’acqua minerale), e vanta un consumo superiore di quasi 5 volte a quello della birra. AssoBirra: bene l’approccio responsabile al consumo di birra «La ricerca di quest’anno delinea un panorama inedito del bere bene degli italiani dove la birra gioca finalmente un ruolo di primo piano» afferma Filippo Terzaghi, direttore di ASSOBIRRA. «Il fatto che la crescita del numero dei suoi appassionati sia caratterizzata dal consumo a pasto, e quindi moderato e responsabile, premia l’impegno per la promozione della cultura di prodotto portate avanti in questi anni dall’industria della birra». Birra sempre più rosa Oggi la distanza tra sessi nel consumo di birra si sta sempre più riducendo. Su un totale di 36 milioni di amanti della birra, ci sono infatti oltre 16 milioni di donne, pari al 62,7% delle italiane maggiorenni. Sarà anche merito del venir meno di alcuni antichi pregiudizi: scende infatti del –11% la percentuale di quanti ritengono che la birra gonfi o della scoperta della sua anima gastronomica nel suo sapersi adattare a tante pietanze della nostra cucina. Trendy, poco alcolica e rinfrescante Ma quali sono i motivi di questo successo? Tra quanti bevono più birra rispetto a 2-3 anni fa, il 61% dichiara di averlo fatto perché “esce più spesso con gli amici” e “ha più occasioni di berla all’happy hour”, mentre per il 28% è “il suo tipico gusto” legger-

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Su un totale di 36 milioni di amanti della birra, ci sono oltre 16 milioni di donne, pari al 62,7% delle italiane maggiorenni. mente amaro e schiumoso a farla preferire rispetto ad altre bevande. Inoltre è “poco alcolica” (10%) e “rinfrescante” (8,9%). Molto forte anche la componente socializzante: la birra è la bevanda alcolica preferita dagli italiani “quando esco con gli amici” (39,7%) o quando “guardo la partita in TV” (31,3%) o, più semplicemente, “per rilassarsi a casa” (21,4%). In valori assoluti, la ricerca ISPO/AssoBirra conferma che è il fattore gusto, per 6 italiani su 10, il principale motivo di scelta di questa bevanda; il 16,5% dei consumatori beve birra perché “è leggera” e c’è anche un significativo 8,7% che la sceglie “per abitudine”. L’ultimo anno consolida anche l’immagine positiva di questa bevanda: cresce la percezione che la birra sia

rinfrescante (7,2 in una scala da 1 a 10), naturale (7), conveniente (6,8), facilmente digeribile (6,6) e adatta a tutti gli ambienti e le occasioni (6,3). La birra preferita? Quella chiara Uomini e donne “uniti” dalla birra chiara, che si conferma la tipologia preferita in tutte le occasioni di consumo, ad esclusione del dopo cena a casa o in un locale, dove è insidiata da birre più corpose e dalle birre speciali. A decretare il successo di questa “famiglia” (che comprende lager, pils, light e analcolica) il gusto, certo, ma anche per il fatto di essere la birra più versatile e leggera, la più conosciuta e la meno alcolica. Adatta ad accompagnare un pasto ma anche ad essere gustata da sola.

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Olio

L’olio dei Greci sulla costa ionica di Stefania Monaco

D

ue ragazzi che vivono a poche decine di chilometri, più o meno della stessa generazione e con la stessa passione, ma che non si conoscono. Questo è un aspetto della realtà al sud, in particolar modo della Calabria, una realtà abbastanza sconfortante di solitudine e di ideali. ANTONELLO GIALDINO e PIETRO GIOVAZZINI di cose di cui parlare ne avrebbero davvero tante: sono entrambi produttori di olio. In Calabria ci sono più di 139.000 aziende di olio e se ne producono 200.000 tonnellate. In breve, sul territorio nazionale la Calabria si colloca in seconda posizione come produttrice di olio. L’olio si è sempre fatto, qui; sul versante ionico, i Sibariti provenienti dalla Grecia avevano apprezzato que-

sta costa proprio perché era perfetta per coltivare viti, ulivi e agrumi. Sin dall’antichità quasi ogni famiglia possiede un uliveto. Ma torniamo ai nostri due “futuri” amici; è bene che l’uno sappia dell’altro, che la pensano diversamente in fatto di processi di lavorazione sull’olio. Pietro Giovazzini è di Cerchiara di Calabria, della zona piana, i suoi uliveti si trovano a pochi chilometri dalla spiaggia ionica. Il suo marchio Eleusi (nome di una città greca) è entrato quest’anno per la prima volta sulla guida Slow Food degli extravergini, con un costo in guida di “1” (cioè un olio che costa al massimo 7,99 euro al litro). Pietro, figlio di produttori di olio venduto prima sfuso, dopo la laurea

in agraria nel 2008, ritorna a casa e decide di imbottigliare, per migliorare la produzione, adottando il sistema di frantoio continuo e molitura a freddo. Adotta un mezzo meccanico, lo scuotitore, che consente una raccolta veloce. Inoltre, per la Grossa di Cassano, la Tondina, la Carolea e la Nocellara Messinese, le varietà del luogo, usa il sistema di irrigazione a goccia. Una grande tecnologia adottata per avere un olio vellutato anche all’assaggio in frantoio, profumo di nocciola e di pomodoro, piccante, elegante e delicato. Dalla tradizione millenaria del luogo, pratica anche l’estrazione degli oli con frangitura dal mandarino e dal limone. Due prodotti veramente territoriali: i frutti (cioè olive e agrumi)

Ulivi e limoni.

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danno vita non a uno di quegli oli aromatizzati, molto spesso disgustosi e per così dire “turistici”, ma a un unicum perfetto, da utilizzare a gocce su crostacei, pesce crudo, carni alla griglia, insalate e pasticceria. Se le geisha giapponesi mangiavano fragole per profumare la loro pelle, di sicuro le donne di Sibari, dopo aver fatto i fanghi di bellezza nelle Grotte delle Ninfee, proprio qui vicino, condivano le loro pietanze con questo olio profumato. Antonello Gialdino produce e suona nella zona di Morano Calabro; certo è che, se l’Orchestra Mediterranea di Ambrogio Sparagna lo ascoltasse suonare l’organetto, lo sequestrerebbe ai suoi ulivi e questi resterebbero senza musica. Lui è solito suonare lì sotto, «si sta freschi — dice — e loro ascoltano». Da gennaio il suo olio, sotto il marchio Exabbatia, viene venduto in bottiglia. Nel frantoio una bella scena di raccolta delle olive al tempo dei Greci si trova sulle pareti decorate dall’artista Nico Zazzo. «Siamo artigiani, vogliamo mantenere questa manualità, questo controllo su tutte le fasi di lavorazione; vogliamo custodire la tradizione, siamo in pochi oramai a farlo, ce l’hanno insegnato i nostri vecchi come fare l’olio. Certo è faticoso, e anche rischioso, seguire tutto manualmente, ci vuole esperienza. L’unico cambiamento per noi sarà mettere l’olio in una bottiglia; potremo portare in giro la nostra memoria». Il profumo dell’olio appena franto è veramente piacevole, ci sono note di origano, camomilla, mandorla, cardo, pomodoro. Un blend di Frantoio, Ogliastra, Roggianese, qualità delle colline tra Morano Calabro e Shën Vasili, ai piedi del parco del Pollino vista Ionio, il mare che le ha portate fin qui. Stefania Monaco Olio Eleusi Contrada Piana 87070 Cerchiara di Calabria (CS) Tel.: 0981 994204 – www.eleusi.net Olio Exabbatia Località Abbadia, Shën Vasili (San Basile – CS) – Tel.: 328 8133383

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In alto: olio Eleusi con limone. Dalla tradizione millenaria del luogo, Pietro Giovazzini, di Cerchiara di Calabria, pratica anche l’estrazione degli oli con frangitura dal mandarino e dal limone. In basso: olio Exabbatia. Da gennaio l’olio prodotto da Antonello Gialdino viene venduto in bottiglia.

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Aceto In un libro storia, scienza ed esperienza di un prodotto unico al mondo

Il balsamico della tradizione secolare 400 pagine racchiudono la storia e i metodi senza tempo che da centinaia di anni portano alla nascita dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena. Rivolto ai piccoli produttori, agli appassionati, ma anche ai semplici curiosi, il volume è curato dalla Consorteria di Spilamberto, depositaria di un sapere antico che tiene viva questa eccellenza modenese

“B

alsamico della tradizione secolare”: è il titolo a racchiudere le parole chiave del nuovo libro dedicato all’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, ma anche quelle del lavoro di chi intende produrre o semplicemente apprezzare una ricchezza tutta modenese. Il volume, seconda edizione dopo la prima del 1999, è l’unica “biografia autorizzata” del Balsamico Tradizionale, che per la prima volta raccoglie in maniera completa ed esaustiva contributi storici e tecnico-scientifici relativi a un’eccellenza enogastronomica. È una bussola con istruzioni e consigli per produttori e appassionati, ma interessante anche per i curiosi che vogliono avvicinarsi al mondo del Balsamico Tradizionale. Il libro rende omaggio al territorio emiliano: le sue 400 pagine raccontano di un prodotto che conserva e tramanda la memoria del passato, dei suoi più antichi utilizzi, del lavoro nei campi, delle cure rigorose e della lentezza del suo evolversi. Realizzato col patrocinio della Regione EmiliaRomagna, è curato dalla Consorteria dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Spilamberto, in collaborazione con la Camera di Commercio di Modena e il Museo del Balsamico Tradizionale. La Provincia di Modena e il Comune di Spilamberto sono i partner istitu132

zionali, Banca popolare dell’Emilia Romagna e il Consorzio Tutela Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP gli sponsor che hanno contribuito alla realizzazione dell’opera. «Il volume è frutto di un lavoro corale che ha avuto come motore la passione comune per il Balsamico Tradizionale — spiega Luca Gozzoli, Gran Maestro della Consorteria — ringrazio i maestri della Consorteria e tutti coloro che hanno contribuito alla stesura di queste pagine. Il ricavato delle vendite andrà a sostenere il lavoro della Consorteria, rivolto alla promozione e tutela di una tradizione secolare che arricchisce le nostre terre. E per rendere senza confini la “legge del Balsamico” fatta di amore, dedizione, progressi lenti ma continui, è prevista a breve anche un’edizione in lingua inglese». Il libro è costituito da cinque sezioni che approfondiscono i diversi aspetti dell’Aceto Balsamico Tradizionale e arricchito da un’ampia raccolta fotografica che racconta il percorso del prodotto dall’uva, al mosto, all’invecchiamento nelle botti fino all’imbottigliamento. Si comincia con la prima parte dedicata agli aspetti storici del prodotto. In queste pagine il lettore scoprirà che le radici dell’Aceto Balsamico della Tradizione sono da ricercare nella consuetudine di cuocere il mosto: una

Il volume è in vendita presso il Museo del Balsamico Tradizionale a Spilamberto, al prezzo di € 29,00. pittura funeraria rinvenuta in Egitto testimonia come questa pratica risalga a tempi molto lontani, intorno al 1000 a.C. Questa tradizione tanto antica è giunta, di generazione in generazione, fino a noi praticamente immutata e si è fortemente radicata nel territorio modenese. Dalle usanze familiari alle normative di tutela, l’evoluzione storica del Balsamico Tradizionale si delinea tra indizi, accenni e citazioni disseminati nel tempo, e attraverso documenti che testimoniano donazioni, eredità, Premiata Salumeria Italiana,1/12


concorsi, esposizioni e vendite si arriva al più recente disciplinare di produzione. Il Disciplinare di produzione DOP è il documento che, in maniera definitiva, dal 2000 stabilisce e garantisce con severi controlli le peculiari caratteristiche del Balsamico Tradizionale. Le materie prime e le conoscenze tecniche che consentono di produrre un buon Aceto Balsamico Tradizionale di Modena sono al centro della seconda parte del testo. Dal lavoro nei vigneti e la vendemmia, all’accurata selezione dei vitigni fino alla delicata pigiatura: le tecniche tradizionali per produrre ABTM partono dai campi, dove nascono le uve migliori. Segue la cottura del mosto, un momento fondamentale della realizzazione del prezioso prodotto: su grandi fuochi, dentro a giganteschi paioli, il succo d’uva viene cotto lentamente ad una temperatura che non deve superare i settanta gradi, sino alla sua riduzione a un mezzo o anche a un terzo del suo volume iniziale. Dopo questo rito, la base del Balsamico Tradizionale è pronta per essere pazientemente invecchiata in botti di legno diverso, di grandezza a scalare, fino all’ottenimento dei sapori, degli odori e dei colori caratteristici di uno dei prodotti gastronomici più pregiati al mondo. È l’acetaia la protagonista della terza parte del volume: qui vengono svelati tutti i segreti per la preparazione, avviamento e conduzione del luogo che accompagna il Balsamico Tradizionale verso una perfetta armonia di odori, sapori e consistenza. Questa sezione spiega come acetificare le botticelle, scegliere il momento adatto all’avviamento, seguire le fasi di trasformazione del mosto, fino alle delicate operazioni di prelievo, travaso e rincalzo. Viene indagata anche la funzione di lieviti e acetobatteri nella produzione, microrganismi invisibili che rendono

Botti per l’invecchiamento dell’aceto (foto: www.oliviaemarino.it). il Balsamico Tradizionale un prodotto vivo, sensibile ai mutamenti ambientali e agli interventi umani e per questo soggetto a vere e proprie “patologie”. È però possibile evitare questi inconvenienti predisponendo tutto nella maniera corretta, come tradizione comanda. La quarta parte è dedicata agli aspetti organolettici che caratterizzano l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena. La valutazione di un campione di ABTM avviene attraverso l’uso di quattro dei nostri cinque sensi: la vista, l’olfatto, il tatto e il gusto. Sono soprattutto le specifiche caratteristiche dei due sensi chimici e dei due organi più importanti per la degustazione, gusto e olfatto, a determinare i precisi comportamenti da rispettare in fase di assaggio. La valutazione delle proprietà specifiche di cui è dotato un campione di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena viene condotta attraverso le sequenze dell’esame organolettico, tradotte e concretizzate grazie al supporto di uno strumento indispensabile: la scheda di degustazione.

“Il libro è costituito da cinque sezioni che approfondiscono i diversi aspetti dell’Aceto Balsamico Tradizionale e arricchito da un’ampia raccolta fotografica che racconta il percorso del prodotto dall’uva, al mosto, all’invecchiamento nelle botti fino all’imbottigliamento” Premiata Salumeria Italiana, 1/12

Il libro si chiude con una quinta parte dedicata ai baluardi che hanno il compito di conservare e tramandare questa tradizione antichissima. In primis la Consorteria dell’Aceto Balsamico Tradizionale, nata nel 1967 a Spilamberto per promuovere, organizzare e sostenere iniziative e manifestazioni dirette alla tutela e alla valorizzazione dell’ABTM, nonché alla diffusione della sua conoscenza nel rispetto assoluto della tradizione. Il Palio di San Giovanni è un appuntamento annuale che ha come obiettivo quello di conservare e rafforzare la tradizione: da 45 anni nelle stanze di Villa Fabriani a Spilamberto migliaia di campioni vengono assaggiati per decretare il migliore ABTM prodotto nell’area degli antichi domini estensi. Dal 2002, poi, il Museo del Balsamico Tradizionale è il punto di riferimento per la diffusione della cultura del balsamico legata al territorio e alla sua gente. Al suo interno sono ospitate alcune batterie dell’acetaia sociale condotta dai soci di maggiore esperienza della Consorteria, nel rigoroso rispetto delle regole e della tradizione secolare. Il libro “Il Balsamico della tradizione secolare” è in vendita presso il Museo del Balsamico Tradizionale a Spilamberto, al prezzo di 29 €. A breve è prevista anche la distribuzione nelle librerie.

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Storia e cultura

VIP: Visti Io Personalmente L’alluvione di Firenze nel 1966 e la saggezza dell’ex sindaco gigliato, Giorgio La Pira, uomo di profonda umanità di Angelo Valentini

A

proposito di alluvione: quando le acque del fiume Arno invasero la città di Firenze, trasformando la conca fiorentina in un vasto lago misto a fango e mettendo a soqquadro il centro storico, culla dell’arte per il suo patrimonio unico al mondo, oltre alle innumerevoli botteghe artigiane, situate per lo più al piano terra dei palazzi e nelle vie dei borghi dalla caratteristica toponomastica antica, evocante nomi e luoghi tipici del nostro rinascimento. La notizia giunse in ogni angolo del mondo e la risposta di solidarietà non tardò ad arrivare: privati cittadini, istituzioni nazionali ed internazionali, si prodigarono, testimoniando concretamente la loro solidarietà.

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In quel tempo, per motivi di lavoro mi trovavo in Emilia, dove dirigevo tre importanti aziende agricole: la mia dimora era Scandiano, patria di famosi vini bianchi, lambruschi e di Maria Matteo Boiardo. La notizia dell’immane inondazione fiorentina colpì un po’ tutti, poiché ogni italiano, pur di regioni diverse, sentì di appartenere alla città del Giglio. Con un gruppo di amici affittammo un pullman; non fu difficile reperire, dati lo slancio e la generosità caratteristici delle genti emiliane, viveri di conforto presso i caseifici sociali, le cantine, i salumifici, di cui il territorio dispone. Equipaggiati di stivaloni e pale utili alla bisogna, partimmo di buon mattino, ma, giunti al casello autostradale, ci impedirono

di raggiungere la città, collassata da mezzi di intervento più urgente; ci dirottarono così a Brozzi (sobborgo della periferia occidentale di Firenze, al confine con il comune di Campi Bisenzio, Ndr), una piccola frazione invasa letteralmente dall’acqua e dal fango, di cui ho ancora fissata nella memoria una visione apocalittica, con un piccolo cimitero nel quale spuntavano delle croci ed altre galleggiavano insieme ai tronchi divelti dalla forza impetuosa dell’acqua. Ci mettemmo subito all’opera in mezzo alla popolazione residente dai volti attoniti e smarriti, distribuimmo all’organizzazione creatasi in loco i generi alimentari e iniziammo immediatamente il recupero di suppellettili e oggetti cari legati alla vita

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quotidiana. Al sottoscritto fu affidato il recupero degli arredi sacri appartenenti alla chiesa locale; arredi che, previo inventario e successiva catalogazione, furono messi a salvamento in un apposito locale rialzato. In determinate situazioni, la psiche umana entra in un tale meccanismo per cui l’unico obiettivo è rivolto a risolvere la causa; si dimentica la cognizione del tempo, la fame, la sete; un solo desiderio prevale: restituire al più presto alla gente disperata gli affetti, le cose care che l’acqua in una frazione di tempo immediata ha lambito e distrutto. In tali circostanze si vorrebbe che il tempo si fermasse, mentre, inesorabilmente avaro, esso corre veloce... In un baleno arrivò l’imbrunire, con il flebile sole che si specchiava in un lago di acqua opaca e immonda. Ero intento al recupero di un piccolo crocifisso di bronzo o di ottone, quando mi venne incontro un uomo con in testa un cappellaccio grigio, stivali verdi tutti infangati, un volto noto con occhiali dalla montatura spessa. Mi chiese da dove venivamo e, prima ancora di rispondergli, lo riconobbi. Era Giorgio La Pira, che era stato sindaco di Firenze dal 1951-1958 e dal 1961-1965: cosa potevo dire io al primo cittadino di una città travolta da una tale tragedia, se non che mi dolevo della catastrofe che avevo ben visibile sotto ai miei occhi? La Pira, anziché piangersi addosso, mi raccontò che prima di venire a Brozzi era stato in centro storico, dove aveva incontrato il conservatore delle ipoteche — che si era rivolto a lui disperato per aver perso tutti i registri ipote-

Giorgio La Pira con Angelo Valentini. La Pira fece parte di quella corrente della sinistra democristiana che si identificava in Giuseppe Dossetti. Fu sindaco di Firenze per due mandati: 1951-1958 e 1961-1965. cari. Anziché dolersi dell’accaduto, seraficamente La Pira gli rispose che la mano di Dio era intervenuta per cancellare debiti e crediti, mettendo così in pareggio situazioni disperate che avevano colpito la povera gente. Lui stesso che, meglio conosciuto come “sindaco dei poveri” o “sindaco santo”, viveva parcamente all’interno di un convento. La nostra conversazione fu interrotta bruscamente dalla voce di un emiliano del gruppo che, continuando a lavorare, urlò in dialetto: «dai La Pira ca vin sira»! («dai La Pira smettila di parlare che vien sera»). Le alluvioni vissute in questi ultimi mesi da varie regioni italiane, collegate sì alla meteorologia, oltre che al dissennato assetto urbanistico realizzato in zone altamente a

“Non si dica quella solita frase poco seria: la politica è una cosa ‘brutta!’ No: l’impegno politico — cioè l’impegno diretto alla costruzione cristianamente ispirata della società in tutti i suoi ordinamenti a cominciare dall’economico — è un impegno di umanità e di santità: è un impegno che deve potere convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità” Giorgio La Pira (“La nostra vocazione sociale”) Premiata Salumeria Italiana, 1/12

rischio (certo è, che quando cadono 900 millimetri di pioggia in un solo giorno c’è poco da fare...), mi hanno fatto ripensare al passato. Oggi stiamo vivendo anche una vera e propria “alluvione economica” di natura mondiale: auguriamoci che la nostra Italia riesca a nuotare e raggiungere la riva per salvarsi, ed io imploro La Pira che da lassù ci dia una mano e trovi la soluzione giusta, facoltà e potere dei Santi di intercedere con “Chi di dovere”. Concludo con una leggenda metropolitana, sicuramente inventata da qualche produttore di vino, che dice che dal diluvio universale fu salvato solo Noè, che beveva vino, affogando tutti gli astemi. Che ci sia qualcosa di vero, visto che pare stia calando il consumo? Angelo Valentini Nota In foto a pag. 132, Ponte Vecchio durante l’alluvione del 1966. Quella del 4 novembre fu l’ultima di una serie di esondazioni del fiume Arno che, nel corso dei secoli, mutarono il volto della città di Firenze. Avvenuta nelle prime ore del giorno in seguito ad un’eccezionale ondata di maltempo, fu uno dei più gravi eventi alluvionali accaduti in Italia e causò forti danni in gran parte della Toscana.

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Libri È appena uscita la ristampa di un libro tanto prezioso quanto introvabile

Le 100 ricette perdute e ritrovate di Teofilo Barla Il suo libro uscì sconfitto dall’impari confronto con quello coevo di Giovanni Vialardi, Capo Cuoco e Pasticcere di Real Casa Savoia di Nunzia Manicardi

È

uscito recentemente, per conto dell’Editore Arnaldo Forni (specializzato in ristampe di libri antichi), la ristampa di un libro tanto prezioso quanto introvabile. A cura di Giancarlo Roversi, con presentazione di Roberto Rabachino, introduzione e trascrizione di Bruno Armanno Armanni e postfazione di Vittorio Ubertone, si intitola Il confetturiere, l’alchimista, il cuciniere piemontese di Real Casa Savoia (Torino, 1854) e contiene cento ricette di cucina scritte intorno alla metà dell’Ottocento dall’astigiano Teofilo Barla che, sia pure per breve tempo, fu Maître Pâtissier et Confiseur dei re di Sardegna Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II. Il libro è stato presentato nel mese di ottobre 2011 in occasione del 150º anniversario dell’Unità d’Italia ed è stato esemplato sull’originale poiché le sue condizioni di conservazione non hanno consentito la sua riproduzione anastatica. Le parti intelligibili sono state, pertanto, trascritte utilizzando dei caratteri tipografici simili per corpo a quelli impiegati per l’edizione ottocentesca, rispettando in tal modo la numerazione delle pagine e il loro formato originale (leggibile anche in internet). Ce ne aveva messo del tempo, Barla, per raggiungere la vetta del successo; ma fu rapido nel perderlo, anche a causa del suo carattere non proprio conciliante… Era nato ad Asti

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TEOFILO BARLA Il confetturiere, l’alchimista, il cuciniere piemontese di Real Casa Savoia a cura di Giancarlo Roversi Arnaldo Forni Editore, 2011 392 pp. – 29,00 € il 29 marzo 1796 nel quartiere di San Rocco, popolare e popoloso. Oltretutto, all’età di soli due anni, era rimasto orfano del padre, perito nel corso di una rissa scoppiata per presunte violazioni dei diritti di pesca sul fiume Tanaro che scorreva lì vicino. La madre lo allevò con molto affetto, poi, quando il figlio ebbe quattordici anni, incontrò un ufficiale del genio militare, Filiberto Bodritti, inviato da Torino per progettare la destinazione d’uso a caserma del mo-

nastero di Sant’Anna e dei conventi del Carmine e di San Giuseppe, che sorgevano proprio nel quartiere dove abitavano. La donna si risposò e il nuovo “padre” si occupò attivamente del giovinetto sino al punto di fargli trovare un impiego niente meno che presso la Corte Reale con la qualifica di “guattero”. Questa qualifica non deve trarre in inganno, perché allora quel termine (“sguattero”) indicava un ruolo piuttosto ambito a corte, quello di “Aiutante” del “Capo di Cucina” della Casa Reale. Iniziò così la carriera culinaria di Teofilo Barla, che ricoprì questo incarico per ben 37 anni: dapprima sotto il regno di Vittorio Emanuele I, poi sotto quello di Carlo Felice e, infine, sotto quello di Carlo Alberto. Fu durante il regno di quest’ultimo, nel 1848, che a Teofilo capitò il colpo fortunato di tutta la vita: Carlo Alberto si entusiasmò tanto per una sua confettura da conferirgli l’incarico di Maître Pâtissier et Confiseur, ponendolo alle dirette dipendenze del Capo di Cucina Giovanni Vialardi, che a sua volta fu promosso Capo Cuoco e Pasticcere proprio per la ricetta ideata dal suo sottoposto. Cominciò così il periodo più felice della vita di Teofilo Barla, che purtroppo però, come già accennato, durò per breve tempo poiché un brutto incidente, occorsogli nel 1851, lo fece cadere in disgrazia. Fu Vialardi a salvarlo dall’espulsione con ignominia dalle cucine reali dopo che nel

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castello di Garessio, al termine di una battuta di caccia condotta da Vittorio Emanuele II, Barla versò la sua “polenta alla moda della Valle d’Aosta”, bollente, sulle gambe di sette illustri commensali, dame e cavalieri. Ma a farlo cadere in disgrazia non era stato tanto l’incidente in sé e per sé, quanto il fatto che egli aveva particolarmente insistito per presentare questo piatto, con l’infausto risultato che già sappiamo. Non fu espulso, però venne ributtato immediatamente nel precedente rango di “guattero”. Per recuperare i favori perduti decise allora di pubblicare un trattato di cucina, Il Confetturiere, l’Alchimista, il Cuciniere piemontese di Real Casa Savoia, di cui l’Editore Forni ha appena pubblicato la ristampa. Dando fondo ai propri risparmi, Teofilo Barla convinse l’economo della Stamperia Reale a stampare un migliaio di copie “pirata”, suddividendo il lavoro, comprendente 100 ricette, in tre tomi, rispettivamente intitolati: • Il Confetturiere piemontese di Real Casa Savoia ovverosia del modo di confettare frutti diversi in diverse maniere; • L’Alchimista piemontese di Real Casa Savoia ovverosia del modo d’ottenere diversi elixir in diverse maniere; • Il Cuciniere piemontese di Real Casa Savoia ovverosia del modo di cucinare diverse carni di terra, di aria e di acqua in diverse maniere seguito da il modo d’approntare quattro bianco mangiare in quattro diverse maniere. Barla dedicò poi il libro a Sua Altezza Reale Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia, Principe di Piemonte, Duca di Savoia, Re di Sardegna; in seconda battuta inserì anche la dedica al Capo Cuoco e Pasticcere di Real Casa Savoia, il già menzionato Giovanni Vialardi, suo superiore diretto. Costui, che Barla nel suo testo citò più volte in relazione a diverse ricette, nel frattempo si era ritirato a vita privata. Chissà, forse Teofilo sperava di riuscire ad ottenere il suo posto… Non fu così, anzi! Al povero Barla non solo non giunse nessun

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La polenta fu fatale per Teofilo Barla. Al termine di una battuta di caccia, egli versò questa pietanza, cucinata “alla moda della Valle d’Aosta”, bollente, sulle gambe di sette illustri commensali, dame e cavalieri. cenno di apprezzamento da parte del Sovrano, ma addirittura un centinaio di copie del libro, destinate dall’autore alla Biblioteca Reale, fu mandato al rogo, forse per sgomberare i locali da quello che evidentemente era ritenuto solo un “ingombro” senza alcun valore. Nessun segno di riscontro neppure da parte del pubblico, mentre intanto anche Vialardi, all’insaputa di Barla e pochi mesi prima di lui, aveva pubblicato il suo Trattato di Cucina, Pasticceria moderna, Credenza e relativa Confettureria, con oltre 2.000 ricette, che ottenne un grande successo e fu seguito da numerose ristampe (e può darsi che sia stato anche per questo che per altri trattati di cucina in quel periodo sembrò effettivamente non esserci posto dal punto di vista commerciale). Circa dieci anni dopo Vialardi pubblicò ancora e con ancora maggior successo: la sua Cucina borghese semplice ed economica ebbe tirature eccezionali per i tempi. Barla patì moltissimo, e del proprio insuccesso, e, forse, anche del successo dell’ex-collega-superiorerivale. Il suo carattere, già non facile e non affabile, peggiorò al punto che egli venne allontanato dalle cucine reali. Ne resta una cruda testimonianza nel Regio Biglietto del 1865 che ci informa che “l’accidia e la superbia con le quali il guattero Barla, ammesso

nel 1810 al Nostro Servizio, attende al disimpegno dei propri doveri, ha incontrato la Nostra riprovazione, eppertanto egli sia destinato quale stalliere di lettiera presso la Reale Nostra Palazzina di Stupinigi coll’annuo stipendio di lire trecentosessanta”. Proprio così: il povero Barla fu spedito nelle stalle reali, dove i profumi e gli aromi… erano ben altri! Ma non era ancora finita: sette anni dopo, mentre sulle rive del fiume Sangone pescava di frodo (pesca probabilmente necessaria, dato il misero stipendio), fu scoperto, inseguito e catturato da due carabinieri reali. Fece allora quello che forse aveva fatto suo padre tanto tempo prima: ingaggiò una rissa sulla riva del fiume. E, proprio come il padre, questa rissa gli fu fatale. Secondo la cronaca del settimanale astigiano Il Cittadino, una delle due guardie, avendo perso l’equilibrio dopo essere inciampata in un arbusto, lo spinse senza volere in acqua, dove Barla morì affogato. L’articolo riportava anche che “con sommo stupore furono rinvenuti, tra i miserrimi beni del malandrino, molte centinaia, forse un migliaio di copie d’un identico libro di cucina a suo nome o d’un suo omonimo, in pessimo stato di conservazione e rosi dai ratti e dalle muffe, per cui la Gendarmeria reputò necessario dar loro le fiamme”. Nunzia Manicardi

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Guida ai ristoranti de Il Sole 24 ORE 2012

S

i rinnova l’appuntamento annuale con la Guida ai ristoranti del Sole 24 ORE, che da sempre e per precisa scelta dell’autore — il gastronauta Davide Paolini — non dà voti, ma inserisce solo i locali che vengono considerati meritevoli di citazione. Circa 900, di cui ben 190 nuove segnalazioni per l’edizione 2012. Le schede dei locali sono accompagnate da un simbolo originale che ne evidenzia le peculiarità: dai ristoranti “Intoccabili” ai classici intramontabili “Vai sul sicuro”, fino alle nuove scoperte segnalate per la prima volta “Carramba che sorpresa!”. Dai locali “Extralarge”, che offrono grande qualità per un numero elevato di coperti, all’insindacabile “A me mi piace”, fino a “Dietro al banco”, categoria introdotta nella scorsa edizione per segnalare i locali dove, oltre a mangiare, si possono acquistare i prodotti tipici del luogo o le specialità gastronomiche. Dopo la novità introdotta nell’edizione 2011 con il simbolo “Locanda”, che contraddistingue quei locali dove è possibile alloggiare per la notte, nell’edizione 2012 si è puntato a favorire coloro che vogliono godersi un’esperienza enogastronomica di

DAVIDE PAOLINI (a cura di) Guida ai Ristoranti de Il Sole 24 ORE Edizione 2012 Edizioni Gruppo 24 ORE 676 pagine, 19,50 € alto valore senza la paura di controlli con l’etilometro e lo stress del traffico: il simbolo “Vicino alla stazione” indica i locali facilmente raggiungibili in treno, ossia che si trovano al massimo a 1,7 km dalla stazione ferroviaria. Per

privilegiare anche coloro che, nella propria ricerca del mangiare bene, non vogliono rinunciare all’attenzione per l’ambiente. Otto i premi alle eccellenze assegnati dalla Guida nel 2012: • Premio alla Miglior Trattoria: Trattoria “Da Toso” di Leonacco di Tricesimo (Udine) e Terranima di Bari; • Premio “Dietro al banco”: “Il Merlo” di Camaiore (Lucca) e “Gattuso e Bianchi Ittica e Gastronomia” di Gallarate (Varese); • Premio alla Carriera: Franca e Romano Franceschini del ristorante “Da Romano” di Viareggio (Lucca); • Premio al Coraggio: Ristorante “Tipicamente” di San Fele (Potenza); • Premio “Extralarge alla Squadra”: Enoteca Marcucci di Pietrasanta (Lucca); • Premio “A me mi piace”: Paola Budel del ristorante “Venissa” di Mazzorbo (Venezia); • Premio “Carramba che sorpresa!”: “Dattilo” di Strongoli (Crotone); • Premio alla Miglior Provincia: a tutti i ristoratori della provincia di Cuneo.

A me mi piace simbolo assegnato, oltre che per il valore complessivo di un locale, per il fatto che mi trovo a mio agio Carramba, che sorpresa! sono quei locali che mostrano qualità insospettate anche nel tempo Vai sul sicuro simbolo per quei ristoranti dove è difficile trovarsi di fronte a un pranzo o una cena dove tutto non vada per il verso giusto Gli intoccabili sono i grandi chef, riconosciuti tali, nonché stimati dal sottoscritto Gli extralarge locali con oltre 120-150 posti che, nonostante il numero di coperti, riescono a offrire un’ottima cucina e un grande servizio Dietro al banco locali che da botteghe di qualità si sono trasformati in cucine con bottega, sfruttando così la conoscenza del prodotto e offrendo al cliente di poter mangiare e acquistare al tempo stesso Locanda simbolo che identifica i locali dove è anche possibile pernottare Vicino alla stazione ristorante che si trova al massimo a 1,7 km dalla stazione ferroviaria

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www.acetobalsamicodelduca.it

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MODENA, IL TERRITORIO DEI LAMBRUSCHI DOC

Lambrusco di Sorbara Lambrusco Salamino di Santa Croce Lambrusco Grasparossa di Castelvetro Lambrusco di Modena Aziende consorziate CHIARLI 1860 italia@chiarli.it - www.chiarli.it

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CANTINA DI S. CROCE info@cantinasantacroce.it - www.cantinasantacroce.it CANTINA SOC. LIMIDI SOLIERA E SOZZIGALLI cantinasocialelimidi@libero.it CANTINA SETTECANI-CASTELVETRO info@cantinasettecani.it - www.cantinasettecani.it CANTINA DI SORBARA info@cantinasorbara.it - www.cantinasorbara.it CANTINA SOC. DI CARPI info@cantinasocialecarpi.it - www.cantinasocialecarpi.it CAVICCHIOLI U. & FIGLI Srl cantine@cavicchioli.it - www.cavicchioli.it CANTINA SOC. FORMIGINE PEDEMONTANA info@lambruscodoc.it - www.lambruscodoc.it CANTINE RIUNITE & CIV - Stab. di Modena info@civeciv.com - www.riunite.it C.A.V.I.R.O. - Stab. di Savignano s. P. (MO) caviro@caviro.it - www.caviro.it CANTINA SOC. MASONE-CAMPOGALLIANO Stab. di Campogalliano (MO) info@cantinamasonecampogalliano.com www.cantinamasonecampogalliano.com

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