Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXIV N. 2 Marzo-Aprile 2012
Premiata Salumeria Italiana, 2/12
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una Granfetta! Salumificio Bordoni
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N. 2 Anno XXIV Marzo-Aprile 2012
€ 6,70 EUROCARNI – PREMIATA SALUMERIA ITALIANA – IL PESCE – EURO ANNUARIO CARNE – EURO GENUINE FOOD ANNUARIO DEL PESCE E DELLA PESCA – US ANNUARIO DEI FORNITORI DELLA SANITÀ IN ITALIA Stampa
Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910 In esclusiva gli articoli di Euposia
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A.N.E.S. ASSOCIAZIONE NAZIONALE EDITORIA PERIODICA SPECIALIZZATA
Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Franco Ferrari – Manrico Murzi – Fortunato Tirelli – Paolo Falceri (Cooperazione) – Enzo Targhetta (Ass. Macellatori Veneti) – François Tomei (Assocarni) Redazione Bruxelles Jean-Luc Meriaux: UECBV, rue de la Loi, 81/A Box 9 B 1040 Bruxelles, Belgio Tel. +32 2 230 4603 Fax +32 2 230 9400 E-mail: uecbv@scarlet.be Redazione New York Stefano Spadoni – Alessandra Rotondi P.O. Box 569, New York, NY 10101-0569 Tel./Fax +1 212 956 8566 E-mail: stefanony@stefanospadoni.com Comitato scientifico Prof. Giovanni Ballarini – Prof. Fausto Cantarelli – Prof. Carlo Cantoni – Dr. Aldo Focacci – Prof. M. A. Paleari Bianchi – Dr. Alfonso Piscopo Collaboratori scientifici Dr. Marco Cappelli – Dr. Massimo Chiappini – Prof. Eugenio Del Toma – Dr. Emanuele Guidi – Dr. Pierluigi Roncaglia – Prof. Andrea Strata – Prof. Sergio Ventura
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Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CS5. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CS5.
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Veroni, la tua marcia in più. Anche quest’anno Veroni vuole essere al tuo fianco proponendoti una serie d’iniziative di grande impatto rivolte ai tuoi clienti e pensate per rafforzare il prestigio del tuo negozio.
Crespelle di mortadella al pomodoro su vellutata di zucchine Una delle numerose e prestigiose ricette presenti sui nuovi ricettari creati da Veroni in collaborazione con L’APCI
Un 2012 ricco di programmi Siamo partiti a gennaio con pratici ed eleganti omaggi che hanno incontrato un vivo apprezzamento. Da marzo a maggio sarà possibile offrire in regalo a tutti i tuoi clienti i preziosi “I Quaderni di Cucina”, con un’infinità di ricette pensate per tutte le occasioni e realizzate in collaborazione con gli chef dell’APCI ’ .
A seguire l’edizione 20 promozione “utili & bell nuovi ed esclusivi rega un’iniziativa che negli a riscontrato un grande s diventando un vero e p appuntamento atteso d clienti. A queste iniziative ne seguiranno numerose altre perchè Veroni è sempre con te
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N. 2
In questo numero: Anteprima
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Immagini
12
Agenda
14
Il food in rete
Il meglio del web e delle app
Elena Benedetti
16
In primo piano
Raspini vi dà il benvenuto in famiglia
Gaia Borghi
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Aziende
Food on the road Salumificio Barabino, eccellenza e saper fare da oltre cent’anni In un libro la storia di Levoni
Stefania Monaco Gaia Borghi
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Trasformazione
Il salame all’aglio di Giovanni Bazza
Michele Bracieri
34
Commercializzazione
Soprèssa Vicentina Dop, un 2012 in forma per...fetta!
Riccardo Lagorio
37
La Qualità
Riso invecchiato Acquerello una storia italiana
Antonella Malaguti
42
Prodotti tipici
Mazzafegato, la “salsiccia matta” di Marche, Umbria e Valtiberina toscana Mortadella di Prato: rinascere specialità toscana Felice chi gusta... il salame di San Felice
Nunzia Manicardi
46
Giorgio Montanari Gaia Borghi
48 50
Tutto il biologico, oggi
Cà Verde, un saper fare contadino precursore del Bio
Riccardo Lagorio
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Premiate Salumerie Italiane
Prima delle mode e delle tendenze: la Premiata Salumeria Giusti di Modena
Michele Bracieri
58
Massimiliano Rella Stefania Monaco
63 67
Turismo Enogastronomico I tesori nascosti della Bassa Slesia Umbria, sul sentiero di San Francesco in cerca di tartufi e olio divino
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Gastronomia
L’acqua cotta, antica misera minestra
Aldo Focacci
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Sapori dal mondo
La versatilità fatta a spezia
Giorgia Fieni
72
Sapori mediterranei
Miele, cibo degli dei
Clara Scaglioni
76
Ristorazione
Amaltea: a Modena un mito diventa realtà
Clara Scaglioni
81
Locali di gusto
Cacioteca regionale di Ragusa, la prima d’Italia
Stefania Monaco
84
Mercati
Parmigiano Reggiano, un 2011 col botto
Anna Mossini
86
Rassegne
Identità Milano 2012
Laura Franchini
91
Formaggio
Parigi e le sue fromageries
Raffaele Bertolini
Vino
Il brindisi più dolce Il vino dei Marchesi di Grésy Aleatico e Vermentino a Capraia, da sogno a realtà
Laura Franchini 106 Massimiliano Rella 108 112
I vini di Premiata Salumeria Italiana
Degustazione: Veneti d’autore
Laura Franchini
114
Dolci
Macaron: dolcetto o concetto?
Gemma Zubiani
116
Aceto
All’inizio era il vino… Quanto è buono il formaggio con la vellutata al Balsamico e pere
Riccardo Lagorio
120 126
Tecnologie
Tanara Giancarlo sceglie i sacchi termoretraibili Cryovac® per il suo Parma di qualità
Storia e cultura
La cucina postmoderna VIP: Visti Io Personalmente
Giovanni Ballarini Angelo Valentini
130 134
Libri
Les cuisiniers dangereux La Cucina Medievale La cucina ritrovata Cuoco per emozione
Claudio Dell’Orso Lorena Gallina
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In copertina: salame di San Felice con pecorino toscano Busti e pecorino sardo (foto di Massimiliano Rella).
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COLLABORAZIONE RICHIEDE
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Siamo presenti in modo capillare nei mercati locali, vicini al cuore della nostra catena di fornitura e sempre in diretto contatto con gli allevatori, il settore retail e gastronomico. Per questa ragione conosciamo bene i requisiti del mercato e le vostre esigenze.
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Anteprima
Sul prossimo numero di Premiata Salumeria Italiana sarà pubblicato un reportage sulla VII edizione di TASTE, il salotto italiano del mangiare bene e stare bene, dove si sono dati appuntamento i migliori operatori internazionali dell’alta gastronomia, ma anche il sempre più vasto e appassionato pubblico dei foodies. La rassegna, nata dalla collaborazione tra Pitti Immagine e il gastronauta Davide Paolini, si è svolta dal 10 al 12 marzo, alla Stazione Leopolda di Firenze (foto: Claudio Bonoldi Studio – F. Guazzelli).
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PROSCIUTTO DI SAN DANIELE D.O.P.
Da degustare.
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Saremo presenti a CIBUS 2012 dal 7 al 10 maggio, Padiglione 2 stand M 068
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Immagini
Continua il viaggio in Polonia di Massimiliano Rella tra chef rinomati, piccoli produttori e pescatori. Il servizio è a pag. 63 (in foto, Wacław Ratyński, apicoltore a Krosnice).
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Agenda
Verona Da domenica 25 a mercoledì 28 marzo, questo il prossimo appuntamento con la 46ª edizione di Vinitaly, il Salone dei vini e distillati più importante al mondo, e le rassegne Sol, Agrifood Club ed Enolitech che completano l’offerta di Veronafiere nel settore wine & food e tecnologie. Con tale modifica, Veronafiere ha voluto recepire le aspettative degli espositori, così da favorire l’accesso degli operatori professionali, in particolare quelli internazionali del canale HORECA (hôtellerie, ristorazione e catering), che avranno più giorni di rassegna per incontrare le aziende espositrici. Vinitaly manterrà una grande attenzione nei confronti dei consumatori, degli appassionati e dei wine lover. Gli eventi di Vinitaly e Sol for You saranno ampliati con la collaborazione delle aziende, delle associazioni di categoria, del sistema città e territoriale e inizieranno dal venerdì precedente l’apertura della rassegna. E anche i vini da agricoltura biodinamica saranno protagonisti di Vinitaly 2012: sono un centinaio le aziende italiane ed estere che hanno scelto di aderire alla nuova iniziativa di Vinitaly, che prevede uno spazio appositamente allestito al primo piano del Palaexpo (in foto Maddalena Corvaglia e Elisabetta Canalis fotografate in una passata edizione di Vinitaly). www.vinitaly.com
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Brisighella (RA) La Romagna è una terra ricca di prodotti enogastronomici e di iniziative. Riscoprendo vecchie tradizioni e prodotti tipici che hanno caratterizzato il recente passato di questo spicchio d’Italia, a Brisighella, sulle colline di Ravenna, hanno dato vita ad una serie di originali eventi per buongustai, e non solo. Ecco allora che nel mese di aprile chi si troverà a transitare per questo magnifico borgo medioevale verrà “catturato” dai profumi e dai sapori del Trofeo del buon Salame e della Sagra dei Salumi stagionati (15 aprile). Fra i sapori e gli odori del vino, dell’olio, dei formaggi, della piadina romagnola che caratterizzano le “Terre di Faenza” non poteva mancare quello del salame artigianale che merita un posto di primo piano nel panorama gastronomico italiano. Da qui il “Trofeo del buon Salame” promosso come ogni anno dall’omonima “Congrega del buon Salame”. Il principale obiettivo di questa iniziativa è quello di tramandare la cultura e le conoscenze dei prodotti tradizionali e l’arte dei norcini e dei produttori di insaccati. A questo aspetto è poi strettamente legata la riscoperta e la valorizzazione delle produzioni locali, come quella suina della Mora Romagnola, salvata in extremis grazie alla passione di alcuni allevatori che hanno riselezionato la razza la cui carne è molto pregiata. www.terredifaenza.it
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Parma I visitatori della 16ª edizione di CIBUS, a Parma da lunedì 7 a giovedì 10 maggio, troveranno un quartiere fieristico completamente rinnovato, con maggiori servizi, nuovi parcheggi, un’area espositiva di 120.000 m2, alimentata da un grande impianto fotovoltaico. Cresce il numero di espositori che rappresentano le realtà più dinamiche della produzione italiana, come i prodotti biologici (“CIBUS Organic”), i prodotti freschi di 4ª e 5ª gamma, i piatti pronti freschi, con tante novità espositive, dallo spazio per i surgelati a quello del vending. L’esposizione è organizzata seguendo la logica di un continuum coerente con le merceologie fresche (salumi, formaggi, gastronomia, pasta fresca e via dicendo) più il nuovo polo dei surgelati nei grandi padiglioni 2 e 3, mentre il grocery (pasta, oli, condimenti, dolciario e altro) sarà riunito nei padiglioni 5, 6 e 7. Tra le novità, CIBUS Frozen, uno spazio di 4.000 m2 per le aziende del settore dei cibi surgelati, MicroMalto con i birrifici artigianali, e “Venditalia Self Expo”, dove il negozio automatizzato verrà presentato come partner ideale e complementare del canale retail. Rilevante come sempre la presenza delle tipiche produzioni italiane di carne, salumi, prodotti lattiero-caseari e pomodoro. Grande risalto sarà dedicato alla “Piazza dei prodotti DOP e IGP”, realizzato in collaborazione col Ministero dell’Agricoltura in cui esporranno i Consorzi di tutela italiani. Sul fronte del lattiero-caseario, la “Scuola Internazionale di Cucina Italiana Alma” ha organizzato il concorso “Alma Caseus” che premia i migliori formaggi italiani. Un’area dedicata alla ristorazione fuori casa (bar, ristoranti, mense, ecc…) sarà organizzata in collaborazione con FIPE/CONFCOMMERCIO. Anche in questa edizione sarà organizzato “CIBUS in città”, un “fuori salone” nelle strade e nelle piazze di Parma cui parteciperanno alcune aziende espositrici. Complementari a CIBUS 2012 la 5ª edizione del Salone del Dolciario ed il forum scientifico “Pianeta Nutrizione”. www.cibus.it
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Il food in rete
Il meglio del web e delle app di Elena Benedetti
www.prosciuttopedia.it
www.bresaolabordoni.it
www.aicig.it
L’enciclopedia dell’arte salumiera italiana Prosciuttopedia è la prima enciclopedia digitale interamente dedicata all’arte salumiera italiana. Frutto della grande esperienza, passione e tradizionalità che da sempre contraddistinguono PARMACOTTO, Prosciuttopedia racconta i segreti, le origini, la produzione, le caratteristiche, l’affascinante storia di uno dei patrimoni gastronomici del nostro Paese: i salumi italiani. La redazione dei contenuti è curata da Andrea Grignaffini, specialista enogastronomico, docente universitario e condirettore della Guida Espresso ai Ristoranti. Prosciuttopedia si articola in diverse sezioni: Salumi d’Italia, Oltre la vaschetta, Tutti a tavola, Arte della degustazione e Tecniche salumiere. Realizzata in due lingue, italiano e inglese, Prosciuttopedia viene costantemente aggiornata nei contenuti in collaborazione con il team Parmacotto, composto da autorevoli professionisti del settore, biologi, esperti in diritto alimentare, tecnologi alimentari. info@parmacotto.it
Dalle montagne della Valtellina, la filosofia di un prodotto di qualità Graficamente curatissimo e molto fotografico nei contenuti, il sito web del SALUMIFICIO BORDONI punta sulla qualità, non solo nella produzione di bresaole ma anche nella comunicazione. Se il prodotto, la Bresaola della Valtellina IGP (nelle varianti punta d’anca e magatello), si rifà alla tradizione e alla memoria di sapori antichi, il modo attraverso il quale questa azienda sita ai piedi elle montagne valtellinesi comunica è moderno e innovativo. Ai tradizionali portali si è scelto uno strumento più aggiornato: pagine web che raccontano la filosofia di un prodotto di qualità, fortemente radicato nel territorio, attraverso belle immagini, pochi testi ben scritti e una navigazione semplice e immediata. salumificio@bresaolabordoni.it
Il nuovo sito dell’Associazione dei consorzi delle Igp Istituzionale ed elegante: è il nuovo sito web dell’ASSOCIAZIONE ITALIANA CONSORZI INDICAZIONI GEOGRAFICHE, rinnovato nei contenuti e nella grafica. Uno strumento informativo chiaro e di facile consultazione, raggiungibile digitando www.aicig.it, per chiunque desiderasse reperire notizie al fine di contribuire alla diffusione della cultura delle DOP e IGP. La navigazione è stata riorganizzata rendendo subito accessibile dalla homepage la consultazione delle informazioni di base, il sito è ricco di contenuti e comprende spazi per i comunicati stampa e la bacheca dove verranno divulgati eventi e progetti realizzati e posti in essere da AICIG, dai suoi soci o dai partner e comunque rilevanti per l’interesse collettivo. Completamente rivisitata è la sezione dedicata ai soci dove, oltre all’elenco completo, sono ora disponibili le schede relative a ciascun Consorzio con tutte le informazioni in italiano e in inglese e i link di riferimento. info@aicig.it
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Osterie d’Italia
Il Golosario Negozi
Oli d’Italia del Gambero Rosso
€ 7,99 iTunes App Store
Gratuita iTunes App Store
€ 2,99 iTunes App Store
OSTERIE D’ITALIA è sicuramente un buon modo per avere sempre a portata di mano i locali selezionati da Slow Food dove mangiare i piatti della tradizione. Nella app ci sono anche 100 ricette di piatti tipici da poter rifare a casa, dopo averli provati. Sviluppata in lingua italiana e inglese da Slow Food Editore, l’applicazione è in vendita sull’iTunes App Store della Apple al prezzo di 7,99 euro.
IL GOLOSARIO è la guida al turismo enogastronomico firmata dal giornalista Paolo Massobrio. Un libro di oltre mille pagine diviso in quattro parti: i prodotti (suddivisi per regione), i negozi, le cantine e i ristoranti. Nella versione per iPhone trovate anche la parte dedicata ai quasi 4.000 negozi che vendono le buone cose d’Italia, tra cui enoteche, gastronomie, boutique del gusto, pasticcerie, macellerie e wine bar.
È la prima applicazione per iPhone e iPad sui migliori extravergine 100% qualità italiana: una selezione rigorosa di 273 aziende e 376 oli, pensata per valorizzare e premiare i produttori e gli oli di eccellenza. Sviluppata dalla redazione del Gambero Rosso è un valido strumento di facile consultazione per orientare il consumatore nella scelta dell’etichetta giusta. Al suo interno troviamo i territori, le DOP, le cultivar autoctone, ma soprattutto il racconto delle aziende produttrici e degli oli, i consigli di utilizzo e, regione per regione, gli abbinamenti ideali suggeriti dai grandi chef.
The Wine Traveller guide/Italy Nasce la App per viaggiare e bere bene in Italia, con 1.400 cantine enoturistiche per il tempo libero È disponibile da poche settimane sugli iTunes App Stores di tutto il mondo una nuovissima applicazione per iPhone, iPad e iPod touch dedicata ai turisti italiani e stranieri interessati a scoprire un’Italia per molti aspetti ancora poco conosciuta, tra grandi bottiglie di vino, collezioni di arte in cantina, cantine di architettura, musei del vino, corsi di cucina e piscine tra le vigne. Tutto è raccolto, catalogato, raccontato in modo semplice e completo in The Wine Traveller guide/Italy. È un’applicazione georeferenziata, utilizzabile sia on-line che off-line, che segnala circa 1.400 cantine italiane di tutte le regioni che insieme ai buoni vini offrono tanti servizi per il turista: camere e relais per la notte, ristorante, piscina, centro benessere, vinoterapia, aree camper, corsi di cucina, collezioni di arte e siti di interesse architettonico. La guida è un’inedita fotografia su cosa si può fare e cosa si può vedere nelle migliori aziende vitivinicole italiane. Volete dormire in cantina? Ecco 430 indirizzi di camera con vigna. Cercate una cantina con piscina? Ecco 176 cantine per tuffarvi tra le vigne. Siete interessati a un corso di cucina? Eccone altre 61 che fanno lezioni di gastronomia. E ancora di più: le cantine con centro benessere, le cantine con l’area camper, quelle con i trattamenti di vinoterapia, con il museo del vino, i percorsi di arte o architettura, le strutture e i servizi per lo sport, gli spazi per cerimonie e matrimoni. E infine le cantine con le vigneti a conduzione biologica. Una fotografia dell’offerta enoturistica italiana ora sugli iTunes App Stores di tutto il mondo, nelle mani dei turisti del vino.
Gli ideatori • THE WINE TRAVELLER: www.thewinetraveller.it • EDIZIONI PUBBLICITÀ ITALIA: www.pubblicitaitalia.com • EUPOSÌA: www.euposia.it e www.italianwinejournal.com • AD SERVICE.
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La guida è disponibile in italiano e in inglese sull’App Store al costo di € 3,99 e presto anche su Android Market.
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In primo piano Salumieri per vocazione, innovatori per tradizione
Raspini vi dà il benvenuto in famiglia di Gaia Borghi
«A
miamo le cose fatte bene»: così ci dice UMBERTO RASPINI accogliendoci nei luminosi uffici dell’azienda di famiglia. Un nome, quello di Raspini, che da tempo è sinonimo di ottimi salumi, tanto da essere inserito tra i primi dieci produttori italiani. Siamo a Scalenghe, in provincia di Torino; davanti a noi le Alpi innevate e la cima del Monviso. «Il panorama non è merito nostro — puntualizza sorridente Umberto Raspini — anche se possiamo partire proprio da questa magnifica cornice naturale per raccontare del forte radicamento nel territorio che caratterizza da sempre la nostra azienda, nonché del rispetto nei confronti dell’ambiente che ci circonda». Fondata nel 1946 da Elsa e Ilario Raspini, genitori di Maddalena e Umberto, attuali presidente e amministratore delegato, la Raspini si è evoluta negli anni ampliando gli spazi industriali e diversificando le proprie linee di prodotto. Da piccolo laboratorio artigianale locale a conduzione familiare è oggi una grande azienda moderna e all’avanguardia: una crescita, quella della Raspini, all’insegna dell’innovazione, della tecnologia e della ricerca e sviluppo, rimanendo comunque fedele ai valori della tradizione salumiera piemontese. Tradizione e innovazione racchiusi e in un unico nome, insomma. La Raspini conta su due unità produttive entrambe all’avanguardia: quella di Scalenghe, che si estende su una superficie di 55.000 metri quadri di area industriale, di cui 35.000 coperti (lo stabilimento lavora circa 13.000 tonnellate annue di carni
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Umberto Raspini, amministratore delegato di Raspini Spa. Con un fatturato registrato nel 2011 di 85 milioni di euro, l’azienda piemontese si colloca oggi tra i primi dieci produttori italiani di salumi.
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65 anni di storia Tutto ha inizio nell’immediato dopoguerra, nel 1946, a Scalenghe, in provincia di Torino. È in questo affascinante borgo piemontese che Elsa e Ilario Raspini danno vita alla loro piccola impresa artigianale. Negli anni ‘60, in pieno boom economico, l’impresa si trasforma a poco a poco in una vera e propria azienda, ampliando la struttura produttiva e abbandonando l’organizzazione di tipo artigianale a favore di un modello industriale. Nel 1971 Raspini ottiene l’autorizzazione CEE n. 160 sul rispetto degli standard igienico-sanitari dello stabilimento che l’abilita, prima tra le aziende italiane produttrici di carne, all’esportazione sui principali mercati internazionali. Si tratta di una svolta storica che segna per l’azienda un cambiamento nelle politiche di vendita e le permette una crescita in termini di produzione, fatturato e notorietà a livello internazionale. Un altro passaggio importante della crescita Raspini avviene nel 1980, anno in cui fu abbandonata la macellazione e fu incrementata la specializzazione nella grande tradizione salumiera piemontese e italiana. Ma è negli anni ‘90 che avviene il decisivo sviluppo industriale, attraverso anche l’insediamento delle prime linee dedicate alla realizzazione di prodotti affettati a libero servizio. Tra il 1999 e il 2004 avviene l’accreditamento internazionale e l’adozione di sistemi gestionali certificati, mentre nel 2002 Raspini acquisisce l’azienda Prosciutti Rosa di Isolabella, completando così la propria gamma nel segmento delle specialità gastronomiche di eccellenza. Nel 2006 iniziano i lavori per la costruzione di un nuovo impianto industriale con una superficie coperta di 5.000 m2 per tre piani, che si aggiungono ai precedenti 18.000 mq. Il nuovo stabilimento, realizzato con le più moderne tecnologie impiantistiche, viene inaugurato nel 2008 e ospita 4 sale bianche per la produzione di affettati e cubetti preconfezionati in atmosfera protettiva.
fresche che si trasformano in oltre 10.000 tonnellate di prodotti venduti); e quella di Isolabella, aggiuntasi a seguito dell’acquisizione, avvenuta nel 2002, di Prosciutti Rosa, un’azienda piemontese con un marchio di grande tradizione. Oggi lo stabilimento di Isolabella, che si estende su una superficie di 15.000 m2 e occupa 20 dipendenti, produce 1.040 tonnellate di salumi all’anno. «Il cartello con lo slogan “Benvenuti in famiglia” che si può vedere proprio all’ingresso dello stabilimento identifica perfettamente la filosofia Raspini, ovvero la base, la nostra famiglia, che ha creato questa azienda oltre sessant’anni fa, e che via via è andata allargandosi, comprendendo i tanti validi collaboratori, manager competenti, convinti, con i quali condividiamo un’etica del lavoro fatta di serietà e passione. Ci sono persone che lavorano alla Raspini da 35 anni
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e mi sento di poter affermare che, come me, sono spronati ogni mattina dalla volontà e dal desiderio di fare sempre meglio» ci spiega Umberto Raspini. D’altronde, è proprio grazie ad una indiscussa affidabilità ed elevata qualità e salubrità dei propri prodotti che la Raspini è stata capace di conquistare nel corso degli anni innanzitutto la fiducia dei consumatori, che rimane comunque la cosa più importante per un’azienda alimentare, oltre — di conseguenza — a sempre più importanti quote di mercato nel settore della produzione italiana di salumi. Solo nel 2011 l’azienda ha registrato un fatturato di 85 milioni di euro, in crescita rispetto al 2010. La qualità prima di tutto e tutti «Ci si fidelizza ad un’azienda non solo per la bontà dei suoi prodotti ma anche per le sue scelte — continua
Umberto Raspini — e la storia della nostra azienda sta a testimoniare scelte fatte fin dall’inizio ricercando una qualità costante sotto ogni punto di vista, a partire dalla materia prima fino ai partner con cui collaboriamo, un selezionato gruppo di fornitori accreditati che garantisce il rispetto dei più elevati standard di sicurezza alimentare». Il sistema gestionale Raspini assicura la tracciabilità totale delle materie prime e degli ingredienti, continuando nelle fasi di trasformazione e confezionamento dei singoli prodotti fino al punto vendita. «Mi preme sottolineare che la Raspini ha sempre anticipato i tempi: siamo tra le prime aziende salumiere in Italia ad aver ottenuto fin dal 1971 l’abilitazione CEE all’esportazione dei salumi all’estero. Nei primi anni 2000 ha ottenuto le certificazioni BRC-British Retail Consortium e IFS-International Food Standard e questo significa, ad esempio, poter rispondere a determinati e severi standard in termini di sicurezza ed igiene in tutto il ciclo produttivo. In questo settore per certi aspetti abbiamo davvero fatto scuola: si pensi che negli anni ‘70 impiegavamo, unici in Italia, un sistema di fiammatura delle carcasse per un’igienizzazione ottimale davvero innovativa per i tempi». Sempre parlando del precorrere i tempi e della ricerca della perfezione in ogni particolare, è d’obbligo ricordare la certificazione UNI EN ISO 14001 ricevuta nel 2004 a conferma dell’impegno aziendale per la tutela e il rispetto dell’ambiente. E ancora: l’azienda piemontese è stata anche tra le prime ad aver eliminato il glutine dai processi produttivi e oggi tutti i prodotti a marchio Raspini sono senza glutine, venendo inseriti da molti anni nel prontuario pubblicato dall’Associazione Italiana Celiachia. Insomma, un modello di eccellenza a 360 gradi che sta alla base di un successo crescente in Italia e all’estero. I prodotti La gamma completa delle specialità Raspini comprende prosciutti cotti e prosciutti crudi, salami e bresaole, pancette e coppe, arrosti e mortadelle,
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• La nuova confezione dei salametti della linea “Pelafacile”. cubetti, hamburger, fino ai secondi precotti. I prosciutti cotti, in particolare, tra i quali spiccano il Filotto e il Riccafetta, coprono il 70% della produzione. Tra i salami, che vanno dal Milano a grana fine all’ungherese alla soppressata calabrese, sono da segnalare il Salame Cotto e il Salame Piemonte, con una super novità: si tratta del restyling della confezione dei salametti “Pelafacile”. Con il sistema “chiudifacile”, a cui si è giunti dopo uno studio accurato durato quasi un anno, è stata inserita una linguetta autoadesiva che
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consente una perfetta richiudibilità della confezione, con relative istruzioni in etichetta chiare e facilmente comprensibili. Una grande comodità, a tutto vantaggio del consumatore: in questo senso la Raspini si è sempre distinta per la capacità di offrire sul mercato alimenti sicuri e innovativi con un alto contenuto di servizio per i propri clienti. Il nuovo sistema di chiusura, infatti, consente la conservazione ottimale dei salumi dopo la prima apertura della confezione, garantendo un microclima ideale e la corretta
Fatturato 2011: 85 milioni di euro; 7% a volumi e 9% a valore la quota di fatturato ottenuto dalle esportazioni, specialmente Svezia, Francia, Germania e Giappone; 55.000 m2 di area industriale presso lo stabilimento di Scalenghe a cui si aggiungono i 15.000 m2 dei Prosciutti Rosa ad Isolabella; 5.000 m2 le dimensioni del nuovo modernissimo reparto affettato creato all’interno dello stabilimento di Scalenghe; 900 m2 la superficie coperta di impianto fotovoltaico presso lo stabilimento di Scalenghe che produce 54.000 kwh in un anno; 17.000 tonnellate la capacità produttiva di Scalenghe, 12.000 prodotti interi, 5.000 affettati, 1.300 tonnellate la capacità produttiva di Isolabella; 15.000 i prosciutti cotti prodotti in una settimana presso lo stabilimento di Scalenghe; 4 milioni le vaschette prodotte in un mese presso lo stabilimento di Scalenghe; 4 le linee produttive attive all’interno del nuovo reparto affettati nello stabilimento di Scalenghe (2 per i prodotti cotti, 1 per salumi crudi e 1 per cubetti); 300 i dipendenti totali nelle due unità produttive.
gestione igienica. Avremo così un salame “facilmente” pelabile, che potremo tranquillamente consumare in più occasioni, con la sicurezza di ritrovare un profumo ed un sapore inalterati. Ma veniamo ai prodotti in vaschetta, una delle voci più importanti del business di Raspini, costituendo da soli il 35% del giro di affari aziendale. Quello dei prodotti in vaschetta è uno dei comparti della salumeria in continua crescita e le ragioni sono facilmente intuibili: si tratta di una tipologia di prodotto pronta al consu-
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mo, quindi di comoda fruibilità per il cliente, disponibile in più formati, a partire dalla monoporzione, per ogni necessità d’impiego. Una proposta ideale non solo nella Grande Distribuzione, ma anche nell’offerta del classico negozio di salumeria, che gode di una crescente accoglienza positiva da parte dei consumatori abituali. Proprio nello stabilimento di Scalenghe è presente un modernissimo reparto di 5.000 metri quadrati che ospita anche le linee di affettatura per i prodotti in vaschetta (due per i prodotti cotti, uno per i salumi crudi e uno per i cubetti) all’interno delle cosiddette “camere bianche” (quattro camere ISO5 e una ISO7). Si tratta di ambienti ad alta tecnologia aeraulica sotto controllo particellare, dove l’igiene estrema e la sanificazione pianificate, le procedure di accesso e di comportamento degli addetti, sono tali da assicurare il massimo di salubrità dell’atmosfera specifica. Praticamente la stessa delle camere operatorie. La Raspini propone vaschette affettati take away (fette fresche di tutti i salumi) e vaschette di cubetti (pancetta, cubetti, guanciale), senza dimenticare gli hamburger Ham Cotto Linea Disney (Ham Cotto e affettati). Di questa importante partnership con il colosso statunitense, che ha visto la luce circa tre anni fa e che si è rivelata assolutamente positiva in quanto ha portato un notevole incremento di notorietà del marchio, parliamo con il direttore generale, CESARE AMPRINO.
Cesare Amprino, direttore generale. Con Topolino per insegnare a mangiar sano ai bambini Nel 2009 Raspini ha legato il proprio nome a quello di Walt Disney, creando gli Ham Cotto Raspini Disney. Gli Ham Cotto rispettano in pieno i valori ed i requisiti nutrizionali previsti dal programma per la corretta alimentazione dei bambini varato nel 2006 da The Walt Disney Company: senza glutine e senza glutammato aggiunto, e nelle versioni 100% prosciutto cotto e con carote senza alcuna traccia di latte o suoi derivati,
Il nuovissimo Ham Cotto con mozzarella.
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favoriscono un’alimentazione varia ed equilibrata nell’infanzia e nell’adolescenza. Alla fine del 2010 sono nati gli affettati Raspini Disney: ideali per la merenda, disponibili in due confezioni monodose da 40 grammi l’una (prosciutto crudo, prosciutto cotto e salame), sono il primo prodotto nella categoria degli affettati preconfezionati a ricevere la licenza Disney con l’utilizzo del personaggio di Topolino. «Con la gamma di prodotti RaspiniDisney la nostra azienda si impegna innanzitutto a promuovere abitudini alimentari corrette nei bambini e nei ragazzi» ci dice Amprino. «Ci è sembrato del tutto naturale proporre alla Disney un prodotto che già avevamo e che andava a soddisfare, senza modificare alcunché, i requisiti richiesti dalla Walt Disney Company. Ed è stata un’idea assolutamente brillante: solo con gli Ham Cotto ci posizioniamo al di sopra del 10% del consumo nazionale. Ecco perché abbiamo deciso di arricchire ancor più l’offerta con una versione di Ham Cotto con mozzarella fior di latte». Ghiotti, appetitosi e perfetti dal punto di vista nutrizionale. I bimbi (e le mamme) ringraziano! Gaia Borghi
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www.acetobalsamicodelduca.it
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Aziende
Food on the road Mangiare cose buone ovunque voi siate è diventato realtà a Roma grazie a due fantasiose imprenditrici. Da materie prime selezionate panini, pite, vellutate, insalate e dolci a domicilio di Stefania Monaco
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l cibo con consegna a domicilio in Italia non è quasi mai buono bensì qualcosa di cui accontentarsi; la sua più grande qualità è che se sei in un posto (ufficio, casa o altrove) ti viene consegnato. L’esterno in cartonato o plastica (ingredienti provenienti dai peggiori discount), cela al suo interno l’aspettativa (esotica, cinese, napoletana) che quasi mai viene rispettata; il tutto consegnato quasi sempre senza scontrino fiscale. Questo è quel che si conosce del delivery cioè della consegna a domicilio.
Qualcosa che fa accapponare la pelle ai gourmet e che avvelena i più ingenui. Ci sono anche delle situazioni a cui non ci si può proprio sottrarre; per esempio, la pausa pranzo dall’ufficio, dove si è costretti ad assecondare le proposte veloci e monotone di bar e mense dove si parla il linguaggio del junk food. Questa che raccontiamo, però, è un’altra storia. Le protagoniste sono due vulcaniche ex dirigenti d’azienda che affrontano una sfida creando un marchio con un servizio che a Roma
prima d’ora non c’era. Mangiare cose buone ovunque voi siate. Parola di gentildonne. Siete spalmati a pelle d’orso sull’erba del parco di Villa Pamphili: connettendovi a internet oppure con una semplice telefonata ordinate e, tempo tecnico di arrivare, ecco a voi servito, in packaging ecosostenibile al 100%, dell’ottimo food studiato e sperimentato. «Sì, sperimentato — spiega Daniela — perché una zuppa non è immortale. Poi c’è il trasporto, bisogna considerare le temperature
Tortilla vegetariana con melanzane, zucchine arrostite e marinate, crema di latte di pecora biologica “Agricoltura Nuova”, pomodori essiccati al sole di Puglia, pesto di basilico.
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e anche che magari il cliente non la mangerà subito, la terrà sulla sua scrivania per ore. Pertanto è necessario capire cosa proporre nel menu di tutti i giorni a seconda della stagione e di quello che la natura offre». La natura è un argomento molto importante per le due ragazze, tanto che sono partite per la Scozia per guardare in faccia le persone che producono il packaging totalmente biodegradabile. Si sono sentite “in famiglia”, perché anche qui la gente lavora a questo piccolo sogno comune: rispettare la natura e le persone. Gli ingredienti usati per panini e preparazione dei piatti sono scelti per valori come bontà ed etica ed i prezzi sono calmierati dal non sprecare cibo, dalla scelta del quartiere, il Trullo (un’altra sfida per le due ragazze), dove l’affitto è più basso in quanto la zona risulta essere una delle peggiori della città. Ma loro, fiduciose e forti, alimentano il sogno anche da qui. Gioca un ruolo determinante il metodo di cottura: sottovuoto e a bassa temperatura per garantire che la materia prima arrivi nelle migliori condizioni al cliente. La cottura a temperatura costante (fra 50-75°C), per un tempo molto lungo, consente di concentrare gli aromi rispettando le caratteristiche gustative dell’alimento e di mantenerne la morbidezza. Il sottovuoto protegge dagli effetti nocivi dell’ossigeno. Le carni diventano tenerissime, i tagli restano compatti, le verdure mantengono consistenza e, grazie al sottovuoto, si esaltano i sapori. Eccellenza, rispetto, innovazione e ambiente; quattro presupposti che fondano un bel pensiero che mette di buon umore e fa pensare a qualcosa di buono e goloso con tante proposte. Nel cestino di Food on the road si possono assaggiare tante creazioni tra panini e pite. L’Osso (tipico panino del Ghetto ebraico di Roma) con guancia di manzo proveniente da un piccolo allevamento biologico umbro selezionato da Bottega Liberati. Brasato per quasi 5 ore con carote, cipolla, sedano, alloro, un profumo di aglio, in Aglianico del Vulture e brodo di carne. La carne, morbidissima e dal sapore dolce, viene condita con la
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Barbara Vecchietti e Daniela Bellisario. La loro filosofia: “food on the road viaggia per portarvi cibi sani, gustosi e raffinati, soprattutto cibi di qualità, perché pensiamo che mangiare bene sia la cosa più importante”. Nel novembre scorso Barbara e Daniela hanno ricevuto il premio Foodies 2012, assegnato dal Gambero Rosso e da una giuria di addetti ai lavori, in collaborazione con Negroni. salsa ottenuta filtrando la brasatura e scaglie di sedano biologico croccante. La Pita (pane piatto lievitato, rotondo, tradizionale delle cucine del Medio Oriente e del Mediterraneo, dal Nord Africa all’Afghanistan), con carpaccio di pesce spada qualità Xiphias glaudius, trancio di filone privo di pelle, ossa e linea di sangue, salato e affumicato al naturale, pomodoro da agricoltura biologica, uova sode
biologiche San Bartolomeo, fiori di cappero al naturale e maionese fatta con uova biologiche, olio di semi di girasole bio, aceto di champagne. Deliziose le vellutate e le creme come quella di piselli fatta con cipolla biologica, pancetta tesa artigianale e peperoncino e poi spolverata con un pop corn di maiale aromatizzato al finocchietto, bacche di ginepro, chiodi di garofano, pepe
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nero e timo, per un tocco croccante e profumato. I fagottini croccanti di cuore di filetto di baccalà, selezione HQF (pescato nei mari delle Isole Fær Øer e consegnato in giornata alla fabbrica a terra dove inizia immediatamente il processo di salatura con sale grosso. Il pescato arriva a Corropoli, dove viene selezionato solo il cuore del filetto, scartando la pancetta e la coda). Cuore di filetto, patate biologiche, latte e cipolle biologiche per la crema che farcisce il fagottino spolverato di semi di sesamo, cotto al forno e servito
con una crema di pomodoro biologico. Fresche, allegre insalate come quella con lattuga biologica, Parmigiano Reggiano scelto DOP stravecchio Collina, uova sode biologiche, alici sottolio (arrivano dalla Sicilia, pescate nel Mar Mediterraneo), condita con salsa di uova, alici, olio extravergine di oliva Timpa dei Lupi. Non mancano i dolci con gli shottini, piccole delicatessen al cucchiaio come il tiramisù al gran cacao preparato con uova biologiche, mascarpone, savoiardi, caffè, cacao amaro in polvere “Slitti” e scaglie
dell’irresistibile cioccolato puro fondente extra GranCacao 70% Perù di Slitti con granella di cacao. Avete l’acquolina in bocca? Provate ad assaggiare la varietà di 15 panini nel Box Degustazione Deluxe a 65 euro. Roba da leccarsi i baffi e riscaldare il cuore. Provare per credere. Stefania Monaco Food on the road Via del Monte delle Capre 33 c/d 00148 Roma Telefono: 06 94537211 Web: www.foodontheroad.eu
L’Alta cucina sull’Alta velocità NTV rivoluziona lo stile del pranzo a bordo treno e sceglie l’eccellenza gastronomica di Eataly, la società di Oscar Farinetti, per garantire ai propri passeggeri un viaggio tra la qualità e la varietà dei sapori regionali: un calibrato light lunch a “chilometro zero” (filiera corta), mentre il treno macina centinaia di chilometri a 300 all’ora, che permette di assaporare, per esempio, un polpo patate e olive, un pestato di carciofi o bocconcini di pollo alla cacciatora. “Girotondo” di menu, su Italo con Eataly pasti mai banali Eataly ha studiato tre menu per NTV: Tagliere, Orto e Gustoso, per accontentare varie tipologie di viaggiatori e palati sempre più esigenti. Ogni due settimane i menu vengono completamente rinnovati. E le derrate sono rigorosamente di stagione, con sapori freschi e leggeri nei mesi più caldi, più decisi e “sostanziosi” in quelli più freddi. Un polpo con patate e olive accompagnato da un pestato di pomodori freschi e secchi può essere l’ideale durante un viaggio “estivo”, mentre una zuppa di ceci ed erbette potrebbe riscaldare i viaggi di dicembre. Nessun additivo di sintesi, agenti chimici o conservanti sono utilizzati per la produzione, e le ricette, all’insegna delle tradizioni e della naturalezza, rimangono quelle originali, anche se diverse da produttore in produttore. E dal momento che la qualità si percepisce ancora di più se è consapevole, Eataly racconta anche la storia e i valori che cementano i suoi produttori con una comunità che del buon gusto e del buon cibo ha fatto una filosofia di vita. 1. Tagliere – Un menu fresco, veloce, per quei viaggiatori che desiderano fare uno spuntino con i formaggi ricercati e selezionati tra il meglio della produzione casearia italiana; i salumi che raccontano l’eccellenza della norcineria italiana e un frutto, che in questo menu può essere una purea 100% naturale. 2. Orto – Pensato per i vegetariani, ma anche per chi ama la verdura. L’Italobox Orto, saporito e leggero, offre un piatto principale a base di verdura, prodotto dalla famiglia Ursini; una crema di formaggio in accompagnamento al pasto, da gustare con le lingue di pane e i rubatà di Mario Fongo. Infine, la pasticceria secca di Golosi di Salute per uno sfizio di fine pasto. 3. Gustoso – La proposta gustosa è ricca, saporita, divertente e raccoglie quelle ricette regionali che raccontano la tradizione culinaria italiana: un piatto proveniente dalla Dispensa di Amerigo, un pestato di verdure in accompagnamento di Ursini e il dolce al cucchiaio, anch’esso cucinato secondo ricette antiche dall’Azienda Agricola Prunotto, pura tradizione piemontese. Tutti i viaggiatori possono pranzare a bordo di Italo, il servizio infatti è disponibile su tutto il treno al mattino tra le 12,00 e le 14,30 e alla sera tra le 19,00 e le 21,30. Il rapporto qualità prezzi dei menu proposti è altamente competitivo. Si può prenotare, usufruendo di uno sconto sul costo del pranzo, oppure acquistare il pasto direttamente a bordo dalle hostess. Attraverso speciali trolley, studiati per minimizzare l’impatto sul treno in termini di rumorosità e ingombro, gli Italobox vengono distribuiti ai viaggiatori.
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Figlio unico.
San Leo è il primo e unico DOP nato, coccolato e cresciuto da Carpegna. Nel cuore dell’Appennino marchigiano, a 750 metri di altitudine, si apre una valle dal microclima unico, cullata di giorno da venti marini e alla sera da brezze profumate di muschi e resine. È l’aria che da secoli si respira a Carpegna. È uno dei segreti del Prosciutto
di Carpegna DOP San Leo, figlio di una natura materna, di un clima favorevole e di una lavorazione artigianale appassionata. Una qualità riconosciuta dall’autorevole certificazione DOP solo al San Leo, unico a Carpegna, unico nel mondo. Un tesoro di prosciutto. www.carpegnaprosciutti.com
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Saremo presenti a CIBUS 2012 dal 7 al 10 maggio, Padiglione 2 Stand M 068
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Salumificio Barabino, eccellenza e saper fare da oltre cent’anni di Gaia Borghi
“N
on è da tutti avere una storia ultracentenaria”: così si presenta attraverso le pagine del suo sito il Salumificio Barabino Francesco, una delle aziende storiche del settore alimentare del nostro Paese, tra i fondatori dell’ASS.I.CA. nel lontano 1945. Era il 1885 quando Santino Barabino avviò un’attività di allevamento suini; nel 1919 il figlio Francesco fondò il salumificio che ancora oggi porta il suo nome. Da allora tantissimo è cambiato: dall’inaugurazione del nuovo stabilimento nel 1996, con la realizzazione di un prosciuttificio tuttora all’avanguardia, all’adeguamento, l’anno successivo, delle
strutture alle normative dell’HACCP e alle direttive del cosiddetto “pacchetto igiene”, senza dimenticare la rintracciabilità di prodotto, possibile grazie ad un sistema di registrazioni e controlli a partire dalla materia prima fino all’etichettatura del prodotto
finale. A breve anche l’ottenimento delle certificazioni BRC e IFS, volontarie ma indispensabili per ampliare i propri orizzonti di vendita verso i mercati esteri, francese e tedesco in primis. Serietà, professionalità ed esperienza insieme al rispetto delle ricette artigianali, alla cura nel mantenere vive le antiche formulazioni pur adattandole alle necessità dei consumatori di oggi, con particolare attenzione ai clienti intolleranti a determinati alimenti quali proteine del latte e glutine — la Barabino ha da tempo inserito una lunga serie di prodotti nel prontuario dell’AIC-Associazione Italiana Celiachia — hanno permesso a questa azienda di Torre Garofoli,
Fase di confezionamento del prodotto.
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l’alta qualità che contraddistingue i prosciutti cotti e i salumi crudi. Al momento ci stiamo preparando a soddisfare le richieste del mercato anche con la nascita di una linea di prodotti moderni destinati al libero servizio. Stiamo altresì intensificando la nostra presenza sul territorio nazionale, rinforzando la rete vendita in modo strutturato, migliorando la presenza in modo capillare nelle zone storicamente servite e allargando il presidio di territori nuovi dove la qualità del salumi Barabino viene riconosciuta».
Lavorazione cosce fresche. nei pressi di Tortona, di mantenere inalterata la propria posizione di mercato, anche in momento di crisi come quello attuale. Anzi: sono ampi i margini di miglioramento che è possibile raggiungere, in particolare sul mercato nazionale nel canale del normal trade (il salumificio è oggi leader nelle province di Alessandria, Genova e Savona), anche grazie all’arrivo in azienda di GIAMPAOLO OTTRIA, responsabile commerciale, insieme ad una rete di vendita motivata, con idee ed esperienza alle spalle. Proprio ad Ottria vogliamo porre qualche domanda su questa azienda di 45 dipendenti che ha fondato i suoi successi soprattutto su un prodotto, il prosciutto cotto L’Insuperabile. Un prosciutto di alta qualità, da coscia suina italiana, senza glutine, senza proteine del latte, senza polifosfati aggiunti e senza glutammato monosodico, a detta di molti tra i migliori. Innanzitutto, quali sono i punti di forza di questa azienda? «La lunga tradizione e l’attenzione a mantenere inalterati i sapori seguendo scrupolosamente le antiche ricette che riscontrano da oltre un secolo l’apprezzamento dei nostri fedeli consumatori».
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Qual è oggi il vostro posizionamento sul mercato e quali sono le linee di marketing che avete adottato per l'anno in corso? «La nostra azienda è riconosciuta dal trade e dai consumatori finali per
Quali sono i prodotti di punta del salumificio? «La nostra antica cultura e l’arte nella preparazione delle saline che si tramanda da ben quattro generazioni fa sì che il nostro prosciutto cotto di alta qualità L’Insuperabile sia apprezzato come esempio fulgido della tradizione gastronomica italiana. Inoltre, i nostri salumi crudi stagionati, seguiti in modo attento e meticoloso dal titolare, CARLO BARABINO, che si accerta personalmente dei processi di lavorazione e stagionatura, sono di indubbio valore qualitativo».
Il prosciutto cotto L’Insuperabile.
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Ci può parlare ancora meglio delle caratteristiche del prosciutto cotto l’Insuperabile? «Vorremmo sottolineare l’alta digeribilità, la delicatezza al palato, la morbidezza del nostro prosciutto cotto alta qualità L’Insuperabile. Tutto ciò si ottiene con un’attenta scelta delle materie prime e degli ingredienti e con procedure di lavorazione seguite passo passo da operatori competenti». Qualche novità per il 2012? «Il 2012 è percepito dalla Direzione dell’azienda e da tutto il personale come anno di svolta: infatti, oltre alla riorganizzazione e al riassetto della rete commerciale, sarà l’occasione per lanciare la nostra linea di specialità come il prosciutto cotto di alta qualità L’Insuperabile Delizioso e il prosciutto cotto scelto L’insuperabile Sfizioso, oltre alla nostra mortadella Derthonella e alla linea di affettati Insuperabili. Cogliamo, infine, l’occasione per ringraziare l’altro titolare e presidente del Salumificio Barabino Spa, PIETRO BARABINO, che appoggia instancabilmente questo ambizioso progetto che sta già diventando realtà». Gaia Borghi
I primi anni di attività.
La gamma dei prodotti Barabino Prosciutti cotti Punta di diamante della produzione è L’Insuperabile (alta qualità) presentato nel formato piatto oppure bauletto. Completano la gamma numerosi altri prosciutti cotti. Il cliente potrà trovare all’interno dell’ampia scelta Barabino il prodotto che soddisfi appieno le sue esigenze e quelle del consumatore finale, sia dal punto di vista qualitativo che di fascia di prezzo.
vengono insaccati per poi essere cotti lentamente. Con questo procedimento tradizionale nascono salami cotti e zamponi decisamente saporiti e di inconfondibile qualità.
Salami crudi Salami tradizionali, tutti di maiale, confezionati con carni selezionate e l’aggiunta di pepe nero e aglio. La stagionatura viene effettuata in vero budello di maiale per ottenere prodotti di altissimo pregio e qualità.
Pancette e lardo Lavorati secondo le migliori tradizioni dei contadini locali, la pancetta e il lardo fanno parte delle più antiche preparazioni della gamma Barabino. Prodotti appetitosi e nutrienti da alta gastronomia.
Salametti Preparati seguendo una antica ricetta delle colline Tortonesi con carni suine di alto pregio, i salametti hanno un sapore molto dolce, perfetti per ogni occasione. Salami cotti e zamponi Prodotti con impasto fatto con carni magre di maiale e conditi con sale, pepe nero spezzato e spezie triturate fini,
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Coppa e lombada Prodotte con carni di maiali maturi, salate seguendo sistemi artigianali di alto valore gastronomico.
Cotechini, stinchi e zamponetti precotti Prodotti classici adatti ad ogni occasione. Di facile preparazione vanno scaldati e gustati. Per lo stinco si consiglia la cottura al forno. Arrosti Sono arrosti di alta qualità che vengono salati e aromatizzati prima di essere infornati. Il prodotto che si ottiene è profumato e con uno spiccato gusto.
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In un libro la storia di Levoni
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l salumificio Levoni ha recentemente presentato Il Secolo Levoni, un libro che narra la storia dell’azienda mantovana, dalla sua nascita ai giorni nostri. Il testo racconta le origini del salumificio: era il 1890, infatti, quando Ezechiello Levoni fu mandato dai suoi genitori da Castelnuovo Rangone, in provincia di Modena, a Milano per imparare il mestiere di salumiere. Oltre al racconto storico, il testo è ricco di testimonianze di persone che hanno collaborato alla crescita dell’azienda. La raccolta si completa di aneddoti, fotografie storiche e curiosità. In volo verso il futuro «Quando abbiamo deciso di raccogliere gli aneddoti, le immagini, i dati relativi ai primi 100 anni della nostra azienda e di ordinarli in una pubblicazione, non potevamo prevedere l’emozione che ci avrebbe colto sfogliandone le pagine. Prima d’ora noi Levoni non ci siamo mai occupati degli archivi, non ci siamo mai fermati per dare un’occhiata indietro: abbiamo sempre
guardato avanti, con le maniche rimboccate e il piglio energico e ottimista tipico di chi vive da queste parti. La nostra generazione, la quarta alla guida dell’azienda e quella chiamata a traghettarla dal primo al secondo secolo di vita, è contemporaneamente promessa del rinnovamento e garanzia della continuità perché punterà sempre sulla propria produzione accurata, sui controlli rigorosi, sulla salvaguardia delle attività artigianali, sui rapporti caldi, personali, sinceri e sullo spirito di cooperazione autentica: la somma di tutto questo è stata la formula vincente per 100 anni! Cosa faremo di nuovo? Moltiplicheremo le attività volte a incentivare mestieri tradizionali che hanno grandi potenziali, come quello di salumiere; svilupperemo ulteriormente le esportazioni, cercando di raggiungere quei pochi Paesi che ancora mancano nel nostro medagliere; rafforzeremo i rapporti con i punti vendita di più alto livello sia in Italia sia all’estero; procederemo sulla strada imboccata di attenzione per l’ambiente. Sen-
Il Secolo Levoni, 2011, Anno 100, Numero zero. za mai perdere di vista l’obiettivo originario, individuato da nonno Ezechiello e fino ad ora mai perso: non scendere mai a compromessi sulla qualità. Arrivederci al bicentenario!» Nicola Levoni
In principio fu il salame. Il viaggio secolare di Levoni prende vita da un assaggio di Ungherese: una fetta rotonda ed uniforme, dalla grana fine, che rotola delicatamente su un tagliere. Gusto morbido, acuito dagli accenti dell’affumicatura, vagamente dolce... Trionfo dei sensi e medaglia d’oro anche per i palati più esigenti e di rigore inglese. Siamo nel 1913, quando la specialità viene presentata all’Esposizione Internazionale di Londra da un giovanissimo Ezechiello Levoni, capostipite delle quattro generazioni che porteranno l’azienda al successo lungo la parabola del tempo. L’impeto che da allora ha travolto padri, figli e nipoti, nell’ambizione comune di portare i salumi Levoni fino a qui, è a tutt’oggi il denominatore comune di una ancor più numerosa famiglia: la comunione di quel sapiente ed attento lavoro di disossatori, stagionatori, affumicatori, esperti di spezie, esaminatrici di budelli che di giorno in giorno, tra gli altri, hanno profuso impegno e dedizione all’azienda che oggi festeggia cento anni di attività. Molti di loro seguono il tracciato di quella fetta, quasi ricalcandone il solco che sulla linea della tradizione di Castellucchio va a disegnarsi, da una vita intera: sono persone che del benessere dell’azienda e del proprio operato in essa hanno fatto una missione e un reale sentimento d’orgoglio. Taluni sono approdati da poco, ma il senso di fierezza e fedeltà a tutto tondo che suscita in loro il pronunciare la frase “lavoro per Levoni”, eloquente nelle sue assonanze, appare evidente anche negli sguardi di chi, come gli agenti e gli autisti, rielabora e rinvigorisce la propria affezione da fuori le mura. Talaltri non ci sono più, ma hanno lasciato le proprie impronte chiare e nitide sul cammino, insegnando a chi li avrebbe succeduti quella stessa concretezza, quel gusto di fare le cose belle, artigianalmente, che fino a lì li avevano accompagnati. La passione, invece... quella è naturale. E si ripresenta di assaggio in assaggio, fetta dopo fetta, quando ci si accorge che se ne vuole gustare un’altra, la si vuole interpretare e la si vuol capire nelle sue origini. Rotondità, consistenze, sapori, accenti: un ventaglio fiorito delle più accattivanti sfumature. Quello stesso assortimento di più di duecento tipi di salumi che attualmente percorre e conquista gran parte del mondo, con un bagaglio di forme, consistenze, sapori nuovi, ma sempre nel pieno rispetto della tradizione, è soltanto uno dei tesori dello scrigno che Levoni offre alla sua clientela, sempre più esigente, più affiatata e fedele al marchio del maialino alato. E che sa volare! (...)
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L’INSUPERABILE BARABINO. DIFFICILE DA FOTOGRAFARE.
Prosciutto cotto di alta qualità da coscia suina italiana Senza proteine del latte, senza glutine, senza glutammato monosodico, senza polifosfati aggiunti
Salumificio Francesco Barabino Spa Strada Statale per Alessandria, 44 – Torre Garofoli – Tortona (AL) Premiata Salumeria Italiana, 2/12 35 Tel.: 0131 861449, 0131 868396 – Fax: 0131 821016 – www.barabino.com – barabino@barabino.com
Trasformazione
Il salame all’aglio di Giovanni Bazza L’alta qualità del prodotto tradizionale e le moderne tecnologie. E questo sin dagli anni ‘80 quando le politiche produttive guardavano alla quantità. Ecco gli ingredienti del successo della piccola azienda Giovanni Bazza a Terrassa Padovana di Michele Bracieri
G
iovanni Bazza produce eccellenti salumi in una piccola azienda collocata a Terrassa Padovana: salami, pancette, soppressate e coppe, tutti lavorati con passione e nel rispetto della tradizione veneta, secondo gli insegnamenti
tramandati dal nonno, norcino a sua volta, e tra i più noti della zona. “Tradizione e progresso”: potrebbe essere questo il motto del salumificio Bazza, un giusto mix di sapienza ed innovazione, in grado di dare vita ad alimenti dal sapore contadino ottenuti attraverso le più avanzate
tecnologie legate a questo specifico settore. Una scelta che, nel corso degli anni, si è dimostrata vincente, premiata anche dal mercato, raggiunto attraverso una distribuzione capillare che ha saputo trovare vie alternative a quelle convenzionali.
Il Salumificio Bazza era tra gli espositori presenti a Taste 2012, all’interno della Stazione Leopolda di Firenze, con un’ampia esposizioni di salumi.
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I salumi “Bazza” sono oggi un prodotto molto rinomato e richiesto sia su scala nazionale che internazionale; tra queste prelibatezze spicca la pancetta arrotolata, che viene tenuta per circa venticinque giorni in salamoia e speziata, con una concia la cui ricetta viene tramandata da generazioni, a base di cannella e chiodi di garofano, prima di venire insaccata e di affrontare circa cinque o sei mesi di stagionatura. Il prodotto di punta dei Bazza è il salame all’aglio, uno dei migliori di tutto il Veneto, vero e proprio vanto della regione nel ricco panorama della salumeria italiana. Ci troviamo in prossimità dei Colli Euganei, area rinomata per insaccati di pregio, la cui qualità è favorita anche dalle particolari condizioni climatiche, che permettono un’ottima stagionatura del prodotto. È qui che Giovanni Bazza ha dato vita alla propria attività poco più che ventenne, compiendo una scelta per molti aspetti originale e rischiosa. Già a partire dagli anni ‘80, infatti, mentre la grande produzione industriale guardava favorevolmente al commercio su ampia scala, Giovanni scommette su un salumificio di dimensioni ridotte, che utilizza materie prime naturali, puntando tutto sulla genuinità e sul rispetto dei tempi di stagionatura del prodotto; dove per genuinità si intende l’assoluta assenza di polvere di latte o di caseinati, additivi, antiossidanti, e esaltatori di sapidità, come zuccheri e conservanti. I suoi salami sono numerati, è così possibile risalire con precisione alla loro data di lavorazione, e l’impasto ha origine da suini nostrani, animali che lo stesso Giovanni Bazza riesce a controllare periodicamente nelle fattorie da cui si rifornisce. Nel salumificio la materia prima arriva già
Tra le prelibatezze di Bazza anche la pancetta arrotolata. Massaggiata rigorosamente a mano con una sapiente miscela di sale, spezie ed aromi naturali, viene lasciata a riposare, per il tempo che merita, in apposite vasche ed in seguito insaccata in budella naturali. macellata, e qui avviene la selezione e la trasformazione della carne, che è poi mondata a mano, preparata per l’impasto e insaccata con budella naturali in gola di manzo (la parte superiore dell’intestino), trattate solo con aceto. La tiratura viene effettuata esclusivamente a mano, con spago verde per la versione tradizionale con aglio, e spago bianco nel caso in cui l’insaccato non presenti questo elemento. Gli ingredienti dei salumi sono esclusivamente sale, pepe e un po’ di aglio, per i prodotti che lo richiedono, come per esempio le soppressate. La parte conclusiva di questo processo riguarda la stagionatura, che avviene in ambienti continuamente controllati per temperatura e umidità, nel rispetto dei tempi naturali di maturazione. Le prime fasi di stagionatura avvengono a 25°C con umidità molto elevata, superiore al 95°C. Segue l’asciugatura, durante la quale inizia la piumatura del sala-
“La particolarità dei salumi Bazza è il risultato di un progetto costruito nel tempo con caparbia passione nella selezione dei migliori tagli di suino nostrano, conservando e rispettando le antiche ricette della tradizione veneta” Premiata Salumeria Italiana, 2/12
me, in cui temperatura e umidità vengono progressivamente abbassate. In un periodo che varia dai due ai quattro mesi il salame è pronto per il consumo. Facilmente pelabile, il salame Bazza si caratterizza per una muffa bianca o grigio chiaro, la sua pasta risulta compatta e omogenea, di colore rosato e non rosso vivo, alterabile al contatto con l’aria, indice dell’assenza di conservanti. I salumi Bazza, anche se stagionati, devono rimanere abbastanza morbidi, è questa una delle loro principali peculiarità. Il loro profumo è dolce, delicato, mentre al palato risultano friabili. Si accompagnano molto bene con un pane tradizionale di queste zone, come la focaccia di Terrassa Padovana, e si sposano con un rosso Cabernet Franc riserva, anche se c’è chi li predilige con le bollicine di un buon Franciacorta o un prosecco di Valdobbiadene. Michele Bracieri Salumi Bazza Via Fossetta 3 35020 Terrassa Padovana (PD) Telefono: 049 9501066 Fax: 049 9514245 E-mail: salumificiobazza@tin.it Web: www.salumibazza.it
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Commercializzazione
Soprèssa Vicentina Dop, un 2012 in forma per...fetta! Di buon auspicio il lancio della Dop in vaschetta da 120 grammi. Destinata principalmente alla GD come alternativa al taglio da banco promette bene: questa innovazione dovrebbe contribuire ad aumentare del 50% nel 2012 la produzione del salume di Riccardo Lagorio
È
un salume traboccante di storia, la Soprèssa Vicentina, quella che ha ottenuto la Denominazione di Origine Protetta nel 2003 e che viene elaborata nel territorio della provincia berica. Ne illustra l’esistenza JACOPO DA PONTE quando dipinge “Cristo in casa di Marta, Maria e Lazzaro”. Siamo nel 1577: al centro della scena, sulla tavola sontuosa, compaiono una candida tovaglia con del pane, una brocca di vino, dell’uva e un tagliere su cui il padrone di casa sta affettando una soprèssa. Due secoli più tardi un inventario redatto dal notaio GIUSEPPE FARINONI in Vicenza rileva un “ferro per sopressare con due anime”, termini presenti nei mercuriali della Camera di Commercio di Vicenza sin dal 1862. E se il gonfalone provinciale racconta le gesta eroiche compiute dai soldati italiani durante la prima guerra mondiale attraverso la raffigurazione dei quattro sacelli sacri alla patria (l’Ossario del Pasubio, il Sacrario Militare del Monte Grappa, l’Ossario del Monte Cimone e il Sacrario Militare di Asiago), l’area storica di produzione scorre proprio da Valli del Pasubio alle Piccole Dolomiti, dall’Altopiano di Asiago ai Colli Berici. Così nei secoli la soprèssa vicentina si è distinta anche per la forma caratteristica, cilindrica e leggermente arcuata, e per l’impasto, compatto ma tenero. E quest’ultimo aspetto è
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una fortunata coincidenza che i produttori di soprèssa stanno cavalcando, in quanto il mercato privilegia sempre più salumi morbidi.
Si sa che la bontà esiste al di là dei riconoscimenti europei, ma non riesce a nascondere l’orgoglio per il fatto che un prodotto contadino abbia
La Soprèssa Vicentina DOP si gusta cruda, da sola o accompagnata al tradizionale pan biscotto o da una fetta di polenta.
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Il marchio Soprèssa Vicentina Dop garantisce il rispetto del Disciplinare di produzione nella realizzazione del salume. potuto assurgere ad una protezione di natura sovranazionale il presidente del Consorzio, FLORI FANTIN. Di tradizione norcina, ricorda, non senza un pizzico di nostalgia: «che ogni famiglia allevava almeno
un maiale, da cui si ottenevano insaccati e una serie infinita di prodotti più o meno conservabili, come lardo e strutto. Ma la soprèssa è sempre stata considerata la regina dei salumi.
Per questa ragione continuiamo la tradizione di sezionare le parti manualmente, insaccare l’impasto in budello naturale e legare lo spago di chiusura e sostegno a mano. Noi siamo compiaciuti del fatto. La Soprèssa Vicentina è una vera DOP sin dalle scelta della materia prima: i suini devono essere allevati e macellati esclusivamente nella Provincia di Vicenza. Si tratta di un elemento fondamentale che garantisce la qualità e il massimo della tracciabilità». I suini di cui parla Fantin sono di razza Large White, Landrace o Duroc, hanno un’età di almeno 9 mesi e al momento della macellazione devono avere peso superiore a 130 kg (ma i quattro salumifici privilegiano animali sui 180 kg) per garantire una carne tonica e matura. Nella produzione della Soprèssa Vicentina vengono utilizzati i migliori tagli: la spalla, la coppa, il lombo, la pancetta, il grasso di gola e la coscia, altrove destinata a divenire prosciutto. «Da sempre questa è la tradizione» dice ENZO DAL BOSCO, autotrasportatore per necessità e norcino per passione e che oggi coordina con il figlio Fabio il Salumificio Valpasubio, immerso nella natura ai piedi del Dente Italiano. «Tutto il maiale diventa soprèssa e una volta macinata la carne con le piastre da 6 mm vi si aggiungono sale, pepe e talvolta la consa, una miscela di chiodi di garofano, cannella e rosmarino. La Soprèssa Vicentina autentica non ha aglio e noi ne produciamo solo un 5%
Produttori
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Salumificio di Asiago Srl Salumificio Vicentino 1960 Via della Tecnica, 16 Molina di Malo (VI) Telefono: 0445 330245 Web: www.salumificiovicentino.eu
Salumificio Micad di Marcon Giancarlo & C. Via degli Alpini, 10 Belvedere di Tezze (VI) Telefono: 0424 561138 Web: www.salumificiomicad.it
Salumificio dei Castelli Srl Strada del Capitello, 11 Montecchio Maggiore (VI) Telefono: 0444 492627 Web: www.salumificiodeicastelli.it
Salumificio Valpasubio Srl Contrà Fecchiera Valli del Pasubio (VI) Tel.: 0445 590056 Web: www.valpasubio.it
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per i clienti che proprio non possono farne a meno…». La pezzatura della soprèssa muta a seconda della misura del budello nel quale viene insaccata, che comunque deve avere un diametro minimo di 8 cm, di solito manica bovina. L’operazione dell’insacco si conclude con un passaggio in una vasca di acqua calda, dove viene manipolata fino a darle un aspetto compatto ed uniforme. Si procede infine alla legatura con spago di canapa, prima in verticale poi ad anelli, in orizzontale, per impedire la presenza di aria all’interno del macinato. Il ciclo di affinamento, dall’asciugatura alla stagionatura, dipende dalla pezzatura e varia da un minimo di 60 giorni (pezzature da 1,5 kg) fino ai 120 delle soppresse di maggiori dimensioni (dai 3,5 agli 8 kg). Tuttavia la stagionatura si può estendere anche a 8 mesi qualora si desideri ottenere una Soprèssa Vicentina DOP ben stagionata. La morbidezza sarà sempre però la caratteristica della fetta, che deve mantenere poca resistenza alla
masticazione. Da poche settimane la Soprèssa Vicentina DOP è stata lanciata anche preaffettata sottovuoto in una confezione da 120 g. «La Soprèssa Vicentina DOP in vaschetta — spiega ANDREA MONICO, direttore del Consorzio di Tutela — nasce come sintesi di più fattori: innovazione di servizio, qualità certificata, rispetto del gusto della tradizione. La comodità della nuova confezione rafforza la promozione del nostro prodotto, che è una priorità del nostro Consorzio». Prodotta dalle quattro aziende aderenti al Consorzio di Tutela DOP, con il logo a certificare che il contenuto nella vaschetta deriva dall’osservanza del rigido disciplinare di produzione, è destinata principalmente alla Grande Distribuzione come alternativa al taglio da banco. Anche questa innovazione dovrebbe contribuire ad aumentare del 50% nel 2012 la produzione che nel 2010 si è assestata intorno alle 120 tonnellate. L’80% della Soprèssa Vicentina DOP viene venduta nel canale della distribuzione moderna, il 14% attraverso il
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Nuovo presidente nel Consorzio Tutela Speck Alto Adige Sabato 25 febbraio si è tenuta l’assemblea dei soci del Consorzio Tutela Speck Alto Adige presso l’Hotel Eberle in Alta Maddalena, Bolzano. Durante l’assemblea sono stati nominati ed eletti il nuovo consiglio di amministrazione e il suo nuovo presidente. Sei produttori di speck compongono il consiglio di amministrazione del Consorzio Tutela Speck Alto Adige, cinque dei quali sono stati riconfermati. Il sesto consigliere eletto sostituisce Franz Senfter all’interno del consiglio di amministrazione. L’assemblea ha eletto, inoltre, il suo nuovo presidente. Ad Andreas Moser, socio fondatore del Consorzio e consigliere dal 1997, è stato conferito l’incarico di ricoprire la posizione di presidente per i prossimi tre anni. «L’elezione come presidente del Consorzio Tutela Speck Alto Adige mi ha sorpreso. Questo nuovo incarico e la fiducia datami sono una grande sfida per me che accetto volentieri» ha commentato Moser. «Nei prossimi mesi mi impegnerò intensamente insieme al consiglio di amministrazione con l’analisi dell’attuale situazione del Consorzio per poter intraprendere le misure adeguate. Un grazie sentito lo vorrei fare a Franz Senfter a nome di tutti i soci e produttori per il suo impegno e dedizione in questi ultimi vent’anni, per il suo contributo ad uno sviluppo continuo e duraturo del settore speck in Alto Adige». Dopo anni di presidenza Franz Senfter ha deciso di non ricandidarsi. «Dopo 20 anni di presidenza al Consorzio Tutela Speck Alto Adige ho deciso di lasciare spazio alla generazione più giovane. Sono convinto che Andreas Moser rappresenterà altrettanto bene gli interessi del settore e gli auguro buona fortuna». Markus Gasser è stato riconfermato vicepresidente. Il Consorzio Tutela Speck Alto Adige è stato costituito nel 1992 come “Consorzio per la promozione dello Speck dell’Alto Adige”. Da allora i suoi compiti principali sono la politica di qualità per garantire la qualità dello Speck Alto Adige, la difesa del marchio contro utilizzi illeciti del marchio e della denominazione “Speck Alto Adige”, così come la promozione del prodotto attraverso iniziative di marketing e comunicazione. Nel 2011 la produzione di speck in Alto Adige ha registrato una notevole crescita. Il numero complessivo di baffe provenienti dai produttori riconosciuti dal Consorzio Tutela Speck Alto Adige è stato di 6,4 milioni (28.700 tonnellate): ciò significa una crescita dei 4,2% rispetto all’anno precedente. Anche la produzione di Speck Alto Adige IGP (Indicazione Geografica Protetta) ha registrato un andamento positivo ed è stata di quasi 2,5 milioni (10.800 tonnellate) di prodotto marchiato.
Andreas Moser e Franz Senfter.
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La Qualità
Riso invecchiato Acquerello una storia italiana Il riso prodotto dalla famiglia Rondolino viene commercializzato in trenta nazioni e mette d’accordo i migliori chef internazionali. Acquerello è infatti unico al mondo perché, ancora grezzo, è invecchiato per un anno e poi raffinato con un metodo esclusivo di Antonella Malaguti
A
nalizzare lo sviluppo delle risaie del Nord Italia è un po’ come ripercorrere la storia economica e sociale di alcune aree geografiche della nostra penisola. Registi, scrittori e artisti hanno cercato in questa realtà fiorente nella Pianura Padana una fonte d’ispirazione per le proprie ricerche, non ultime quelle che conducono
allo studio dei famosi “canti della monda”. Il canto, infatti, accompagnava in modo costante le giornate lavorative delle mondine: espediente per scandire i tempi dei mestieri svolti nei campi durante il periodo della semina e della raccolta e per esorcizzare la stanchezza e la fatica. Le canzoni delle mondine rappresentano quindi una parte importante della tradizio-
ne folcloristica legata alla musica popolare italiana, al pari dei canti blues americani, nati per analoghe necessità dai neri africani schiavizzati nelle piantagioni di cotone. Raccontare le tappe del successo della famiglia Rondolino è dunque un modo per ricordare la storia di una grande trasformazione, frutto del connubio tra l’utilizzo di metodi
Acquerello è un riso Carnaroli classificato “Extra” per la sua qualità; per conservarlo perfettamente viene confezionato sottovuoto in pacco e in lattina.
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tradizionali di lavorazione agricola e una nuova sensibilità in campo alimentare, targata terzo millennio. Ci troviamo a Livorno Ferraris, in provincia di Vercelli (capitale europea del riso), zona rinomata in tutto il mondo per la qualità dei suoi chicchi. La Tenuta Colombara viene costruita qui nel 1500 e la famiglia Rondolino ne entra in possesso nel 1935. Sono gli anni ‘70 quando Cesare Rondolino, accompagnato in questa avventura dai figli Piero e Michele, porta l’azienda a espandersi fino a ottenere 600 ettari di superficie. Inizialmente sostenitori della tipica agricoltura intensiva, dove il riso veniva coltivato allo scopo di ottenere la massima resa, con una vendita indirizzata unicamente alle industrie di trasformazione, i Rondolino vent’anni fa cambiano rotta: nel 1992 Piero Rondolino inizia, infatti, a produrre la varietà di riso Acquerello, un riso Carnaroli invecchiato e di qualità “Extra”. Nel 1997, il consenso riscontrato convince definitivamente Piero e il figlio Rinaldo a ridurre la superficie dell’azienda ai migliori 140 ettari e a seminare unicamente la varietà Acquerello. Nel 2002 l’utilizzo di tecnologie avanzate permette di perfezionare ulteriormente anche la fase di sbiancatura del riso, raggiungendo gli attuali livelli di eccellenza che molti riconoscono al prodotto.
Piero Rondolino. Acquerello è unico al mondo perché, ancora grezzo, viene invecchiato per un anno e poi raffinato lentamente con un metodo esclusivo. Nell’ultima fase di lavorazione, infatti, il riso viene reintegrato con la sua preziosa gemma, che è costituita da embrioni e da piccoli frammenti che costituiscono lo 0,8% della la-
vorazione totale. La gemma viene ottenuta durante quello che viene chiamato “processo di sbiancatura”, ma sul mercato è sempre più rara, in quanto la sua separazione dalla pula è economicamente sconveniente. L’arricchimento del riso con la sua gemma è un procedimento esclusivo brevettato dai Rondolino: la gemma
Un’attenzione speciale La famiglia Rondolino è rispettosa dell’ambiente: per la coltivazione del riso vengono utilizzati solo prodotti naturali e l’acqua della risaia è mantenuta sempre alta. Queste accortezze hanno portato a un miglioramento dell’ecosistema e della fauna tipica della risaia: aironi, cavalieri d’Italia, libellule e rane popolano oggi la zona. Nella Tenuta Colombara è, inoltre, presente un interessante eco-museo della risaia con le abitazioni, i dormitori, i laboratori degli artigiani e la scuola, collocati nella loro sede originale, dove in passato viveva la comunità della cascina (il museo è visitabile solo su prenotazione).
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La raffinazione del riso con l’elica, inventata nel 1875 e poi abbandonata da tutti eccetto che dai Rondolino, è ancora oggi considerata la migliore perché lascia i chicchi perfettamente integri. viene miscelata lentamente con il riso bianco, in modo che compenetri nella parte esterna del chicco, recuperando così le sue parti più preziose. La raffinazione di Acquerello avviene tramite il procedimento dell’elica, inventato nel 1975 e poi abbandonato da tutti i produttori, ad eccezione dalla famiglia Rondolino. Se nella lavorazione industriale il riso viene sbiancato energeticamente in sei secondi in uno spazio di sei millimetri, con il procedimento a elica lo sbiancamento viene raggiunto in dieci minuti, e il chicco viene ospitato in uno spazio di venti millimetri. Ecco perché il risultato finale è un chicco che si presenta perfettamente integro, con consistenza e sgranatura maggiori rispetto a quelle di altre tipologie utilizzate in cucina. Questa peculiare caratteristica permette al riso Acquerello di assorbire meglio i condimenti, perdendo
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poco amido e conservando al meglio proteine e vitamine. Per invecchiare bene il riso, ancora grezzo, bisogna cercare di conservarlo al fresco nei silos il più a lungo possibile perché l’amido, in presenza di ossigeno, perfeziona nel tempo le proprie caratteristiche. Non ci stupiremo, dunque, se l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (Cuneo), fondata da Slow Food, ha scelto la Tenuta Colombara come sede didattica distaccata per far svolgere ai propri studenti stage e master in Italian Gastronomy and Tourism e Food Culture and Communications. Il riso della famiglia Rondolino è, a tutti gli effetti, un prodotto internazionale, che viene commercializzato in trenta differenti Paesi, riuscendo a soddisfare culture gastronomiche differenti tra loro. Viene, infatti, utilizzato da chef di quattro distinti
continenti, per segnalarne alcuni tra i più famosi: Peter Gilmore (Australia), Thomas Keller (Stati Uniti), Higashi Azabu (Giappone), Heston Bluementhal (Inghilterra), Filippe Rochat (Svizzera), Alex Atala del ristorante “Dom” (Brasile). Una menzione speciale merita la fornitura di Acquerello al ristorante del Guggenheim Museum di Bilbao, diretto dallo chef spagnolo Iosean Martinez Alija. La famiglia Rondolino insegna, quindi, che la strada che porta al successo va percorsa con pazienza, chicco dopo chicco. Antonella Malaguti Rondolino Società Cooperativa Agricola – Tenuta Colombara 13046 Livorno Ferraris (VC) Tel.: 0161 477832 / 334 6392349 E-mail: acquerello@acquerello.it Web: www.acquerello.it
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Prodotti tipici Le meraviglie della norcineria casalinga
Mazzafegato, la “salsiccia matta” di Marche, Umbria e Valtiberina toscana Si produce in due versioni: salata e dolce, aggiungendo fegato di maiale al normale impasto. Oggi è anche Presidio Slow Food di Nunzia Manicardi
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uando si parla di mazzafegato ci si riferisce a salsicce prodotte addizionando fegato di suino al normale impasto, molto saporite, preparate con un diverso contenuto di sale e aromi, da cui la denominazione “dolci” o “salate”. Due le possibili origini del nome: da mezzo fegato, per indicare la percentuale dello stesso presente nell’impasto, oppure da ammazzafegato, per evidenziare che non si tratta di un prodotto delicato, bensì di un piatto robusto. Il mazzafegato si produce tradizionalmente nella stagione invernale, da novembre a marzo, e più o meno sempre con la stessa modalità. È un prodotto tipico di alcune zone dell’Italia centrale: Marche, Umbria e alta valle del Tevere (al confine tra Umbria e Toscana, dove viene chiamato anche sambudello). Il mazzafegato è stato fino a qualche decina di anni fa un parente “povero” della salsiccia, immancabile sulle tavole in autunno e inverno, legato fortemente alla tradizione della norcineria casalinga. Ogni famiglia che possedeva suini, nella stagione della macellazione dei maiali, produceva mazzafegati da consumare subito o, più raramente, da conservare sotto strutto, sottolio, oppure nel grano o nella semola. La preparazione era ed è ancora, dove sopravvive, frutto
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Il mazzafegato, prodotto tipico di alcune zone dell’Italia centrale.
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dell’esperienza e della tradizione di ogni famiglia e riguarda sia gli ingredienti di base (le carni rosse, più ricche di sangue, altrimenti non utilizzate, e cioè fegato, cuore, polmone e carni avanzate dalle altre lavorazioni) che il tipo di speziatura, che varia anch’essa secondo il produttore, poiché ognuno custodisce i propri segreti, tramandati oralmente in ogni comunità. Il mazzafegato è l’ultimo salume che si prepara dopo aver lavorato tutti gli altri, quando rimangono sul bancone le ultime parti della macellazione, la cosiddetta “ripulitura di banco”. Si produce con lo stesso impasto della salsiccia o della soppressata, composto prevalentemente da carni di seconda e terza scelta, alle quali viene aggiunta una determinata percentuale di fegato di maiale e altre interiora. Il tutto, macinato e condito, viene insaccato in un budello di piccolo diametro preventivamente lavato e aromatizzato nel vino caldo. È particolarmente rinomata la produzione della zona di Fano, nell’Urbinate, dove viene anche detto “salsiccia matta”. Un’analogia può riscontrarsi con un insaccato tedesco, la salsiccia di fegato detta Leberwurst (da non confondere con il Leberkäse bavarese, che invece, nonostante il nome, non contiene fegato). Secondo alcuni studiosi, Leberwurst e mazzafegato affonderebbero entrambi le loro radici nel retaggio celtico europeo, dato che sarebbero stati i Celti gli inventori dell’arte norcina. Il mazzafegato umbro è prodotto soprattutto nel comprensorio dei comuni di Gualdo Tadino, Spoleto, Orvieto e Gubbio. L’impasto è composto per tre quarti da tagli di seconda e terza scelta e da un quarto di fegato tagliato a mano finemente. Il mazzafegato si produce in due versioni, dolce e salato, che si differenziano per l’aromatizzazione dell’impasto, la cosiddetta “concia”, con dosi che possono variare a seconda delle preferenze di ciascun norcino. Per produrre la versione “dolce”, la carne viene conciata con sale, pepe, zucchero, pinoli, uva passa e bucce d’arancia; per quella “salata” si impiegano solo sale, pepe e pinoli. In entrambi i casi il composto di carne e aromi viene insaccato in budello
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Giano dell’Umbria, incantevole borgo medievale immerso tra le dolci colline umbre. Nel mese di ottobre il paese ospita “La Mangiaunta”, affascinante viaggio gastronomico nei quattro frantoi gianesi. Un evento imperdibile che, oltre all’olio nuovo, offre la possibilità di assaggiare i prodotti della migliore tradizione contadina umbra tra cui il mazzafegato. naturale e legato con spago in modo da ottenere più salsicce della dimensione desiderata. Dopo un breve periodo di asciugatura, il mazzafegato dolce può già essere consumato, anche se solitamente viene lasciato stagionare per alcuni mesi; il mazzafegato salato, invece, viene abitualmente consumato dopo almeno due mesi di stagionatura. Al consumo si presenta di colore scuro; possiede sapore intenso, più o meno dolce a seconda della tipologia; profumo e gusto sono determinati dalla conciatura dell’impasto e dalla durata dalla stagionatura. Ecco, indicativamente, due ricette di base per entrambe le versioni. Versione dolce: 1 kg di carne (750 g di impasto per salsicce e 250 g di fegato), 30 g di uva passa, 30 g di zucchero, 30 g di pinoli, 1/2 buccia d’arancia a pezzi piccoli, sale e pepe. Versione salata (ha meno ingredienti): 1 kg di carne (750 g di carne per salsicce e 250 g di fegato), 20 g di pinoli, sale e pepe. La preparazione è la stessa per entrambe ed è piuttosto semplice. Un buon modo di gustare il mazzafegato è con del pane cotto a legna,
magari ancora leggermente tiepido, accompagnando il tutto con del vino rosso robusto, quale per esempio un rosso di Montefalco. Oggi la produzione di mazzafegato non è più diffusa come un tempo; la difficoltà di trovare un pubblico preparato ai sapori complessi ha portato al declino questo insaccato, che rischiava di scomparire. Ma in Umbria, tra Città di Castello e Umbertide, alcuni norcini non hanno mai interrotto la produzione, supportati da una piccola parte della comunità che non ha mai abbandonato il consumo dei mazzafegati. Il Presidio Slow Food ha allora riunito sette produttori che, spinti dalla voglia di recuperare questo prodotto e di riproporlo secondo le tradizioni della propria famiglia, hanno ripreso con entusiasmo la produzione lavorando carni di provenienza locale. Il loro obiettivo adesso è cercare di convincere anche altri a riprendere la lavorazione dei mazzafegati, in modo da diffonderli sul territorio e farne conoscere il valore, la complessità e il significato a consumatori che non ne hanno memoria. Nunzia Manicardi
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Mortadella di Prato: rinascere specialità toscana Concepito per recuperare gli scarti di preparazione degli altri insaccati, questo salume è stato riscoperto negli anni ‘90 da alcuni produttori artigianali della zona che ne hanno alzato il livello qualitativo con uno specifico disciplinare di produzione. Ideale come antipasto affettata sottile o servita appena tiepida di Giorgio Montanari
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n tempo smarrita fra i ricordi alimentari locali, ora addirittura presidio Slow Food: stiamo descrivendo la seconda vita della “mortadella di Prato”, specialità alimentare di cui, se avete curiosità, vogliamo parlarvi nelle prossime righe. Si hanno tracce di questo salume cotto già alcuni secoli fa; fino agli anni Cinquanta fu un espediente per recuperare carni di seconda qualità scartati dalle produzione di insaccati più costosi come la finocchiona. Dopo alcuni decenni di oblio, diversi produttori della zona di Prato (alcune macellerie e salumifici artigianali ubicati a Prato, Agliana e nei comuni limitrofi) decisero di riprendere in mano questa vecchia ricetta, riformulandola e rendendola affine ai gusti moderni. Siamo negli anni ‘90. Il punto di partenza per la “nuova” mortadella di Prato è una materia prima di qualità: si impiegano maiali di provenienza nazionale, se possibile certificati bio. I tagli selezionati sono spalla, capocollo, guanciale, rifilatura di prosciutto, lardone e pancetta. Le parti magre sono tritate con grana medio-fine, mentre il grasso è tagliato in dadini. Lavorate le carni, si uniscono alla concia, artefice di profumi e sapori del prodotto finito. Nella ricetta troviamo sale, pepe nero in grani e macinato, aglio pestato, macis, cannella, chiodi di garofano,
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coriandolo. Oltre a queste spezie è caratteristico l’impiego dell’alkermes, un liquore solitamente usato nella preparazione di dolci (come la zuppa inglese); questi dona al nostro salume una nota di profumo e, soprattutto, una colorazione più viva, simile a quella delle mortadelle bolognesi
(il rosso dell’alkermes è dato dalla cocciniglia, speciale secrezione delle coccinelle). Una volta insaccato in budello naturale il prodotto sosta in stanze di stufatura per tre/cinque giorni a temperature costantemente calanti (dagli iniziali 25°C a 12°C); al termine di questo lasso temporale si
Mortadella di Prato (foto: Salumificio F.lli Conti).
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passa alla fase di cottura, operazione che dura alcune ore e permette al prodotto di raggiungere i 68/70 °C di temperatura al cuore. Dal sapore che riporta alle spezie d’Oriente, dal profumo distintivo (grazie alla presenza del liquore), la moderna mortadella di Prato presenta un gusto più “soft” rispetto alla ricetta in vigore fino al dopoguerra, che prevedeva, come accennato, carni di scarto speziate in maniera massiccia per coprire eventuali cattivi sapori. Il prodotto finito presenta forma ovale allungata, pezzatura mediopiccola (le versioni più diffuse variano da poco meno di 1 kg fino ai 2 kg abbondanti; hanno diametro 10/13 cm e lunghezza attorno ai 30 cm); al taglio si apprezza il colore rosa opaco delle carni magre bilanciato dalle parti bianche del grasso tagliato in maniera grossolana. Dodici anni fa, su segnalazione dei produttori, è stato costituito il presidio Slow Food. Il disciplinare produttivo prescrive, come già menzionato, la tipologia di materia prima (maiali italiani, preferibilmente biologici), il limitatissimo impiego di conservanti, gli aromi e le spezie utilizzabili nella concia, la tipologia di insacco. Con la formulazione di un disciplinare si tutelano gli operatori, favorendo l’omogeneizzazione dei processi produttivi nel rispetto delle sfumature che rendono la mortadella di Prato riconoscibile a seconda della marca. Si tratta di un salume versatile che si adatta bene per tante preparazioni in cucina. Come la sua “cugina famosa”, la Bologna IGP, la nostra mortadella di Prato può essere affettata sottile e consumata come antipasto insieme agli altri salumi toscani; può essere anche valorizzata a cubetti nella preparazione di un’insalata di riso oppure avvicinata ai crostini col pane toscano croccante; infine (e questa è una “dritta” ottenuta da un esperto pratese), dona il suo massimo se degustata con i fichi. Alcuni produttori suggeriscono di servirla tiepida, magari come farcitura della pizza o come ingrediente distintivo per un risotto. Un vanto per la tradizione alimentare toscana. Giorgio Montanari
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Da soli o con gli amici, con pane o gnocco fritto
Felice chi gusta... il salame di San Felice di Gaia Borghi
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i dice che i formaggi francesi siano almeno 365, uno diverso per ogni giorno dell’anno. Per elencare tutti i prodotti della nostra salumeria, invece, forse non ne basterebbero due… di anni, si intende. Sì, perché in Italia, provincia, città e ancor più comune che vai, salame che trovi (o altro derivato carneo proveniente da Sua Maestà il maiale e altri animali). L’Emilia, in particolare, vanta una tradizione millenaria nella trasformazione e lavorazione delle carni suine. Già in epoca romana, infatti, la Valle Padana era rinomata per gli allevamenti di suini e allo stesso periodo risale la messa a punto del-
le tecniche di salagione e di stagionatura, che dalla Pianura Padana si estesero e radicarono in tutta Italia ed in Francia. San Felice sul Panaro è un piccolo comune della provincia di Modena, situato nella cosiddetta “Bassa”, ad una trentina di chilometri dal capoluogo. Con l’obiettivo di aiutare i piccoli produttori e promuovere le potenzialità di questo territorio, nella logica di tutela e valorizzazione dei suoi eccellenti prodotti agroalimentari, ha cominciato a prendere corpo una decina di anni fa il progetto che si è più recentemente concretizzato con la nascita del marchio di tutela
Salame di San Felice, realizzato dalla Camera di Commercio di Modena in collaborazione con il Comune di San Felice sul Panaro e inserito all’interno del più ampio marchio collettivo “Tradizione e Sapori di Modena”. Ne parliamo con il DOTT. MAURIZIO FERRARESI, veterinario del Dipartimento di Sanità pubblica dell’AUSL di Modena, che lavora insieme alle aziende produttrici del salame di San Felice e che ha seguito da vicino l’iter della nascita del Disciplinare di produzione che tutela le caratteristiche e la commercializzazione di questo prodotto ed è volto ad assicurare le massime garanzie di
Il Salame di San Felice, dal profumo invitante e dal caratteristico sapore dolce. Il colore rosso rubino intenso gli deriva dall’uso, nell’impasto, di vino rosso Lambrusco.
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salubrità, sicurezza e certezza di origine al consumatore. «Il salame di San Felice è un prodotto unico, che si lega alle caratteristiche specifiche del territorio della Bassa modenese, quelle famose terre di acqua, nebbie e umidità che contribuiscono alla corretta “maturazione” dei salumi, nei quali i componenti naturali reagiscono senza sopraffarsi a vicenda» ci dice Ferraresi. Ricchissimo di proteine, questo salame ha un profumo invitante e appetitoso ed un caratteristico sapore dolce. Il colore rosso rubino intenso e la particolare morbidezza gli derivano dalle carni suine provenienti esclusivamente da animali allevati sul territorio e dall’uso, nell’impasto, di vino rosso, rigorosamente Lambrusco. «Le aziende di allevamento di cui stiamo parlando sono piccole realtà — precisa Ferraresi — nelle quali il benessere animale viene tenuto in grande considerazione». Il processo di realizzazione del salame inizia con la selezione delle carni, che provengono da alcuni tagli della mezzena del maiale; segue la macinatura delle stesse insieme al grasso. Dopo la salatura “a secco” (con una percentuale di sale compresa tra il 2 e il 2,5%), vengono “messe in concia” (e qui sta l’abilità dei masalari) e mescolate. «La composizione della concia prevede, tra gli altri ingredienti, la presenza di noce moscata, pepe e, soprattutto, aglio spremuto: niente di liofilizzato, quindi. Non si otterrebbe lo stesso prodotto» puntualizza il dott. Ferraresi. Le carni vengono poi insaccate utilizzando esclusivamente budelli naturali, tipo gentile, opportunamente lavati e dissalati. Da qui deriva la caratteristica forma cilindrica più o meno marcata, mentre la lunghezza del salame varia in funzione delle scelte aziendali. Il processo di asciugatura avviene rigorosamente al naturale («nulla viene accelerato»), in un apposito locale (al fugler), dove la temperatura ambiente, partendo da circa 22 °C, viene gradualmente abbassata fino a 12-18°C, in relazione al calibro del salame e al tasso di umidità. Questa fase dura circa una settimana.
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Le aziende produttrici del salame di San Felice
Salumificio F.lli Ratti Via Granarolo, 61/B San Biagio di S. Felice S/P (MO) Tel.: 0535 84708
Società Agricola Veronesi Via Abbà e Motto, 14/A Massa Finalese (MO) Tel.: 0535 99126
Azienda Agricola Rossi Via per San Felice, 91 Camposanto (MO) Cell.: 339 2790055
Salumificio Valpa Via Grande, 470 Rivara (MO) Tel.: 0535 84760
Agriturismo Santa Maria Via S. Maria, 4 – Massa Massa Finalese (MO) Tel. 0535 99874
Per ulteriori informazioni: www.salamedisanfelice.it
Segue la stagionatura, una fase fondamentale, durante la quale si ha un calo di peso del salame pari a circa il 30%, per un periodo che varia in base alla tipologia degli impianti, a temperatura e umidità controllata, ma che corrisponde circa a tre-quattro mesi. Sono cinque le aziende della zona, come indicato dal Disciplinare*, che si possono fregiare della produzione del salame di San Felice; una produzione che, ad oggi, possiamo definire “di nicchia” (anche se dopo la creazione del marchio, ci conferma Ferraresi, è aumentata notevolmente la vendita): i due salumifici Fratelli Ratti e Valpa (quest’ultimo rinomato anche per la produzione interamente manuale delle colombine, deliziosi ciccioli frolli che rispecchiano una vecchia tradizione locale), l’Azienda Agricola Rossi, la Società Agricola Veronesi e l’Agriturismo Santa Maria. Imperdibile, in questo senso, la partecipazione alla pluricentenaria Fiera di settembre, organizzata
annualmente dall’amministrazione comunale di San Felice, per degustare sotto la Rocca Estense questo squisito insaccato ed altre prelibatezze locali, dalla mortadella alla salsiccia. D’altronde, aggiungiamo noi, basta assaggiarlo una volta per diventarne dipendenti. Gaia Borghi Nota * La zona di produzione e confezionamento del salame di San Felice è rappresentata esclusivamente dalle località comprese nei territori dei comuni di Camposanto, Cavezzo, Concordia sulla Secchia, Finale Emilia, Medolla, Mirandola, San Felice sul Panaro, San Possidonio e San Prospero sulla Secchia appartenenti alla provincia di Modena. Gli elementi che comprovano la tracciabilità del prodotto sono costituiti dall’iscrizione dei produttori e confezionatori in apposito elenco tenuto ed aggiornato dall’organismo di controllo individuato dalla Camera di Commercio di Modena.
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Tutto il biologico, oggi
Cà Verde, un saper fare contadino precursore del Bio Dal ‘78, anno di nascita della Cooperitiva Agricola 8 marzo, all’88, anno del primo disciplinare di produzione per ottenere latte bio in Italia, il passo è stato grande. Oggi il caseificio è il cuore pulsante della cooperativa e tra i formaggi spiccano il Monte Veronese DOP, la scamorza affumicata, la caciotta stagionata e il Mediterraneo. Ultimo nato, il formaggio stagionato nelle vinacce d’Amarone di Riccardo Lagorio
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a moria di aziende agricole durante gli anni Settanta, perdurata per i due decenni successivi, ebbe come diretta conseguenza l’abbandono delle campagne e, di contro, la crescita
di aree industriali intorno ai centri abitati. Non sappiamo ancora quanto fu definitiva la perdita d’identità culturale o se piuttosto prevalse una diversa declinazione del concetto di contadinità: di certo si assistette
per un lungo periodo ad una sottovalutazione e marginalizzazione del lavoro dei campi, di cui solo oggi si intravede un barlume di progresso. L’area pedemontana del Veronese fu percorsa dallo stesso disfacimento,
L’ultimo nato a Cà Verde è il formaggio stagionato nelle vinacce di Amarone.
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solo in parte controbilanciato dalla presenza storica di aziende agricole dedite alla produzione di vino, che le rese peraltro famose nel mondo anche grazie alla calata nel nostro Paese di turisti germanofoni alla ricerca di gusti mediterranei. In questo contesto, l’8 marzo 1978, a Sant’Ambrogio di Valpolicella nasceva la Cooperativa Agricola 8 Marzo. I fondatori erano contadini troppo piccoli per sperare di continuare a vivere di allevamento e cerealicoltura tradizionali, operai e studenti che desideravano dare una nuova vita ai terreni ormai abbandonati. Attorno a loro si aggregarono molte figure, tra le quali la Mutua per l’AutoGestione (MAG), tra i primi esempi di finanza etica in Italia. Il recupero di una corte agricola nei pressi della Grola, che sarebbe divenuto di lì a poco uno tra i più noti cru della Valpolicella, Cà Verde, in comproprietà con la Provincia di Verona, permise di sperimentare sin da subito un nuovo modo di lavorare e di evitare che andasse perso il patrimonio del saper fare contadino. L’attività della cooperativa prese il via con l’acquisto di 80 capre da latte e di alcune vigne sulle terrazze abbandonate sulla falesia che guarda il lago di Garda. Formaggi, ricotte, yogurt, Recioto ed Amarone furono da subito le chiavi di volta per lo sviluppo futuro. Ma, soprattutto, precorrendo i tempi, i soci intuirono che per vivere della terra non bastava essere bravi agricoltori: bisognava trasformare e vendere ciò che si produceva. Nacque così l’agriturismo, un agriturismo vero, dove è possibile gustare i prodotti dell’azienda e soggiornare vivendo a contatto diretto con la natura e con l’esperienza della cooperativa. Una trasformazione nodale caratterizzò il lavoro del 1985: la scelta coraggiosa dei soci fu di occuparsi della terra senza l’aiuto di pesticidi,
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In alto: la sede della Cooperativa. In basso: la lavorazione dei formaggi. diserbanti e concimi chimici. Andava prendendo forma la funzione profonda della cooperativa: quella di dar vita a prodotti densi di significati e valori che vanno ben oltre il bene tangibile. Benché non esistessero regole ufficiali e riconosciute che stabilissero quando un prodotto è Bio, tuttavia la scelta dei soci segnò la nascita di un nuovo modo di produrre e consumare, sul quale si fonda tutta la storia dell’impresa. Nel 1988 Cà Verde scrive infatti il primo disciplinare di produzione per ottenere latte biologico in Italia: un patto chiaro tra allevatori e consumatori sancito per il tramite di Cà Verde, in decisa controtendenza con le scelte prevalenti di allora. Le bovine di razza Frisona, Bruna Alpina
e Pezzata Rossa sono tuttora allevate con fieno, mais e mangime biologico durante l’inverno e d’estate al pascolo, dai 500 ai 1.500 metri di altitudine in un territorio che va dalle falde del Monte Baldo ai Monti Lessini. Il caseificio, cuore pulsante della cooperativa, trasforma solamente il latte dei soci conferitori a favore di una clientela molto attenta e precisa nella lettura delle etichette, interessata a comprendere la sapiente combinazione di tecnologie moderne e conoscenze tradizionali alla base del successo dell’impresa collettiva. Tra i formaggi spiccano il Monte Veronese DOP Fresco e d’Allevo, la scamorza affumicata, la caciotta stagionata ed il Mediterraneo. Il Monte Veronese DOP è ottenuto lavorando
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La scamorza affumicata. latte crudo e intero per mantenere la peculiare composizione della flora e dei fermenti presenti nel latte. «Si tratta di una scelta coraggiosa che impone grande rigore nella selezione delle mucche dalle quali proviene il latte» dichiara con orgoglio LUCIANO POZZERLE, dal 2004 presidente. La scamorza affumicata, che rappresenta circa il 50% del fatturato, ha come destinazione prevalente il mercato tedesco. «La storia di questo prodotto — racconta Pozzerle — è curiosa quanto interessante: dalla Germania arrivavano in continuazione grandi ordini di scamorza. Aveva grande reputazione quella della nostra cooperativa poiché era made in Italy e soprattutto biologica. Per il mercato tedesco questi due sono entrambi elementi molto positivi. Tuttavia il nostro importatore insisteva in continuazione sul fatto che la nostra fosse… incompleta. Dopo le nostre insistenze ci svelò che al mercato tedesco serviva una scamorza affumicata. Dopo l’acquisto di un affumicatoio, all’interno del quale per generare la combustione utilizziamo solo tru-
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cioli selezionati di faggio, abbiamo quadruplicato le vendite e ora la scamorza affumicata è il nostro prodotto più noto in Germania. Mentre in Italia andiamo forti con lo yogurt: è il nostro biglietto da visita, che noi proponiamo solo in vetro in vasetti da 500 e 1.000 grammi. Ultimamente però abbiamo inserito quello da 250 grammi, che sta avendo grande successo». In effetti lo yogurt di Cà Verde è stato il primo biologico apparso ed ancora oggi l’unico ad essere prodotto con latte avente naturale contenuto in grasso, non omogeneizzato e lasciato maturare sotto l’azione dei fermenti lattici propri dello yogurt per 17 ore. Concentrato naturalmente o aromatizzato alla frutta (albicocca o mirtillo, fragole o banana) con zucchero di canna biologico, non possiede additivi atti ad addensare il latte: è consistente e cremoso grazie al tempo che vi si impiega per produrlo. È tra i pochi a potere vantare oltre il 10% di frutta pur essendo bio al 100%. Dopo l’inserimento di giovani una decina d’anni fa, il caseificio
“sforna” almeno un prodotto nuovo all’anno per soddisfare le nuove esigenze del mercato. L’ultimo nato è il formaggio stagionato nelle vinacce di Amarone, che il mercato aspettava da tempo; mentre sul mercato tedesco sta riscuotendo grande successo il formaggio Mediterraneo, nella cui cagliata vengono aggiunte 15 erbe e della rucola fresca, con del peperoncino e dei semi di finocchio selvatico. Una manna al di là delle Alpi, dove viene ampiamente venduto, grazie anche all’azzeccatissimo nome. E poi la caciotta stagionata in olio di lino e cenere naturale per almeno un anno. «Bisogna continuamente creare nuovi prodotti pur mantenendo l’identità di produzione naturale che ci ha messo al riparo da qualsiasi tipo di crisi: questa è la risposta alla difficile congiuntura economica per il 2012» conclude sornione Pozzerle. Riccardo Lagorio Cooperativa Agricola 8 Marzo Località Cà Verde Sant’Ambrogio di Valpolicella (VR) Telefono: 045 8415354 Web: www.caverde.com
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Premiate Salumerie Italiane
Prima delle mode e delle tendenze: la Premiata Salumeria Giusti di Modena di Michele Bracieri
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bbiamo incontrato Matteo Morandi, proprietario insieme alla madre Laura e alla sorella Cecilia della Premiata Salumeria e dell’Hosteria Giusti, realtà che rappresentano al meglio il passato e il presente della cultura culinaria modenese, da sempre fertile per gli amanti della carne e della cucina con la “c” maiuscola.
Quando nasce la Premiata Salumeria Giusti? «Già dal 1598 il signor Giovanni Francesco Ziusti (variante grafica dialettale del cognome Giusti, Ndr) era iscritto nella “Lista dei Lardaruoli e Salsicciari” ed esercitava l’arte della lavorazione della carne di maiale. La bottega nasce pochi anni più tardi, nel 1605, nella zona del ghetto ebraico. Lo stesso anno Modena diventa capitale
del Ducato Estense. La Salumeria Giusti può quindi essere considerata, a ragione, la più antica d’Europa!». Per quanti anni la famiglia Giusti è stata proprietaria di tale esercizio? «Si tratta di un’attività che è stata tramandata di generazione in generazione all’interno della stessa famiglia, precisamente per 375 anni, fino al 1980, anno in cui l’ultimo ere-
L’interno della Premiata Salumeria Giusti nella centralissima via Farini, a Modena.
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de, Giuseppe Giusti, decide di andare in pensione». Cosa successe dopo? «Non avendo figli né eredi interessati a rilevare l’attività, Giusti decise di cederla al ragazzo di bottega che lo aveva seguito nel corso dei suoi anni lavorativi. Beh… quel ragazzo era mio padre, Adriano Morandi, un personaggio pubblico a Modena, entrato nella bottega nel 1967 all’età di 16 anni e meglio conosciuto come “Nano”. Purtroppo nel 2005 è venuto a mancare e tutti noi ci siamo dovuti rimboccare le maniche decidendo di portare avanti il suo sogno». E ora? «Gestisco insieme a mia madre e a mia sorella la Salumeria e l’Hosteria Giusti, inaugurata da mio padre nel 1989 nel retrobottega dell’esercizio commerciale. Proponiamo una cucina tradizionale, basata su piatti modenesi: pochi tavoli, grande offerta qualitativa, un luogo dove potersi incontrare in modo conviviale, frequentato soprattutto da modenesi, ma anche da persone che vengono appositamente da fuori». Chi si occupa della cucina? «Mia madre, Laura Galli, che in origine lavorava in banca. Ricordo che quando mio padre le chiese di rivestire questo incarico così delicato rimase un po’ interdetta, ma poi accettò perorando la causa con grande entusiasmo e voglia di imparare. Le basi erano buone, anche se a casa cucinava solo di rado, perché sua nonna era una grande interprete della cucina emiliana tradizionale. Il successo di questa scommessa quindi era scritto nel suo DNA». Quali piatti proponete? «Offriamo una selezione ristretta di grandi ricette, in modo da poter garantire cibo sempre fresco, preparato in giornata. Piatti poco conosciuti ma di grande spessore: le frittelle di minestrone, di riso o di baccalà, lo gnocco fritto, la pasta all’uovo fatta in casa. Tra i secondi diamo grande importanza al maiale: cotechino fritto in salsa di zabaione al lambrusco, il cappello da prete o il classico stinco».
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Laura Galli, cuoca dell’Hosteria Giusti. Qual è il tuo ruolo specifico all’interno dell’attività? «Ho iniziato a seguire mio padre in questo lavoro praticamente da bambino: mi occupo a 360 gradi del negozio, con un occhio di riguardo per i salumi e i vini. Seguo direttamente i rapporti con i fornitori e vado a scegliere direttamente in azienda gli animali con cui vengono realizzati i prodotti che vendiamo. Nella nostra enoteca, all’interno dell’Hosteria, proponiamo bottiglie di vino pregiate, tra cui spiccano alcuni tra i migliori lambruschi in circolazione». Tua sorella è parte attiva del progetto? «Certo. Cecilia si occupa del banco ma anche della cucina, è sempre attenta nel cercare di assimilare le qualità culinarie della madre e curiosa di scoprirne i segreti; dimostra una grande competenza soprattutto nella scelta dei formaggi. Ognuno di noi si è specializzato in settori specifici, in modo da sopperire al meglio alla mancanza di nostro padre, per continuare a offrire qualità e affidabilità».
Qual è il rapporto con la vostra clientela? «Ci interessa la fiducia reciproca, vogliamo far conoscere i nostri prodotti e le ricette del nostro ristorante. In linea generale, notiamo una crescente attenzione da parte dei clienti verso le nostre proposte». Immagino che tra i suoi clienti vi siano stati uomini illustri… «Certamente. Nell’arco della sua secolare esistenza la Salumeria Giusti vanta clienti che potremmo definire “storici”, come il duca Cesare d’Este e il compositore Gioacchino Rossini, che da Parigi si faceva spedire la “salsiccia fina”. Ma anche oggi gli intenditori e i gourmet che passano da Modena vengono volentieri a far visita al nostro negozio». Veniamo ai salumi e agli insaccati: avete dei fornitori particolari? «I salumi che noi vendiamo vengono realizzati da veri e propri artigiani. Per ogni salume c’è un fornitore specifico: questo mi permette di ottenere la massima qualità dal
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Matteo Morandi e la sorella Cecilia. prodotto e un rapporto di fiducia con il fornitore stesso, che quindi riesce sempre a consigliarmi il meglio».
così posso avere ampia possibilità di scelta e selezionare solo i migliori culatelli di ciascuna azienda».
Per quanto riguarda i salami, per esempio, da chi vi servite? «Ho come riferimento l’azienda Franceschini di Spilamberto (Modena), che produce un ottimo salame tradizionale senza glutine, e la parmense Labadini, che realizza un salame a grossa macinatura a cui viene aggiunto vino nell’impasto. Il proprietario, Rolando Labadini, è un veterinario, e questa particolarità mi fornisce le necessarie garanzie per la vendita del prodotto».
Siamo in una terra ricca di grandi prosciutti… «Il prosciutto lo prendiamo dall’azienda Ghirardi di Langhirano (Parma). A me piace il prosciutto stagionato: pezzi dai 24 mesi in su. Per sceglierlo vado all’origine, con accordi specifici con l’allevatore, in base ai quali scelgo gli animali prima che vengano macellati. Voglio prosciutti che pesino almeno 9 kg, il coscio deve essere grasso perché questo elemento protegge la carne, permettendo al prosciutto di rimanere morbido e non eccessivamente salato. Mi occupo personalmente della stagionatura dei miei prodotti».
Il culatello è davvero il principe della salumeria emiliana? «È il prodotto di maggior pregio che si possa ottenere dal maiale. La sua conservazione presenta notevoli difficoltà, poiché dipende molto dal periodo dell’anno in cui viene prodotto. Temperatura e umidità sono tra i fattori che determinano la sua qualità. Ecco perché, in questo caso, ho più di un fornitore di riferimento:
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Un legame molto stretto, quello con l’azienda Ghirardi… «Ci legano stima e fiducia reciproche. Tra l’altro, da gennaio abbiamo immesso sul mercato un prosciutto a bassa salinità, che viene salato la metà rispetto agli altri e ha una stagiona-
tura minima di 30 mesi. La finalità è quella di ottenere un prodotto adatto a chi ha problemi di pressione, senza dover rinunciare al sapore dell’ottimo prosciutto». Molti dei vostri fornitori sono della provincia di Parma, anche se la vostra Salumeria è una realtà di Modena: questo genera conflitto? «Direi proprio di no. Noi lavoriamo prodotti tradizionali e abbiamo come area di riferimento una terra molto ricca dal punto di vista culinario come l’Emilia, quindi cerchiamo di scegliere sempre il meglio. Questo non significa che l’area modenese non sia in grado di offrire prodotti di grande pregio, infatti molti alimenti che vendiamo provengono proprio dalle nostre zone. Credo, per esempio, che il Consorzio del Prosciutto di Modena stia lavorando davvero bene, servendosi di persone di grande competenza, ma il Consorzio di Parma ha una storicità maggiore, e da questo punto di vista è leggermente avvantaggiato». Michele Bracieri
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Turismo enogastronomico
I tesori nascosti della Bassa Slesia di Massimiliano Rella
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rutti di bosco, carni di selvaggina, storioni e pesci gatto affumicati. Sono le specialità al centro della nostra seconda tappa in terra di Polonia, Paese che ospiterà gli Europei di Calcio 2012, insieme ai “cugini” ucraini. Il nostro viaggio tra i sapori polacchi, cominciato dal Voivodato settentrionale della Pomerania, zona di pesce e funghi, ha trovato a Wrocław e nella Bassa Slesia un luogo di ottime zuppe, chef che guardano alla tradizione con modernità, piccoli e piccolissimi produttori di succhi di frutta, conserve, miele, marmellate, e poi i pescatori di acqua dolce, un universo di persone fiere del proprio lavoro. Un’esemplare introduzione alla storia di questa terra, situata nella Polonia occidentale ai confini con la Germania, ce l’ha fatta uno chef importante, il 47enne ZBIGNIEW KOLIK, rappresentante della new modern polish cuisine. È a capo della brigata del premiato ristorante Panorama, all’interno dell’Hotel Park Plaza di
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Wrocław, città che ospiterà le partite di giugno. Koźlik è uno che lavora su alleggerimenti, rivisitazioni, accenti fusion, ma sempre con rispetto della materia prima e della tradizione. Solo che la sua non è una tradizione autoctona in tutti i sensi, riflette al contrario un episodio della seconda guerra mondiale. A Wrocław, infatti, con la fine dei conflitti, il territorio fu popolato da gente trasferita in massa dalle ex province polacche che oggi si trovano in Ucraina, a Est. La Polonia, con la sconfitta della Germania, si allargò a Ovest, ai danni dei tedeschi, ma perse molte terre a oriente, a vantaggio dell’ex Unione Sovietica. Con i nuovi gruppi etnici arrivarono anche sapori e ricette del profondo Est, che oggi il polaccoucraino Koźlik ripropone in una sua sintesi “nazionale”. Tra queste ci sono i pierogi (grandi ravioli) ripieni di gamberi di fiume con salsa di vino bianco, cumino, panna montata e funghi selvatici; la mousse di trota affumicata della
Bassa Slesia con insalata, pomodorini, semi di girasole, balsamico, fragola; l’arrosto di maiale con salsa di funghi, tortino di grano saraceno con ripieno di formaggio, uova, patate, sfoglia di barbabietole, mele e salsa di lampone (www.hotelepark.pl). La Bassa Slesia, nonostante non ci sia il mare, è una terra ricca di pesce. Tra i più importanti “pescatori” della regione c’è l’azienda Stawy Milickie, che gestisce i grandi stagni artificiali, a mezz’ora da Wrocław, ricchi di carpe, storioni e pesci gatto creati nel XIII secolo dai monaci cistercensi. L’impossibilità di mangiare carne per motivi di fede spinse i religiosi ad allevare pesci d’acqua dolce, gettando le basi di un’azienda oggi ben florida, in una delle aree lacustri più grandi d’Europa. Stawy Milickie controlla una superficie di 7.500 ettari protetti, con 200 stagni artificiali, le cui acque sono regolate da un capillare sistema di condotte e canali di scarico. Lo stagno più grande misura 300 ettari.
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Agriturismo Agat, i Pierogi, i famosi ravioli polacchi ripieni di casza (grano), formaggio e menta. Ed è un’area anche di interesse ornitologico e faunistico. Infatti, dal 2010, è stato consentito l’accesso ai turisti in alcune zone dove praticare pesca sportiva, equitazione, kayak e bird watching. L’attività principale, il ciclo di allevamento di carpe, storioni e pesci gatto, comincia con il versamento degli avannotti in un primo lago, dove i pesci crescono fino a un peso di 50 grammi in un anno. Da qui passano in un secondo bacino dove raggiungono i 300 grammi. Il terzo anno cambiano di nuovo posto, arrivando a una pez-
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zatura media di 1,5 kg, in profondità comprese tra i 2 e i 4 metri. Il pescato viene venduto principalmente in Polonia, dove è alta la domanda di pesce d’acqua dolce, che ritroviamo in tante gustose ricette tradizionali, dal fresco all’affumicato. Stawy Milickie, con i suoi 150 dipendenti, commercializza 13.000 tonnellate di prodotto. La raccolta si fa con retini a mano dopo aver fatto scendere il livello delle acque, che sono ricche di microrganismi e sostanze minerali, favorevoli anche alla crescita della vegetazione.
Le piante devono essere in equilibrio con l’ambiente, senza prendere il sopravvento e mettere a rischio l’ecosistema. Per questo motivo periodicamente i bacini sono svuotati e ripuliti delle piante in eccesso (www. stawymilickie.pl). Ma, al di là dei grandi numeri, la campagna polacca è piena di piccoli produttori e operatori turistici, che spesso lavorano su prodotti di nicchia ed eccellenze. Come l’azienda a conduzione familiare di IRENA e ANDRZEJ ŁANIAK, a Krośnice, “coltivatori” di mirtilli rossi, lamponi, bacche, da cui ottengono fantastiche marmellate naturali, succhi che sono vere spremute di frutta, ottimi sciroppi. L’azienda — di 4 ettari — è certificata dall’ente Dolina Baryczy Poleta e nasce solo quattro anni fa per passione. I frutti sono raccolti sia dalle piante dell’azienda che da quelle spontanee del bosco attiguo. Il punto vendita è un tutt’uno con la casa (Ulica Sadownicza 23, Krośnice — telefono: +48 713846330, e-mail: laniak01@wp.pl). WACŁAW RATYSKI è, invece, un apicoltore-artista di Krosnice, un pensionato che si diletta a produrre un ottimo miele nella sua azienda di 12 ettari, dove alleva anche bovini, pollame, ma soprattutto api, la sua passione. Il giardino davanti casa l’ha trasformato, infatti, in un piccolo museo all’aria aperta di arnie artistiche, un piccolo mondo immaginario di figure mitologiche e insetti in legno, che tanto farebbe impazzire i bambini (Kuźnica Czeszycka 29, Krosnice — telefono: +48 713845551). Tra i piccoli troviamo a sorpresa anche un produttore di vino polacco, PAWEŁ GÓD, che insieme alla moglie TERESA KUCHARSKA gestisce l’Agriturismo Agat (www.agroturystyka-agat. pl). Producono marmellate, liquori, succhi di lampone e frutta. E vino bianco e rosso con le uve di un ettaro e mezzo di vigneto coltivato con le varietà Rondo, Regent, Cabernet, Pinot Grigio e Riesling; fanno appena 300 bottiglie l’anno. Hanno inoltre 7 camere, semplici ma accoglienti, nel piccolo villaggio di Sokolowiec. Menu di cucina casalinga 28 złoti (7 €), pernottamento 130 złoti in doppia con colazione (32 €).
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Una collezione di arnie artistiche nel giardino di Wacław Ratynski, apicoltore a Krośnice. Di casa in casa arriviamo in quella di BOGUSŁAWA NIEWIADOMSKI e del marito PIOTR NIEWIADOMSKI, proprietari di un ex mulino trasformato sei anni fa in B&B con un’eleganza d’altri tem-
Agriturismo Agat, rolada wieprzowa, involtini di manzo con ripieno di cetrioli, cipolla, carote e prosciutto affumicato. Serviti con i kopytka, gnocchetti di patate, uova e farina.
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pi, il W Starym Młynie, con arredi poveri rustici, una collezione di arnesi e vecchie radio, macchine da scrivere, strumenti musicali, oggetti d’epoca. Al terzo piano tre camere doppie, arredate in stile rustico di inizio ‘900. In cucina Bogusława prepara leccornie della campagna polacca, a base di funghi, carne, pesci d’acqua dolce. Rispetto alla qualità, all’accoglienza e all’atmosfera rétro i prezzi fanno veramente ridere: 140 złoti la doppia con colazione (35 €); 35 złoti il menu completo (8,50 €). Approfittiamone (www.stary-mlyn. com.pl). Di tutt’altra dimensione e storia è invece il trecentesco Castello di Kłiczkow, ai confini con la Germania, uno dei più grandi in Polonia. Costruito dal principe Bolko il Severo, era una fortificazione di confine contro i popoli cechi. Fu ristrutturato in periodo rinascimentale e dal 2001 è controllata da una società che l’ha trasformato in residenza turistica: 88 camere, di cui 10 con cucina (390 złoti con colazione, circa 100 € la doppia). Al suo interno c’è il
Ristorante Kłiczkow, gestito dalla giovane chef MIRKA RAKOCZY, che fa una gustosa cucina a base di funghi, selvaggina, cervo, cinghiale, lepre e ottime zuppe, a partire dallo zurek: erbe, verdure, salsicce, uova sode e panna acida; una bomba di calorie. E poi i bigoss, ricetta tipica della Polonia, presente in tutte le regioni. Nella versione del ristorante del Castello di Kłiczkow gli ingredienti sono: carne di maiale, cavolo, salsicce, funghi, erbe, pepe. Da non perdere la sua zuppa di porcini del bosco, un piatto della bassa Slesia in una base di brodo di carne, cipolla soffritta, patate lesse, limone, vino bianco, sale, pepe, alloro e prezzemolo (conto 120 złoti, 30 €, www.kliczkow.com.pl). Massimiliano Rella Nota A pag. 63 foto scattata presso l’azienda a conduzione familiare di Irena e Andrzej Laniak, a Krośnice. Producono frutti di bosco, marmellate, succhi e sciroppi freschissimi. Tutte le fotografie sono di Massimiliano Rella.
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BUSCEMA GASTRONOMIA s.r.l. 68
Loc. Passovecchio 88900 CROTONE Italy Tel. 0962.938300 - Tfx 0962.931161 www.buscemagastronomia.com e-mail: info@buscemagastronomia.com
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Umbria, sul sentiero di San Francesco in cerca di tartufi e olio divino di Stefania Monaco
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e c’è un luogo carico di spiritualità di cui anche il più agnostico degli animi avverte una certa vibrazione, quel luogo è di certo l’Umbria. Sui sentieri percorsi da Francesco (qui è così che lo chiamano), nelle prime ore del mattino, quando la nebbia si dirada
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mostrando panorami medioevali quasi in totale assenza di modernità, silenziosamente, con il solo abbaiare festoso dei cani che accompagnano i cavatori di tartufi, si percorrono chilometri incontaminati nei boschi del Monte Subasio. L’Associazione Tuber Terrae, con il suo attivissimo
presidente Francesco Mirti, umile guida e sapiente viaggiatore, offre la possibilità a chi volesse di cimentarsi in questa antica usanza: la ricerca dei tartufi. Se ne trovano di tutte le specie, dal nobilissimo bianco, al nero pregiato o al semplice, ma pur sempre di gran gusto, scorzone estivo.
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Senza cani è quasi impossibile quindi grande merito va a Martina, Chicca e Scilla, tre femmine abilissime addestrate sin da piccole a scovare pregiati tuberi. Se dovessimo eleggere una regina dei tartufi di certo quella sarebbe OLGA URBANI. Bella, carismatica, figlia di quattro generazione di tartufai. Ci mostra orgogliosa un esemplare di bianco da 500 grammi che verrà spedito da lì a poco a New York, in uno dei tanti ristoranti prestigiosi del mondo che adoperano solo tartufi Urbani. Da poco è stata inaugurata nello stabilimento l’Accademia del tartufo, destinata a diventare un centro tecnologico gastronomico, dove portare avanti nuovi progetti attorno al tartufo: «come quello di “democratizzazione del tartufo” — dice Olga — sughi pronti al tartufo messi sul mercato per la Grande Distribuzione e alla portata di tutti». Tra non molto verrà inaugurato anche il Museo del tartufo, dove si potrà ripercorrere anche la storia di una vita famigliare, quella degli Urbani appunto. La stessa passione, lo stesso ardore lo si riconosce in M ARIA FLORA PITTI MONINI, a capo, insieme al fratello Zefferino, della storica azienda che produce circa 14 milioni di bottiglie. Una realtà italiana ma anche australiana dove sono stati impiantati per circa 300 ettari leccino
Olga Urbani.
Produzione d’eccellenza del territorio umbro è l’olio extravergine (foto: Serena Campanini, www.viaggiandofacile.it).
e frantoio dell’Umbria, che dall’altra parte del globo portano a produrre olio nuovo a giugno. L’olio ha tutte le caratteristiche organolettiche di un buon extravergine di oliva; si utilizzano tecniche modernissime con l’ausilio di strumenti come lo scuotitore, che consente di raccogliere sino a 90 quintali al giorno di olive. Tutto questo è possibile solo in un territorio pianeggiante come questo australiano. Monini rappresenta oggi il 10% del fabbisogno nazionale di olio. Il FRANTOIO GAUDENZI di Vocabolo Camporeale, vicino Trevi, ha una clientela di appassionati e devoti: praticamente sono privati che ogni anno si affidano alle mani sapienti di Francesco e dei 30 ettari coltivati a Moraiolo, la cultivar di qui, insieme a frantoio e leccino. Nel 2011 sono
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stati segnalati come tra i migliori oli d’Italia i loro Quinta Luna (moraiolo, frantoio e leccino) e Chiuse Sant’Arcangelo (moraiolo). Olio e tartufi: un impareggiabile tesoro custodito dalla bellezza arcaica di una regione magnifica come l’Umbria. Per chi volesse deliziarsi di tutto questo, troverà la giusta tavola presso “Il Tempio del Gusto”, un raffinato bistrot-ristorante al centro di Spoleto, dove lo chef Eros Patrizi propone la sua contemporanea versione della cucina umbra. Stefania Monaco Nota A pag. 67 la Basilica di San Francesco in Assisi. Il luogo dal 1230 conserva e custodisce le spoglie mortali del Santo (foto: http://blog.arounder. com). Premiata Salumeria Italiana, 2/12
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Gastronomia
L’acqua cotta, antica misera minestra di Aldo Focacci
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hi ha avuto occasione di frequentare i ristoranti o le trattorie della provincia di Grosseto, ivi compresa la zona del Monte Amiata, ma anche del viterbese e dell’alto Lazio e comunque della Maremma in genere, avrà certamente notato come nei menu sia sempre presente, tra i primi piatti, un’apparentemente strana minestra: l’acqua cotta. È una sorpresa anche per coloro che, provenienti da altre parti del paese, si sono trasferiti per le ragioni più diverse in quelle zone e che immediatamente, tra i prodotti tipici del luogo, hanno scoperto questo antico poverissimo piatto, erede di una tradizione secolare e di una grande miseria collegata a situazioni economiche e sociali di un passato in certi casi assai lontano, in altri relativamente recente. Notizie che risalgono ai primi secoli dell’anno mille e alcune normative varate nel 1419 del vecchio Stato Senese ci informano di come, in quegli anni, fosse fortemente presente il cosiddetto fenomeno della transumanza (nel nostro caso quella dell’Italia centrale, per distinguerla da quella più conosciuta che dagli Abruzzi si spostava nel Tavoliere delle Puglie). Le greggi si spostavano a settembre dall’Appennino tosco-emiliano e da alcune zone delle Marche e dell’Umbria nelle Maremme, territorio allora molto più vasto di oggi, che si estendeva approssimativamente dalla parte meridionale dell’attuale provincia di Livorno fino alla parte settentrionale dello Stato Pontificio. Le greggi svernavano in questo luogo semi-spopolato, ricco di paludi ma anche di vasti pascoli, e poi, a fine maggio-inizio di giugno, tornavano in collina e in montagna, accompagnate dai pastori, dai vergari che preparava-
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no il formaggio, dai butteri e da tutta una nutrita schiera di personaggi addetti ai diversi servizi, oltre naturalmente un forte numero di cani da pastore maremmani. Questo insieme di persone (tutte di sesso maschile) e di animali costituiva la cosiddetta società pastorale, detta anche “sortaria”, che si accampava in villaggi a carattere precario, costruiti con la vegetazione dei paduli e il legname del posto. Le abitazioni erano povere capanne per il ricovero delle persone e poi vi era il mungitoio, le parate, vale a dire i recinti protetti per le pecore,
il recinto per i cavalli e gli asini e, infine, una grossa costruzione a forma di cono, la vergheria, dove veniva preparato il formaggio. La vita era durissima e altrettanto lo era il regime alimentare di quella gente, basato sul consumo di poco pane, della ricotta, delle frattaglie degli agnelli al momento della cosiddetta “abbacchiatura”, la macellazione primaverile, e infine dell’acqua cotta. L’acqua in quelle zone acquitrinose non mancava mai e veniva utilizzata per la preparazione di una specie di brodo vegetale a
Acqua cotta maremmana (foto: http://it.julskitchen.com).
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base di cipolle fresche o conservate o che ributtano in primavera, tagliate grossolanamente e poi messe in una padella di ferro (come usavano a quei tempi) con una puntina di strutto o una cotica di maiale. Si faceva bollire il tutto ottenendo del brodo vegetale e aggiungendo poi erbe del posto come cicoria, bietole selvatiche, ortica. Si adagiavano quindi sul piatto fette di pane secco raffermo e ci si versava sopra la cipolla e le erbe cotte nel brodo, altro pane, ancora brodo e poi, se possibile, ci si grattava sopra cacio pecorino fresco o meglio secco. Eccezionalmente, avendone la possibilità, ci si affogava un uovo, grande arricchimento della razione. Queste indicazioni sono tratte da quella che può essere considerata la prima antica ricetta dell’acqua cotta, riferita al paese di Badia Tedalda, situato nell’aretino, vicino alla Verna. Da qui partivano numerose greggi verso la Maremma. Questa particolare minestra è stata poi utilizzata anche dai butteri (quando potevano scendere da cavallo) che, quando i pascoli furono lentamente sostituiti dalle coltivazioni e dagli allevamenti, sorvegliavano le mandrie di bestiame bovino brado al pascolo e, infine, da quelli che in Maremma venivano chiamati terrazzieri (in alta Italia badilanti), cioè gli addetti alla pulizia dei fossi e dei canali, in genere eseguita nei mesi primaverili ed estivi. I terrazzieri normalmente sostavano in Maremma durante la stagione calda, provenienti soprattutto dalle vicine colline e dal monte Amiata, e portavano con sé il sedano, prodotto delle loro zone, che andava così ad arricchire e insaporire il brodo vegetale dell’acqua cotta. I pastori della transumanza sono ormai scomparsi da tempo per la trasformazione dell’allevamento ovino che da transumante è divenuto stanziale, i terrazzieri per l’avvento delle macchine, i butteri per la fine del grande allevamento brado. È rimasta l’acqua cotta, ormai divenuta un simbolo della tradizione maremmana ma profondamente rimaneggiata e arricchita nei suoi costituenti e assai diversa come preparazione da zona a zona, addirittura da un paese all’altro. La Delegazione dell’Accademia della Cucina Maremma-Grosseto
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Il ristorante gourmet “All’Acqua Cotta” di Saturnia. ha indicato in una sua pubblicazione ben 25 tipi di acqua cotta: quella di Scansano, di Pitigliano, di Massa Marittima, di Pianizzoli, della Tuscia e via discorrendo. La sempre maggiore disponibilità di alimenti, ma soprattutto l’impegno per il continuo miglioramento dell’offerta gastronomica, sia a livello casalingo che a quello della ristorazione, hanno sconvolto le procedure essenziali per la preparazione dell’acqua cotta. L’utilizzo delle erbe selvatiche è stato ormai abbandonato e al loro posto vengono usate verdure coltivate, soprattutto le bietole. Ma si utilizza anche il concentrato di pomodoro, l’olio extravergine di oliva, il peperoncino e poi basilico, carote, peperoni, funghi porcini e, in certi casi, i ceci. Paradossale è addirittura l’uso di brodo o estratto di carne, che rappresenta l’antitesi della caratteristica base dell’acqua cotta. È questa situazione confusa riguardo a un metodo preciso di preparazione
a non aver permesso a questo antico piatto di ottenere il riconoscimento di prodotto tradizionale nonostante la sua antichissima storia. Comunque questa zuppa, ormai così variegata per quanto riguarda i suoi costituenti e le procedure di preparazione, è talmente diffusa nei territori cui sopra abbiamo accennato da aver determinato l’organizzazione di sagre estive per la sua degustazione: i paesi di Cana e di Santa Fiora, situati sul monte Amiata, sono appunto famosi per queste manifestazioni. Ma c’è di più: molti ristoranti presenti nell’area diciamo così classica per la storia di questa zuppa, e anche diversi altri esercizi di ristorazione in Toscana, compresa Firenze, hanno preso come nome quello dell’acqua cotta. Tra questi il ristorante gourmet All’Acqua Cotta di Saturnia, località ben conosciuta per la presenza delle sue terme, si pregia di una stella Michelin facendo così parte de Les Etoilés de la Gastronomie. Aldo Focacci
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Sapori dal mondo
La versatilità fatta a spezia Una piacevole novità sulle nostre tavole: lo zenzero di Giorgia Fieni
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a cucina tradizionale italiana non lo prevedeva… almeno fino all’inizio di questo millennio. Ecco, il fatto che il gruppo Elio e le Storie Tese abbia dedicato, per il Natale 2004, una canzone allo zenzero, vi dovrebbe far scattare un campanello d’avviso su quanto tale prodotto abbia conquistato le nostre tavole. Oh pianta che provieni dall’Oriente, il cui rizoma è usato come eupeptico (che ti fa digerire, Ndr), in farmacia, in cucina, nei liquori... Anche perché, scorrendo le ricette di tutto il mondo, ne salta subito all’occhio la versatilità. Il perché credo sia spiegabile se teniamo conto delle sue due caratteristiche principali: l’aroma di limone e la piccantezza, sapori che sono sempre graditi e apprezzati. Innanzitutto è perfetto per accompagnare la carne. In Marocco lo zenzero fresco grattugiato, assieme ad olio extravergine, burro, mela cotogna, cannella in polvere, miele e succo di limone, arricchisce il fondo di cottura di cosce d’anatra; insieme ad aglio, succo di limone, olio extravergine e cannella, viene spennellato sul pollo, poi insaporito in pirofila con acini d’uva e brodo; e con acqua, olio, coriandolo, cannella, cipolle e prugne secche, aiuta la cottura dell’agnello. In Cina la radice tritata, o anche la polvere, con olio, aglio, cipolla, vino di riso o sherry secco e l’immancabile salsa di soia, è aggiunta in cottura al pollo privato della pelle e tagliato a pezzettini; se invece alle cosce si lascia la pelle e le si cuoce con funghi cinesi secchi, cipollotto, brodo di pollo, vino di riso e zenzero a fettine, si ottiene una corroborante zuppa.
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Il pollo allo zenzero è però famoso anche in Thailandia, preparato ovviamente con i tipici ingredienti locali, quali latte di cocco, lime e peperoncini rossi, e in Vietnam, con funghi secchi, carote, salsa di soia, zucchero, cipolla, aglio, semi di sesamo e accompagnamento di riso. In Giappone lo zenzero grattugiato, con salsa di soia e sakè, serve per la marinatura della carne (non importa la qualità, ma è fondamentale che sia tagliato a fettine sottilissime), da friggersi in olio, tenere da parte e accompagnare con un contorno, preparato nella stessa padella, con la
marinata, zucchero, mirin o vermut dolce e verza. Lo zenzero è anche il “tocco in più” del pollo alle banane camerunense, di quello stufato in Etiopia e di quello cotto in pentola di terracotta, detta canari, in Costa d’Avorio; oltre che del manzo (gli spiedini in Ghana, lo stufato in Kenya), del vitello (ripieno di pollo alle spezie e servito in pane pita in Libano, alle banane in Uganda, la lingua in agrodolce in Israele), dell’agnello (in salsa di spinaci ai Caraibi) e del maiale (saltato all’ananas in Sudafrica).
Radice di zenzero. In Liberia la radice tritata viene ricoperta di acqua e zucchero e si serve con ghiaccio, succo di limone o acqua di fiori d’arancio o rum, mentre nelle Filippine, con la radice schiacciata, preparano il tè.
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In molti usano lo zenzero pure come ingrediente per il pesce (per esempio: gamberoni in Algeria e nelle Mauritius, resi croccanti dall’uso delle mandorle; gamberetti in Benin, aragosta in Nigeria, granchi in Somalia, scampi ad Haiti e in Malesia). In Marocco, quello in polvere, con pane ammollato e strizzato, filetti di merluzzo, cipolle, aglio, curcuma, uovo, pepe di Caienna, garam masala e coriandolo, viene trasformato in polpette, da cuocere con l’aggiunta di pomodori a dadini e limone sotto sale; quello fresco tritato, invece, con olio extravergine, burro, aglio, peperoncini verdi, cipollotti, crescione e succo di limone, aiuta la marinatura del tonno. In Cina il fresco grattugiato è mescolato ad olio di arachidi caldo, cipolle bianche e soia chiara, e questa gustosa salsina è usata per spennellare gli scampi (marinati in frigorifero con vino di riso Shaoxing) dopo la cottura sulla griglia. In Thailandia lo zenzero fresco grattugiato (che può comunque essere sostituito da galangal) si trova nella ricetta dei calamari (o gamberi o capesante) in padella assieme a olio di semi, aglio tritato, salsa di soia, succo di limone, zucchero e cipollotti tritati. Qualche ricetta lo consiglia per insaporire il contorno e le uova. In Marocco (dove evidentemente è usato ovunque, come in Italia il prezzemolo) lo zenzero fresco tritato è aggiunto in cottura a carciofi e anche alle carote. In India le uova sode sono tagliate a metà, i tuorli sono resi salsa con l’aiuto di cipolla e aglio tritati e cotti con ghee, pomodori a pezzetti, polvere di cumino, coriandolo, zenzero e curcuma, poi vengono ricomposte e servite con il riso, mentre in Australia alle uova crude aggiungono patate, olio extravergine, cipolla, curcuma, peperoncino verde, pomodori pelati e noce moscata. In Laos lo zenzero è impiegato per una zuppa alle polpette di cavolo. Ottimo comunque anche nei dolci e in abbinamento con le frutta: in USA, a Natale, preparano il gingerbread citato nella canzone di Elio, arricchito con cannella e/o melassa
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Panna cotta allo zenzero. e servito sotto forma di biscotti (li cucinano anche in Germania). Ma non solo. In Cina lo zenzero sciroppato, finemente tritato e mescolato a burro, zucchero, uovo sbattuto, farina 00 e mandorle a lamelle, è versato in teglia imburrata, infarinata, spennellata di latte e cosparsa di mandorle e zucchero ed è cotto in forno, per ottenere una gustosa torta da servire con liquore ovviamente alle mandorle. In Ghana lo zenzero con le banane è servito come antipasto; in Senegal entra a far parte dell’ottimo abbinamento avocado-gamberetti; in Zambia il chutney di ananas è molto gradito. Questo stesso frutto, in Thailandia, viene fritto con olio di semi, aglio tritato, pezzetti di scalogno e di peperoncino rosso, zenzero fresco grattugiato, salsa di soia chiara, succo di lime. In Vietnam preferiscono invece abbinare lo zenzero caldo (ovvero tagliato a fette e poi caramellato con miele di eucalipto) alle pere fredde (ovvero le Williams prima cotte in acqua e zucchero di canna, poi lasciate in frigorifero). In Spagna trasformano mango e zenzero fresco a bastoncini in un gazpacho salato, con l’aggiunta di mollica di pane, aceto di mango o di
Jerez, olio d’oliva, e a Barcellona, per iniziare un pasto, servono sorbetto di cocomero, zenzero e ananas. In Israele lo zenzero dà un tocco di piccantezza alla torta al miele e cioccolato. Il suo sapore particolare non è solo abbinato agli alimenti, ma anche alle bevande. In Liberia, con ananas, acqua bollente, lievito di birra e melassa, è l’ingrediente per una birra da servire fredda; ai Caraibi la stessa la preparano con radice grattugiata, bastoncini di cannella, chiodi di garofano, zucchero, succo e buccia grattugiata di limone (o cedro), fatti bollire e poi raffreddati; in Bangladesh con zucchero, succo di limone, cremortartaro, zenzero fresco grattugiato e lievito di birra, lasciti semplicemente fermentare una notte in ambiente caldo; in Malesia con la radice di zenzero, semi di cardamomo, chiodi di garofano, zucchero e lime. In Liberia la radice tritata viene ricoperta di acqua e zucchero e si serve con ghiaccio, succo di limone o acqua di fiori d’arancio o rum. In India la medesima, ma passata al pestello, è sciolta in latte di cocco, zucchero e succo di limone. Nelle Filippine, con la radice schiacciata, preparano il tè, aromatizzato con zucchero di canna e foglie di pandan o citronella.
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Nel caso vogliate cimentarvi con queste preparazioni (molte le scoprirete esaminando la cucina cinese, giapponese, tailandese e indiana in particolare), è preferibile conoscere alcuni accorgimenti, perché lo zenzero possa esprimere al meglio tutta la sua freschezza. Per grattugiarlo è meglio usare, sul retro della grattugia stessa, una stagnola di protezione, che ne aiuterà la raccolta. Il succo si ottiene invece dal prodotto grattugiato in una garza, da strizzarsi per far cadere il liquido. In entrambi i casi, è bene aggiungere lo zenzero alla preparazione immediatamente dopo aver compiuto queste operazioni. Se necessita, si può conservarlo sottaceto (in Giappone chiamano il risultato ottenuto gari), con l’aggiunta di aceto di mele e senape in polvere. Una volta tenute a mente queste nozioni, possiamo sbizzarrirci e lasciarci andare alla molteplicità di ricette innovative che vedono lo zenzero protagonista, comprese quelle di ispirazione orientale. Per esempio: il sidro insaporisce la braciola alle mele; aggiungiamo la spezia al risotto
Zenzero candito, ottimo a fine pasto.
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con quaglia e salsa di mango; o alle scaloppine; oppure con gli udon (o spaghetti di soia) e il maiale in agrodolce; in tagliata di petto d’anatra con mandarini caramellati, salsa al miele, senape e l’aggiunta di germogli di soia; in sciroppo, per dare un gusto innovativo ai ghiaccioli o per dare una sferzata alle fragole col gelato di vaniglia o alla macedonia. Il melone marinato in succo e scorza di lime, zenzero e olio diventa un rinfrescante apri-pasto; il sapore dello zenzero attenua quello del cavolo cappuccio rosso, trattato anche con aceto e poi usato come ripieno per involtini di pasta fillo; un’idea simile è quella di usare la pasta kataifi come involucro per capesante e asparagi, servendo il tutto su fette d’ananas e zabaione allo zenzero, oppure usare nidi di tagliolini freschi che accolgono salmone trattato con erba cipollina e zenzero grattugiato; ma possiamo anche aggiungerlo alla nostra confettura di mele casalinga ai sapori siciliani (l’aggiunta di succo di limone completerà l’idea). Al fascino dello zenzero non sono rimasti immuni nemmeno gli
Gamberi allo zenzero. In moltissime ricette a base di pesce è prevista l’aggiunta di zenzero. chef, che lo cucinano sia in versione salata (Gordon Ramsay lo usa soprattutto sulla carne — agnello, foie gras, fagiano, gallo, manzo, prosciutto — e anche con le melanzane, gli spaghetti al pomodoro, i pesci; Alessandro Borghese con tacchino impanato e cotto al forno, carote e ananas in agrodolce; Simone Rugiati per marinare il pollo, prima di impastarlo con farina di riso e friggerlo; Moreno Cedroni, fedele alla sua storia culinaria, ne arricchisce gli spaghetti con gli scampi e il pomodoro fresco), sia dolce (Stefano Baiocco prepara una crespella di latte gratinata e farcita con crema di yogurt magro e zenzero e sciroppo di rosmarino), sia nei cocktail (come Andrea Berton). Tra le tante interpretazioni, ce n’è una però che sdogana definitivamente lo zenzero e lo ascrive ufficialmente alla tradizione gastronomica italiana: il fresco tritato è mescolato con ventresca di maiale, petto di cappone, cipolla, carota, sedano, parmigiano, formaggio tenero grattugiato, uova, garofano e coriandolo, poi è avvolto per bene in una pasta sfoglia, cotto e servito in un brodo di cappone allo zafferano… Et voilà, direttamente dall’Oriente e dall’Emilia, cappelletti allo zenzero. Giorgia Fieni
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Sapori mediterranei Un alimento di elevato valore nutritivo, da sempre apprezzato dall’uomo
Miele, cibo degli dei di Clara Scaglioni
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a cucina segue, esattamente come l’arredamento, l’abbigliamento e l’architettura, la moda del momento. Fino agli anni Ottanta, anche nei migliori ristoranti, non si aveva la possibilità di gustare, in alternativa alla solita pietanza, un assaggio di formaggio, da scegliere tra i tanti prodotti italiani, cosa invece abituale in Francia, anche nei piccoli locali. Se si ordinava quello tipico del territorio ne veniva servito, in un anonimo piattino, un pezzetto presentato con malagrazia. La bella carrellata dei nostri eccezionali formaggi tipici, buoni e diversi da luogo a luogo, era una vera e propria utopia. Fortunatamente, negli anni successivi, i formaggi furono finalmente considerati capaci di marcare il territorio di origine e giustamente valutati quale volano per la conoscenza della gastronomia delle zone di produzione. Considerati una validissima alternativa al piatto di carne o di pesce, furono inseriti nei menu di molti ristoranti, ed in alcuni veniva consigliato di gustarli insieme al miele. Il miele, sin dall’antichità, era apprezzato come il dolcificante e l’alimento capace di produrre effetti benefici sulla salute dell’uomo in virtù dei suoi componenti, così importante da venire considerato, dalla mitologia greca e romana, cibo degli dei. Nasce dai fiori, dal lavoro delle api e dalla cura degli apicoltori all’interno di un ecosistema delicato, pulito, perfetto. Le caratteristiche organolettiche e di gusto del miele variano a seconda delle piante dalle quali le api succhiano il polline ed anche dal clima; si possono quindi trovare mieli leggermente amarognoli, come quello di castagno, ideale con una caciotta toscana, o dolci come quello di acacia,
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perfetto per un formaggio piccante come il gorgonzola. Poiché il formaggio per sua natura è un alimento privo di zuccheri, nel miele viene a trovare il complemento naturale in grado di creare il perfetto equilibrio di gusti per un abbinamento felice tra i svariati sapori. Il miele è il prodotto alimentare o meglio il frutto del lavoro delle api che, una volta prelevato il nettare dei fiori o la melata1, procedono a trasferirlo all’interno dell’alveare, la loro dimora. Aggiungendovi sostanze specifiche proprie, come gli enzimi, ne iniziano la disidratazione e lo immagazzinano nei favi di cera da loro stesse costruiti per utilizzarlo come elemento a lunga conservazione.
La vita nell’alveare, per come è organizzato al suo interno, avrebbe tanto da insegnare agli uomini. Shakespeare sosteneva che le api sono creature che, seguendo una legge di natura, insegnano all’uomo la tecnica esatta per il governo di un popoloso reame. All’interno di un alveare la società delle api è matriarcale e divisa in tre caste: ci sono la regina, i fuchi e le operaie. L’ape regina è un individuo adulto, fertile, cioè la femmina madre di tutte le api presenti nell’alveare destinata a questo suo ruolo grazie al lungo periodo in cui viene alimentata con la pappa reale. La pappa reale le viene somministrata dalle api operaie, al fine di renderla sessualmente matu-
Miele raccolto con l’apposito cucchiaio. I Greci consideravano il miele “cibo degli dei”, componente fondamentale nei riti che prevedevano offerte votive.
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ra. La regina, dopo il cosiddetto volo nuziale, durante il quale si accoppia con più fuchi, inizia, dai 15 giorni successivi, la deposizione delle uova essendo questo il suo destino: vivere nel nido e depositare le uova, anche 3.000 al giorno. I fuchi sono i maschi che nascono da uova non fecondate e servono esclusivamente alla fecondazione della regina. La loro vita è molto breve, circa 24 ore. Le api operaie sono femmine che non depongono le uova e possono essere distinte in varie categorie a seconda dell’età. Le giovanissime si dedicano alla pulizia delle celle; a partire dal terzo giorno alimentano con miele e polline le larve da operaie e da fuchi e, quando hanno raggiunto i sei giorni di età, epoca nella quale le loro ghiandole sopracerebrali entrano in funzione, secernono pappa reale che forniscono alle giovanissime larve. Al quindicesimo giorno di età, controllato che nell’alveare non entrino insetti pericolosi, si addestrano a diventare bottinatrici. Solo dopo il ventesimo giorno si dedicano definitivamente alla raccolta del polline e del nettare che può avvenire anche nell’arco di 10 chilometri dal loro alveare. A questo proposito merita grande attenzione il rito definito danza dell’addome. Le bottinatrici e le esploratrici, quando rientrano nell’alveare, se hanno trovato una zona ricca di nettare, per indicarne la direzione esatta e la strada da prendere per giungervi, fanno una specie di danza. Attraverso una serie di movimenti del corpo, riescono a dare alle compagne tutte le indicazioni necessarie a raggiungerla. Le api vivono una media di quaranta giorni in estate e dai tre ai sei mesi in inverno e producono miele, propoli, pappa reale e cera. La propoli viene raccolta sulle gemme e sulla corteccia delle piante: portata all’interno dell’alveare, quindi elaborata, viene utilizzata per le sue proprietà antisettiche ed usata anche per rivestire le pareti interne delle celle e dell’alveare. La pappa reale è il prodotto delle ghiandole sopracerebrali nelle api operaie ed è l’unico alimento delle regine e di tutte le larve per i primi tre giorni di vita. In medicina viene
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Il miele nasce dai fiori, dal lavoro delle api e dalla cura degli apicoltori all’interno di un ecosistema delicato, pulito, perfetto. usata come ricostituente perché ricca di vitamine B5. La cera viene secreta dalle ghiandole delle operaie e serve per la costruzione dell’alveare. Il miele trae la sua origine dal nettare dei fiori. Subito dopo la suzione, e già durante il viaggio che la riporterà al suo favo, l’ape bottinatrice, all’interno della sua borsa melaria, una specie di prestomaco, inizia la trasformazione in miele mediante l’aggiunta di enzimi dell’apparato digerente. L’ape bottinatrice, se visita un solo tipo di fiore, produrrà un miele uniflorale, mentre se visiterà più fiori il risultato sarà un millefiori. Per chi intendesse gustare questo magnifico prodotto si dilaterà, all’interno delle sue papille gustative, un mondo di vasti sapori e profumi, per l’espandersi di una miniera di sensazioni diverse, relative ai differenti sapori che il miele ha ricavato dal polline dei fiori da cui è stato prelevato. Potrà essere un millefiori di acacia, di agrumi, di castagno, di corbezzolo, di eucalipto, di tiglio, tanto per nominarne alcuni: ognuno con una sua specifica valenza. Per la sua bontà in passato gli si attribuiva un valore religioso, ritenendo fosse una rugiada celeste che le api raccoglievano dai fiori e dagli strati superiori dell’aria. È stato considerato l’edulcorante ideale di bevande, preparazioni agrodolci
in cucina, di dolci vari ed anche la medicina l’ha utilizzato per le sue intrinseche proprietà. Vale a pena di ricordare come una tazza di latte bollente con qualche cucchiaio di miele riesca a dare beneficio ad una tosse insistente... Dopo l’arrivo dalla Americhe della canna da zucchero c’è stato un leggero declino del suo uso ma se si analizzano i vari dolci tradizionali preparati nel periodo natalizio si nota come il miele ne sia uno degli ingredienti fondamentali. Basti pensare agli struffoli napoletani, alle scartatelle pugliesi, strisce realizzate con pasta fritta poi condite con miele e nocciole tritate, a certi biscotti con le spezie del nord Italia. Il consiglio è di utilizzarlo al posto dello zucchero e tenerne sempre una piccola scorta in dispensa perché dono di inestimabile valore che la natura grazie al lavoro delle api ci offre. La Giornata Nazionale del Miele Il 7 dicembre a Milano è un giorno di festa perché la città onora il suo patrono, Sant’Ambrogio. Non tutti sanno, però, che è anche la Giornata Nazionale del Miele (Ambrogio è infatti il santo protettore delle api) per cui, in ogni angolo d’Italia, l’alta pasticceria celebra il prodotto delle api con decine di dolci regionali e tradizionali. La giornata è organizzata dall’Accademia dei Maestri Pasticceri
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Pere con formaggio di capra, prosciutto e miele. Italiani con il Patrocinio del Ministero delle Politiche Agricole, al fine di valorizzare i nostri mieli tipici, il lavoro e le tecniche di produzione, il suo uso in cucina, promuovendo la sopravvivenza di questi speciali ecosistemi. In Italia, dove operano 50.000 apicoltori, esistono 300 tipi di miele a seconda dei fiori e delle aree di provenienza. Ben 125 sono i mieli riconosciuti dal Ministero delle politiche agricole come Prodotti Agricoli Tradizionali. L’uomo e le api Come è successo con altri cibi anche per quel che riguarda la raccolta del miele l’uomo ha probabilmente imitato il comportamento degli animali. Nella Bibbia, primo libro di Samuele, si legge che Jonathan, figlio di Paolo, protese il bastone che aveva in mano, ne immerse l’estremità nel favo di miele, lo portò alla bocca e ne fu ristorato. Questa maniera di raccogliere il miele è identica a quella che utilizza lo scimpanzé che è solito infilare un lungo ramo all’interno del nido delle api. Un antico disegno rupestre risalente al Mesolitico (6000 anni a.C.) dimostra come l’uomo considerasse
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il miele un’importante risorsa alimentare. Il graffito raffigura un uomo aggrappato ad una triplice liana: con la mano sinistra tiene un paniere e con quella destra è intento a raccogliere i favi di miele da un nido di api inserito nella cavità di una parete. Il rapporto dell’uomo con le api è testimoniato da altre pitture rupestri trovate in altre
aree geografiche e riferite allo stesso periodo storico. Chi ha lasciato testimonianze fondamentali sulla loro attività di attenti apicoltori sono stati gli Egiziani ed il simbolo dell’ape ricorre spesso nei loro geroglifici. Gli Egiziani si servivano di arnie cilindriche o tubolari, disposte orizzontalmente le une sulle altre: lo si ricava da alcune incisioni su un pilastro della tomba di Pabusa a Luxor (660 a.C) raffiguranti un uomo che raccoglie il miele da alcuni alveari. La raccolta del miele era facilitata dall’impiego del fumo utilizzato per allontanare le api dai favi nel momento in cui ne erano pieni. Lungo il Nilo veniva praticata un’apicoltura transumante determinata dal fatto che il clima, le piene del Nilo, e le diverse epoche di fioritura dei fiori necessari alle api a svolgere il lavoro di bottinatrici, obbligavano i contadini a spostare gli alveari caricandoli su delle imbarcazioni e con l’aiuto dei muli. Risalendo il fiume portavano le arnie dove le api potevano trovare delle fioriture più abbondanti. Dall’Egitto l’arte di allevare le api si diffuse trovando grande sviluppo specialmente tra i Greci ed i Romani che in cucina lo utilizzavano e come condimento ed in svariate ricette di torte, dolci e bevande come l’idromele. Ne consumavano molto e lo importavano da Cipro, Creta ed anche da Malta, località il cui nome
Ambrogio santo nacque a Treviri in Germania nel 339 d.C. e morì a Milano nel 397 d.C. Fu vescovo capace, eccellente scrittore, valente amministratore e protettore dei poveri ma la sua storia personale ricorda anche un avvenimento miracoloso accadutogli appena nato. Si narra che un giorno, mentre il santo dormiva nella culla, sopraggiunse uno sciame di api che si posò sul viso del piccolo entrando ed uscendo dalla bocca socchiusa. Il padre, che passeggiava nelle vicinanze, proibì alla fantesca di scacciarle perché aveva intuito si trattasse di un fatto prodigioso. Poco dopo le api si alzarono in volo salendo così in alto da scomparire alla vista. L’episodio, la cui veridicità è senza dubbio discutibile, ricorda che l’ape, nella tradizione pagana, era la messaggera divina e l’emblema dell’eloquenza umana: ecco perché Ambrogio è considerato il protettore delle api, degli apicoltori e dei fabbricanti di cera il 7 dicembre di ogni anno. Accanto ad Ambrogio un altro santo dottore della chiesa viene celebrato come patrono delle api, degli apicoltori e dei fabbricanti di cera: si tratta di Bernardo di Chiaravalle (Fontaines,1090 – Chiaravalle, 1153). Benché timido e di salute malferma si impegnò in moltissime imprese. Per essere stato durante la sua vita gradito e lodato da uomini di ogni ceto e fede e per lo stile raffinato dei suoi scritti gli fu conferito il titolo di doctor mellifluus, dolce come il miele.
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pare derivi da Meilat, terra del miele. La decadenza dell’Impero Romano e le invasioni barbariche ebbero influenze negative sull’apicoltura, la cui tradizione venne fortunatamente conservata nei monasteri. Interessante è analizzare le arnie studiate all’uopo dall’uomo. Le prime erano realizzate segando un tronco cavo dove già esisteva un alveare: si pensò in seguito di fare dei panieri in fibra vegetale e dei ricoveri in terracotta. Oggetti rustici che comunque assolvevano bene alla loro funzione perché in grado di proteggere le api ed i favi dal calore, dal freddo intenso e dal vento. Fu lo studioso americano delle api, il reverendo Lorenzo Lorraine Langstroth (the Father of American Beekeeping) a scoprire, nel 1851, che la distanza tra un favo e l’altro, nei nidi naturali, consentiva di poterli rimuovere senza danneggiare le api. Da questa analisi realizzò il moderno favo mobile, costruendo le prime arnie razionali a moduli intercambiabili. Le innovazioni tecnologiche si sono evolute per cui l’attuale tecnica apistica consente di produrre, specialmente in Italia, grande quantità di mieli uniflorali e multiflorali di ottima qualità tra i migliori al mondo. L’uomo alleva le api per produrre il miele e gli altri prodotti derivati dell’alveare, ma sarebbe sbagliato pensare che abbia addestrato per un suo personale tornaconto questi insetti come ha fatto con altri animali da secoli oggetto di allevamento. Le api, per condurre in porto il loro lavoro, utilizzano l’arnia messa a loro disposizione dall’uomo ma mantengono lo stesso comportamento di quelle che vivono da sempre allo stato naturale all’interno di un albero cavo. Clara Scaglioni
Tradizione e
Innovazione vanno di pari passo quando la fa da padrone
IL GUSTO Acetaia Dodi srl
Note 1. La melata è un miele particolare ricavato dalle api dalla secrezione zuccherina, la linfa che ricopre in modo appiccicoso le foglie di alcune essenze arboree provocata da specifici afidi (metacalfa pruinose). La melata ha un marcato sentore di caramello ed è ricca di sali minerali per cui è usata, in particolar modo, da chi fa sport ed è, per certi versi, paragonabile ad una confettura.
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Ristorazione
Amaltea: a Modena un mito diventa realtà Luca Marchini, patron e chef del ristorante modenese da una stella Michelin “L’Erba del Re”, apre una scuola di cucina per condividere una grande passione, divertirsi e imparare tra i fornelli di Clara Scaglioni
Q
uando ci si imbatte nel nome di una persona che non si conosce viene spontaneo utilizzare quella espressione messa dal Manzoni sulla bocca di Don Abbondio nelle prime pagine dei Promessi Sposi. Nel momento in cui il buon prete di campagna, nel libro che sta leggendo, trova menzionato un certo Carneade esclama: “Carneade chi era costui?”. Il personaggio ignoto a Don Abbondio era Carneade di Cirene, un filosofo greco della corrente degli scettici, vissuto dal 214 al 129 a.C. Se si nominano allora personaggi del calibro di Archestrato o Amaltea è più che normale chiedersi: chi sono o chi erano costoro? Archestrato di Gela, vissuto a Siracusa nel 330 circa a.C., nella fiorente e lussureggiante Magna Grecia, viene considerato e definito gastronomo ante litteram, essendo stato un erudito studioso di alimentazione. Questa affermazione si ricava dai riscontri che si trovano analizzando i frammenti di alcuni suoi scritti arrivati fino a noi. Nel suo poema Hedypatheia, letteralmente “Poema del buongustaio”, Archestrato parla dei meravigliosi prodotti della sua terra e di come li andasse cercando in ogni dove per conoscerli, gustarli e farli apprezzare. C’è chi dice si sia spinto oltre e abbia aperto una scuola di cucina per il piacere di insegnare a cucinarli e farli apprezzare utilizzandoli nel modo giusto. Come si può notare siamo nel 300 circa avanti Cristo per cui, quando
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si parla di scuole di cucina, non si deve pensare erroneamente a realtà nate da esigenze legate al mondo di oggi, ma a qualcosa la cui validità e utilità è stata riconosciuta anche nel passato. Archestrato aveva già compreso l’importanza dell’insegnare in cucina di cucina! AMALTEA, personaggio della mitologia, è la capra a cui Rea affida in gran segreto Zeus, ultimo nato dalla sua unione con Crono, facendogli credere, con uno stratagemma ben studiato, che al loro figlio è stata data la morte. Rea chiede ad Amaltea di allevare il bambino, di nutrirlo di nascosto con il suo latte, farlo cresce-
re e salvarlo dalla sorte che sarebbe toccata inevitabilmente anche a lui, dato che il dio del tempo, volendo sfuggire ad un’infausta predizione, uccideva tutti i suoi figli divorandoli subito dopo il parto. La leggenda narra che Crono, accortosi dell’inganno, abbia tagliato di netto, per vendetta, una delle corna di Amaltea (mentre secondo altri fu Amaltea a rompersela con un salto maldestro). Sta di fatto che Amaltea, raccolto il corno rotto, a mo’ di cornucopia, lo riempì di frutta e fiori e lo donò a Zeus. Per tale gesto è diventata il simbolo di chi sa offrire una parte di sé a coloro che incontra; rappresenta
Luca Marchini durante una lezione nella sua scuola di cucina.
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ed elargisce con la sua cornucopia abbondanza e fortuna. I leggendari personaggi qui richiamati servono a sottolineare, chiarire, evidenziare il grande impegno che intende mettere lo chef Luca Marchini nella scuola di cucina che ha inaugurato, in una sala a questo scopo attrezzata accanto al suo ristorante, ai primi di dicembre del 2011. Ha voluto intenzionalmente chiamarla come la capra della mitologia Amaltea, ovvero la dispensatrice di cose buone. Con questo nome, a chi ne afferra la insita simbologia, Marchini vuole fare comprendere come pensa di gestirla. Il suo intendimento è mettersi a disposizione in prima persona per insegnare quanto ha appreso negli anni tra i fornelli e tentare di trasmettere agli allievi la sua passione. È istruttivo scorrere i passaggi della vita di questo giovane chef e vedere quale grande forza e desiderio di sapere in cucina, già dagli anni della sua adolescenza, lo ha spinto a raggiungere il traguardo che ha ormai, con caparbietà, tagliato, specie per chi si permette di chiamare i nostri giovani “bamboccioni”.
Luca, aretino di nascita, è figlio di un funzionario di banca. Il suo futuro è tracciato: deve andare all’università e laurearsi in economia e commercio. Fin da piccolo, però, gli piace “paciugare” e aiutare in cucina. Armeggia in particolare con i coltelli di uso quotidiano con estrema dimestichezza e quando si accorge che, anche senza la guida della mamma, ottima cuoca, riesce a preparare dei piatti giudicati perfetti da chi li assaggia, capisce che l’universo cibo, con i suoi riti, gli piace e lo rilassa, specie dopo avere passato tante ore sui libri a studiare. Per avere più orizzonti e conoscenze anche sulla tecnica di base, appena il tempo libero glielo consente, decide di frequentare qualche corso alla scuola di cucina “Petronilla” di Modena. Questa esperienza è per lui fondamentale. Gli dà una grande carica, specie per la bravura dell’insegnante che riesce a fargli comprendere come la sua passione vada coltivata e assecondata, per diventare, e anche sfociare, in una eventuale strada da intraprendere. Oltre a frequentare la scuola di cucina, durante gli anni dell’università, va a lavorare, il sabato
e la domenica sera, in un ristorante. Vuole capire se veramente questa vita potrà essere la sua. Conseguita la laurea in economia e commercio, in attesa di dare l’esame di stato, entra nella cucina de “La Francescana” di Modena, dello chef Massimo Bottura (da qualche mese insignito della terza stella Michelin) e vi resta per due anni. Impara tantissimo e capisce, dopo questa esperienza, che la sua strada è ormai segnata, anche se è consapevole che gli occorre fare altra gavetta. Ha l’opportunità, o meglio la fortuna, di entrare nella cucina del ristorante “La Solarola”, a Castelguelfo, con Bruno Barbieri. Stargli accanto quattro anni lo matura da un punto di vista professionale e lo rende consapevole del fatto che prima o poi aprirà un locale tutto suo. Va a fare uno stage prima in Francia e successivamente a New York e nel 2003, a 32 anni e con le idee chiare, si sente pronto al gran passo: aprire il ristorante tanto desiderato. Il comune di Modena, in questo periodo, decide di dare maggiore visibilità e valorizzazione ad uno dei più suggestivi scorci della città, la zona della
La cucina di Amaltea.
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Pomposa, che, grazie ai mercatini che vi trovano spazio in alcuni giorni della settimana, a piccoli negozi appena aperti, a deliziosi bar, rinasce a nuova vita. È qui che Marchini apre, in un palazzo che si affaccia sulla piazzetta acciottolata davanti all’antica chiesa della Pomposa, il ristorante. Questo è un angolo della città dal sapore di “un tempo che fu” e Luca, non a caso, chiama il locale “L’Erba del Re”. L’erba del re, per gli antichi romani, è il modesto ma profumatissimo basilico! Nel nome scelto è insito anche l’impegno preso da Luca con sé stesso: quello di proporre una cucina semplice ma di livello, profumata e legata ai tantissimi prodotti del territorio cercando, senza snaturarli, di alleggerirli. Completa poi negli anni il suo lavoro di ristoratore di successo collegandolo a un catering: la “Divisione Catering dell’Erba del Re”. Marchini, per la professionalità, l’impegno e anche per gli studi che ha fatto, è stimato e apprezzato dai suoi colleghi ristoratori, che si fanno rappresentare nominandolo presidente di “Modena a Tavola” e presidente provinciale della Federazione Italiana Pubblici Esercizi. Per il suo lavoro tra i fornelli entra a fare parte dell’Associazione dei Giovani Ristoratori Italiani. Tutte queste importanti mete raggiunte non lo soddisfano in pieno perché nel suo subconscio c’è, nascosto e latente da sempre, il desiderio di collegare il suo ristorante “L’Erba del Re” a una scuola di cucina da gestire in prima persona. Questo ulteriore passo Marchini lo fa nel dicembre scorso, con l’inaugurazione di “Amaltea”. Le lezioni, già iniziate, con riscontri di pubblico molto positivi, gli hanno dato la soddisfazione che si attendeva. Il suo intento, infatti, è quello di dedicare all’insegnamento tutto il tempo che la famiglia e la cura del suo ristorante gli lasciano libero. Le scuole di questo tipo stanno riscuotendo un notevole successo in ogni angolo del mondo, perché c’è, alla base di chi le frequenta, il desiderio di riuscire a preparare qualcosa di speciale per i propri cari. La ricetta scritta, anche se perfetta, non va messa sullo stesso piano della lezione, dalla quale si può invece apprendere
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Una delle creazioni di Luca Marchini. tanto, specie sotto la guida di un valido insegnante, perché la preparazione si sviluppa e cresce davanti ai propri occhi. Se si vede il piatto nascere e si seguono tutti i passaggi, questi restano impressi nella mente, e i profumi, i colori, le sensazioni che si provano nell’assaggiarli, alla fine della lezione, memorizzano un momento che non si dimentica. Marchini ha realizzato con caparbietà il suo sogno e vuole mettersi a disposizione di chiunque voglia imparare, siano essi adulti o bambini. Per i piccoli, infatti, sta studiando appositi corsi che, avvalendosi del gioco, possano interessarli e avvicinarli a questo mondo. Non solo: nei suoi intendimenti anche una sola persona, se desiderosa di imparare, potrà trovare in lui un insegnante pronto ad assecondare ed esaudire le sue necessità. L’augurio da fare a Marchini, che ha creato con determinazione questa magnifica e attrezzata cucina, è che nel suo divenire possa continuare a gestirla e ad esprimersi come l’insegnante che ha deciso di essere in questo momento. Ha infatti organizzato la scuola con corsi a prezzi abbordabili e con pochi allievi, per poterli seguire in prima persona e avere con loro quel rapporto interpersonale, con scambio di valutazioni e di idee, che anche nel suo ristorante ricerca con chi lo frequenta. Dialogare con i clienti, anche se non condividono a pieno le sue scelte e gli fanno qualche osservazione sul suo lavoro, per lui è fondamentale.
La critica, specie se educata, mirata e giusta l’accetta volentieri perché lo fa riflettere e lo matura anche professionalmente, spingendolo a migliorare. Luca è consapevole del fatto che oggi, più di un tempo, c’è una maggiore preparazione sui vini e sui cibi da parte di chi frequenta i ristoranti e se un cliente esprime un’opinione, spesso parla a ragion veduta e con competenza, pertanto va ascoltato con attenzione. Marchini è un giovane chef divenuto tale per vero amore nei confronti della cucina. Amore che, specie con Amaltea, dalla cornucopia carica di sapori e saperi da lui acquisiti nell’arco degli anni di lavoro tra i fornelli, vorrebbe provare a riversare a piene mani sugli altri. Essenziale per Luca è fare comprendere quanta serenità può dare questa professione, quando la si avvicina con il piede giusto, specie se si è capaci di trasmettere, come bene finale, piacere e gioia a coloro cui tanto lavoro è diretto. Clara Scaglioni
Scuola di Cucina Amaltea Via Castel Maraldo, 45 41121 Modena Tel. 059 218188 – 339 6683026 info@scuolacucinaamaltea.it www.scuolacucinaamaltea.it
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Locali di gusto II primo centro dedicato allo studio e alla riproduzione dei sistemi storici di stagionatura dei formaggi siciliani e anche internazionali
Cacioteca regionale di Ragusa, la prima d’Italia di Stefania Monaco
G
rande festa per l’inaugurazione della prima Cacioteca regionale d’Italia. Tre giorni di degustazioni, approfondimenti scientifici, valorizzazione dei prodotti del territorio. Appuntamento coinciso con Cheese Art, manifestazione arrivata alla sua sesta edizione, dopo sei anni dall’ultimo appuntamento del 2006. Contento e visibilmente emozionato il prof. Giuseppe Licitra, presidente del CoRFiLaC (Consorzio Ricerca
Filiera Lattiero Casearia), ha seguito la realizzazione dell’opera avvenuta dopo vent’anni. «Abbiamo avuto una grande partecipazione anche da parte del pubblico che, assieme ad esperti, ricercatori, produttori italiani e stranieri, ha avuto modo di conoscere ancora una volta di vicino la bontà della produzione casearia di vari Paesi del mondo, con la naturale esaltazione dei nostri formaggi storici siciliani. Successi su più fronti, non solo con le degustazioni continue ma anche
con i laboratori del gusto, a cui hanno partecipato anche alcuni turisti e che sono sempre stati pieni in ogni posto anche grazie a presenze come gli chef Accursio Capraro e Corrado Assenza. Il primo giorno abbiamo iniziato con lo chef Ciccio Sultano e Angela, una nonna del territorio Ibleo. Abbiamo voluto mettere a confronto la signora che utilizza le materie prime del territorio e il grande chef stellato che, per elaborare i suoi piatti, torna alla ricerca dei prodotti storici
Gli chef Corrado Assenza e Accursio Capraro insieme al prof. Giuseppe Licitra, presidente del CoRFiLaC.
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e locali. Due mondi diversi ma che hanno una radice comune che sono proprio le materie prime locali. In più, abbiamo puntato sul latte vero a km 0 e Corrado Assenza ci ha già anticipato che intende utilizzarlo per alcune ricette così come vuole usare la prima cagliata che ha una consistenza molto tenera. Un gusto nuovo che entra nella pasticceria e che potrebbe anche rivoluzionarla. Ci sono poi gli altri aspetti di questo Cheese Art, ovvero la sinergia che si è venuta a creare tra 140 ricercatori da 19 Paesi del mondo con l’associazione WwTCa (World Wide Traditional Cheeses Association, www.wwtca.org) che è nata per condividere attraverso un network le conoscenze scientifiche acquisite. Nel consiglio direttivo, oltre all’Italia, fanno parte anche la Francia, gli Stati Uniti, la Serbia, la Mongolia e la Grecia. Alcuni di questi Paesi si sono già candidati per ospitare la prossima assemblea della WwTCa dopo quella di Ragusa. Ma presto ci rivedremo per definire meglio le strategie per caratterizzare i formaggi storici nel mondo in modo da uniformare le metodologie di produzione e difendere in modo più preciso la valenza anche culturale di questi formaggi. L’altra grande scommessa è quella della Cacioteca Regionale Siciliana dove valorizzeremo i formaggi ma anche faremo la sperimentazione sulla stagionatura. Abbiamo già avuto molte richieste da parte di alcune aziende che vogliono presentare i loro prodotti al Teatro del Gusto e anche la Camera di Commercio è interessata per iniziative tese a valorizzare i prodotti del territorio, ma il vero obiettivo è camminare insieme ai produttori, agli stagionatori e ai consumatori». Molto interessante la valorizzazione attraverso l’abbinamento tra prodotti. Come il caso della pizza con i salumi di Majore, il Ragusano DOP, il piacentino ennese e la ricotta fresca di giornata. La birra Baladin abbinata dal patron Teo Musso con formaggi siciliani o i vini di Planeta con i salumi ed i formaggi siciliani, tutti eventi ospitati nel “Teatro del gusto” cuore della Cacioteca. Stefania Monaco
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In alto: Teo Musso, fondatore del birrificio Baladin di Piozzo, in Piemonte. In basso: la Cacioteca Regionale Siciliana, inaugurata a Ragusa il 27 gennaio scorso in occasione della manifestazione “Cheese Art”. Una struttura unica in Italia, il primo centro dedicato allo studio e alla riproduzione dei sistemi storici di stagionatura dei formaggi siciliani e anche internazionali.
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Mercati
Parmigiano Reggiano, un 2011 col botto La media di oltre 10 euro al chilo registrata lo scorso anno premia gli allevatori. La programmazione produttiva si è rivelata vincente per sconfiggere la crisi degli ultimi anni. Ora bisogna puntare sulla ripresa dei consumi e la fidelizzazione del mercato di Anna Mossini
I
l 2003, nel decennio 2000-2010, è stato l’anno in cui le quotazioni medie del Parmigiano Reggiano avevano fatto segnare i risultati migliori: eravamo a 9,25 €/kg. Poi, per i produttori, ci sono stati molti anni bui che hanno messo a dura prova la loro attività. Grazie a una serie di iniziative portate avanti dal Consorzio di tutela che si sono rivelate vincenti è arrivato il 2010, che ha fatto registrare una quotazione media di 9,14 €/kg, e nell’anno successivo, il 2011, è stata addirittura superata la soglia dei 10 €/kg, più precisamente 10,76. Un valore importante, che ridà slancio e soprattutto redditività agli allevatori «per affrontare con maggiore serenità — ha spiegato, durante la conferenza stampa di inizio anno il presidente del Consorzio, Giuseppe Alai — gli investimenti necessari per rendere sempre più moderne e competitive le aziende produttrici». In aumento le scorte L’appuntamento con la stampa è stato come sempre l’occasione per fornire i numeri produttivi del Re dei formaggi, che non possono prescindere anche da un’analisi attenta e scrupolosa. I 3.231.862 di forme prodotte nel 2011, pari a un valore all’origine di 1,215 miliardi di euro, evidenziano un incremento, sull’anno precedente, del 7,1%. Un dato che dovrebbe forse impensierire in una prospettiva futura. Su questo aspetto Alai ha
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però tranquillizzato. «Le iniziative adottate in ambito commerciale — ha spiegato — ci permettono di affermare con sicurezza che non siamo in una situazione di allarme. L’aumento delle scorte è in linea con quello del 2009 (84.000 forme pari a +11,5%), le esportazioni hanno regi-
strato un +4,2% e i ritiri effettuati dalla I4S (la società commerciale del Consorzio che gestisce i ritiri AGEA per gli indigenti e l’acquisto di forme da destinare ai mercati esteri, Ndr), che hanno interessano oltre 180.000 forme destinate a mercati e tipologie di consumo diversi da quelli
Il nuovo Disciplinare di produzione del Parmigiano Reggiano, entrato in vigore nell’agosto scorso, impone che anche il confezionamento avvenga nella zona d’origine: la norma scatterà tra otto mesi.
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Nel 2011 il Parmigiano Reggiano ha registrato il minor incremento dei prezzi al consumo nei punti vendita italiani. interni, ci mettono in una condizione di tranquillità. Ciononostante, l’incremento produttivo va riportato nel più breve tempo possibile entro limiti sopportabili da un mercato che ha già penalizzato, e duramente, i produttori. È indubbiamente incoraggiante a questo riguardo la recente approvazione, da parte dell’assemblea dei soci, dei criteri di gestione dei piani produttivi, a cui si legano i contributi consortili aggiuntivi per chi sforerà i tetti.
Calo dei consumi Non possiamo però sottovalutare un dato che arriva proprio dal mercato: il calo dei consumi, e quindi anche delle quotazioni, è legato alle mutevoli e improvvise oscillazioni dei prezzi al dettaglio, che disorientano i consumatori e ne pregiudicano la fidelizzazione». Secondo il ragionamento di Giuseppe Alai, il problema non riguarda solamente il Parmigiano Reggiano, bensì tutti i principali formaggi duri
italiani, soprattutto quelli a lunga stagionatura. E per il Re dei formaggi il 2011 è stato un anno emblematico, visto che ha registrato il minor incremento dei prezzi al consumo nei punti vendita italiani: +14,7% a fronte di percentuali superiori al 20% per altri formaggi duri. «Se guardiamo però ai formaggi di importazione — ha spiegato ancora Alai — notiamo che sono rimasti ben al di sotto di queste percentuali, registrando un’oscillazione limitata
Tabella 2 – Produzione di Parmigiano Reggiano annate casearie 2010-2011 (genn.-dic.) Caseifici 2010
Caseifici 2011
Bologna
10
9
64.950
69.362
6,8
Mantova
27
26
316.942
347.192
9,5
Modena
81
79
595.624
635.510
6,7
Parma
166
164
1.108.092
1.167.055
5,3
Reggio Emilia
108
105
932.652
1.012.743
8,6
Totale
392
383
3.018.260
3.231.862
7,1
Provincia
N. forme 2010
N. forme 2011 (*)
Var. %
(*) Dati al 30 gennaio 2012, in via di verifica. Fonte: elaborazione SIPR su dati Sezioni CFPR.
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Tabella 2 – Interventi oggetto di vigilanza 2011 1 – al commercio Imprese oggetto di vigilanza
N.
Ditte confezionatrici di porzionato
413
Grattugiatori
193
Magazzini, centri di distribuzione
19
Punti vendita
1.690
Laboratori di ricette/caratterizzante
51
Caseifici (rintracciabilità di prodotto commercializzato) Visite totali svolte
1 2.367
Presso i punti vendita sono stati acquistati 271 campioni di Parmigiano Reggiano prevalentemente grattugiato, di cui gran parte proveniente da diversi Paesi europei ed extraeuropei, sottoposti ad analisi e a verifica di rispondenza dei requisiti della DOP; 33 campioni legali sono stati inoltrati per le analisi ai laboratori dell’Istituto repressione frodi di Modena. 2 – ai caseifici (distribuzione e verifica della corretta apposizione dei marchi d’origine, fascere e placche di casina) Imprese oggetto di vigilanza
N.
Caseifici produttori
383 Visite totali svolte
950
Tabella 3 – I numeri del Parmigiano Reggiano nel 2011 12 mesi di stagionatura minima
Il marchio del Consorzio Tutela Parmigiano Reggiano. 4% grazie al buon andamento dei consumi extradomestici». Che sono esattamente quelli su cui punta il Consorzio: dalle esportazioni (il 32% del totale venduto) al canale HORECA, dai prodotti innovativi a base di Parmigiano Reggiano al vending, la distribuzione automatica indirizzata al fuori pasto, ai giovani, al fuori casa. E che la cosiddetta stabilità dei redditi si proietti anche su queste strade è un dato che Alai ha sottolineato quando ha fatto riferimento ai 383 caseifici artigianali (nel 2011 sono diminuiti di 9 unità rispetto all’anno precedente) e ai 3.558 allevamenti (96 in meno sul 2010).
20-24 mesi di stagionatura media 16 litri di latte per la produzione di 1 kg di formaggio 550 litri di latte necessari per produrre una forma 39 kg peso medio di una forma 3.558 unità produttive agricole che conferiscono il latte ai caseifici (3.654 nel 2010) 244.000 bovine dedicate alla produzione di latte per la trasformazione 15% circa della produzione nazionale di latte 383 caseifici produttori (392 nel 2010) 3.231.862 forme prodotte (3.018.260 nel 2010, variazione del 7,1%) 1.215 milioni di €, stima del giro d’affari alla produzione (produzione 2010 venduta nel 2011) 1.892 milioni di €, stima del giro d’affari al consumo 32% il volume delle esportazioni sul totale prodotto al 6,5%. Ed è proprio questa forbice ridotta che, pur con prezzi non tanto diversi per non dire uguali a quelli italiani, ha incrementato le vendite nella GDO di ben 2.000 tonnellate
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di prodotto, mentre i consumi interni delle migliori DOP italiane sono diminuiti, registrando una flessione che per il Parmigiano Reggiano si è posizionata appena al di sotto del
Le opportunità del nuovo Disciplinare Resta però il fatto che una gestione produttiva ben governata rappresenta una necessità imprescindibile «di cui siamo stati in qualche modo pionieri — ha affermato Leo Bertozzi, direttore del Consorzio — nell’ormai lontano 2006, visto che oggi l’Unione Europea, rispetto appunto ai piani produttivi, sembra orientata ad assegnare questo compito ai Consorzi di tutela. I prossimi mesi ci diranno se questi principi di gestione produttiva andranno in porto. La linea italiana è comunque tracciata e ne è un segno importante il nuovo Disciplinare di produzione del Parmigiano Reggiano entrato in vigore nell’agosto scorso, in base al quale il prodotto si lega indissolubilmente al territorio imponendo anche il confezionamento in zona di origine, norma che tra otto mesi entrerà in vigore». Anna Mossini
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Identità Milano 2012 L’appuntamento milanese con la cucina d’autore e col gusto di Laura Franchini
I
l congresso Identità Golose 2012, da quest’anno Identità Milano, sarà ricordato a lungo: un’edizione indimenticabile, infatti, per contenuti e protagonisti. Ma anche, purtroppo, per il gelo e la forte e lunga nevicata che hanno paralizzato il nostro Paese. A Milano, però, i lavori non si sono fermati e sui palchi del congresso, spalmato su tre giorni (5, 6, 7 febbraio) e su tre sale — domenica Identità Naturali e Identità Vent’anni, lunedì Identità Donna e Identità di Pizza, martedì Identità di Carne e Identità di Pasta —, dopo i doverosi saluti del creatore, Paolo Marchi, hanno iniziato ad avvicendarsi grandi chef e grandi attori del mondo del gusto.
Un’edizione che ha visto nell’attigua Milano food&wine Festival un partner d’eccezione: 100 cantine per 300 vini, un’altra tre giorni del gusto sotto lo stesso tetto. Massimiliano Alajmo e Corrado Assenza hanno inaugurato il congresso in Sala Auditorium con il cuturro di grano. Cuturro? In Sicilia si chiamano così le preparazioni a base di grano spezzato, cotto a vapore e poi mantecato con il latte. È lo strato iniziale di un dessert che si arricchisce di mandorla di Noto, pistacchio di Bronte, miele d’arancio. La regione protagonista di quest’anno, il Trentino, ha visto l’arrivo di Paolo Donei. Lo chef del Malga Panna ha presentato un risotto affumicato
che ricordava la tipica zuppa d’orzo e l’agnello marinato e cotto sottovuoto a bassa temperatura con il raro miele di erica e fiori (erica, calendula, viola, camomilla), poi passato in forno con carbone vegetale di ciliegio a ricreare la cottura nel fieno con la stufa a legna. Alessandro Gilmozzi ha parlato di fauna e flora della catena del Lagorai: il gallo forcello, la lepre, il cervo e il loro ambiente, e già la prima ricetta sprigionava un’atmosfera fiabesca di boschi e fate. Il tema dell’intervento di Nino Di Costanzo de Il Mosaico del Terme Manzi Hotel di Ischia era la pasta e patate. Lo chef ha composto una tavolozza di 25 formati di pasta cotti simultaneamente timer alla mano e
Crudo di Palamita, trenette e acciughe, presentato da Enrico Panero al congresso.
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Igles Corelli e Aldo Zivieri. con quattro varietà di patate per cinque consistenze: centrifuga di patata viola, zuppa di patata rossa, chips di bianca e di gialla, spuma sifonata al latte di bufala con la patata gialla. L’approccio alla pasta di Davide Scabin del Combal.Zero di Rivoli è quello di cercare sempre nuove forme e nuovi usi. Lo chef ha cominciato con il cipollone cotto al forno e ripieno di spaghetti e verdure, per proseguire con il rigatone, lesso, tostato in padella e farcito di carbonara che accompagna un’insalata di mare, e chiudere con il fusillone wrap (una piadina ripiena di pasta) e spaghetto TWA, servito come in economy class su un volo intercontinentale: pasta in forma di pasticca e verdure disidratate in un bicchiere, il tutto ravvivato da un brodo di vitello made in Italy. Pino Cuttaia ha scelto il cannolo di melanzana in pasta croccante; Andrea Aprea, del Vun di Milano, ha presentato le linguine cotte all’estratto di cavolo rosso, burrata, aringa affumicata, pinoli e germogli di crescione e il cannellone di sfoglia di rapa, ricotta di bufala, catalogna, scampi e i loro consommé. Francesco Sposito, della Taverna Estia di Brusciano (NA), ha attualizzato piatti tradizionalissimi come la pasta e fagioli, arricchendola di una salsina fatta solo con le valvole delle cozze femmine (dieci chili di cozze, 400 grammi di salsa!). Tocco aristo-
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cratico finale: quenelle di tartare di gamberi. Declinare il cioccolato in tutte le sue espressioni, riuscendo a portare in tavola un dolce che appaghi ma che non sia stucchevole: questa è l’idea di Heinz Beck, storico chef della celebre Pergola di Roma che ha concluso il Dossier Dessert. Beck ha presentato un dolce dal nome molto chiaro: Il Cioccolato. Sul palco è stato affiancato dal suo chef pasticcere, Giuseppe Amato, siciliano. Il piatto presentato era un’unione di 4 sapori e 4 texture diverse, con il cioccolato interpretato in forma e gusto. Alla testa di uno dei ristoranti più ambiziosi della scena nordica, lo svedese Björn Frantzén, ha presentato una delle icone nazionali: la renna della Lapponia. Ma c’è stato spazio anche per il gallo cedrone comprensivo del suo stomaco. Identità di Carne ha visto Aldo Zivieri — nome che è sinonimo di suini e bovini da generazioni — salire sul palco assieme ad Igles Corelli, al quale ha affidato la sua carne di Mora Romagnola. Il risultato è stata una tartare di una delicatezza e gusto incredibili, perfetta anche solo con crostini di pane d’Altamura, fiori e germogli. Carlo Cracco ha presentato una sorta di deriva meneghina per la quale la classica michetta imbottita viene reinterpretata facendo gonfiare nel microonde un panetto di seitan home made: se ne ottiene una sfera leggera, croccante e vuota all’interno, da riempire con fettine di lingua di vitello bollita, soncino, fiori di piselli per la nota erbacea che ricordi il bagnet verd alla piemontese,qualche cappero salato, fiori di anice, pasta di nocciole. Matteo Baronetto ha ripescato una materia “antica” come il salmone, lo ha marinato (sale, zucchero, pepe nero e aneto), sostituendo il burro col foie gras per dare grassezza con più eleganza e aggiungendo in conclusione profumi di sottobosco con il tartufo nero. Paolo Lopriore ha presentato un brodo istantaneo di carote. Ingrediente unico, i semi di carota, rivitalizzati nell’acqua e passati alla Greenstar.
Salito sul palco per raccogliere il premio per il Piatto dell’Anno Grana Padano, una faraona che abbatte i confini tra dolce e salato, Massimo Bottura ha girato il suo trofeo al prodotto, alla cui qualità rende omaggio. Da qui parte la sua personale storia gastronomica: la spuma di mortadella e gnocco croccante, la compressione di pasta e fagioli, da qui il passaggio dalla royale di foie gras alle croste di Grana Padano, al velluto di una pasta e fagioli classica, all’aria di rosmarino alla Ferran Adrià. Viviana Varese: “Travolta da un insolito panino” è un piatto nato da un errore e a raccontarlo sul palco c’era anche Sandra Ciciriello, ex pescivendola e oggi socia di Viviana, che si è presentata in compagnia di un’ombrina di 12 chili. Mentre Sandra sfilettava, Viviana spiegava la genesi dell’impasto: acqua, sale, uova, farina di grano arso, tè nero affumicato, timo e potature di limone bruciate con cui la chef ricava una cenere. L’ombrina cuoce dentro al pane e alle foglie. Il panino è stato servito accompagnato da un’insalatina di finocchi con polpa di limone e un contorno caldo, una patata cotta nella cenere del frutto in una pentola speciale detta “patatiera”. Il primo a salire sul palco nella giornata dedicata alla pizza è stato Enzo Coccia con la sua ricetta “Le Montanare fritte con pomodorini del Piennolo e mozzarella di bufala affumicata”. Franco Pepe da Caiazzo, Caserta ci ha riportato al genius loci della pizza, riproponendo due sue variazioni sul tema: il fantastico ripieno con la scarola, alici di Cetara, olive caiazzane, capperi e olio extravergine, poi la mastunicola, prodromo della margherita senza pomodoro, da una ricetta antichissima, lardo, pepe, basilico e pecorino, o meglio Conciato Romano, uno di quei preziosi gioielli di queste terre salvato dall’estinzione da un produttore appassionato. René Redzepi da Copenhagen, con la lezione “L’inverno è stato mite”, ha dimostrato che la varietà regala ricchezza e apre ai confini dell’inesplorato: «C’è stata un’esplosione di licheni e muschi e sono buonissimi: sono dolci o amari, sanno di funghi, di oceano…».
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La tartare di Mora Romagnola nata dalla collaborazione dello chef Igles Corelli e del macellaio Aldo Zivieri. Perfetta con crostini di pane d’Altamura, fiori e germogli. Ecco allora anatre selvatiche con petali di rosa in salamoia, foglie di faggio caramellizzate e acetosella; germogli di pino che sanno di pompelmo, o altri che profumano di limone e che, insieme a una bacca che ricorda l’oliva, la mandorla e la frutta, arricchiscono cubetti di calamaro coi loro sentori agrumati; poi licheni fritti come fossero patatine e cosparsi di polvere di fungo porcino, da sgranocchiare magari bevendo una flûte di champagne, o intingendoli in una bottarga di stoccafisso immersa nell’olio, sorta di maionese senza uova; oppure, ancora, diversi muschi, alcune fette di rapa a dare piccantezza. Davide Scabin ha provocatoriamente intitolato il suo intervento “Oltre il mercato c’è la testa dello chef”. A dargli manforte il maestro Bruno Munari, capace di estrapolare le regole auree del design da una ricetta di risotto verde. Per cominciare, i risotti sottovuoto in forma, che si conservano per tre settimane in frigorifero grazie alla criomacerazione preventiva nel grasso. Ricondizionati, hanno allineato i loro cilindri sul piatto con salse altrettanto multicolori.
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Poi, la sfida gravitazionale del riso bombato avvolto nel carpaccio di gamberi, riedizione del risotto alla certosina vintage. O il tonno di coniglio, il foie gras, il fagiolo bianco di Pigna e le creste di gallo di una paella espressa alla rivolese. L’inedita coppia composta dal trentino milanesizzato Claudio Sadler e da Missy Robbins from New York hanno portato sul palco dei ravioli ai broccoli e ricci di mare: la pasta ripiena di mascarpone e di crema di broccoli e cime di rapa a dare un po’ di amaro e colore; all’esterno una gremolata degli stessi broccoli con una bottarga di ricci di mare, infine i ricci stessi a completare il tutto. Sadler ha replicato con un piatto della memoria, rivisitato, come astice e carciofi: chele d’astice appena scottate in tartare su emulsione di rucola, olio e mandorle; di nuovo astice (la coda) fritto nell’olio a 63°C e poi sormontato di una maionese al dragoncello sifonata e da petali di carciofo croccanti; infine la stessa verdura, ma cotta sottovuoto coi profumi di aglio e maggiorana, 90°C per 20 minuti. Liquirizia, dragoncello, salicornia e pepe a aromatizzare il tutto. Proposta
finale, cucinata a quattro mani: carpaccio di capesante con topinambur alla vaniglia; spolverata di amaranto fritto a dare croccantezza, lamelle di tartufo nero e una maionese al Grana Padano per completare. Niko Romito ha preparato carote, olive e pane. Il brodo di olive fornisce la base amara, smussata dalla temperatura e testurizzata naturalmente per la persistenza. Mentre le carote, spadellate con centrifugato di carote, forniscono il contrappunto dolce e untuoso e il pane tostato dinamizza il mix grazie alla testura croccante e all’acidità vinosa. La sua ricerca avanguardistica è proseguita con l’agnello, i ravioli ripieni di capocollo e il dessert, una meringa classica al cuore di caramello bruciato e cialde gelate di centrifugato di lamponi. Gennaro Esposito si è espresso con una quaglia cotta (59°C per 24 ore) in burro di siero aromatizzato al finocchietto marino, poi rosolata e impiattata con bietola selvatica appena saltata e pesto con colatura di alici. Iside De Cesare, chef insieme al marito Romano de La Parolina di Acquapendente, ha incentrato il
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Carlo Cracco. suo intervento intorno all’uovo alla carbonara: una crema di pecorino sul fondo, uno spumone cotto al vapore e guanciale croccante. E la pasta? È diventata un accessorio, ma indispensabile: si guarnisce il piatto con una sbrisolona lavorata a mano con il mattarello da un impasto di tuorli, farina, burro e pecorino. Cristina Bowerman, del Glass Hostaria di Roma, è salita sul palco di Identità Donna presentando i gnocchetti affumicati di patate, guancette di baccalà, bagnacauda orientale, pomodori confit e clorofilla di prezzemolo; poi pastrami con ciauscolo, giardiniera, arancia essiccata e gelato di senape. La tecnica è stata mutuata dall’America ed è capace di valorizzare ogni tipo di carne, non solo il manzo: una sorta di salamoia, per meglio dire“brine”, in cui il sale estrae i succhi della carne per donare morbidezza e sapore. Marianna Vitale di Sud, insegna stellata alle porte di Napoli, ci racconta che, quando è in amore, il calamaro può avere anche 3 cuori. Ingrediente perfetto, unicamente con il suo “quinto quarto” celato, per condire le linguine. Chiara Patracchini con “L’Insolito orto” ha raccontato l’importanza del latte di capra, sottolineando quanto la pasticceria debba creare un ponte con il resto del pasto attraverso l’uso delle verdure: carote, zucca, finocchio,
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cipolla vengono cotte e poi candite delicatamente in uno sciroppo non troppo dolce, la ricotta di capra unisce i sapori e dona morbidezza, l’orto è completato da germogli che donano freschezza e fiocchi soffici di tapioca con sesamo nero per imitare il terreno. «Ci piace giocare con consapevole ironia in questo mondo sospeso tra dolce e sapido, che è la natura». La saggezza è quella di Corrado Assenza, dal Caffè Sicilia di Noto. E il suo compagno di giochi è Simone Padoan, uno dei precursori della pizza gourmet ai Tigli in quel di San Bonifacio, in provincia di Verona. «Con la pizza, già sostanziosa, utilizziamo delle verdure crude e la alleggeriamo facendo un ragionamento sul formaggio, che viene sostituito da una crema di latte con extravergine e pochissima farina». Roberto Pongolini per Identità Pizza ha raccontato due preparazioni: la prima, Elogio al maiale, dimostra la convinzione nell’importanza di raggiungere un connubio perfetto tra “quello che c’è sopra e quello che c’è sotto”. L’impasto è croccante, l’uso della farina Petra 3 di Molino Quaglia lascia in bocca il gusto ruvido del germe di grano e della crusca, una sensazione semi-selvatica che ricorda i maiali utilizzati per il prosciutto stagionato cinque anni (e allevati in semi-libertà) del condimento.
Una punta di amarognolo e una di dolce con una salsa barbecue emiliana creano l’equilibrio di un gran piatto stellato. Beniamino Bilali, del Berberè di Castel Maggiore, Bologna, ha dichiarato di aver avuto un impatto magico con la pizza. Da lì sono iniziati la sua ricerca e la sua crescita professionale: partito dalle fondamenta della pizza, acqua e farina, ha puntato sulla formazione tecnica arrivando all’idrolisi dell’amido, processo con cui realizza la salsiccia e cipolle. «Dopo aver creato la base, abbiamo pensato di prendere la salsiccia della nostra zona e la cipolla. La pizza è stata stesa in maniera tradizionale e semplice, come facevo io 13 anni fa quando ho iniziato a lavorare in pizzeria». Come omaggio ad Aimo Moroni, storico signore della ristorazione milanese, una girandola di remake d’autore. Per primo, Massimiliano Alajmo ha elaborato spaghettini di mozzarella conditi con cipollotto cotto sottovuoto a 102°C per un’ora, più una salsa di datterini frullati interi per sfruttare la pectina del seme e valorizzare la rusticità della testura. Corrado Assenza ha voluto recuperare l’origine siciliana dei Moroni, “i più grandi cuochi siciliani”, facendo spirare il vento iodato delle cozze appena aperte sul piatto. Per finire Alessandro Negrini e Fabio Pisani, giovani cuochi della casa, hanno
Massimo Bottura è tra i premiati dell’ottava edizione del congresso milanese: la sua faraona gli è valsa il premio per il Piatto dell’Anno Grana Padano.
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presentato la ricetta originale: un classicissimo dell’arte povera, capace di entrare nella storia con cipollotti, peperoncino, alloro e pomodorini del Piennolo. Gaston Acurio, leader maximo della nuova cucina latinoamericana ha portato a Milano le ricette del ceviche perfetto, che contemplano branzino, peperoncino, aglio, asparago crudo e lime. Scampi e frutta, con la zampata di un latte di tigre al corallo e alla capasanta. E ancora, cozze e calamari in una selvaggia crema di ricci. Oppure, in versione calda, sgombro, mele, pere, radicchio, ravanelli, patate dolci e succo di mandarino. Al termine dell’intervento, Sara Peirone, responsabile top gastronomy di Lavazza, ha premiato Gianluca Fusto, pasticcere dell’anno 2012. Un derby in pareggio quello della magnifica coppia Mauro Uliassi e Moreno Cedroni: «Ecco a voi le nostre comuni radici che sfociano in diverse interpretazioni, utilizzando gli stessi ingredienti». Il primo match ha visto Uliassi presentare una seppia manipolata al minimo: le viscere rimangono, via solo loro la sabbia, giù di griglia e salsa a base di fegato della stessa seppia, granita di ricci marini, carbone al nero e bouquet di erbe aromatiche, che arricchisce di clorofilla e note vegetali. Cedroni ha risposto con un piatto classico, seppie coi piselli e l’uovo. Pari. Secondo match, terreno di gioco le canocchie. Uliassi le ha pensate tradizionali, olio-limone-prezzemolo, modernizzandole cotte con acqua di vongole, estraendo dai carapaci il succo e facendoci anche il brodo, poi maionese alla canocchia, cubi di bianco di cedro, salsa di prezzemolo. Cedroni la chiama pannocchia, ma sempre di canocchia si tratta, sfumata al cognac, poi servita con salsa di carciofi, patata dolce, carciofi croccanti e ravioli al vapore. Last but not least la selvaggina. Uliassi ha proposto l’alzavola, un piccolo anatroccolo che vive nelle foci del fiumi e si ciba di alghe e sementi. La serve con alghe e sementi (papavero, zucca, lino, girasole) tostate, tocco finale di trito d’ostrica su civet dell’alzavola stessa e olio di perilla, un’erba che regala l’indispensabile
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Pasta warriors. Davide Scabin all’opera. Lo chef del Combal.Zero di Rivoli non smette mai di cercare sempre nuove forme e nuovi usi per la pasta. nota vegetale. Risponde Cedroni: baccalà in olio, cottura su letto di lepre cruda (ragù, verdure) ricoperto di una salsa di lepre cotta. C’è persino il sangue del povero animale, in realtà una riduzione di ribes e un brodo leggero di lampone. Lorenzo Cogo ha aperto la giornata dedicata al gruppo cuochi non ancora trentenni. L’Acquario è un piatto giocoso che viene servito come snack nel suo ristorante El Coq. In un vasetto di vetro Cogo racchiude le culture che ha conosciuto per il mondo: granita di dashi, preparata congelando il brodo di alga kombu aromatizzato al katsuobushi (tonnetto giapponese in scaglia), asparago di mare e cozze e fettine sottili di kumquat e fumo di legno di faggio. Dal palco della Sala Blu, Daniel Berlin ha spiegato la sua ricetta, merluzzo con rafano freddo, mele e cetriolo marinato. Anche se cotta (la temperatura di cottura non supera mai i 32°C), la carne sembra cruda, mentre le mele sono conservate sottovuoto nel loro succo naturale. Per completare il piatto aggiunge fettine di cetriolo in una salamoia di aceto svedese fatto con zucchero, yogurt e miele, anche questo rigorosamente locale. Enrico Panero: il crudo di palamita, trenette e acciughe, è la prima ricetta proposta. C’è il ricordo del
Giappone in un piatto che è tutto ligure, rassicura nella sua presentazione e stupisce piacevolmente per l’abbinamento della pasta calda sul pesce crudo. La pasta, profumata da limone verde nell’impasto, fresca e aromatica, dialoga con il sugo di acciughe e mostra con naturalezza la grande versatilità del pesce azzurro. Con la seconda ricetta Enrico ricorda la sua infanzia adagiando una triglia su suolo piemontese con una crema di topinambur: una fetta di foie gras appena scottato esalta il gusto tutto mediterraneo della triglia farcita di pomodorini, pinoli, basilico e scorza di limone. Il pesce è racchiuso in due croccanti cialde di “marinara”, una focaccia tipica ligure. «Il cibo è una filosofia messa in pratica»: così Pietro Leemann ha aperto Identità Naturali. “O mio caro pianeta”, il primo dei tre piatti presentati, è un semiglobo terrestre di verza croccante che racchiude una torre di rondelle di coste fritte e terrina di verdure: addensate con agar agar, sono messe in torcione, tagliate, passate nella farina di riso e “scaloppate” come fosse foie gras, ricreando la stessa consistenza del prodotto a più alto tasso di goduria e crudeltà, ovviamente bandito dal Joia. Il secondo piatto, “Paesaggio Interiore”, è una rielaborazione dei
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Bruno Pessot, AD di Jolanda de Colò, marchio artigiano friulano che nasce nel 1976. Oggi è una moderna azienda produttrice di specialità alimentari per l’alta ristorazione e la gastronomia e distributrice di marchi prestigiosi italiani e internazionali. pizzoccheri valtellinesi secondo l’insegnamento orientale, mentre il terzo piatto, “Relazione Privilegiata”, inscena il rapporto dello chef con la natura nella preparazione di pane chapati cotto su pietre roventi e nelle verdure — carciofi e cavolo nero — fatte cuocere in forno tra due tavolette d’argilla, il tutto finito con una “salsa bernese” all’arancia senza uova, ricotta di capra e un pesto di radicchio e olive. Simone Salvini dell’Accademia di alta cucina naturale e vegetariana è voluto andare alla base della cucina vegana, tenendo come filo conduttore il seme: «Da lì nasce tutto». Lo chef si è concentrato sulle origini, cercando di spiegare come fare a casa alimenti quali il seitan e il tofu secondo tecniche semplici, ma che necessitano di passione e di pazienza. Benessere, filosofia e cultura: tutto racchiuso nel risotto alla zucca gialla preparato da Salvini con “burro vegano”. «Burro che in realtà è realizzato con le mandorle tritate e i semi di zucca». Pietro Zito, pugliese, anche qui, come nel suo Antichi Sapori di Montegrosso di Andria, vuole anche riproporre “i profumi di un tempo,
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quelli di un buon basilico o di un buon carciofo”. E portarli a tavola senza contaminazioni, “per emozionare e trasferire tutto il prodotto al tavolo”. La sua ricetta è una rivisitazione della classica tiella pugliese, piatto che prende il nome dal recipiente in terracotta in cui si possono cuocere carni o verdure. La ripropone con olio di Coratina, mollica arringanata (pane raffermo a lievitazione naturale, aglio, prezzemolo e pecorino canestrato), patate affettate sottili, pepe, carciofi, grano decorticato, pomodorini a filo, sponsali (particolari cipolle) tagliati a julienne, sale grosso marino, di nuovo patate a sigillare il piatto e aiutare la cottura. Alex Atala ha proposto un piatto filantropico pro-indios, enunciato pratico della filosofia dello chef, secondo il quale la sua tavola dev’essere d’aiuto alla cucina popolare: un pescato “fuori commercio”, fornito da piccoli pescatori e servito con lamelle di cuore di pupunha, una varietà di palma amazzonica che regala in bocca sensazioni neutre, poi ghiaccio di rapanello, sale piccante ottenuto dalle alghe e banana liofilizzata per fornire una nota dolce finale. Roberta Sudbrack, chef dell’eponimo ristorante al Jardim Botanico di Rio de Janeiro, si è fatta ambasciatrice dell’ocra (o quiabo), in italiano più conosciuta come gombo, che viene
affumicata, prende il sapore del forno a legna, diventa un filetto e viene riempita con il gamberone, poi viene servita nel piatto insieme al “finto” caviale, con un filo d’olio d’oliva e un mix di pepe. Rodrigo Oliveira, 31 anni, del Seu Jose’s Bar di San Paolo, ha preparato il mocofava con torresmos especiais, piatto signature della casa, una versione del mocotó (coda di bue in portoghese) con le fave e i “ciccioli” di maiale, servita con una spolverata di coriandolo. Come secondo piatto, un omaggio alla città Pirangi e al suo frutto più famoso, l’anacardo. Jordi Vilà di Alkimia ha riproposto le logiche della nuova cucina barcellonese di territorio in un piatto ormai classico del locale, mari e monti di ostrica e musetto di maiale. Per Andrea Berton e Gianluca Fusto, insalata mista liquida e la pasticceria entra in cucina: l’insalata (salicornia, glacialis e foglie d’ostrica) viene resa liquida frullandola e apportando una componente zuccherina; l’oliva, in pâté, si lega in una crema al cioccolato, con po’ di sale a regalare note iodate. Poi la parte croccante: il topinambur, o meglio la sua corteccia, che viene cotta, essiccata e infine fritta. Si conclude col condimento: limone d’Amalfi prima addolcito con lo sciroppo, quindi gelificato e montato come una mousse.
Lo stand del Grana Padano. «Identità Golose è sinonimo di eccellenza e dove c’è eccellenza non può mancare Grana Padano» ha dichiarato Nicola Cesare Baldrighi, presidente del Consorzio Tutela Grana Padano.
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Sergio Humada, figlio d’arte della cucina spagnola, ha preparato un piccolo aperitivo, ovvero una crema fredda di formaggio Idiazabal, sorbetto di pomodori affumicati, insalata di germogli e pane di segale. Tradizione basca e attualità catalana si trovano nel confit di baccalà “Pil Pil”, un piatto tipico basco rivisitato con passione e tecnica dalla mano sicura. Stevie Parle è l’enfant prodige del The Dock Kitchen. Con la prima ricetta si vola in Sri Lanka e si impara l’arte degli string hopper, sorta di pancake preparati con noodles di riso pressati con una specie di schiacciapatate in foglie di bambù. Questi servono di accompagnamento al dahl, la tipica purea di lenticchie condita con 7 spezie tostate e pestate. Dall’Oriente all’Occidente, si passa agli “gnudi verdi all’olio d’oliva toscano”. Una sala con tante bolle profumate. Per giocare e stupire con tutti i sensi. Franco Aliberti si è presentato con tanta allegria e con l’entusiasmo tipico dei suoi vent’anni. «Abbiamo creato una soluzione naturale: in natura, infatti, esiste una pianta che cresce in India e Nepal e che produce noci, dette “saponarie”, perché hanno enzima sul guscio, la saponina appunto, che riesce a produrre sapone. Questa soluzione, che ci permette di fare le bolle, è aromatizzata al cardamomo». Così la sala si è riempita di profumo, grazie all’esplosione delle bolle. Il tutto per realizzare un dolce classico, la zuppa inglese. La semplicità di volere portare in tavola i sapori della terra madre. Così è Felice Sgarra da Andria, ristorante Umami, che ha chiuso la giornata dedicata a quelle Identità Vent’Anni che diventeranno i protagonisti della cucina italiana di domani. Il piatto, spaghettoni di taralli con pomodorino di Torre Guaceto su pesto di cristauri e caciocavallo podolico, «è una sorta di bandiera italiana, dove cerco di avere il massimo rispetto per le materie prime». Enrico Crippa ha proposto tre ricette vegetali: la prima, le “insalate cotte”, innesca giochi cromatici e gustativi che sono concentrati di sapore. Le insalate (radicchio, scarole e altro) della serra di Piazza Duomo vengono cotte sottovuoto e insaporite
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con l’aggiunta di diversi “aromi”: dai peperoni di Senise alle “acciughe e olive” di memoria campana, all’olio di vinaccioli e olive taggiasche. Sistemate nel piatto a mo’ di tavolozza, vengono impreziosite con polveri colorate (sempre di origine naturale, dal riso Venere essiccato all’alga Nori) e con gli “oli essenziali” di cottura, per non perdere un briciolo di sapore. Rape e salsiccia è un omaggio al territorio langarolo, dove la rapa è quella di Cervere e la salsiccia di Bra prende la forma di una polpetta. Il piatto però è solo apparentemente semplice. Le polpette sono ricoperte di gelatina di rapa — cotta fino a ottenerne una sorta di tè, poi addensato — addizionate di cubetti di foie gras, tartufo nero, dadi e petali di rapa, erbette piccanti e germogli di rapa. In finitura l’olio di nocciole. A seguire, la tinca “in carpione”, che interpreta l’attualissimo tema “Oltre il mercato”, visto che la sua disponibilità dipende dai capricci della natura. I colori della livrea vengono riprodotti sul fondo del piatto con spruzzi di zafferano e nero di seppia. Peeter Pihel dalla Scandinavia ci ha portato il crosne, un tubero detto “carciofo cinese” dal gusto simile al topinambur. Adagiato su un letto di vegetali e avvolto nella rete di maiale, è stato cotto nell’argilla come lo stufato di selvaggina che il padre gli propinava da bambino, per poi essere servito su rami di faggio con l’aggiunta di salumi di produzione propria. Christian Puglisi, giovane chef nato in Sicilia e cresciuto in Danimarca, in scena dal 2010 al Relae di Copenhagen, ci ha portato i ravanelli coltivati con caparbietà dai contadini danesi tutto l’anno: cotti “al dente” e poi ricoperti da una soffice mousse a base di yogurt e da foglie di nasturzio, richiamano il carattere piccante dei ravanelli e quello agro della mousse. Sempre seguendo il principio guida degli ingredienti poveri, dal cavolo navone, una grossa rapa, ha ottenuto lunghe e sottilissime “pappardelle”, sbollentate in acqua e burro per dare la grassezza che manca; ha condito infine con un’emulsione di olio, limone e uova di pesce lievemente affumicate, una maionese fusion.
Il culatello e gli altri salumi dell’Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense. Per ultimo sale, origano e una salsa a base di maiale. A concludere la giornata delle Identità naturali, Cesare Battisti e Alice Delcourt. Dalle mani di Cesare Battisti, del Ratanà, è uscita una sinfonia di tuberi di stagione, perché i frutti del momento sono anche ciò di cui ha bisogno il nostro corpo nei diversi microclimi. Dalla pastinaca alla scorzonera, dal topinambur alla radice di prezzemolo, bolliti e passati con il passaverdura della nonna, per valorizzare rusticità e personalità degli ingredienti, vengono mescolati con altre radici affettate e spadellate, per esaltare il piatto con una testura croccante. A seguire una ex collaboratrice di Battisti, l’americana Alice Delcourt, che un anno fa ha aperto la sua Erba Brusca, ristorantino forte di un orto che è un tripudio di frutta e verdura, impiantato con terra fresca nel cuore di Milano, proprio sopra una fonte di acqua sorgiva. Emblema del suo naturalismo una tarte tatin con la pasta brisée a base di Parmigiano anziché zucchero e una guarnizione di barbabietole, zucca, cipolle e topinambur, opportunamente caramellata e rovesciata. Più una crema di rafano e yogurt greco in finitura per mitigare la dolcezza. Laura Franchini
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Operatori professionali in crescita a MarcabyBolognaFiere edizione 2012
I prodotti made in Italy sempre più attraenti per i mercati esteri Si è conclusa con successo MarcabyBolognaFiere, la manifestazione che, in sole otto edizioni, si è accreditata come la più importante piattaforma di incontro per il mondo della marca del distributore. Tutti di segno positivo gli indicatori della manifestazione: oltre 5.500 gli operatori professionali presenti con un +2,14% rispetto al 2011; significativa anche la presenza degli operatori esteri che ha registrato un +3,18% rispetto alla passata edizione. Decisamente dinamica l’attività nei due giorni di manifestazione con stand affollati, grande interesse per i convegni in programma e delegazioni estere impegnate in un susseguirsi di incontri commerciali. MarcabyBolognaFiere ha dimostrato la sua strategicità “a supporto” dell’attività della rete di PMI che rappresentano un’importante quota dell’imprenditorialità italiana, caratterizzandola (anche su scala internazionale), per innovazione e ricerca. Le stesse PMI che trovano nel rapporto con la GDO un’insostituibile occasione di business. I risultati conseguiti dall’evento — organizzato da BolognaFiere, con il patrocinio di ADM-Associazione Distribuzione Moderna e in collaborazione con le più prestigiose insegne della GDO/DO — evidenziano il ruolo di “motore di crescita per l’economia” delle manifestazioni fieristiche, non solo vetrine espositive, ma luoghi di incontri d'affari davvero utili per le imprese, alle quali offrono strumenti aggiuntivi per accrescere la loro competitività. La manifestazione si è aperta con il grande convegno inaugurale “Crisi economica e dei consumi: la distribuzione moderna e la marca commerciale come opportunità per il consumatore e motore di crescita per l'economia” che ha evidenziato, da un lato, il ruolo della marca del distributore per le strategie di sviluppo le PMI e, dall’altro, l’importanza dei prodotti a marchio del distributore per il consumatore, come dimostrato anche dalla crescita delle vendite dei prodotti a marca del distributore (rispettivamente +18% negli ultimi quattro anni e +7% nell'ultimo anno). La presentazione del “Rapporto annuale sulla marca commerciale” ha invece aperto il secondo giorno di manifestazione. Il Rapporto ha rilevato come le famiglie italiane che privilegiano la marca commerciale siano prevalentemente concentrate nelle regioni del Nord-Est del Paese, dove la spesa annuale è pari ai 409 euro, contro una media nazionale di 310. Dall’elaborato è emerso anche che i prodotti a marca del distributore acquisiscono, in Italia, sempre maggiori quote di mercato, anche se la situazione nazionale è ben lontana dalla realtà del Nord Europa (in Svizzera e in Gran Bretagna, ad esempio, le private label rappresentano il 40% delle vendite totali delle grandi catene di distribuzione). Si può pertanto prevedere che le quote di mercato nazionali possano, nei prossimi anni, registrare un ulteriore trend di crescita, assicurando un forte dinamismo al rapporto distribuzionecopacker, assicurando alle industrie italiane ottime opportunità di business. MarcabyBolognaFiere 2012 ha dato, inoltre, grande risalto ai prodotti ortofrutticoli freschi “convenience”, ovvero tutte le preparazioni ad alto valore aggiunto e ad alto contenuto di servizio per il consumatore; una categoria merceologica importante per quota di mercato, in cui il fattore “innovazione” rappresenta un elemento di forte strategicità. L’iniziativa si è completata con seminari specialistici di approfondimento che hanno messo a confronto autorevoli esperti internazionali e che hanno registrato grande successo in termini di partecipazione. In alto: il salumificio Menotti di Colosimi (CS). In basso: lo stand del salumificio San Vincenzo di Spezzano Piccolo (CS). >> Link: www.marca.bolognafiere.it
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Formaggio
Parigi e le sue fromageries Nella sola capitale francese e nel suo circondario esistono circa 800 negozi di rivendita di formaggio. Un viaggio alla scoperta delle caves e dei protagonisti del prodotto lattiero-caseario a Paris di Raffaele Bertolini
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onostante il clima davvero improbo di gennaio, la mia breve visita alle crémeries parigine è stata molto fruttuosa. Il motivo del viaggio era la curiosità di approfondire la conoscenza delle tecniche di taglio e presentazione dei formaggi per la creazione di ciò che chiamano assiette o plateau. Sono composizioni miste di formaggi, marmellate più spesso che mostarde, frutta secca ed elementi decorativi, che molti locali di vendita preparano per i loro clienti. La loro particolarità è il dinamismo che si riesce a creare con la disposizione dei vari pezzetti e il cromatismo dato dalle paste, dalle croste e dall’uso sapiente di aromi o
spezie per affinare qualche caprino o vaccino molto fresco. Fortunatamente la metro ti può portare ovunque, per cui riesco a visitare vari punti vendita senza troppa difficoltà. Innanzitutto la cosa che mi colpisce delle fromageries francesi è l’assenza di barriere — a volte confortanti — tra interno ed esterno del negozio: spesso il banco-frigo si estende su un plateatico esterno con un segmento ricurvo che va a integrarsi nella struttura architettonica della boutique. Altre volte la struttura è più classica e presenta un accesso ben delimitato. L’interno è raffinato, con oggetti di decoro appartenenti al mondo
agricolo e nello specifico a quello lattiero-caseario: spesso al banco-frigo si sostituisce un murale refrigerato, che annulla la distanza tra il cliente e il prodotto, e lo spazio di lavoro dell’addetto si riduce a un tagliere. C’è inoltre da sottolineare che i francesi sono molto precisi nel taglio del formaggio, e per questo si servono più spesso di un attrezzo costituito da un filo d’acciaio terminante con due bastoncini di legno o plastica alle estremità, piuttosto che della lama del coltello, che considerano alquanto rozza. Ma la vera scoperta la si fa accedendo alle “segrete” del negozio, vale a dire ai locali di maturazione e
Un ricco e variegato plateau des fromages.
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Eric Lefèbvre. affinamento, presenti in buona parte dei negozi: in alcuni casi, come in un locale del centro della capitale dove ogni spazio è ridotto, si accede alla cave sotterranea aprendo due basse ante del mobile-frigo, oltre le quali ci aspetta una scala ripida e scricchiolante. Solitamente il negoziante ha a disposizione due o tre locali refrigerati, differenti per temperatura e umidità, in modo da poter custodire diverse tipologie di prodotto, dalle paste semicotte a lunga maturazione ai caprini freschi o ai vaccini affinati alla grappa o al vino. Anche l’affinamento viene in certi casi portato avanti sul posto: che si tratti di caprini freschi all’erba cipollina, alle spezie, o di un Epoisses de Bourgogne affinato al Marc de Bourgogne, o di un Fourme d’Ambert affinato al Sauternes, la perizia della lavorazione è qualificante. La presenza della cave permette non solo di avere uno stock di prodotto notevole mantenuto in condizioni ottimali, ma anche di eseguire un affinage personalizzato, ossia di calibrare l’affinamento di un prodotto anche in base alle richieste del singolo cliente. C’è chi, infatti, predilige formaggi ancora giovani e chi, invece, si esalta addentando forme dal carattere più pronunciato. Che i Francesi in genere e i parigini nella fattispecie abbiano un approc-
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cio al prodotto lattiero-caseario più soddisfacente rispetto ai noi Italiani è risaputo; tant’è vero che nel circondario di Parigi e nella capitale stessa esistono circa 800 negozi di rivendita di solo formaggio. I clienti solitamente hanno le idee ben chiare su ciò che cercano e non perché la scelta sia esigua, anzi, i prodotti presenti sugli scaffali dei negozi parigini coprono geograficamente tutte le regioni francesi: dai vaccini della Normandia e della Piccardia ai caprini del Centro e dell’Auvergne fino alle regioni meridionali della Franca Contea e della Savoia con i loro cru d’alpeggio, senza trascurare i Pirenei e l’Aquitania. I clienti francesi evidentemente hanno un rapporto col prodotto più spontaneo e più intimo rispetto al cliente italiano. Secondo la mia esperienza il cliente italiano si trova spesso in difficoltà di fronte a un banco ben fornito, e solitamente lascia decidere l’occhio più che la mente; è vero, d’altro canto, che in Francia i prodotti in vendita sono per la quasi totalità francesi, mentre in Italia siamo più internazionalisti, per cui la scelta si presenta senza dubbio più ardua. Un’abilità riscontrata e particolare della cultura francese è la compo-
sizione dei taglieri da asporto: si sa che un’attività alimentare, al giorno d’oggi, fa fatica a sopravvivere con la sola vendita, per cui tutto ciò che può portare introiti è ben accolto; ma a volte l’abilità secondaria diventa molto più di un mero supporto, diventa l’attività stessa. Insigniti del titolo di Meilleur Ouvrier du France (MOF), vale a dire Miglior Operaio di Francia (ma la traduzione non rende merito alla qualifica e alle competenze richieste), ottenuto dopo aver vinto l’omonimo concorso che prevede prove pratiche di taglio, porzionatura scenografica del formaggio, e teoriche, relative alla conoscenza delle caratteristiche tecnologiche del prodotto, questi esperti del formaggio danno lustro alla loro attività di vendita componendo su misura taglieri da asporto molto coreografici, avvalendosi delle tecniche di taglio che gli hanno avvalso il titolo di MOF. Nello specifico si utilizza il filo di acciaio per far porzionature curve, si fanno incisioni sulla crosta del formaggio con motivi floreali, si tagliano a dadini formaggi a pasta dura come il Comté o il Mimolette (si prediligono infatti i formaggi con colorazione della pasta per aumentare l’effetto cromatico) e li si avvolge nel cellophane per farne caramelle, si fanno costruzioni che ricordano le
Martine Dubois e parte dello staff.
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antiche piramidi utilizzando losanghe di Raclette o di Salers, mentre spesso il Tête de Moine entra in gioco per dare un tocco di classe finale. Un piacevole dettaglio è la presenza di topolini commestibili all’interno del tagliere, ricavati dalla pasta del Roquefort lavorata prima con la forchetta e poi col cucchiaio a quenelle, con l’aggiunta di due crosticine di fichi secchi per farne orecchie e di uno spaghetto cotto e fritto per farne la coda. Anche gli stampi da pasticcere tornano utili per realizzare figurine di mucche, omini, o bottoni di Brebis au Piment, Fourme d’Ambert o il Bleu de Bonneval. La bellezza di questi taglieri è davvero sorprendente, il gioco cromatico e il dinamismo creato dai diversi tipi di taglio e dalla disposizione dei pezzi li rendono una vera gioia per gli occhi. Raffaele Bertolini Nota Se la mia visita è risultata soddisfacente, lo devo alla cordialità e alla sapienza di maestri come ERIC LEFÈBVRE, MARTINE DUBOIS e il giovane NICOLAS ROVECCHIO. • Le radici della crémerie di ERIC LEFÈBVRE risalgono al 1931, quando Fernande e Henri Detournay iniziano un’attività di vendita dedicata solamente al formaggio
Nicolas Rovecchio. nella cittadina di Puteaux. Nel 1976 Christiane e Raymond Lefèbvre Detournay aprono il loro primo negozio a Parigi, in rue de la Roquette. Gli attuali titolari, Eric e la moglie Patricia, affiancano all’attività di vendita al dettaglio anche quella all’ingrosso verso il Giappone, l’Ungheria, la Germania e Hong-Kong; un’attività parallela è quella dell’organizzazione di eventi, come l’Eiffage del 1999 ripetuta poi nel 2003, dove sono
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I topolini ricavati dalla pasta del Roquefort.
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state servite ben 29.000 persone. Nel 2004 Eric Lefèbvre, dopo anni di preparazione teorica e pratica, visitando svariati produttori francesi, si è aggiudicato il titolo di Meilleur Ouvrier de France du métier de fromager. MARTINE DUBOIS, dal 1975 nel settore della vendita di tipicità lattiero-casearie francesi, prima affiancando il marito Alain Dubois e poi in solitario, è una donna amabile, cordiale e molto accogliente. Una delle figure di maggior spicco in termini di conoscenza, selezione e affinamento delle tipicità casearie francesi, gioca un ruolo fondamentale nella salvaguardia delle piccole produzioni di qualità, grazie al lavoro in sintonia con il mondo della produzione. Inoltre, ricopre la carica di giudice durante il concorso nazionale Lyr d’Or, che premia le migliori composizioni di formaggi in termini di estetica e anche di logica espositiva. NICOLAS ROVECCHIO è il giovane discendente di una famiglia di emigranti siciliani, che ha fatto fortuna nel settore caseario. Alla guida della sua boutique a due passi dal Moulin Rouge Nicolas si è distinto nell’ambiente per una sua partecipazione all’ultima edizione del MOF qualificandosi tra i primi posti.
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Vino
Prima del Torcolato 2012, evento dolce e caldo nell’inverno freddo e scuro
Il brindisi più dolce di Laura Franchini
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l periodo storico che stiamo vivendo non è certo dei migliori. La crisi miete vittime e abbassa il morale, anche se le eccellenze continuano a tenere. Ci consola pensare che il made in Italy, nelle sue migliori rappresentazioni, continua a riscuotere successi e a rappresentare al meglio il nostro Paese nel
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mondo. Il Torcolato, portabandiera dell’enologia italiana all’estero, è certamente una di queste eccellenze e ogni anno, per la Prima del Torcolato, ce lo ricorda. La manifestazione, svoltasi il 15 gennaio scorso, ha visto, oltre alla tradizionale spremitura in piazza dei migliori grappoli di Vespaiola
passita, l’uva utilizzata per produrre il Torcolato, anche l’investitura di due nuovi fragliati: Anna Maria Fiengo ed Emmanuele Cattelan, notaio e imprenditore entrambi di Thiene. Il Torcolato della vendemmia 2011 è stato così spremuto dopo i canonici tre mesi di appassimento e potrà essere messo in commercio dal 31 dicembre
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2013. È negli anni che passano tra la raccolta dell’uva e il prodotto finito che il vino viene “tirato a lucido” nelle cantine breganzesi, acquisendo il raffinato bouquet e maturando l’inimitabile corredo sensoriale, per regalarli al fortunato degustatore, così da conquistarsi sul campo l’appellativo di “Oro di Breganze”. Premiata da una bella giornata di sole, la festa della prima spremitura ha riscosso anche più consensi del solito: sia gli esperti degustatori che i semplici appassionati hanno apprezzato molto la possibilità di fare un “tour” per le cantine dell’area a denominazione d’origine controllata, aperte anche al mattino. La festa del grande passito della Pedemontana breganzese, tanto famoso per quel suo gusto “dolce non dolce” dai caratteristici aromi e riflessi dorati, è stata organizzata dalla STRADA DEL TORCOLATO, dal CONSORZIO DI TUTELA VINI DOC BREGANZE e dalla MAGNIFICA FRAGLIA DEL TORCOLATO. La manifestazione, con il trascorrere delle ore, è andata in crescendo, raggiungendo il momento più intenso al pomeriggio con la cerimonia della spremitura, quando tutti si sono stretti sotto il palco, pronti con il bicchiere in mano per assaggiare il primo mosto di Torcolato. Per pigiare le uve è stato utilizzato un antico torchio contadino, collocato al centro della piazza e circondato, oltre che dalla folla ansiosa di degustare il Torcolato 2012, dalla confraternita della Magnifica Fraglia del Torcolato con i costumi tipici che la contraddistingue. A fare gli onori di casa hanno pensato il sindaco di Breganze Silvia Covolo e il presidente dell’associazione “Pedemontana. Vi” Nazzareno Leonardi. Soddisfatto anche Fausto Maculan, presidente della Strada del Torcolato: «Durante la Prima del Torcolato, nelle cantine, in piazza, negli stand gastronomici, nei bar e nei ristoranti è stata consumata una quantità di Torcolato pari a circa 20.000 bicchieri. Il diciassettesimo compleanno del nostro vino dolce DOC non poteva avere un brindisi più grande. A nome di tutti i produttori ho il piacere di dare già a tutti appuntamento alla festa per i 18 anni di
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In alto: preparazione alla spremitura. In basso: Luca Rigoni, direttore di TgCom24, Ambasciatore del Torcolato nel mondo 2012, con i nuovi fragliati Anna Maria Fiengo ed Emmanuele Cattelan (foto Alpe Comunicazione). questa nostra DOC, la terza domenica di gennaio del 2013». Durante la manifestazione si è svolta la premiazione del concorso “Realizza l’etichetta della Prima del Torcolato”: quest’anno la vincitrice è stata Mara Capitanio di Sarcedo con l’etichetta “InTorcolato”. Sono state inoltre battute all’asta le bottiglie del Torcolato di due anni fa: un’iniziativa a fini benefici, il cui incasso verrà destinato all’associazione SANKALPA ONLUS di padre Ireneo Foscarini, che lo impiegherà per acquistare un nuovo veicolo. Infine, un nuovo nome è andato ad arricchire il parterre de rois degli “Ambasciatori del Torcolato” nel mondo: a personalità di spicco come
Paolo Scaroni, Gian Antonio Stella e Filippo Pozzato, solo per citarne alcune, si è aggiunto Luca Rigoni, direttore di TgCom24. Il giornalista, originario dell’area di Asiago, ha anche ricevuto il premio che correda ogni nomina: una cassetta di bottiglie di Torcolato della DOC di Breganze. Un regalo molto invidiato: non ci resta che comprarlo, questo meraviglioso nettare dorato, perché senza, davvero, la vita è meno dolce. Laura Franchini Note A pagina 106 la Vespaiola appesa fa da magnifica cornice al palco della “Prima del Torcolato” (foto Alpe Comunicazione).
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Il vino dei Marchesi di Grésy Tra le Langhe e il Monferrato, l’azienda Le Tenute Cisa Asinari è una delle realtà enologiche più importanti del Piemonte. Fiori all'occhiello dell’azienda guidata da Alberto Cisa Asinari di Grésy, il Martinenga Barbaresco DOCG, il Camp Gros Martinenga Barbaresco DOCG e il Gaiun Martinenga Barbaresco DOCG di Massimiliano Rella
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ini di tradizione e forte identità territoriale. Potremmo riassumere in questi due semplici concetti la storia delle Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Grésy, una delle realtà enologiche più importanti del Piemonte. Di proprietà della nobile famiglia dal 1797, quando furono aggiunte ai pos-
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sedimenti di Monte Aribaldo, a Treiso (che era stata acquisita già nel 1635), oggi le terre sono distribuite tra Langhe e Monferrato. La parte di vigneto copre un totale di 24 ettari, tra poderi distinti, tra le province di Cuneo e Asti: Monte Aribaldo, La Serra, Monte Colombo e Martinenga, quest’ultimo uno dei cru del Barbaresco, dove
hanno sede le cantine di produzione e affinamento. Tra i vitigni coltivati troviamo i classici piemontesi, Nebbiolo, Barbera, Dolcetto, Moscato, insieme ad alcune varietà internazionali, come Cabernet, Chardonnay, Sauvignon, Sauvignon blanc e Merlot. Oggi l’azienda è guidata da Alberto Cisa Asinari di Grésy, che si alterna
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Alberto Cisa Asinari di Grésy, nelle cantine Martinenga, a Barbaresco. tra il lavoro in cantina, la famiglia a Milano e numerosi viaggi all’estero per promuovere direttamente i suoi vini tra distributori e buyer. La produzione di vino è un fatto relativamente recente rispetto alla lunga storia di questa famiglia: iniziò infatti al servizio di una cooperativa che produsse il primo cru soltanto nel 1967. Ma nel 1973 i di Grésy decisero di produrre in proprio, vinificando le uve fino ad allora vendute a terzi. Una scelta che ha contribuito a valorizzare fortemente il cru Martinenga, oggi l’unica menzione geografica del Barbaresco che può essere citata in etichetta da una sola azienda, le Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Grésy, poiché ricade per intero nella loro proprietà. Dal cru Martinenga la cantina ha selezionato tre Barbaresco DOCG, che hanno in comune finezza, eleganza e complessità di aromi, pur con le caratteristiche specifiche dovute a vinificazione e affinamento. Il Martinenga, ad esempio, fa un breve passaggio in barrique con successivo affinamento in botti di rovere di Slavonia per 12 mesi e in bottiglia per 12
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mesi. Il Gaiun fa 30 mesi di barrique di rovere francese e affinamento in bottiglia per altri 15 mesi. Mentre il Camp Gros, dopo un breve passaggio in barrique, è affinato in botti di rovere di Slavonia per 24 mesi e in bottiglia per altri 15. La cantina propone in tutto 16 etichette: vini bianchi e rossi, che distingue in quotidiani e strutturati, da dessert e grappe. Oltre ai tre cru di Barbaresco, tra gli altri rossi troviamo quelli “quotidiani”, più facili da bere e da abbinare, ma fatti sempre con cura e qualità. Sono il Monte Aribaldo Dolcetto d’Alba DOC, da uve Dolcetto in purezza, il Martinenga Langhe DOC Nebbiolo, da uve Nebbiolo, e il Barbera d’Asti DOCG, da Barbera in purezza. Tra i quattro rossi “strutturati” troviamo invece il Monte Colombo Barbera d’Asti e il Villa Martis, dall’antico nome dell’anfiteatro naturale dove oggi sorge Martinenga — conosciuto fin da epoca romana — un vino raffinato ottenuto da un uvaggio di barbera e nebbiolo. E ancora il Merlot da Solo Monferrato DOC Rosso e il Virtus Langhe DOC
Rosso, ottenuto da uvaggio di Barbera e Cabernet Sauvignon. Ai bianchi sono dedicate quattro etichette: Chardonnay Langhe DOC, Sauvignon Langhe DOC, Bianco Grésy Chardonnay Langhe DOC, tutti da uve vinificate in purezza, e Villa Giulia Langhe DOC, ottenuto invece da un uvaggio di Chardonnay e Sauvignon blanc. Esprimono identità territoriale anche i due vini dolci prodotti con uve Moscato coltivate nella Tenuta La Serra, nel Monferrato. Sono il La Serra Moscato d’Asti DOCG e L’Altro Moscato Piemonte DOC Moscato Passito, quest’ultimo da uve surmature vendemmiate e poste in cassette ad appassire, fino allo stadio di marciume nobile. La fermentazione del mosto avviene in barrique di Allier per almeno 18 mesi. Arriviamo infine alla grappa. Dal 1982 le Tenute conferiscono le vinacce di Dolcetto, Nebbiolo, Moscato, Chardonnay e Sauvignon alla Distilleria Bricco Albano di Barbaresco per la distillazione. Sulla collina di Martinenga, a cinque minuti dal paese di Barbaresco, è situato il centro
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aziendale con le cantine, recentemente ampliate e dotate di impianti e tecnologia all’avanguardia. L’intera struttura, compresi gli uffici e le sale di degustazione, è alimentata da energia fotovoltaica, grazie a pannelli che ricoprono i tetti dei parcheggi, con il minor impatto visivo sulla bellezza del luogo. Ricoprono anche il porticato di accesso alla barricaia interrata, con una capacità annua di 54 Mkh. Il tetto della barricaia è coperto inoltre da una porzione del giardino aromatico, che con fiori, piante ed erbe contribuisce a mantenere l’equilibrio microclimatico della zona e a creare aree favorevoli per la sopravvivenza di insetti utili. Un altro progetto interessante è il Vigneto sperimentale, dove 11 cloni selezionati di Nebbiolo sono coltivati, monitorati e studiati da agronomi ed enologi per individuare le migliori condizioni di coltivazione della vite. Da qualche settimana le Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Grésy hanno un nuovo sito internet, con una grafica aggiornata e piacevole, belle immagini e tante informazioni sulla cantina, i vigneti, i vini, le visite e le degustazioni. Segno che dopo i
La cantina accoglie gli enoturisti, in gruppi di minimo 15 persone, massimo 50, per visite alle cantine e degustazioni, su prenotazione, con diverse formule (3 vini selezionati 15 € a persona, 4 vini 20 €, sempre incluso un Barbaresco).
La Martinenga, tenuta Cisa Asinari dei Marchesi di Grésy. >> Link: www.marchesidigresy.com
successi ottenuti in questi anni sulla qualità ora la cantina intende comunicare di più e più efficacemente con i consumatori, valorizzando anche il turismo e l’accoglienza. Massimiliano Rella
Note A pagina 108 i vigneti dell’azienda Le Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Grésy a Barbaresco, in provincia di Cuneo; fotografie di Massimiliano Rella.
La cantina Albea sale sul podio a SensOFWine Grande successo per l’edizione 2012 di SensOFwine, l'evento di degustazione di vini e gastronomia ideato da Luca Maroni, svoltosi a Roma a fine gennaio. Tante le novità che hanno caratterizzato questa settima edizione che ha visto protagoniste oltre 300 aziende vitivinicole, distribuite su 3.000 metri quadri, dove è stato possibile degustare oltre 1000 vini d’eccellenza accuratamente selezionati dal noto critico. Per la Puglia solo tre sono state le cantine che hanno raggiunto il podio e tra queste si colloca la cantina Albea con il LUI 2009. Una lieta conferma anche per quest’annata con punteggio di 96/100, che con il premio come secondo vino migliore d’Italia ribadisce che la strada iniziata dal Cavalier Dante Renzini insieme ai suoi tecnici Riccardo Cotarella e Claudio Sisto sui vitigni storici di Puglia è quella giusta. LUI Igt Puglia Rosso L’uva e il vigneto: l’uva di Troia è uno dei vitigni più antichi e caratteristici della Puglia centrosettentrionale. Potrebbe essere originario dell’Asia minore, giunto in Puglia durante la colonizzazione ellenica, oppure il suo nome potrebbe derivare dal centro pugliese in provincia di Foggia. La vinificazione: le uve appena conferite sono diraspate, pigiate e, dopo l’inoculo con lieviti selezionati, fermentate a basse temperature (22ºC). Il mosto a contatto con il cappello subisce una macerazione lunga con frequenti rimontaggi e délestage per la migliore estrazione del colore, ulteriormente accentuate dalla pratica del salasso che ne aumenta anche l’estratto. Il vino: di colore rosso rubino scuro, molto concentrato con sfumature purpuree, al naso è intenso e persistente di buon equilibrio tra note fruttate e speziate con piacevoli sentori di liquirizia e vaniglia, al palato e un vino morbido e corposo, fine ed equilibrato con un tannino elegante e maturo. Ottimo servito a 18°C con piatti saporiti e carni rosse alla brace.
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Aleatico e Vermentino a Capraia, da sogno a realtà
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a terra e la vite: ha preso corpo da un desiderio che ha basi concrete e affonda le radici nel passato dei propri antenati il sogno di Stefano Teofili di riportare la viticoltura sull’isola di Capraia, nei terreni di proprietà della famiglia trasferitasi qui da Genova sin dal 1600. Stefano è scomparso prematuramente nel dicembre di due anni fa ma è da questo suo sogno, nutrito sin da bambino, che nel 2000
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è nata l’Azienda Agricola biologica La Piana. Sulla bella e selvatica isola di origine vulcanica — con un cono di eruzione ancora oggi ben visibile per metà nella tipica Cala Rossa — che fa parte del Parco Nazionale Arcipelago Toscano, La Piana sorge nell’area denominata appunto “il Piano di S. Stefano”, luogo magico, dall’atmosfera sospesa, dove aromi suoni e colori prendono forma secondo gli antichi saperi della tradizione.
Lasciato il suo lavoro da fisioterapista, Stefano si trasferisce sull’isola nel 1999, iniziando quell’opera di attento e difficile restauro ambientale che tanto lavoro ha richiesto e restituendo al territorio, dopo un periodo d’incuria, la sua originaria bellezza. La proprietà era stata ereditata dal padre nel 1949, il quale, non potendosene occupare, l’aveva affittata alla colonia Penale Agricola. Nel 1986, con la dismissione della struttura
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carceraria, i terreni erano tornati ai proprietari, che si erano trovati di fronte al problema della gestione dei fondi e all’assenza di manodopera, i detenuti. Tante sono state le energie spese per arrivare ai bellissimi terrazzamenti di oggi: solo per ottenere i permessi per la rimessa a coltura di un territorio ricoperto dai rovi e dalla macchia — e rispetto al quale le autorità competenti non trovavano un accordo — sono trascorsi ben due anni. Sono stati poi necessari fondi privati e finanziamenti comunitari per far decollare il progetto. Finalmente, nel 2001, è stato realizzato l’impianto del vigneto di Aleatico (antico vitigno già presente in zona) da cui è nato Cristino, così chiamato in onore del padre di Stefano, un vino rosso passito da meditazione, piacevole e fruttato, dolce ma non stucchevole e dal grande impatto, adatto a dessert e a formaggi stagionati. Sempre da uvaggio 100% Aleatico viene oggi prodotto il Rosa della Piana IGP, un rosato fermo, dai sentori aromatici, adatto a pesce, crostacei, in particolare crudo e carpacci, e verdure. Due etichette, due grandi soddisfazioni e due grandi vittorie per la piccola realtà dell’azienda. Qualcuno
a proposito ha parlato di “viticoltura eroica”: perché vinificare queste uve non è stato e non è affatto facile, dal momento che l’azienda non dispone di una cantina, nonostante la richiesta sia stata fatta ormai da tempo. Così le uve, sistemate in cassette e caricate su camion frigoriferi, prendono il largo per Livorno e poi per l’isola d’Elba, dove Italo Sapere vinifica le uve e imbottiglia il vino de La Piana. Il coraggio, però, di certo qui non manca e ora una nuova etichetta è pronta ad aggiungersi alle due precedenti: si tratta del Vermentino Palmazio, degustabile in anteprima al Vinitaly 2012, all’interno del padiglione “Vivit-Vini,Vignaioli e Terroir”. Il vigneto viene coltivato in un ettaro di pendice terrazzata di straordinaria bellezza. È un vino in grado di esprimere al meglio le qualità del territorio, che deve il suo nome al significato etimologico della parola “palmento”, che definiva le antiche vasche in roccia dove le uve venivano pigiate. Ne sarebbe di certo orgoglioso Stefano, fantastico pioniere della viticoltura sull’isola. Note A pagina 112 le uve dell’Azienda Agricola La Piana.
I vini Cristino e Rosa della Piana.
La Piana S.S. Via Regina Margherita, 4 57032 Capraia Isola Telefono: 392 0592988 Web: www.lapianacapraia.it
Alois Lageder: un omaggio all’Alto Adige con la nuova selezione “Rarum” Degustare un vino dell’Alto Adige significa sperimentare un perfetto connubio tra terra e passione che racconta di uve coltivate secondo i principi del terroir e lavorate unendo abilità artigianale e tecnologia innovativa. In omaggio alla sua terra, la tenuta Alois Lageder presenta “Rarum”, una selezione di annate storiche rare, alcune delle quali vantano fino a quattro lustri di vita. La riserva “Rarum” offre un perfetto esempio di come l’Alto Adige sia in grado di produrre vini bianchi e rossi longevi, caratterizzati da un potenziale di maturazione e invecchiamento senza eguali. Il progetto “Rarum” affonda le sue radici agli inizi degli anni Novanta, quando la tenuta decide di conservare una quantità significativa delle sue etichette più prestigiose tra le quali il Löwengang e il Cor Römigberg. Presentata in un’elegante confezione in legno pregiato, la selezione — che prevede oltre trenta combinazioni diverse — vanta rinomate bottiglie tra le quali Haberle Pinot Bianco, Löwengang Chardonnay, Krafuss Pinot Noir, Lindenburg Lagrein, MCM Merlot e/o Cor Römigberg Cabernet Sauvignon. A proposito di Alois Lageder Sin dal 1823, la vitivinicoltura è parte integrante della storia della famiglia Alois Lageder. Giunta alla quinta generazione, con l’attuale proprietario Alois Lageder, la tenuta, con sede a Magrè in provincia di Bolzano, si distingue per la filosofia ispirata all’approccio olistico e sostenibile e per la capacità di fondere sapientemente tradizione e innovazione. Gli oltre 50 ettari di vigneti di proprietà vengono lavorati secondo i principi più stretti della coltivazione biologico-dinamica. >> Link: www.aloislageder.eu
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I vini di Premiata Salumeria Italiana
Degustazione: di Laura
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edichiamo la degustazione del mese a questa nuova tendenza, che poi tanto nuova non è, di dare origine a vini dall’uvaggio “creativo”, che non rientrano cioè in alcuna denominazione storica veneta, ma che si fregiano quindi dell’Indicazione geografica tipica e di un nome di fantasia. Ricalcano te-
oricamente l’idea dei supertuscans, da qui la definizione data ad alcuni di questi vini: supervenetians. Si tratta della voglia di proporre vini d’impronta non tradizionale, cercando un’emozione nuova, in un uvaggio comunque di qualità. Ne nascono interpretazioni particolari, a tratti entusiasmanti, certamente non banali. Una tendenza che
Campofiorin Rosso Veronese IGT 2008 Masi
Veneto Rosso IGT La Poja 2006 Allegrini
Veronese Rosso IGT Ettore 2008 Giovanna Tantini
Creazione centrata quella di Masi con il Campofiorin, prodotto con uve Corvina per il 70%, 25% Rondinella e 5% Molinara attraverso la tecnica della doppia fermentazione: il vino rosso da uve fresche è poi rifermentato (circa sei settimane) con il 25% di uve integre appassite, in parte delle stesse varietà. Grazie a questa tecnica, alla scelta delle uve nonché ai 18 mesi di affinamento in barrique, il vino è ricco di aromi e intenso. Di un rosso pulito, al naso rivela immediatamente note di frutta rossa matura, ciliegie e ribes, condite con speziatura, vaniglia e cannella, che tornano anche in retrolfattiva. Intensa la sorsata, rotonda e morbida con una bella tessitura fresca. Armonico con spessore, persistente ed incisivo, se ne consiglia l’abbinamento con piatti piuttosto strutturati, paste ai ragù di carne, arrosti e brasati, formaggi stagionati, selvaggina. Una bottiglia che può riposare a lungo in cantina, anche 15/20 anni, ovviamente alle giuste condizioni di temperatura e umidità.
Un vino caratterizzato dalla fiducia in un sol vitigno: la Corvina Veronese, coltivata sulla sommità del prestigioso e storico Podere La Grola, nella parcella denominata “La Poja”, da cui il nome del vino. Una felice intuizione di Giovanni Allegrini, che ci regala un’interessante espressione del territorio. Visivamente si presenta con un colore rosso scuro, al naso si apre subito intenso con note di prugna matura, mirtilli e ciliegie nere, accompagnate da spezie dolci e forti, caffè e carrube, pepe e cannella. L’intensità si ripropone in bocca, regalando anche forti note minerali e balsamiche. Un vino corposo e denso, virile e ruvido, che lascia poco spazio a morbidezze e bevibilità leggere o superficiali. Certamente l’abbinamento con il vino deve essere studiato e sapiente: selvaggina, ragù di cinghiale, umidi di carne, polenta con capriolo, piatti a base di/o con tartufo bianco o nero. Si consiglia di servire a 18°C e di stappare la bottiglia un’ora prima del consumo.
Giovanna Tantini, imprenditrice vinicola di Castelnuovo del Garda, ha creato questo vino dandogli il nome del figlio, Ettore. Un uvaggio composto per l’80% da Corvina, 10% Cabernet Sauvignon e 10% Merlot. Le uve vengono lasciate appassire sul tralcio per poi essere messe in cassette da 4 kg, per un breve appassimento, circa 10/15 giorni, a temperature non elevate. Il vino che ne deriva è intenso e dalla trama consistente. Visivamente si presenta di un bel rosso rubino intenso, con riflessi porpora; all’olfatto sono dense e nette le note, prime fra tutte quelle fruttate di frutta rossa matura, circondate da spezie e sentori balsamici, carrube e vaniglia, pepe rosa e marmellata di prugne. Al palato è ancora intenso, potente, ampio, di grande tessitura. Un calice deciso, che si presta alla meditazione, ma che non disdegna l’abbinamento, certamente di medesima struttura, con il cibo. Consigliate le carni di selvaggina, gli arrosti ricchi, i ragù invernali.
Masi Agricola Spa Via Monteleone, 26 37015 Gargagnago di Valpolicella (VR) Tel.: 045 6832511 – Fax: 045 6832535 masi@masi.it
Allegrini Via Giare, 9/11 37022 Fumane Valpolicella (VR) Tel.: 045 6832011 – Fax: 045 7701774 info@allegrini.it
Azienda Agricola Giovanna Tantini Loc. I Mischi 37014 Castelnuovo del Garda (VR) Tel. e Fax: 045 7575070 info@giovannatantini.it
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Veneti d’autore Franchini
ha visto, come detto, la Toscana quale precursore, ma che ha rapidamente coinvolto molte altre regioni, complice una certa moda gustativa, con radici internazionali, che ha interessato, soprattutto negli anni passati, il mondo dell’enologia e i relativi mercati. Abbiamo fatto rientrare in questa degustazione anche vini prodotti con uve
autoctone in purezza, volendo sottolineare la potenza e la potenzialità dei vitigni autoctoni. Assistiamo così ad interessanti possibilità gustative che ricalcano la via della tipicità con nuova verve. Una visione trasversale di un territorio che non finisce di stupirci: la poliedricità del mondo vinicolo italiano davvero non ha eguali.
Veronese IGT Rosso Famaloso 2007 Giorgio Poggi
Veneto IGT Rosso del Bepi Quintarelli
Veneto IGT Rosso Oz 2006 Zymé
Siamo ad Affi, nelle terre che lambiscono il Lago di Garda, conosciute per la loro vocazione vinicola. Il Famaloso prende il nome da un vigneto di antica proprietà delle cantina, citato già nel ‘700 da Scipione Maffei. Un vino prodotto con uve di Corvina Veronese, Rondinella, Croatina e altre varietà minori, in proporzioni diverse a seconda delle annate. Un vino importante, anche nella struttura, che già si evince dai suoi 14 gradi di alcolicità. Un’olfattiva intensa, di frutta matura, tostatura, cannella e note boisé, datteri e cuoio. Anche al palato tornano le note trovate al naso, regalando anche una bella trama intensa, decisa e forte. Un calice non banale, dalla voluta tessitura estrema, che si presta alla degustazione in meditazione, davanti al camino, come all’abbinamento con piatti particolarmente strutturati, dalla persistenza gusto-olfattiva adeguata al calice. Arrosti, stufati, carni in umido e selvaggina, in particolare.
Una delle cantine di riferimento per l’Amarone, Quintarelli, produce questo vino con il 55% di uve Corvina, 25% Rondinella, 15-20% Cabernet, e in piccole percentuali, Nebbiolo, Croatina e Sangiovese. Particolare la tecnica di produzione: le uve selezionate al momento della vendemmia, portate nel fruttaio e messe a riposo, sviluppano qui la muffa nobile. Verso la fine di gennaio si pigiano le uve e dopo circa 20 giorni di macerazione inizia la fermentazione alcolica ad opera dei lieviti indigeni (molto lentamente, in circa 45 giorni). Dopo di che si svina e il vino viene messo in botti di rovere di Slavonia mediopiccole per la maturazione (7 anni). Il vino che ne deriva è intenso, armonico, straordinario nei sentori come nella struttura. Un calice adatto alla meditazione. Difficile abbinare cotanta complessità, ma se proprio volete farlo, mettetelo in tavola con grandi brasati, carni di selvaggina, piatti importanti a base di tartufi o funghi.
La denominazione “Oz” deriva del nome dialettale del vitigno Oseleta, che viene utilizzato, in purezza, per produrre questo vino. Una scelta coraggiosa, che però li ha ripagati, in gusto e successo commerciale. Affina 17 mesi in barriques, scelta che rende il vino ricco di profumi speziati e di note boisè, pur riuscendo ad apprezzare intense note fruttate di frutta rossa, chiodi di garofano e sentori balsamici a completamento. Una tessitura decisa ma elegante, che premia la bevibilità come la sostanza. Un calice del tutto apprezzabile, che si rivela anche al palato rotondo, armonico, di grande equilibrio. Certamente una scelta di valorizzazione del territorio che non manca di regalare soddisfazione al palato, anche dei più esigenti. Facilmente abbinabile alle paste con ragù di carne, secondi piatti a base di carne, stufati e spezzatini, anche particolarmente strutturati.
Poggi Giorgio Azienda Agricola Via Poggi, 7 37010 Affi (VR) Tel.: 045 7235 044 – Fax: 045 7235 044 info@cantinepoggi.it
Az. Agricola Quintarelli Giuseppe Via Cerè, 1 37024 Negrar (VR) Tel.: 045 7500016 – Fax: 045 6012301 giuseppe.quintarelli@tin.it
Azienda Agricola Zymè Via Ca’ del Pipa 1 37029 S. Pietro in Cariano (VR) Tel.: 045 7701108 – Fax: 045 6831477 info@zyme.it
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Dolci
Macaron: dolcetto o concetto? di Gemma Zubiani
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r a l’aprile del 2010 quando iniziava la colonizzazione francese in Italia… Non sono pazza e non sto parlando di una storia di fantapolitica. Mi riferisco all’apertura del negozio di Ladurée a Milano. Che cos’è Ladurée? Non credo che sia la domanda giusta: oggi dobbiamo rispondere ad una domanda più grande e più profonda, cercare le radici della pasticceria francese e interrogarci su uno dei più grandi successi del mondo della gastronomia! Che cos’è un macaron? Tutta la Francia può racchiudersi in un pasticcino? Sì, e questo pasticcino è il macaron. Iniziamo dalla ricetta: è praticamente un ringo di meringa e crema di burro in cui le due calotte racchiudono la parte cremosa. Sono stata molto riduttiva e se un francese leggesse queste righe avrei già addosso lo sdegno d’Oltralpe, con Carla Bruni scandalizzata a chiedere scusa di essere italiana! Quindi, con somma diplomazia e con lo slancio di un ambasciatore francese nel Belpaese, lasciate che vi parli della difficoltà di fare un macaron, della frustrazione di ogni pasticcere in erba, della bontà dei pasticcini e della infinita varietà di colori e sapori che si possono trovare. La ricetta è così complicata che è davvero difficile riassumerla in poche righe: a dispetto della semplicità apparente, infatti, è un equilibrio molto preciso di dosi e tempi perché prima di tutto bisogna essere capaci di fare le meringhe con la farina di mandorle e lo zucchero caramellato. Io ho provato per anni a fare anche solo le meringhe bianche e non sono mai riuscita ad esserne soddisfatta quindi l’impresa dei macarons mi è del tutto preclusa. Oltre alla giusta densità di montatura delle uova e di integrazione con lo zucchero, oltre alla giusta dose di colorante per accompagnare il gusto che si desidera, ci vuole una sapiente gestione dei tempi al minuto per cuocerli al punto giusto e per garantire il riposo necessario a conferire la consistenza perfetta. Perché i macarons devono essere appena croccanti fuori e non troppo cremosi dentro. Difficile spiegare, ma è così.
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Kirsten Dunst/Maria Antonietta nel film del 2006 diretto da Sofia Coppola divora dolcetti di ogni tipo e, soprattutto, macarons... Licenza cinematografica! È una legge non scritta. Il macaron deve essere giusto, altrimenti meglio non farli! Io sono molto più brava come consumatrice di macarons... Spesso il criterio con cui si scelgono è il colore, ma, in alcuni casi, ci sono gusti così bizzarri che vale davvero la pena provarli. Dai più basici alla fragola, al limone o al cioccolato si passa a quelli più ricercati come pere e castagne, rose, caramello e burro salato. Poi ci sono quelli pazzeschi come al foie gras o al tartufo bianco! Il più strano che io abbia mai visto è quello al formaggio di capra! Ma ci sono anche le edizioni limitate per Halloween, per Natale o per eventi speciali come quello dai colori della casata Grimaldi al gusto della guava
rosa del Sudafrica e lampone con estratto d’anice stellato creato appositamente per il matrimonio tra Alberto di Monaco e Charlene Wittstock. Anche lui, come tutti gli altri, ha questo involucro liscio di due cupole sovrapposte che si incontrano dove i bordi sono frastagliati dalla cottura. L’esterno è un sottile velo di albume d’uovo rappreso ma la parte interna è un volume di aria e zucchero fino a che i denti non incontrano la crema della farcitura. Perciò sì, il macaron è semplice come concetto e complicato nella fattura, è elegante e colorato e racchiude una raffinatezza tutta sua. Ha una sottile e leggera corazza esterna che rilascia un intenso gusto pieno
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Maison parigina di “douceurs et gourmandises”, Ladurée venne fondata nel lontano 1862 (www.laduree.fr).
Macaron made in Padova
I macarons realizzati per il recente matrimonio di Alberto di Monaco e Charlene Wittstock. della passione per la cucina e per la pasticceria. C’è tutta la Francia in un macaron. Gemma Zubiani Nota A pag. 116 i macarons fotografati da Elena Benedetti al SIGEP 2012, svoltosi a Rimini dal 21 al 25 gennaio.
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Cremoso al cioccolato bianco con infusione di vaniglia Bourbon del Madagascar e Tahiti o cremoso al Grand Marnier e cioccolato bianco con all’interno un cubetto di liquore; cremoso con pistacchio di Bronte 100% e qualche chicco di fior di sale di Maldon oppure Dark, di cioccolato fondente pura origine Criollo del Venezuela con profumi di spezie, di bacche, di frutta secca e di frutta tropicale. Preferite la frutta anche al momento del dessert? Coccolatevi con un cremoso con albicocca del Mediterraneo profumato alla vaniglia della Papuasia e cuore di passata di albicocca o con quello con infusione di mirtillo delle montagne (lascia la lingua nera ma ha innumerevoli proprietà benefiche!). Se resistere ai macarons è già di per sé un’impresa per i più golosi, diventa impossibile se alla tradizione francese uniamo la sapienza e la creatività di una famosa pasticceria italiana. Ingredienti ricercati, meticolosa attenzione alla qualità e tanta fantasia sono alla base delle dolci creazioni di Luigi Biasetto e del suo staff. La Pasticceria Biasetto, aperta a Padova nel 1998 (nel 2007 ha ricevuto il riconoscimento di Bar dell’Anno da parte della giuria del Gambero Rosso), creatrice della Setteveli®, deliziosa torta al cioccolato che ha fatto dell’Italia la vincitrice della Coppa del Mondo di Pasticceria nel 1997, è membro della prestigiosa associazione internazionale dei Relais Dessert, che riunisce i migliori professionisti del settore della pasticceria. Dal 2008 la pasticceria è presente con un punto vendita anche a Bruxelles. >> Link: www.pasticceriabiasetto.it
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Aceto L’arte dell’acetificazione da Cormons alla Val Venosta
All’inizio era il vino… di Riccardo Lagorio
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ll’inizio era il vino. Seduti ai tavoli di frasche e taverne si poteva essere destinatari di una domanda perentoria: bianco o rosso? Poi per fortuna non si ragionò più in termini di bianco o rosso, ma di zona e vitigno, etichetta e cru. Fino ai giorni nostri: il vino è moda e ispira le nostre fantasie, influenza i nostri viaggi. Oggi la domanda “bianco o rosso?” la senti solo in qualche improbabile trattoria ed è più consona a dei lupanari che a dei locali pubblici per bene. Ecco nascere le carte dei vini: che sian fatte con virtù o
meno, il risultato denota in ogni caso un’evoluzione, un progresso. La differenziazione del prodotto — argomento caro agli economisti (ovvero la consapevolezza delle diversità da parte del consumatore medio) — ha toccato, dopo quell’esperienza, anche altri prodotti di cultura materiale. È stata la volta del formaggio, dell’olio, del pane e poi del sale, ultima trouvaille dedicata talvolta a ineffabili gourmet in cerca di frizzi e lazzi. Trasformate le saliere “in carte del sale”, ritengo lecito attenderci che di qui a poco saremo di fronte a “carte degli aceti”. Del resto saliere e oliere
hanno convissuto per decenni sulle tavole dei ristoranti… L’aceto ha rappresentato peraltro un elemento diffuso e di molteplice impiego ad Atene e Roma. L’arte culinaria, elevata a scienza già nel V secolo a.C. grazie ad ARCHESTRATO DA GELA, proponeva di pescare i saraghi invernali e infornarli cospargendoli di abbondante e caldo formaggio, ma soprattutto sferzandoli di mordace aceto. Acqua e aceto sono la base per la posca, una bevanda economica e di facile preparazione alla quale si riconoscevano proprietà antisettiche e disinfettanti, diffusa tra i
Joško Sirk nella sua acetaia La Subida (foto: Marijan Močivnik).
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Aceto d’uva Sirk. legionari e alla base di alcune ricette apiciane. Sulla necessità di dare dignità all’aceto è in prima linea, da anni, JOŠKO SIRK, noto ristoratore ancor prima che produttore di aceto a Cormons, nel goriziano: «Il fatto che la quasi totalità dell’aceto si produca da vini, nel migliore dei casi, non più destinabili alla mescita, è certamente una delle ragioni più importanti per cui questo prodotto sia così snobbato. D’altronde è logico pensare che l’aceto così prodotto venga allo stesso tempo interpretato e usato per condire l’insalata o per pulire il frigo o per decalcificare il ferro da stiro». Geniale per la sua banalità: un grande aceto si deve fare da un gran vino. L’idea nacque per semplice proprietà matematica: se da un sottoprodotto si può ottenere solo un sottoprodotto, un prodotto di grande qualità si può ottenere solo con materia prima e attenzioni di grande qualità. Lo pensava avendo davanti a sé i preclari esempi di quei vignaioli che hanno fatto grande il Collio del vino: da Schiopetto a Princic, da Felluga a Gravner. Gli sforzi per ottenere un aceto di classe iniziano in vigna, quindi dovendosi ottenere una “gran” uva, a bacca bianca, per garantirsi un prodotto più vellutato, Sirk la porta a piena maturazione, perché possa sopportare lunghe fermentazioni
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Acetaia La Subida, esterno. sulle bucce. Ma soprattutto dev’essere sana, per condurre a un vino di struttura, persistenza e mineralità che lo renda duraturo, spigoloso, per evolversi, aggraziarsi, nobilitarsi. In campo si evita l’uso di concimi chimici e sono banditi anticrittogamici sistemici. L’uva arriva in acetaia e, una volta diraspata, finisce in piccoli tini dove, dopo poche ore, i lieviti cominciano la fermentazione alcolica. Passeranno una decina di giorni prima che gli zuccheri si siano trasformati in alcol. Durante questo periodo la pratica più impegnativa e importante è la
folatura, ovvero la spinta verso il basso con un apposito bastone alla cui sommità è inchiodata una tavoletta delle vinacce, che per effetto della fermentazione stanno a galla. Il rimescolamento viene anche detto “bagnare il cappello”. Al termine della fermentazione il cappello cade e nella parte superiore il vino è limpido. È in questo preciso momento che si inoculano i batteri adatti per l’acetificazione. Con i primi freddi anche i batteri cadono in letargo e si risvegliano con il tepore della primavera. Servirà un’intera stagione (o due, dipende dalle condizioni cli-
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matiche) perché il vino si trasformi in aceto, limitandosi a effettuare due folature per settimana e ad eliminare con un passino i vinaccioli che eventualmente siano venuti a galla, per evitare che su di loro si attivino muffe, colonie di microscopici funghi. Segue l’affinamento, che dura tra i 24 e i 36 mesi e avviene in botticelle che permettono di amalgamare l’elevata acidità dell’aceto, di elevarne i toni dell’aromaticità e del bouquet. L’imbottigliamento si ha durante l’ultimo quarto di luna, senza aggiunta di solfiti, senza diluizioni o filtrazioni. All’assaggio stupisce il bilanciamento tra la prepotente acidità e la fresca sapidità, persistente e fine la stoffa, elegante il carattere. Sirk, difendendo a spada tratta il paziente lavoro di recupero culturale dell’aceto, rammenta che «la legislazione si è evoluta a supporto di pratiche di produzione più o meno industriali, per cui è previsto che il vino da acetificare possa essere diluito con acqua nella proporzione adatta a dare aceti della voluta acidità senza
residui alcolici. È la stessa legislazione che non prende in seria considerazione il fatto che l’aceto venga fatto con vino integro, dall’acidità di gran lunga superiore a quanto stabilito dalla legge». Anche in Piemonte c’è chi, da 15 anni, ha intrapreso la strada del rigore trasformando in aceto alcuni dei migliori vini della tradizione locale: dalla Freisa al Moscato, dal Nebbiolo alla Barbera. Per ciascuno di questi aceti SERGIO MERLINO ne è autore con metodo d’Orléans, caduto in disuso per la sua complessità, che consta nell’avere delle batterie di botticelle di aceto scolme. Dall’ultima delle botticelle si prende l’aceto finito rimboccandola con quello della penultima, e così via fino a rimboccare la prima con vino. Ma l’asso nella manica di Merlino è l’aceto di melone retato. Risultato di numerose prove, l’aceto di melone viene prodotto facendo macerare la polpa dei frutti per almeno 50 giorni, ottenendo una fermentazione alcolica. Successivamente si inoculano
batteri acetici e dopo un anno e mezzo si può imbottigliare un liquido dal colore giallo carico, profumato, leggermente acidulo, con una piacevole venatura dolciastra finale. A Fanna, paese delle mele nel Pordenonese, non poteva mancare chi ha pensato di utilizzare le varietà locali per farne un delicato e limpido aceto color canarino. IVAN DE SPIRT, quarantenne appassionato agricoltore, possiede 200 alberi di mele suddivise prevalentemente nelle varietà Corona, Gialla di Priuso, di Rui, Ruggine di Enemonzo, e da poche stagioni si è avventurato in questa seducente materia. Il suo aceto è perfetto per sgrassare l’arrivo in tavola di un’anguilla di Codigoro o di un crostino al lardo o pancetta. E in Valtournenche, a La Magdeleine, uno dei comuni meno abitati d’Italia, FRANCESCO MAURIS, grazie a un’inventiva e creatività tutte italiane, cerca di soddisfare palati sempre più raffinati, attingendo alle risorse boschive per decine di fantasiose
Il Maso Besleri della Pojer & Sandri.
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Mario Pojer e Fiorentino Sandri con gli spruzzini d’aceto. variazioni gastronomiche: aceto di ribes nero, di lamponi, di mirtilli o di more. Aceti fruttati, che esaltano le carni rosse e anche le insalate. La produzione: meno di 50 ettolitri l’anno, il 90% dei quali prende la strada della Gran Bretagna. Un aceto del tutto insolito è invece quello che proviene dalla fermentazione alcolica del miele, dalle numerose inattese proprietà, come afferma LODOVICO VALENTE, dell’APICOLTURA DEL SAMPÌ di Botticino, cittadina d’origine del marmo utilizzato per la costruzione dell’Altare della Patria. L’aceto di miele non va considerato solamente come condimento, ma come agro-medicamento dalla grande versatilità. Agisce infatti favorevolmente sui processi digestivi, migliora la fissazione del calcio e nel periodo estivo può risolvere il problema della sete eccessiva, aggiungendone un cucchiaino all’acqua fresca. In cosmetica è utile per dare brillantezza ai capelli con qualche goccia spalmata durante l’ultimo risciacquo e rassoda la pelle nella vasca da bagno. Se volete un sorriso smagliante provate a miscelare un cucchiaio di aceto di miele e uno di sale fino, passandovi il liquido sui denti… Per ottenerlo dalla materia prima, bisogna attendere, anche in questo caso, parecchi mesi: almeno quindici, durante i quali gli zuccheri del miele si trasformano in acido acetico, dopo che al miele è stata aggiunta la giusta proporzione d’acqua per innescarne la fermentazione alcolica. L’idromele ottenuto, dopo numerosi travasi in botti d’acciaio, di
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La storica azienda vitivinicola Pojer & Sandri, da alcuni anni, oltre agli aceti di vino, produce aceti di frutta molto particolari, come quello di mela cotogna, o quelli di albicocche, sorbo, sambuco, ribes nero, mora di rovo e ciliegie: ottimi per accompagnare i formaggi. Tutta la frutta proviene dal Trentino o dall’Alto Adige, molta dai terreni di proprietà. pone in barrique di rovere a contatto con i batteri acetici naturali. L’aceto ottenuto viene fatto decantare naturalmente, senza pastorizzazione né filtrazione meccanica. La lentezza delle operazioni, anche in questo caso, ha l’obiettivo di esaltare il bouquet e il retrogusto migliori. Chi invece si è dedicato al mercato industriale, come l’ACETIFICIO LENZI DI MIRA, deve produrre l’aceto di vino in pochi giorni. È il mercato a richiederlo: il loro aceto, dice Elena Artusi, non viene imbottigliato direttamente per il consumatore, ma è utilizzato dall’industria conserviera per marina-
re il pesce, o come coadiuvante nella maionese, o nelle panetterie come correttore di pH. Ne sono acquirenti i produttori di budella per salumifici, ma anche le industrie che producono aceto balsamico generico, di cui l’aceto è la base. Altra cosa è, ovviamente, l’aceto balsamico tradizionale, che proviene dal mosto cotto e necessita di anni di affinamento e cure prima di arrivare sulle tavole del consumatore finale. Anche una storica azienda vitivinicola, la POJER & SANDRI, si è lanciata da alcuni anni nella produzione di aceto.
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Apicoltura del Sampì, produttrice di aceto di miele. Ottenuto attraverso la fermentazione naturale alcolica ed acetica del miele, questo aceto favorisce la fissazione del calcio nelle ossa ed aiuta a tenere bassi i livelli di colesterolo e trigliceridi. Ne parla con orgoglio e trasporto Mario Pojer: «Il mercato reagisce in maniera stupefacente per l’originalità dei prodotti. Il problema però è che il consumatore ha in testa gli aceti balsamici, che non hanno nulla a che fare con la storia e la cultura del nostro Paese, tranne ovviamente quelli definiti tradizionali. In quindici anni ci siamo giocati una ricchezza di secoli, poiché ogni luogo ricreava con il proprio vino un aceto diverso con batteri indigeni: quello che oggi va sul mercato sa quasi tutto di umami, di glutammato di sodio, di salsa di soia». È da una trentina d’anni che il grande enologo stava meditando un’entrata in grande stile su un mercato così particolare. Non è facile produrre aceto, soprattutto dalla frutta, e solo fortuiti incontri hanno contribuito a far sì che l’infezione batterica potesse propagarsi al sidro di mela cotogna, che trasformatosi in aceto diventa squisito con il roast beef, così come l’aceto di albicocche della Val Venosta si presta in maniera magnifica ad essere lavorato con i dolci, e quello di sorbo dell’uccellatore si caratterizza per la fragranza, 126
il profumo di mandorla, il retrogusto amarognolo e ben si presta a preparazioni stravaganti della cucina d’avanguardia. Tutta la frutta proviene dal Trentino o dall’Alto Adige; molta dai terreni di proprietà, come nel caso del ribes nero o del sambuco. L’aceto di ciliegie coltivate nel comune di Vigolo Vattaro e quello di mora di rovo possono essere utilizzati persino sui formaggi, utilizzando l’apposito spray che assomiglia molto a quello dei profumi più preziosi. Ovviamente non mancano gli aceti di vino prodotti con una mescolanza di uve aromatiche come Müller Thurgau, Traminer, Riesling e Chardonnay; per l’aceto rosso, che come tutti gli altri non è pastorizzato ed è privo di conservanti, le uve utilizzate sono il Groppello, la Negrara, il Merlot, lo Zweigelt. Tutti gli aceti si ottengono dal buon vino dell’azienda. C’era da scommetterci: all’inizio era il vino… Riccardo Lagorio
I produttori SIRK DELLA SUBIDA Località Monte, 22 – 34071 Cormons (GO) Tel.: 0481 60531 – Web: www.lasubida.it ACETAIA MERLINO Via Case Sparse, 23 – 14022 Castelnuovo Don Bosco (AT) Tel.: 011 9927138 AZIENDA AGRICOLA DE SPIRT Via Circonvallazione Nuova, 35 – 33092 Fanna (PN) Tel.: 0427 77271 DOUCE VALLÉE Frazione Artaz, 13 – 11020 La Magdeleine (AO) Tel.: 0166 563713 – Web: www.doucevallee.com APICOLTURA DEL SAMPÌ Via Sampì, 26 – 25080 Botticino Mattina (BS) Tel.: 030 2693284 – Web: www.apicolturasampi.it ACETIFICIO LENZI Via Nazionale, 32 – 30034 Mira (VE) Tel.: 041 420003 – Web: www.acetificiolenzi.it POJER & SANDRI Via Molini, 4 – 38010 Faedo (TN) Tel.: 0461 650342 – Web: www.pojeresandri.it
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Quanto è buono il formaggio con la vellutata al Balsamico e pere
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ceto Balsamico del Duca, storica azienda di Spilamberto, in provincia Modena, che produce Aceto Balsamico di Modena IGP (disponibile anche in versione biologica) e Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP, ha da qualche tempo ampliato la propria gamma già ricca di prodotti con le deliziose Vellutate biologiche all’Aceto Balsamico di Modena IGP. Nei gusti pera, fico, fragola e cipolla, le vellutate sono prodotte con frutta o verdura fresca, zucchero di canna e Aceto Balsamico di Modena IGP. Non contengono pectina e sono prive di glutine. Tutti gli ingredienti sono certificati biologici. «Agricoltura biologica (organic) significa sinergia con l’ambiente e rispetto per la biodiversità. Attraverso questo tipo di agricoltura si persegue l’impegno di produrre nel rispetto dell’equilibrio dell’intero ecosistema agricolo. L’obiettivo è quello di offrire prodotti che non abbiano alcun residuo di fitofarmaci o concimi chimici, limitando al massimo il rischio di con-
taminare le acque, i terreni e l’aria; la fertilità del suolo è salvaguardata e incrementata mediante l’uso di fertilizzanti organici e i parassiti vengono contrastati con la lotta integrata. Produrre responsabilmente è una missione che continua, ora come in passato, ad entusiasmarci e a spingerci al miglioramento continuo» sostengono Mariangela ed Alessandra Grosoli, titolari dell’azienda. Ottime per accompagnare formaggi di qualsiasi tipo, con carni bollite o grigliate e sul pesce, le vellutate alla frutta si possono gustare con il pane, con lo yogurt o la ricotta fresca, per uno spuntino goloso o per una deliziosa prima colazione. Quella al gusto fico, ad esempio, molto zuccherina, è ideale sui formaggi di media stagionatura; il gusto cipolla, invece, rende uniche e originali le tipiche bruschette italiane. Il packaging, elegante e d’impatto, è studiato per esaudire ogni esigenza: il formato classico da 250 grammi per uso professionale ed il nuovo vasetto da 140 grammi per il consumo domestico. Una novità tutta da gustare.
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Tecnologie
Tanara Giancarlo sceglie i sacchi termoretraibili Cryovac® per il suo Parma di qualità
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nuovi sacchi Cryovac® V-shape, espressamente sviluppati per il confezionamento di prosciutto crudo, si stanno rivelando la scelta ideale per lo squisito Parma di Tanara Giancarlo Spa. Grazie al nuovo sistema di confezionamento i prosciutti interi raggiungono una conservabilità di sei mesi (due in più rispetto alle soluzioni precedenti). I sacchi proteggono il prezioso contenuto durante e dopo il trasporto e la loro stampabilità permette una facile identificazione del marchio e della qualità che ad esso viene associata. Tanara Giancarlo sta già impiegando il nuovo sistema di confezionamento per le consegne alle grandi catene italiane e a noti supermercati tedeschi come Kaufhof e Karstadt. Nei prossimi mesi il piano di distribuzione si estenderà a tutti i Paesi europei.
La bellezza dell’innovazione Tanara Giancarlo ha lavorato in stretta collaborazione con il team sviluppo di Sealed Air Cryovac per raggiungere un obiettivo estremamente ambizioso. Si trattava di trovare una soluzione di confezionamento high-tech che non facesse alcun compromesso con la presentazione del prestigioso Parma di Langhirano. La collaborazione si è estesa alla realizzazione della grafica finale per la stampa dei sacchi. Paolo Tanara, presidente esecutivo dell’azienda Tanara Giancarlo, attribuisce gran parte del successo dell’iniziativa ai solidi rapporti esistenti fra le due società. «Abbiamo sempre potuto contare sul supporto tecnico di Cryovac, che si è dimostrata disponibile, ogniqualvolta se ne presentasse la necessità. Il packaging che abbiamo realizzato ottimizza la presentazione dei nostri prodotti e attira l’attenzione del consumatore. Grazie agli eccellenti rapporti che intratteniamo con il nostro fornitore, siamo costantemente aggiornati sulle innovazioni nel settore del packaging» ha dichiarato Tanara.
Risultati che parlano da soli I nuovi sacchi Cryovac® V-shape sono estremamente resistenti alle sollecitazioni e ad altri danni che potrebbero derivare dal trasporto. Assolutamente ermetici, mantengono perfettamente il sottovuoto. La loro termoretraibilità permette di creare una vera seconda pelle intorno al prodotto. Si ottiene così un forte impatto visivo, simile a quello di un prodotto non confezionato, ma con l’igiene ottimale garantita dalle moderne tecniche di packaging. L’elevata barriera all’ossigeno contribuisce all’impressionante conservabilità di sei mesi. Tanara Giancarlo ha ambiziosi piani di espansione, basati sulla continua innovazione delle tecniche di produzione, packaging e distribuzione. Sealed Air Cryovac è fermamente intenzionata a contribuire a questo dinamico processo. Sealed Air Srl Via Trento, 7 20017 Passirana di Rho (MI) Telefono: 02 9332415 Fax: 02 9332382 Web: www.sealedair-emea.com
L’azienda Tanara Giancarlo Spa è stata fondata nel 1954 a Langhirano, in provincia di Parma. Oggi la società dispone di un’ampia gamma di carni lavorate fra le quali prosciutti, culatello, pancetta, salame, mortadella, coppa e bresaola. Il prosciutto della società si fregia della denominazione di origine controllata “Consorzio del Prosciutto di Parma” e viene distribuito, oltre al mercato nazionale italiano, in Germania, Francia, Belgio, Finlandia, Svizzera, Austria, Polonia, Stati Uniti, Canada, Giappone, Brasile, Hong Kong, Cina e Singapore. L’arte prosciuttiera “Giancarlo Tanara” possiede l’esperienza maturata lungo le generazioni, e solo con pazienza lavora le cosce migliori. La salatura è fatta a mano nel rispetto della tradizione, impiegando la minima quantità possibile di sale marino naturale, l’unico conservante utilizzato. L’impianto di Langhirano, che dà lavoro a 35 dipendenti, raggiunge un fatturato annuo di 10.000.000 euro con un volume di 1.400 tonnellate.
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Storia e cultura
La cucina postmoderna di Giovanni Ballarini
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ove sta andando la nostra cucina? Non è facile dirlo, ma tutto fa credere che vada sempre più verso una concezione “postmoderna”. Modo è un avverbio latino che significa “ora”, “poco fa” e ha dato origine alla parola italiana di “moderno”, che indica qualcosa di recente, attuale, contemporaneo, accaduto da poco. Si è moderni, secondo il senso comune, quando ci si lascia alle spalle un passato più o meno lontano. Tutto è stato moderno e tutto il moderno è divenuto passato. Il termine “moderno” ha però assunto anche un significato storico e l’era moderna viene fatta iniziare convenzionalmente con la scoperta
dell’America. La modernità, da un punto di vista sociale, inizia nel 1600, con l’esaltazione di un’individualità autonoma e l’imporsi della nuova scienza di Galileo. Per la cucina, che è sempre più tarda a modificarsi rispetto ad altri aspetti della cultura, la modernità parte con l’inizio del secolo XIX, in conseguenza dei profondi rivolgimenti sociali conseguenti la Rivoluzione Francese e sotto la spinta dell’industrializzazione che coinvolge tutte le attività sociali. Ad esempio, divengono moderni, cioè attuali, i “fuochi” che via via si succedono modificando la cucina, dal fuoco diretto della legna a quello del carbone, poi del fornello a gas, fino ad arrivare al calore di origine
elettrica e a quello generato nel cibo stesso da onde elettromagnetiche. In modo analogo si trasformano e si sviluppano gli strumenti utilizzati in cucina, dalle pentole alle diverse e sempre più sofisticate attrezzature, e via dicendo. Lo stesso avviene per la conservazione degli alimenti, si pensi ad esempio alla trasformazione del prosciutto di maiale: fino a metà del 1800 era piccolo, salato, secco e tanto duro da dover essere cotto, poi è diventato grosso e dolce, è diventato “moderno”. Ugualmente molti vini quando escono dai barili ed entrano nelle bottiglie divengono “moderni”. Nel tempo l’utilizzo del termine “moderno” è divenuto prevalentemente un fatto culturale e questo
Oggi l’aspetto visivo di un piatto è importante grazie anche alla rivoluzione attuata dalla Nouvelle Cuisine. Nata alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, ruotava intorno ad alcuni principi fondamentali tuttora validi: la mise en place delle pietanze, la leggerezza delle ricette, la sperimentazione e la qualità degli ingredienti (foto: http://blog.gustoshop.eu).
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spiega come si sia potuta immaginare una cucina non più solo appartenente al passato o di attualità, ma anche del futuro (cucina futurista). Si può comprendere come, allo stesso modo, la “modernità” sia stata superata per entrare, culturalmente, nel “postmoderno” o, meglio, in quella che è stata individuata come una “transizione postmoderna”. Col termine “postmoderno”, utilizzato già in diversi ambiti sin dal 1870, convenzionalmente si indica quel momento storico che ha inizio più o meno con la rivoluzione culturale del 1968. È un movimento non sempre chiaro, nel quale convivono una critica del progresso sfrenato e della produzione industriale, ma anche dei soggetti definiti e degli stili codificati dalle tradizioni che si erano formate con la modernità. Di questo nuovo movimento è paladino JEAN-FRANÇOIS LYOTARD che, nel 1979, scrive la Condizione postmoderna, famoso saggio sulla fine della modernità, tradotto in italiano nel 1981. Nello stesso periodo il postmoderno entra anche in cucina. Non è certamente un caso e neppure una coincidenza se in Francia, nel 1973, HENRY GAULT e CHRISTIAN MILLAU individuano un nuovo movimento culinario che denominano Nouvelle Cuisine, vera e propria cucina postmoderna che distrugge quanto stabilito da una tradizione che si era andata sclerotizzando con l’abbattimento dei dogmi dell’alta cucina che viveva su di un numero limitato di ricette (Poisson au beurre blanc de La Mère Michel, Canard au sans de La Tour d’Argent, Cassolette de filets de sole de Lasserre, Tournedos Rossini, sole Dugléré, ecc…). La Nouvelle Cuisine, nata anche in reazione ai limiti della cucina internazionale dei grandi hotel e ristoranti e per la spinta di grandi cuochi delle scuole moderne di cucina, a pieno titolo s’inserisce nella transizione postmoderna che fonda la sua originalità attorno ad alcune istanze fondamentali: a. lo status, che si esprime nel raffinamento delle pratiche conviviali, nell’attenzione al decoro della tavola, ed il manierismo estetizzante della mise en place;
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b. la leggerezza, fautrice della miniaturizzazione delle porzioni, dell’alleggerimento delle ricette, della promessa di conciliare esigenze del palato e presentabilità del piatto; c. la sperimentazione, per questo il menu del ristorante va rinnovato periodicamente, come la moda; d. l’attenzione, a volte esasperata, della qualità degli ingredienti in rapporto anche alla loro provenienza, con una connotazione quindi di cuisine du territoire. In una concezione esasperata del nuovo movimento, buono può anche divenire sinonimo di anticonvenzionale, eccentrico, sorprendente. In Italia, tuttavia, non si è rimasti sordi ed estranei al movimento, ma le esigenze erano diverse da quelle francesi. In Italia, infatti, limitata era la diffusione della cucina di tipo internazionale alla quale aveva reagito la Nouvelle Cuisine, mentre erano ancora ben diffuse le cucine regionali, con stretti legami territoriali. Gli italiani, soprattutto per l’azione dei cuochi che sollecitamente si interessarono al movimento culturale, primo tra tutti anche per importanza GUALTIERO MARCHESI, hanno risolto le proprie esigenze alimentari, anche d’innovazione e di leggerezza, in modo diverso da quello proposto dalla Nouvelle Cuisine che, in ogni modo, ha avuto altri pregi: ha dato l’idea che la cucina tradizionale e moderna poteva essere superata, ma al tempo stesso, enfatizzando i sapori originari e preferendo le cotture delicate, ha rimarcato il valore della qualità delle materie prime, in particolare dei prodotti territoriali e di quelli tipici, tutto ciò valorizzando l’aspetto visivo delle preparazioni e quindi le architetture gastronomiche. Al di là dell’eredità controversa della Nouvelle Cuisine, è innegabile che molte delle sue regole sono ormai entrate nella cucina di oggi del mondo intero e tra queste che i prodotti debbono essere freschissimi e di qualità, i tempi di cottura brevi e precisi, le salse leggere, l’estetica della presentazione altrettanto importante rispetto al sapore ed alla leggerezza dei cibi. Va inoltre ricordato che, sulle linee della Nouvelle Cuisine, sono state
Gualtiero Marchesi (foto: http:// saporiericette.blogosfere.it). sperimentate ed applicate nuove tecnologie di preparazione e lavorazione degli alimenti e, tra queste, sistemi di emulsione meccanica, cotture a bassa temperatura e sottovuoto e via dicendo, sempre al fine di mantenere ed esaltare le caratteristiche organolettiche e nutrizionali degli alimenti. Nel contesto ora tratteggiato è facile intuire lo sconcerto od anche il senso di spaesamento che può esistere in chi s’avvale di un bagaglio basato sulla cosiddetta cucina moderna, vale a dire ottocentesca e della prima metà del 1900, codificata nella “tradizione moderna”, quale ad esempio quella delineata da PELLEGRINO ARTUSI e dai suoi seguaci. Uno sconcerto che deriva anche dall’ineliminabile e continua spinta ad una contemporaneità postmoderna di non sempre facile interpretazione ed accoglimento e che non può sempre piacere. Anche in cucina il non evitabile fenomeno del “postmoderno” (o della “transizione postmoderna”) pone il problema del mutamento di modelli alimentari basati su un’antropologia tradizionale, rassicurante in quanto pareva fissa e costante, con traumi più o meno simili a quelli che due secoli fa accompagnarono il non facile passaggio dalla grande cucina rinascimentale a quella moderna. Inevitabilmente, anche in ambito alimentare ed indipendentemente
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dalle abitudini e volontà personali, avanza la necessità di andare oltre, travalicando perimetri e categorie apparentemente consolidate dalla modernità tradizionale. Un fenomeno che pare non possa essere affrontato e risolto soltanto dalla sociologia (con il suo provocatorio anagramma sociologia = ciò-lo-so-già), ma che coinvolge tutti gli aspetti del nostro status di essere umani, quindi parte dall’antropologia. In questa breve esposizione piace rilevare che l’incontrastabile fenomeno dell’attualità postmoderna non può essere affrontato misurando soltanto la regressione o la contrazione delle pratiche di una tradizione moderna in via di dissolvimento, o soltanto con critiche o lamentele più o meno efficaci. Non bisogna trascurare, infatti, che mai come oggi si riscontrano la crescita e l’espandersi di interessi culinari e gastronomici in classi sociali ed in ambiti che solo poco tempo fa erano inimmaginabili, con metamorfosi radicali anche del gusto e delle sensibilità simboliche generali attribuite al cibo ed alle sue trasformazioni, luoghi e momenti di consumo; ma soprattutto non bisogna trascurare il nascere e il diffondersi di mode ed abitudini, alcune delle quali tendono a consolidarsi in nuove tradizioni. Non si tratta quindi di una transizione nella quale sempre meno si crede nelle tradizioni e nella loro autorevolezza, quanto dell’incapacità di provare le esperienze che erano di una modernità passata con la volontà di trovarne di nuove. Per di più stiamo vivendo, e con una grande velocità, un periodo di mutamento antropologico
ed esistenziale nel quale non solo è messo in discussione il rapporto con il passato, ma che sempre più tende ad aprirsi a spazi culturali un tempo lontani, ma che oggi sono sempre più vicini e che portano alla necessità di un confronto e di un dialogo tra le cucine e le gastronomie mondiali, nel grande fenomeno della globalizzazione degli alimenti, delle loro simbologie e soprattutto del modo di prepararli, presentarli e consumarli. Molte sono le questioni postmoderne che oggi provocano ed interpellano la cucina e la gastronomia, in modo analogo a quanto avviene per tanti altri aspetti della nostra società, ad iniziare dalla lingua. Diversi sono anche gli atteggiamenti che si vedono emergere nelle diverse cucine mondiali di fronte ad una post-modernità che ha aspetti e valenze diverse nelle singole società. Mentre le cucine e le gastronomie orientali, e tra queste le grandi cucine cinesi, si stanno aprendo alle tecniche ed ai gusti occidentali, la cucina francese tende a svilupparsi in un’esasperata ricerca delle migliori materie prime e di tecniche sempre più sofisticate, mentre nell’area nordamericana avanzano sempre più audaci esperimenti di contaminazioni, scambi e fusioni culinarie con tentativi di nuove gastronomie anche industriali. In ogni condizione è tuttavia da rilevare che le tradizioni restano in quanto cambiano, ed è sempre più evidente che la transizione postmoderna non è altro che un grande laboratorio di costruzione, in gran parte di ricostruzione delle tradizioni.
Fegato alla veneziana. In quest’ultimo contesto vediamo operare una cucina italiana che affonda le sue ineliminabili radici nella ricchissima varietà delle cento, mille e più tradizioni insediate nella quasi infinita diversità territoriale e culturale del paese. Nell’attuale non facile stagione della transizione postmoderna, fucina di nuove o rinnovate tradizioni, risulta sempre più valida la necessità di tutelare le tradizioni della cucina italiana promuovendone e favorendone il miglioramento, un miglioramento intelligente che deve trovare un nuovo slancio interpretativo in una cultura del cibo ed in una Civiltà della Tavola all’insegna di uno stile e di un buongusto che devono rimanere tipicamente italiani. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma
“Il cibo e la tavola”, uno sguardo sul cibo attraverso l’arte Numerosissimi sono i dipinti e le sculture che dall’antichità al XX secolo presentano i cibi e le bevande descrivendo i rituali che intorno a essi ruotano e i luoghi in cui essi venivano e vengono consumati. L’opera si propone, attraverso sezioni distinte, di indagare la funzione culturale e simbolica del cibo e delle bevande attraverso i generi e i soggetti dell’arte in cui essi sembrano giocare un indiscutibile ruolo chiave. All’indagine sul significato specifico degli alimenti nell’arte dall’Antichità al XX secolo si unisce quella degli strumenti da tavola e da cucina più frequenti, dei rituali della consumazione del cibo e dei luoghi più tradizionalmente legati ai pasti per fornire al lettore vari possibili livelli di lettura della stessa immagine. “Il cibo e la tavola”, Silvia Malaguzzi, Collana: I Dizionari Dell’arte, Electa Editore, pp 384, prezzo: 20 €.
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Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar Premiata Salumeria Italiana, 2/12 135 perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.
VIP: Visti Io Personalmente L’amicizia con Vinton Gray Cerf, conosciuto al mondo come uno dei padri di internet di Angelo Valentini
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empre a causa di quel furbacchione di Bacco, ho avuto la fortuna di incontrare un personaggio che ha cambiato il mondo VINT CERF, inventore di internet, mentre tutti pensano, luogo comune, che sia stato Bill Gates, uomo di ingegno che ha messo a profitto la colossale scoperta di Cerf. Nel 1997, quando ero direttore delle Cantine Lungarotti di Torgiano (PG), ricevetti una telefonata che mi avvertiva dell’arrivo all’aeroporto di Assisi, con tanto di aereo personale, di una coppia di americani che avrebbe sostato un paio di giorni all’albergo Le Tre Vaselle: i loro nomi corrispondevano a quelli di Vint e Sigrid Cerf. Mi recai all’aeroporto, preso da tanta curiosità, poiché non capita tutti i giorni di accogliere qualcuno che
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viaggia su un aereo privato. Mi venne incontro un segretario del seguito e, prima di presentarmi, mi disse che, qualora avessi parlato la loro lingua, avrei dovuto accennare la mia voce solo con movimenti labiali; avrebbe provveduto egli stesso a tradurre i nostri discorsi, in quanto i signori Cerf erano entrambi sordi. Lo scopo della loro visita era di carattere enoico, quali esperti e conoscitori dei buoni vini del mondo. Il viaggio da Torgiano sarebbe poi dovuto proseguire verso Montalcino per assaggiare il Brunello, ma si instaurò un clima tanto cordiale che tutto il viaggio si risolse in Umbria. Immaginavo che i due scienziati fossero distaccati dal nostro modo quotidiano di fare e di agire: al contrario entrammo in confidenza
e trovai persone cordialissime, che sprigionavano un enorme affetto per la realtà italiana che stavano vivendo. Li convinsi che non c’era bisogno di andare in Toscana, in quanto il nostro Rubesco Riserva avrebbe fatto loro provare le stesse emozioni del Brunello, con una nota tannica meno accentuata. La tavola, il buon bere e il conversare avevano creato un clima così famigliare: raccontai loro della mia vita e il mio approccio al vino e Vint Cerf fece altrettanto. Mi spiegò che divenne completamente sordo in tenera età, ma, a differenza della moglie Sigrid — nata sorda e quindi priva delle modulazioni vocali — era in grado di conoscere suoni e musicalità della lingua. Da qui sorse la scintilla, la necessità di comunicare:
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la sua mente partorì Internet, una vera rivoluzione (scoperta condivisa con Robert Kahn, con cui inventò il protocollo TCP/IP). Con l’andar del tempo vennero perfezionate le tecnologie e Vint fu chiamato dalle autorità per mettere a disposizione dei settori civili e militari la sua sensazionale scoperta: è di casa tutt’ora sia al Pentagono che alla Casa Bianca ed ha ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo. Per restare in casa nostra, il 26 maggio 2006 l’Università di Pisa gli ha conferito, insieme a Kahn, la Laurea Specialistica Honoris Causa in Ingegneria informatica. La notizia di Cerf a Torgiano arrivò negli ambienti giornalistici e scatenò l’arrivo di inviati speciali che sottoposero Vint ad una serie di interviste. Tra i tanti impegni riuscii a portare la coppia a casa mia, ospiti graditissimi, per fargli assaporare la cucina di mia moglie Idilia, di origine emiliana. In certe circostanze si vorrebbe che il tempo non passasse mai, ma un uomo così impegnato doveva rientrare nel mondo, anche se non mancò di invitarmi negli USA. Li accompagnai all’aeroporto, ci abbracciammo e ci lasciammo con un “arrivederci”!
E l’arrivederci ci fu. Dopo due anni circa tornarono e Sigrid, dotata di orecchio bionico, parlava perfettamente: il suo volto raggiante sprigionava gioia e felicità per l’essere entrata nel mondo dei suoni, mentre Vint era sereno e disteso nonostante una serie di conferenze tenute in tutta Europa. Osai chiedergli una cortesia, a fin di bene, e Vint mi assecondò generosamente quando gli esposi il caso. Ero allora presidente dell’associazione Amici del Serafico di Assisi, un istituto che accoglie circa 100 bambini non vedenti e non udenti. Uno studioso del genere avrebbe potuto fare qualche cosa in loro favore ed egli fu gentilissimo: rimase sorpreso dall’efficienza della struttura e disse che si sarebbe interessato del problema. Ritornò in America e mantenemmo una corrispondenza virtuale e cartacea, con scambi di fotografie (in occasione di un passato Natale mi arrivò per via aerea una cassa di preziosi vini californiani della Napa Valley). Vinton Gray Cerf è dal 2010 membro della Broadband Commission for Digital Development fondata dall’UNESCO per rendere le tecnologie a banda larga disponibili più ampiamente sulla faccia della Terra. Angelo Valentini
Nel 1968 l’Advanced Research Project Agency (ARPA) diede il via al progetto ARPANET, che prevedeva la costituzione di una rete di computer che, sparsi sul territorio nazionale, dovevano interagire tra loro in tempo reale. Dal 1973 al 1978 Vinton Gray Cerf condusse con Robert Kahn la ricerca che sviluppò e collaudò i protocolli di comunicazione TCP/IP e la stessa rete Internet come la conosciamo oggi. Il 26 maggio 2006 l’Università di Pisa gli ha conferito, insieme a Robert Kahn, la Laurea Specialistica Honoris Causa in Ingegneria informatica (in foto: Angelo Valentini insieme a Vint e Sigrid Cerf).
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Libri
Les cuisiniers dangereux di Claudio Dell’Orso
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ecisamente inconsueto nel formato orizzontale e nel titolo questo Les Cuisiniers dangereux (denominazione tratta da un’opera del pittore belga James Ensor) che il sottotitolo esplica così: ovvero cuochi pericolosi, canzoni taglienti & temerarie narrazioni di storie accidentalmente vere. È molto più di un libro di ricette, vicende vissute e non solo, questa curiosissima, coinvolgente e dissacrante opera (quasi) collettiva illustrata da rare foto, stampe, disegni, abbinata a un interessante cd di canzoni appartenenti al folclore popolare. Terzo tomo curato da RINO DE MICHELE, che conclude l’inusuale ricerca sul cibo coniugato all’anarchia (Ricette anarchiche del 2008, mentre Ricette libertarie è del 2010), intreccia incredibili memorie, fra tradizioni, leggenda e cronaca, a gustose ricette dai nomi in bilico fra irriverenze e rimembranze, “perfezionate” da tre fumetti, diciamo così, culinari. Qualche esempio fra i tanti di questo volumetto dall’accattivante impaginazione? Nella serie Menu necessario ai poeti troviamo Le mirabolanti avventure della salma di Josif Aleksandrovic abbinate a ricette “povere”, visto che «i poeti hanno sempre mangiato male» per ragioni ispirative nonché economiche. E via dunque con in cavoli tipo Pasta e broccoli in brodo di razza, Un cavolo di risotto, Torta del cavolo, ecc… Citiamo altresì la grottesca graphic novel disegnata con stile corrosivo da Giuseppe Palumbo Cosa ci deve ancora restituire la Libia, incentrata sulla figura di un volontario in camicia nera che tornò dalla guerra di Libia camminando su una gamba sola. Capite adesso che mirabolante e corrosiva tipologia di libro vi apprestate a leggere? Nel Menu Te Deum vengono ammannite Le difficili digestioni delle divinità accompagnate
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RINO DE MICHELE & ALTRI AUTORI, Les cuisiniers dangereux ovvero cuochi pericolosi, canzoni taglienti & temerarie narrazioni di storie accidentalmente vere, Edizioni La Fiaccola, Noto (SR) e ApARTe, Mestre (VE), 108 pp, €18,00, incluso il CD dello spettacolo; per informazioni: aparte@virgilio.it, rino@rinodemichele.org da Risotto alla rosa canina, addirittura dall’Aragosta allo Champagne, «questa ricetta — spiega il disinvolto autore — mi sembra la più adatta per ricordare la sobrietà necessaria ai riti religiosi». Bilanciata dalla Torta Nicolata, dolce dagli ingredienti poveri che evita di «esagerare con lussi e sperperi troppo appariscenti e non confacenti agli insegnamenti religiosi di povertà e continenza…». Amen! Oltre al Menù antifascista, tra cui i Filetti di trota rossa e il Tiramisù sinistrorso, meritano attenzione quelli della flotta russa commentati da Cosa seguì ai drammatici avvenimenti che interessarono gli intrepidi marinai della corazzata Potemkin, comple-
tati, fra l’altro, dal celebre Filetto di vitello allo Strogonoff (derivante dal medico della zarina Maria di Russia che propose la personale ricetta agli intossicati da aringhe putride durante la caccia alla balena) e dall’Insalata russa, che nel supposto Paese natale si chiama invece Olivier, visto che il cuoco di un celebre ristorante moscovita, tal Lucien Olivier, la preparava agli avventori durante la seconda metà dell’Ottocento. Vi è una sezione regionale dedicata ai Menù trapanisi, ’ccu ’li corna tisi, vi potete imbattere nei Minestroni comunardi, il Cervello ad ogni modo (e cioè fritto, all’olandese, senza starci a pensare) allietato da un grottesco
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fumetto di Gianluca Lerici in perfetto stile underground. Passiamo quindi alle Polpette dinamitarde, coerenti con l’idea del rivoluzionario tira bombe, le liste Per viandanti maltrattati concernenti Le allegre merende di una spensierata famigliola scozzese che, presa da impellenti necessità di sopravvivenza, si dedicò al cannibalismo. A completamento — “gastronomico” forse non è il termine più corretto — il fumetto di Fabio Santin dedicato a Lo sguazeto alla veneziana ricordante il saporito piatto servito ai clienti della sua osteria da Biasio Lugangher, il cui nome è ancora ricordato dalla Riva omonima prospiciente il Canal Grande. A voi di scoprire cosa nascondevano nelle loro cucine questi pericolosi cuochi! Claudio Dell’Orso
JAMES ENSOR (Ostenda, 13 aprile 1860 – Ostenda, 19 novembre 1949) è stato un pittore belga. Introverso e misantropo, trascorse gran parte della sua vita nella sua città natale, dedicandosi ad una pittura che fu una delle manifestazioni più significative del periodo e che si pose al centro della cultura del tempo. Il suo lavoro esercitò un importante influsso sulla pittura del XX secolo: i suoi luridi soggetti aprirono la strada al surrealismo e al dadaismo, mentre la sua tecnica, in modo particolare l’uso del pennello e il senso del colore, condusse direttamente all’espressionismo. Il suo processo di trasfigurazione della realtà è basato su di un linguaggio fatto di colori puri e aspri, con vibranti colpi di pennello interrotti che accrescono l’effetto violento dei suoi soggetti. La tavolozza si schiarisce ed appaiono elementi inquietanti come maschere, scheletri, spettri e demoni, usati per mettere in satira gli aspetti più tipici del mondo borghese. L’antica immagine della morte si nasconde dietro maschere spaventose, cariche di un simbolismo ambiguo ed ossessivo, tipico del clima decadente di fine secolo. La vena grottesca oscilla tra ironia ed inquietudine in una specie di incubo in cui sogno e realtà si confondono anticipando il surrealismo. Per i suoi soggetti, Ensor prese spesso spunto dai vacanzieri di Ostenda, che lo riempivano di disgusto: ritraendo gli individui come clown o scheletri o sostituendo le loro facce con maschere di carnevale, rappresentò l’umanità come stupida, vana e ripugnante. (it.wikipedia.org)
Piccola pasticceria salata Il volume Piccola pasticceria salata di LUCA MONTERSINO, tra i più celebri pasticceri e chef italiani, presenta oltre 80 proposte, tutte illustrate, dedicate alle piccole delizie salate: blinis, pizzette, bignè, focaccine, tortillas, biscottini e torte salate per aperitivi, antipasti sfiziosi, o cene a buffet. Il libro colma una lacuna nella divulgazione della cultura gastronomica e restituisce il giusto spazio alla pasticceria salata, spesso trascurata e confinata a spazi limitati in libri dedicati ai dolci. Il volume è un’opera raffinata e allo stesso tempo facilmente comprensibile, che rende finalmente accessibili a tutti le sue preziose ricette, sinora presenti solo in volumi costosi e rivolti agli chef professionisti. Il testo, grazie al linguaggio semplice ma non banale, stimola il lettore a cimentarsi in piatti sorprendenti, garantendo una perfetta riuscita grazie ai trucchi di lavorazione forniti. Il libro è suddiviso in otto capitoli tematici, che propongono le migliori ricette di pasticceria salata italiana e internazionale: dalle raffinate creazioni moderne alla
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cucina tradizionale, dalla nouvelle cousine alle novità contemporanee. Cantuccini alle arachidi, clorofilla di spinaci, dacquoise noci e gorgonzola, tartellette alla russa e in tanti altri modi… per un intermezzo di puro piacere durante la giornata o per meravigliare gli ospiti. L’autore mette a disposizione la propria competenza gastronomica anche in fatto di nutrizione associando, in molte ricette, il piacere del gusto all’equilibrio alimentare con l’appagamento estetico. L’autore LUCA MONTERSINO, piemontese, è nato nel 1973. Ad Alba ha fondato Golosi di salute, la prima pasticceria salutistica italiana. Dal 2001 al 2004 è stato direttore dell’Istituto Superiore Arti Culinarie Etoile. Insieme a Eataly ha aperto pasticcerie a Torino, New York, Pinerolo, Genova e Tokyo. Ha conquistato il pubblico televisivo di Peccati di gola (Alice TV) e La prova del cuoco (RAI 1). È autore di numerosi libri, tra cui Golosi di salute (2006), Tiramisù e chantilly (2007) e Croissant e biscotti (2009), editi da
LUCA MONTERSINO Piccola pasticceria salata Mondadori, 2012, 192 pp., € 16 Fabbri; Peccati di gola (2010) e Peccati al cioccolato (2011), editi da Sitcom, Tonno e pesci del Mediterraneo (2005) e La mia pasticceria dolce e salata senza glutine (2012), editi da Boscolo Etoile Edizioni.
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La Cucina Medievale di Lorena Gallina
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el settembre scorso Enrico Carnevale Schianca ha dato alle stampe per la casa editrice Leo S. Olschki di Firenze il volume “La cucina medievale. Lessico, storia, preparazioni”, una sorta di dizionario enciclopedico di grande interesse per studiosi di gastronomia e appassionati di arte culinaria. L’autore, originario della Lomellina, si occupa di storia della cucina da almeno trent’anni: accademico onorario della Delegazione di Vigevano dell’Accademia Italiana della Cucina e collaboratore fisso della rivista APPUNTI DI GASTRONOMIA, con contributi dedicati alla cucina e alla dietetica medievale, con quest’ultima opera tenta di fare un po’ di ordine tra i manoscritti della gastronomia tardo medievale L’obiettivo dichiarato è quello di restituire una visione globale della cucina dell’epoca, caratterizzata da testi di carattere monografico difficilmente confrontabili anche sul piano lessicale. Diventa significativo in tal senso segnalare il ricco apparato di fonti consultate, nonché l’accurata bibliografia riportata in apertura: l’opera contiene ben 2.500 ricette delle oltre 7.000 analizzate dall’autore nelle sue approfondite ricerche. Nella presentazione ufficiale del volume, avvenuta lo scorso 24 settembre a Varese presso il Collegio De Filippi in occasione delle Giornate Europee per il Patrimonio 2011, l’autore stesso ha denunciato le carenze lessicali riscontrate nell’analisi dei testi di cucina medievale consultati per la realizzazione dell’opera. Le parole risultano spesso enigmatiche anche nella grafia, ma ciascuna ha una propria storia che merita di essere ricostruita. In una intervista virtuale con l’autore emerge il desiderio di offrire agli studiosi e ai cultori del settore un glossario di chiara e immediata consultazione, ricco di curiosità storiche
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ENRICO CARNEVALE SCHIANCA La Cucina Medievale Lessico, storia, preparazioni Leo S. Olschki Editore, Firenze 2011, 756 pp. – € 49,00 su alimenti e preparazioni, che fornisce un apparato lessicale e filologico di altissimo livello, svelando errori storici e mistificazioni linguistiche tramandate per secoli nell’analisi testuale della cucina medievale. Risulta curioso lo storico fraintendimento ai danni del vocabolo schibecce, perpetrato dallo Zambrini nel 1836. La “preparazione a base di carne o pesce, cucinata con aceto” deriva all’arabo persiano sikbâj composto da sik = aceto e dalla desinenza –bâj che ripete un sostantivo persiano indicante una sorta di intingolo a base di carne. Come ben spiegato nell’opera, il termine sarebbe arrivato in Italia meridionale attraverso lo spagnolo escabeche; alle prime traslitterazioni nei testi di medicina seguono numerose volgarizzazioni fino ad arrivare alla celebre schibetia (pseudo-normalizzato in schibezia) che ha portato ad ipotizzare una serie di
alterazioni da un originario schivèza, schivezza tramutato nell’italiano schifezza! L’autore suggerisce una possibilità di lettura del volume a più livelli: si può procedere per una semplice ricerca di parole, uso precipuo dei dizionari oppure sfogliare le pagine alla cieca, alla ricerca di curiosità gastronomiche. Ogni voce presenta le varianti lessicali, come in ogni glossario che si rispetti, la descrizione e il nome scientifico della voce seguiti da una trattazione ricca di curiosità storiche e notizie originali. In tal senso l’autore cita la formenta, letteralmente minestra di frumento appartenente alla categoria delle fromentiere, nella cui ricetta si può ravvisare la più antica testimonianza del procedimento per preparare il moderno risotto. Il cereale, ammollato ma ancora crudo, viene messo direttamente a soffriggere nell’olio e poi cotto con diverse aggiunte di latte di mandorla, paragonabile all’odierno brodo. In tal modo l’autore sembra “sconfessare” la tradizionale codificazione ottocentesca del risotto ad opera del LURASCHI nel suo “Nuovo cuoco milanese” (1829). E proprio seguendo il consiglio dell’autore ovvero aprire il libro ad libitum può accadere di imbattersi nella voce offa, parola latina che in senso lato significa boccone ma anche pagnotta, focaccia mentre nel diminutivo offella diventa brano di carne. Il Platina impiega il termine nel significato di zuppa di semi di canapa e zuppa dorata ma chiama offa anche la massa di pasta da panificare. L’origine del nome resta sconosciuta. L’autore segnala che Uguccione da Pisa «pone offa tra le derivazioni da for, faris “parlare”, attraverso infans (incapace di parlare, bambino), argomentando che un boccone di pane inzuppato può ingozzare il bambino, rivelandosi così nocivo».
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Haripro, leader in Italia nella produzione di proteine e aromi naturali, fornisce le pi첫 importanti aziende produttrici di ingredienti per la salumeria. Haripro grazie ad una continua ricerca, ha sviluppato negl'anni prodotti sempre pi첫 all'avanguardia, come proteine funzionali ed aromi naturali anallergici ad alto valore nutrizionale. Haripro is a leading producer of proteins and natural flavours in Italy. It supplies the most important Companies which blend ingredients for the meat industry. Haripro, thanks to a continuous research, had developed through years more advanced products like functional proteins and hypoallergenic natural flavours with high nutritional value.
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La cucina ritrovata Il libro, edito da Morellini, rilancia 80 piatti dimenticati della nostra cucina che sono stati scovati tra osterie e trattorie dai recensori de ilmangione.it, la prima web community dei clienti della ristorazione italiana
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a sbira a Genova e il risotto con le secoe a Venezia, le cee finte a Livorno e i garagolli in Romagna. E poi l’arzilla laziale, i mugliatelli cas’ e ovo campani, i cecamariti pugliesi e i busiati al rungo trapanesi. Sono alcuni piatti dimenticati della cucina tradizionale italiana che i recensori de ilmangione. it hanno scovato nei ristoranti dello Stivale, raccogliendone i segreti nel libro La cucina ritrovata. I piatti della tradizione spariti dai menu. I locali dove è ancora possibile gustarli, edito da Morellini, in vendita da gennaio nelle migliori librerie d’Italia, in alcune catene di supermercati e sul sito www.ilmangione.it nella sezione “La Bottega de il mangione”. La cucina ritrovata è un volume di 344 pagine suddivise, per ciascuno degli 80 piatti selezionati in tutta Italia, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, in tre distinte sezioni: descrizione del piatto, breve ricetta e recensione del
ANDREA GUOLO (a cura di) La cucina ritrovata I piatti della tradizione spariti dai menu. I locali dove è ancora possibile gustarli Morellini Editore 344 pp. – € 17,90 www.morellinieditore.it
ristorante dove viene tuttora preparato secondo la maniera tradizionale. Il libro, scritto con passione da reporter non professionisti, seguendo uno stile tutt’altro che pedante o accademico, alla fine diventa qualcosa di più di un semplice ricettario o guida alla ristorazione. Dipinge, tramite il cibo, uno spaccato di storia e società del nostro amato Paese, che non ha eguali al mondo per la varietà della propria offerta enogastronomica. Il libro consente inoltre al lettore di disporre di uno strumento diverso dalle guide in circolazione, perché tramite La cucina ritrovata l’appassionato di cucina potrà predisporre i propri spostamenti al fine di provare non solo piatti sempre più rari e praticamente estinti, ma anche proposte assai diffuse che però non vengono più preparate nella maniera tradizionale, come ad esempio la “vera” cotoletta alla milanese e le “vere” olive all’ascolana.
ilmangione.it, nato nel 2001, è il primo portale che ha offerto ai clienti dei ristoranti la possibilità di esprimere, via web e sotto forma di testata giornalistica, il loro giudizio sui locali provati. Fondato da Roberto Adami, direttore responsabile Andrea Guolo, conta più di 150.000 utenti registrati e ospita un patrimonio di circa 50.000 recensioni on-line. A chi serve ilmangione.it? A tutti coloro che amano la buona cucina e sono appassionati di enogastronomia. Chi scrive su ilmangione.it? La gente comune, chi non è necessariamente un critico gastronomico, ma ama condividere le proprie esperienze per farne tesoro per se stesso e la comunità de ilmangione.it Cosa ha di più ilmangione.it? ilmangione.it, proprio per la sua struttura ed il suo mezzo di divulgazione, è uno strumento unico nel suo genere e consente una costante dinamicità nel trattamento delle informazioni. Una fonte in costante aggiornamento, alla portata di tutti, su migliaia di ristoranti italiani. Un processo di informazione che parte dalla singola recensione ed abbraccia i temi dell’enogastronomia grazie alla testata editoriale.
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Cuoco per emozione Pubblicato da Rizzoli, il libro racconta la vita e le ricette di Spyros Theodoridis, vincitore della prima edizione italiana di MasterChef, il talent show gastronomico più seguito al mondo e che ha spopolato anche in Italia
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l casting dell’edizione italiana di MasterChef, il primo talent show di cucina italiano trasmesso su Sky nei mesi scorsi, si sono presentati 6.000 aspiranti, ne sono stati selezionati 40 e uno solo è il vincitore: Spyros Theodoridis. Ha dimostrato ai giudici (il fuoriclasse della cucina italiana Carlo Cracco, lo chef pluristellato Bruno Barbieri e, direttamente dall’edizione americana, Joe Bastianich) passione, bravura, creatività e tenacia. Questo è il premio: un libro di cucina con le ricette create da Spyros, rivisitazioni personali di grandi classici, ma anche aneddoti sulla sua vita e sulla trasmissione. In queste pagine il lettore ritrova il personaggio che, una puntata dopo l’altra, l’ha tenuto avvinto al televisore, in una gara appassionante a suon di primi, secondi e dessert, dalla cucina di MasterChef a quella del cacciatorpediniere Andrea Doria, dell’ambasciata neozelandese o del ristorante di Gualtiero Marchesi... E finalmente potrà scoprirne i segreti. Il libro si articola in tre sezioni, per una sessantina di ricette tra primi, secondi e dolci. L’autore Spyros Theodoridis, nato ad Atene, vive ormai da 15 anni a Modena. Per partecipare a MasterChef ha lasciato il lavoro di impiegato e adesso si è preso un periodo sabbatico per decidere come e quando realizzare il suo più grande sogno: un ristorante tutto suo. «Cucinare per me significa esprimere la mia creatività ed emozionarmi» ha raccontato Spyros al pubblico che affollava la sala durante una recente presentazione del libro a
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Modena, nella sua città di adozione. «MasterChef è stata un’esperienza bellissima, che rifarei subito, ma non certo una passeggiata. Con l’aiuto di grandi chef ho compreso le differenze tra una buona cucina casalinga e quella vera, professionale. Un piatto va pensato, studiato negli ingredienti, attraverso gli accostamenti di sapore, nelle tecniche di cottura. Va anche
disegnato per arrivare all’impiattamento perfetto. È un processo lungo, complesso e affascinante».
SPYROS THEODORIDIS Cuoco per emozione Una cucina fatta con amore Rizzoli Editore 128 pp. – € 19,90
Cronache golose, vite in cucina Se nel Cucchiaio d’argento si trova tutta la cucina italiana di casa, almeno fino alla fine degli anni Novanta, è veramente difficile parlare di una cucina nazionale per quanto riguarda la ristorazione. Una ricchezza di storie, di intelligenze, di microeconomie che mezzo mondo ci invidia e che noi conosciamo invece ancora troppo poco». È a partire da questa riflessione che nasce Cronache golose, scritto a quattro mani da Marco Bolasco e Marco Trabucco per Slow Food Editore. «Il nostro è un primo tentativo di tracciare un percorso della ristorazione italiana nell’ultimo mezzo secolo», spiegano gli autori, con un racconto che mette finalmente in primo piano la ristorazione nazionale, spesso trascurata rispetto al lustro concesso alle eccellenze straniere. A torto: quel che succede lungo lo Stivale non ha nulla da invidiare rispetto a quanto
avviene all’estero, e la nostra è forse l’unica cucina che sa come mettere in risalto il prodotto, centro di gravità permanente sia nella tradizione sia nell’innovazione, in piena filosofia slow. Introdotto dalla prefazione di Alessandro Baricco, diviso in brevi capitoli, Cronache golose ripercorre le vicende, gli aneddoti e i racconti di vita e di cucina di decine di cuochi e patron (e gli autori si scusano di non aver potuto inserirli tutti) che con la loro opera, regione per regione, hanno riportato alla luce i gioielli del nostro patrimonio enogastronomico. Chicca finale, oltre a una carrellata di ricette introvabili, il saggio di appendice a cura di Sergio Bolasco, ordinario di Statistica alla Sapienza, che, attraverso l’analisi testuale della critica gastronomica, aiuta a leggere il menu e le carte dietro le righe.
MARCO BOLASCO – MARCO TRABUCCO Cronache golose Vite e storie di cuochi italiani Slow Food Editore, 2011 – € 14,50
Innovare con la Consumer Science In questi anni si è assistito ad un veloce e drastico mutamento del paradigma classico legato allo studio descrittivo del mercato e dell’analisi dell’interazione fra gli utilizzatori e l’impresa. Si trattava di un modello anacronistico fondato sulla riduzione del processo di consumo al comportamento d’acquisto e nella spiegazione di quest’ultimo entro schemi che trattano la decisione e la scelta di un prodotto in funzione delle condizioni ambientali e della loro decantazione nel tempo. Oggi si parla di un consumo che si è tramutato in stile di vita e in ambito privilegiato di esperienze, tanto influente da generare un’autonoma visione del mondo e un proprio rango di valori con personalità del tutto peculiari. In un tale contesto, lo studio delle preferenze dei consumatori, in definitiva l’essenza della
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Consumer Science, non è più materia del marketing, oggi delegato alla comunicazione e alla promozione dei prodotti a valle dello sviluppo. L’approccio certamente più moderno prevede il coinvolgimento del consumatore sotto il profilo razionale ed emotivo, valori capaci di generare interesse e fedeltà verso un marchio commerciale. Questo libro, scritto in forma colloquiale, interessa più bacini di utenza: il crescente riconoscimento dell’importanza di alcune funzioni aziendali dedite all’innovazione per il successo nel commercio e la concentrazione della R&S (anche se oggi è rimasta solo la S) nel business dello sviluppo di prodotto, lo candidano ad un ampio consenso. Il testo è rivolto particolarmente alle funzioni di sviluppo, al marketing e anche agli studiosi accademici.
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