Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXVI N. 1 Gennaio-Febbraio 2014
Premiata Salumeria Italiana, 1/14
â‚Ź 6,70
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dal 1986
DELICATO PROSCIUTTO DI MANZO
A F F U M I C AT O & S T A G I O N AT O PER 16-18 MESI importata da
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meat.giraudi.com
Premiata Salumeria merria ia IItaliana, tta ali lia an na na a,, 1 1/14 //1 14
Favola è la prima e unica mortadella al mondo insaccata e cotta nella cotenna naturale. Un brevetto originale del SalumiďŹ cio Palmieri reso inconfondibile dal timbro a fuoco e dalla tipica legatura a mano. Un prodotto veramente unico che si distingue dalle altre mortadelle ed è adatto anche a consumatori con intolleranze alimentari.
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Delicata
per l’armonioso equilibrio di spezie, aromi naturali e miele
Digeribile
grazie all’uso sapiente dei diversi tagli di pregiate carni italiane
Naturale
senza lattosio, senza proteine del latte e senza polifosfati aggiunti
Senza glutine Favola è presente sul Prontuario dell’ Associazione Italiana Celiachia
Inconfondibilmente profumata e morbida grazie alla speciale cottura all’interno della cotenna
CARNE
% 100 ITALIANA
DA SUINI NATI E ALLEVATI IN ITALIA
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(ora Visentin)
N. 1 Anno XXVI Gennaio-Febbraio 2014
€ 6,70 EUROCARNI – PREMIATA SALUMERIA ITALIANA – IL PESCE – EURO ANNUARIO CARNE – EURO GENUINE FOOD ANNUARIO DEL PESCE E DELLA PESCA – US ANNUARIO DEI FORNITORI DELLA SANITÀ IN ITALIA Stampa
Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910
Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Renato Bergonzini – Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni – Alessandra Rotondi P.O. Box 569, New York, NY 10101-0569 Tel./Fax +1 212 956 8566 E-mail: stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Carlo Cantoni (Milano) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Aldo Focacci – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia)
Developer Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CS5.5. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CS5.1.
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Il Marzolino Pascoli del Chianti è un formaggio tipico toscano dalla particolare forma trapezoidale e inserito nella speciale categoria dei prodotti caseari da salvare. La pasta ha una consistenza tenera e un sapore dolce mentre la crosta è trattata con il concentrato di pomodoro che, oltre a garantirne una maggiore conservabilità , le conferisce il caratteristico colore rosso. Il Marzolino Pascoli del Chianti ha una maturazione di circa 30 giorni ed una pezzatura di circa 1 Kg.
info@caseiďŹ ciobusti.it
N. 1
In questo numero: Immagini
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Tendenze
Salumi prêt-à-porter
Il food in rete
Social food
Elena Benedetti
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Comunichiamo
Facebook, lesson n° two
Chiara Russotto
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Aziende
Con la Famiglia Chiari la serata si passa in aeroporto
Gaia Borghi
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La Qualità
Salame Varzi Dop, unico e protetto, da intenditori
Roberto Villa
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Prodotti tipici
Salumi cotti: la bondiola poggese Salame di patate, prodotto povero da tutelare Specialità dimenticate: il sanguinaccio
Nunzia Manicardi Nunzia Manicardi Sebastiano Corona
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Indagini
Dop e Igp fattori di traino
Mercati
Le migrazioni del cibo
Sebastiano Corona
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Turismo gastronomico
Ibiza: sole, mare e gastronomia tradizionale Il sogno di Villani è realtà
Riccardo Lagorio
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Locali di gusto
Squisito a Napoli: il trionfo dello spettacolo della cucina Lucania mitica Le mille forme della lumaca
Massimiliano Rella Riccardo Lagorio
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Sapori mediterranei
Rugiada di mare Pasta fresca e sapori salentini
Giorgia Fieni Massimiliano Rella
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Tradizioni
I timballi, delizie pasticciate
Clara Scaglioni
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Giorni di festa
Primi piatti di Carnevale, la tradizione continua
Nunzia Manicardi
Delicatessen
Il norcino… di pesce
Maurizio Dell’Agnello 68
Rassegne
Castelnuovo Rangone: il Superzampone eccolo qua
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Carrù, premiato il bue grasso ma senza gualdrappa
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Marca, il decennale nel segno della crescita
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Cibus 2014: la strategia per conquistare i mercati esteri e tante novità
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Fiere
Formaggio
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Profumi intensi di erbe selvatiche, bosco e sottobosco
Massimiliano Rella
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Casu axedu, la nicchia nella nicchia
Sebastiano Corona
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Merletti, saline e pecore
Riccardo Lagorio
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Pasta
La Igp a Gragnano
Sebastiano Corona
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Vino
Cantina La Motte, enoturismo d’eccellenza in Sudafrica
Massimiliano Rella
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Torna a Lazise l’Anteprima del Bardolino e del Chiaretto
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I vini di Premiata Salumeria Italiana
La salsiccia Napoli: vini in abbinamento
Laura Franchini
Birra
La birra artigianale: orgoglio del made in Italy
Antonella Malaguti
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Olio
La nuova era dell’olio italiano
Guido Guidi
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Aceto
Aceto Balsamico di Modena, si costituisce il Consorzio Tutela
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Tecnologie
La ricetta del successo di Eurochef Italia Srl
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Storia e cultura
Cibi da strada e l’invenzione del panino
Libri
Giovanni Ballarini
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“Sistema Cooley”: la rivoluzione del burro nel New England… Raffaele Bertolini
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Cucina astratta o creativa?
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Angelo Valentini
Grandi salumi del Gambero Rosso
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“Cibo e libertà”
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In copertina: Mortadella Bologna Igp (photo © Massimiliano Rella).
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Una stagionatura così lunga ha un gusto tutto particolare È il territorio appenninico che segue il corso del Panaro, tra le province di Modena, Bologna e Reggio Emilia che dona al prosciutto di Modena Dop quel gusto assolutamente caratteristico dal sapore dolce e intenso. Come unici sono gli ingredienti che lo compongono: coscia di suino italiano, sale e i suoi 14 mesi di stagionatura minima. Perchè solo un prosciutto così è crudo, è buono, è Modena. Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale: l’Europa investe nelle zone rurali
consorzioprosciuttomodena.it
Immagini
Lo chef Federico Valicenti del ristorante Luna Rossa di Terranova di Pollino (PZ) posa con una collana di peperoni cruschi di Senise. Il menu di Federico è un vero e proprio manifesto in difesa della piÚ antica tradizione lucana. Gustiamocelo nel servizio di Massimiliano Rella a pagina 52 (photo Š Massimiliano Rella).
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Salumi¿cio Ferrari Erio & C. S.p.a. – Via Canaletto Nord, 565/A – 41122 MODENA – ITALY Tel. +39 059 310015 – Fax +39 059 450251 – E-mail: info@salumiferrari.it
Tendenze
Salumi prêt-à-porter
Se l’appetito vien passeggiando, cosa c’è di meglio di una sfiziosa porzione di salumi da passeggio? E gustarseli così, da soli, fetta dopo fetta, non solo dentro ad un panino, una michetta, una focaccia. A San Francisco, fucina continua di nuove tendenze ed idee originali, la storica Salumeria Boccalone (www.boccalone.com), in attività dal 1917, propone il “portable salumi cones”, un piccolo cono di cartone (attenzione a non eccedere nella golosità: non provate a mangiarvi anche quello come fosse un cono gelato) atto a contenere qualche fetta di salame, coppa, mortadella. Un modo simpatico ed originale per mangiare i salumi, comodo da impugnare e trasportare continuando a gironzolare per le vie della città. Perché in questa bella salumeria americana i salumi li amano davvero, tanto da dedicare loro un manifesto del quale riportiamo alcune frasi: “apprezzare i salumi richiede la pazienza di aspettare che essi raggiungano il cosiddetto picco di perfezione, un attimo fuggente in cui il loro gusto, complice la stagionatura ideale, la lenta maturazione dei sapori, è al meglio (...). Cercare sapori migliori, quindi, non di più, è ciò che ci insegnano i salumi. Un approccio al cibo e alla vita che non rappresenta solo un bene per l’individuo, ma è meglio anche per il mondo”.
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Il food in rete
Social di Elena
1. Il Tortellino I tortellini sono raccontati in tutta la loro straordinaria storia in questa applicazione per iPad, che si propone di spiegare e divulgare a tutti, anche ai non esperti, la vera ricetta del tortellino tradizionale di Modena. Il contenuto, sviluppato in italiano e in inglese, è suddiviso in quattro parti: un’introduzione storica sull’origine delle paste ripiene, le usanze gastronomiche e i prodotti che sono alla base della nascita del tortellino. Segue la ricetta del tortellino tradizionale di Modena, quella depositata dall’associazione “La San Nicola” di Castelfranco Emilia, che ha sostenuto e sponsorizzato questo progetto, e consigliata da Slow Food. La ricetta è spiegata con video, immagini e supporti audio che guidano alla preparazione: dalla sfoglia tirata a mano al ripieno, fino alla piegatura nella tradizionale forma che evoca l’ombelico di Venere. Nella terza parte si sviluppa il tema delle influenze culturali e sociali sul territorio e dei luoghi tipici che vedono la preparazione di questo piatto. L’applicazione si può scaricare dall’App Store di iTunes, al prezzo di € 1,79.
2. www.gola.it Con sede a Castel Gandolfo (Roma) e sul web al link gola.it, questo portale dedicato al food di qualità e agli accessori professionali da cucina è un bell’esempio di food e-commerce. “La nostra sfida è riuscire a trovare tutto il meglio e solo il meglio stagione per stagione, per scoprire insieme tutti i tesori regionali nascosti della nostra cucina e condividerli con te, che sai apprezzarli per il loro giusto valore”, leggiamo nella homepage del sito. “I prodotti che Gola.it consegna sono fonte di cultura ed entertainment. Ogni singolo prodotto è confezionato con cura meticolosa e accompagnato da informazioni coinvolgenti, tutto è orientato a soddisfare il bisogno di conoscere, ed eventualmente mescolare, le diversità proprie di ogni cultura, i molteplici volti ed espressioni della ricca cultura italiana. In questo modo la cena organizzata con gli amici, trasforma l'esperienza del bere e del mangiare in un vero e proprio evento culturale, piacevole e coinvolgente”.
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food Benedetti
4. www.pinterest.com/redazioneepi
3. difendilaqualita.it “Il Prosciutto di Parma DOP difende la tua qualità della vita, almeno a tavola”. Questo l’incipit del portale web difendilaqualita.it che mette in evidenza il concetto di “qualità agroalimentare”, intesa anche come benessere e stile di vita sano. Il tutto in un contesto molto social. Il sito collega il visitatore con i canali Facebook, Twitter e Instagram del Consorzio del Prosciutto di Parma, comunica gli eventi più importanti del settore, pubblica ricette e video, e aggiorna su concorsi a premi e vincitori. Il tutto attraverso un linguaggio moderno, dinamico e molto “fotografico”.
È tra i cento siti web più navigati del mondo, con una percentuale altissima (intorno all’80%) di utenti di sesso femminile. PINTEREST, il social network fondato nel 2010 da Evan Sharp, Ben Silbermann e Paul Sciarpa, dedicato alla condivisione di fotografie, video ed immagini ha alla base un’idea tanto semplice quanto vincente: quella di creare bacheche virtuali per gestire la raccolta di immagini in base a temi predefiniti. Il suo nome deriva dall’unione delle parole inglesi pin (appendere) ed interest (interesse). L’iscrizione è gratuita e il portale è integrato con Facebook, Twitter e Flickr. Anche la nostra Redazione di Premiata Salumeria Italiana è molto attiva su Pinterest al link pinterest.com/redazioneepi, con 26 bacheche dedicate al food. Per trovare idee, appuntare belle foto, promuovere le copertine delle nostre testate e farci ispirare dai creativi del web.
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Comunichiamo
Facebook, lesson n° two di Chiara Russotto
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ello scorso numero ci eravamo lasciati con la creazione, step to step, della nostra prima pagina ufficiale Facebook. Oggi sistemeremo privacy e impostazioni della nostra pagina, inviteremo i nostri amici e la nostra mailing list a seguire la nostra pagina con un “Like”, capiremo l’importanza di avere una netiquette, impareremo a scrivere i post ed a taggare le persone nelle nostre foto. Dite
che è troppo? Non vi preoccupate, ci vorrà un attimo!
“modifica impostazioni”. Ora vediamo di settare tutte le impostazioni.
Impostazioni e privacy: definiamo le regole di casa Come prima cosa dovete definire le regole di “casa”, decidendo cosa si può e cosa non si può fare sulla pagina ufficiale Facebook della vostra azienda. Entrate nella pagina. In alto troverete il pannello Amministrazione (Immagine 1). Cliccate su “modifica pagina” e, quindi, tornate a cliccare su
Visibilità pagina Attraverso la modifica di questo parametro, date la possibilità alle persone di trovare la vostra pagina: chiaramente l’impostazione dovrà essere in Pagina Pubblica. Ma a cosa serve nasconderla? Se la vostra pagina è nuovissima, e non volete che i vostri clienti si trovino di fronte ad un “luogo” privo di contenuti (post),
Chiara Russotto ha 36 anni, è consulente di comunicazione e titolare insieme a Federico Roveda di Smarti Editrice. Si occupa prevalentemente di food, adora i suoi clienti, cede al cibo per amore, lotta con la dieta, ride, ha due cani ed una passione per i libri che trattano argomenti dei quali, lei, non capisce assolutamente nulla.
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potete nasconderla per il tempo che vi serve, così da dargli vita creando una storia aziendale (approfondiremo oltre l’argomento). Possibilità di pubblicare Scegliete cosa possono fare i vostri fan: 1. spuntando la prima opzione darete la possibilità alle persone di pubblicare commenti sulla vostra pagina aziendale; 2. spuntando la seconda gli darete la possibilità di pubblicare foto e video. Dipende dal tipo di attività che svolgete: se fate un lavoro che vi espone a critiche (telefonia per esempio), evitate di permettere agli utenti di commentare (perché nel migliore dei casi vi manderanno continue richieste di aiuto). Se, al contrario, siete interessati ad interagire con i vostri clienti, vi consiglio caldamente di dare la possibilità a tutti di scrivere o pubblicare foto e video sulla vostra pagina. Un cliente che manda la foto di una bistecca appena comprata nel vostro negozio, vi fa una pubblicità grandissima. Non solo in termini di soddisfazione personale, ma anche in termini di passaparola: gli amici di questa persona vedranno che si affida a voi e proveranno incuriositi i vostri prodotti. Visibilità dei post Stesso discorso di prima: decidete se fare vedere a tutti i post che vi scrivono i vostri clienti. Limitazione della privacy dei post Le pagine possono essere gestite da più persone, ovviamente di fiducia. Per questo non c’è nessun bisogno di controllare la privacy dei post che scrivete voi. Messaggi Volete aumentare la vostra mailing list? Non consentite alle persone di potervi scrivere messaggi privati e mettete ben visibile il vostro indirizzo e-mail di primo contatto. Preferite che loro vi scrivano messaggi privati per instaurare un primo rapporto di fiducia? Permette che vi scrivano messaggi privati.
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Immagine 1. Possibilità di taggare Su ciò non ci sono dubbi: lasciate alle persone la possibilità di taggare le vostre foto, il passaparola sarà virale. Notifiche Decidete quando (e come) volete essere informati da parte di Facebook in merito alle attività che coinvolgono la vostra pagina. Limitazioni in base al Paese Potete decidere di nascondere la vostra pagina ad alcune nazioni e, allo stesso modo, potete decidere di mostrarla solo a determinate nazioni. Risultato: se non modificate nulla, la vostra pagina sarà visibile da tutto il mondo. Limitazioni in base all’età Volete che la vostra pagina sia vista da tutti al di sopra dei 13 anni o volete che sia vista dai 18 in su? Se per esempio voi parlate a chi ha potere di acquisto (donne e uomini) potrete anche escludere i minorenni.
Ma se preparate prodotti anche per i bambini (svizzere di spinaci a forma di orsetto), non ponete limiti di età (perché saranno proprio i bambini ad influenzare i genitori). Moderazione della pagina: i filtri Facebook vi dà la possibilità di bloccare in fase di pubblicazione i post dei fan che contengono determinate parole: ad esempio vegano… A parte gli scherzi, potreste non avere neppure bisogno di questo filtro. Una volta pubblicati, tutti i post più aggressivi possono essere eliminati, mentre quelli di critica costruttiva devono essere considerati come forma di comprensione per migliorare (rispondete sempre super educatamente, sempre!), spiegare le proprie scelte o per creare un prodotto che risponda alle esigenze di un target diverso e, come sempre, ritorniamo alle “svizzere di spinaci”, 0 carne, tanto gusto. Filtro volgarità Ve lo dico io: deve essere molto re-
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strittivo, in quanto il confronto va bene, ma le volgarità assolutamente no. Suggerimenti di pagine simili Sì! Risposte Scegliete se rispondere direttamente al commento della persona che vi ha scritto oppure se risponderle come nuovo commento. Va bene in ogni modo. Rimuovi pagina Quando decidete di rimuovere la vostra pagina, Facebook si prende circa 15 giorni di tempo per rendere l’operazione definitiva. Questa azione la consiglio vivamente a chi ha creato una pagina aziendale e non la utilizza. In tal modo, eviterete che la vostra azienda su Facebook diventi uno spazio in cui altre aziende promuovono sé stesse. Perché è meglio non comunicare affatto piuttosto che comunicare male su social network.
Immagine 2.
Amministratori Chi crea la pagina gestisce i ruoli di amministrazione, aggiunge cioè persone che possano contribuire alla creazione dei post e inserire contenuti con cui coinvolgere i fan (Immagine 2). Netiquette La netiquette è quell’insieme di regole che disciplinano il comportamento di un utente internet in relazione ad altri su Blog, Social Network, Forum, ecc… Quindi, è importante — per trasparenza nei confronti dei vostri fan — definire quali siano le “regole della casa”, quali interazioni siano ben accolte e quali invece vi porteranno a bannarli (segnalarli a Facebook). Vi consiglio a questo riguardo di andare a visitare la pagina ufficiale Facebook di Nutella o di qualsiasi altro grande brand, e leggere i contenuti della loro netiquette (Immagine 3).
Immagine 3. Conclusioni Questo mese abbiamo imparato a settare, secondo i nostri bisogni, le impostazioni della nostra pagina aziendale Facebook ed abbiamo scoperto la possibilità di dire ai nostri clienti, fan ed utenti, quali siano le regole di “Galateo” della nostra pagina, facendole rispettare senza grossi problemi. Dal prossimo articolo torneremo a trattare di strategia e comunicazione,
parlando finalmente di come scrivere i post, che tipo di contenuti pubblicare, come interagire con il nostro pubblico anche gestendo le criticità. Chi di voi volesse approfondire l’argomento netiquette o volesse sottopormi la propria pagina aziendale, per una valutazione più approfondita, può scrivere ad info@ pubblicitaitalia.com Chiara Russotto
Domandateci, chiedeteci, contattateci: ogni mese, attraverso questa rubrica, risponderemo alle mail che ci sembreranno più utili ad approfondire gli argomenti trattati. Vi preghiamo di darci più informazioni possibili, così da rendere i nostri consigli efficaci o nel caso siate interessati ad argomenti specifici, di comunicarcelo a info@pubblicitaitalia.com
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Aziende Un progetto entusiasmante, la forza di un gruppo, nel ricordo di Rino
Con la Famiglia Chiari la serata si passa in aeroporto di Gaia Borghi
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ecchia Malga è prima di tutto una grande famiglia. Questo è il pensiero, chiaro e lampante, che emerge immediatamente al termine della mia chiacchierata con STEFANO CHIARI, insieme alla madre Mara e al fratello Gabriele alla guida dell’azienda bolognese attiva nel settore dell’agroalimentare fin dal 1969. Fu il padre Rino, scomparso esattamente un anno fa, nel gennaio del 2013, ad avere l’intuizione di importare prodotti freschi direttamente dalle zone di produzione, per poi rivenderli ai negozi al dettaglio di Bologna. Dalla città delle due torri il mercato si è allargato velocemente fino a Modena, poi via via al resto d’Italia. Nel 2000 l’apertura del primo spaccio con vendita diretta dei prodotti a fianco dello stabile principale dell’azienda, in via Roma, a Zola Predosa, a pochi chilometri da Bologna: tortellini e tortelloni freschi, prosciutti, salumi e formaggi, il meglio del food emiliano e del made in Italy alimentare. Il riscontro della clientela è immediato, l’interesse cresce e le inaugurazioni si susseguono: nel 2005 il punto vendita all’Aeroporto Marconi, l’anno dopo e quello successivo due negozi in città, il primo in via Mazzini e il secondo, La Baita, in via Pescherie Vecchie, un luogo storico che è stato al centro di diversi servizi televisivi e dove oggi si possono acquistare anche squisiti funghi freschi e tartufi. Intanto passano tre anni e la famiglia Chiari apre un nuovo locale a Monte San Pietro, Calderino, sulla via Lavino. Nel 2011, si rientra in città, per aprire un nuovo negozio sulla centralissima Ugo Bassi. “Per ottenere risultati nel mondo del
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lavoro ci vuole tanta volontà, molta serietà e, soprattutto, bisogna credere in quello che si fa — scriveva in una bellissima lettera conservata dai suoi famigliari Rino Chiari — nulla viene per caso, se la fortuna ti aiuta è difficile sbagliare, questo mi hanno insegnato i miei genitori, questo è quello che cerco di trasmettere ai miei figli”. Proprio in queste parole è contenuta la filosofia di un gruppo, di un’azienda, di una famiglia di successo. «La nostra forza, una delle nostre armi vincenti, oltre alla qualità di base dei prodotti che vendiamo, è senza dubbio l’affiatamento, il fatto che i nostri collaboratori siano con noi da tempo e con noi siano cresciuti» mi dice Stefano Chiari. «D’altronde, il sostantivo “famiglia” compare anche nel nostro marchio,
è presente sulle confezioni dei nostri prodotti, e questo dà l’idea di quanto sia importante per noi». A conferma del concetto espresso da Stefano, nel 2009, per festeggiare i primi quarant’anni di attività di Vecchia Malga, tutti i dipendenti e i collaboratori dell’azienda hanno contribuito alla realizzazione di una grande festa a sorpresa per i titolari, dimostrando una volta di più il loro attaccamento a Vecchia Malga e la profonda stima alla proprietà. «Stima e rispetto reciproco» precisa Stefano. «Questo ci tengo molto a sottolinearlo: Vecchia Malga ha raggiunto tanti successi, realizzato progetti e si appresta a realizzarne altri anche e soprattutto grazie a loro». Proprio di nuovi progetti, infatti, vogliamo parlare. «Si tratta dell’ultima idea di mio padre» mi racconta
Il ristorante Vecchia Bologna si trova all’interno dell’Aeroporto Guglielmo Marconi ed è aperto con orario continuato dalle 9.00 alle 21.00.
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Ugo Bassi Via Ugo Bassi 25 (40121) Bologna Telefono: 051 223832
Stefano. «Una nuova osteria, ubicata all’interno dell’Aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna, accanto all’ingresso principale. Si chiamerà “Vecchia Bologna” e l’apertura è imminente. Una particolarità: sarà l’unica attività commerciale che si vede dall’esterno, proprio a fianco dell’esposizione della Lamborghini». Due eccellenze bolognesi che accolgono e salutano i viaggiatori in partenza e in arrivo da Bologna: decisamente un bel colpo d’occhio, la presentazione della città che avviene finalmente attraverso due simboli vincenti e positivi, gastronomia tradizionale e motori. Un’osteria-wine bar, dicevamo quindi, con un’offerta selezionata di vini, che andrà ad affiancare l’altro ristorante della famiglia già presente all’interno dello scalo bolognese, inaugurato all’inizio del 2013. Il piatto forte dell’Osteria “Vecchia Bologna” sarà rappresentato dalla carne alla griglia, oltre, naturalmente, a qualche primo piatto della tradizione bolognese e a piadine e tigelle servite con i formaggi e i salumi firmati Vecchia Malga. «Mio padre pensava a questo progetto da tempo — ci dice Stefano — ed aveva già acquistato parte del mobilio, come il carro dell’Ottocento che campeggerà accanto alla vetrata». Dal carro alle automobili all’aereo: l’evoluzione dei trasporti. «Il nostro obiettivo — prosegue Stefano — è quello di far vivere
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Zola Predosa Via Roma 55/A (40069) Zola Predosa (BO) –Telefono: 051 6166740
La Baita Via Pescherie Vecchie 3/A (40124) Bologna – Telefono: 051 223940
l’aeroporto anche di sera: ecco perché abbiamo deciso di realizzare un locale curato nei minimi particolari, dall’arredo elegante, con una capienza di circa 90 posti. Nella sala sistemeremo anche un pianoforte e prevediamo di organizzare delle serate con musica dal vivo e cabaret. Per venire incontro alle esigenze della clientela e invogliarla a spostarsi fuori dal centro, inoltre, abbiamo fatto delle convenzioni per risolvere il problema del parcheggio: chi cena in osteria avrà diritto a 4 ore gratuite di posto auto». Una bella comodità, non c’è che dire. Tutti a cena in aeroporto allo-
Aeroporto Marconi Via Triumvirato 84 (40100) Bologna Telefono: 051 6472198
Mazzini Via Mazzini 93 – ang. via Bassi (4013) Bologna – Telefono: 051 346508
ra! Senza valigia, col cuore leggero ed il palato soddisfatto, un modo diverso di vivere la città e gustare i suoi sapori. Gaia Borghi >> Link: www.vecchiamalganegozi.it
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La Qualità
Salame Varzi Dop, unico e protetto, da intenditori Nel cuore dell’Oltrepò pavese, lungo l’Antica via del Sale, il Salumificio Magrotti dispensa questa bontà secondo tradizione e nel pieno rispetto del disciplinare di produzione di Roberto Villa
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mmerso nelle verdi colline che si elevano dalla Pianura Padana e portano verso il Mar Tirreno settentrionale — lungo l’antica “Via del Sale” che collegava Milano alla Repubblica di Genova — il laboratorio è nato dapprima come macello locale, successivamente si è specializzato nella trasformazione dei salumi, per finire nello specializzarsi con la produzione di salame. Da oltre quarant’anni, infatti, il Salumificio Magrotti arricchisce le cucine e le
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tavole degli estimatori con salumi prodotti secondo le più antiche tradizioni dell’Oltrepò pavese. Ogni pezzo viene preparato con la massima attenzione e nasce dalla passione per la qualità, dal sapiente dosaggio delle carni e delle spezie, dalla commistione unica delle dolci brezze marine, provenienti dal Golfo ligure, con le fresche correnti appenniniche. La cura di una lavorazione artigianale con legatura rigorosamente a mano e le garanzie offerte dai si-
stemi di sicurezza alimentare e dalle tecnologie più moderne fanno del laboratorio del Salumificio Magrotti un autentico polo d’eccellenza nel mondo dell’enogastronomia. I tagli di carne vengono acquistati da macelli abilitati, che per il Disciplinare del Salame Varzi DOP devono derivare da suini provenienti solamente da tre regioni (Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna). Magrotti acquista spalle disossate, cosce con osso, grasso di gola, pan-
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Il Disciplinare del Salame Varzi Dop Il Salame Varzi — una delle prime denominazioni di origine protetta italiane ad essere stata riconosciuta a livello prima nazionale (Legge 30 maggio 1989, n. 224) e poi comunitario (Regolamento CE 1107/96) — deve essere prodotto e stagionato nei seguenti comuni della provincia di Pavia: Bagnaria, Brallo di Pregola, Cecima, Fortunago, Godiasco, Menconico, Montesegale, Ponte Nizza, Rocca Susella, Romagnese, Santa Margherita Staffora, Val di Nizza, Valverde, Varzi e Zavatterello, tutti facenti parte della Comunità montana n. 1 dell’Oltrepò pavese. Le carni devono derivare da suini nati, allevati e macellati in Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna; sono ammessi i seguenti tagli: spalla, coscia, lonza, filetto, coppa opportunamente snervata, pancettoni convenientemente mondati, triti di prima qualità. Il grasso da impiegare è esclusivamente quello del guanciale, della testata di spalla, del culatello e lardello, con esclusione dell’uso di carne congelata o comunque conservata. La resa in pasta di salame si deve aggirare intorno al 28-33% del peso dell’animale vivo, non usando coppe e pancette; sul 35-40% se si usa la totalità dei tagli sopra elencati. Il rapporto di carne/ grasso presente nell’impasto deve essere per ogni 100 kg di carne magra 40-45 kg (30-33%) di grasso. La miscela di salagione deve essere costituita da: sale marino (max 25 g/kg), sodio o potassio nitrato (max 0,25 g/kg) o sodio nitrito (max 0,15 g/kg) — se invece si usa una miscela di nitrato e di nitrito max 0,25 g/kg — pepe nero in grani interi (max 2 g/kg), infuso di aglio in vino rosso filtrato (max 10 ml/kg). La grana della carne e del grasso costituenti la pasta di salame deve corrispondere all’impiego di uno stampo con fori da 12 millimetri. Il budello da impiegarsi per l’insaccato deve essere di maiale ed il prodotto ottenuto, opportunamente forellato, deve essere legato con spago a maglia fitta. L’asciugatura e la stagionatura devono avvenire in locali convenientemente aerati, con opportune attrezzature e tecniche, in funzione delle caratteristiche climatiche e dell’orientamento. Il periodo minimo di stagionatura varia in funzione della pezzatura del prodotto. Sono caratteristiche merceologiche del “Salame di Varzi”: a. la pezzatura che presenta le seguenti distinzioni: 1. Salame di Varzi piccola pezzatura (tipo Cacciatore): peso inferiore a 0,5 kg con periodo minimo di stagionatura 30 giorni (compresa asciugatura); 2. Salame di Varzi-Filzetta: peso da 0,5 a 0,7 kg con periodo minimo di stagionatura 45 giorni (compresa asciugatura); 3. Salame di Varzi-Filzettone: peso da 0,7 a 1 kg con periodo minimo di stagionatura 60 giorni (compresa asciugatura); 4. Salame di Varzi-Sottocrespone a budello semplice: peso da 1 a 2 kg con periodo minimo di stagionatura 120 giorni (compresa asciugatura); 5. Salame di Varzi-Cucito a budello doppio: peso da 1 a 2 kg e più con periodo minimo di stagionatura 180 giorni (compresa asciugatura). b. la tenerezza e il colore vivo al taglio; c. l’impasto che deve risultare compatto e la presenza della parte grassa, perfettamente bianca in giusta proporzione; d. il sapore dolce e delicato, l’aroma fragrante e caratteristico, strettamente condizionato al lungo periodo di stagionatura. I salami, subito dopo l’insaccatura, durante la legatura prima dell’asciugatura, devono essere muniti di sigillo atto a garantire la corrispondenza a quanto previsto dal Disciplinare. >> Link: www.consorziodituteladelsalamedivarzi.it
cettoni scotennati: tutte le materie prime vengono mondate dal personale interno. Successivamente, vengono miscelate, al fine di ottenere un giusto equilibrio tra parti magre e parti grasse, con l’aggiunta di conservanti, sale, pepe e infuso di aglio nel vino. Piero è il maestro di cerimonie: fa gli ordini di carni ed ingredienti, segue tutta la lavorazione con passione da ricercatore, guida i collaboratori con occhio esperto, affinché tutto proceda secondo la regola dell’arte.
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Il Salame Varzi Magrotti, oltre che nel negozio annesso al salumificio, si trova in alcune salumerie pavesi ed anche fuori provincia, ma anche in alcuni punti vendita della Grande Distribuzione. Lo si può anche degustare in alcuni selezionati ristoranti dell’Oltrepò pavese, abbinandolo divinamente con i vini che nascono nella stessa terra collinare. La volontà è quella di rimanere piccoli, per continuare a fare le cose
bene e secondo tradizione, puntando sul riconoscimento della qualità e della sapienza artigiana da parte del consumatore. Roberto Villa Salumificio Magrotti di Magrotti Piero Frazione Fornace, 8 27052 Montesegale (PV) Telefono: 0383 99047 E-mail: contatti@salumificiomagrotti.it Web: www.salumificiomagrotti.it
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Prodotti tipici Specialità di Poggio Renatico, Ferrara, ha remote origini romagnole
Salumi cotti: la bondiola poggese di Nunzia Manicardi
L
a bondiola poggese, un salume cotto dal sapore particolare, si può gustare soltanto a Poggio Renatico, nel Ferrarese, all’ombra del Castello Lambertini, ancora tutto da ammirare benché fortemente danneggiato per i terremoti del maggio 2012 che qui hanno inferto gravissime ferite (Poggio Renatico è stato uno dei comuni più danneggiati). Le scosse sismiche hanno provocato il crollo della torre dell’orologio del Castello (quest’ultimo, costruito nel Medioevo dai Gustavillani e poi di proprietà dei Lambertini dal XV secolo, fu anche dimora temporanea della regina Cristina di Svezia esule in Italia dopo l’abdicazione) e il danneggiamento del campanile e della cupola della Chiesa Abbaziale di San Michele Arcangelo, con conseguenze pesanti per il patrimonio artistico locale (il campanile è stato abbattuto con cariche esplosive poiché la sua instabilità stava mettendo a rischio la chiesa sottostante). Nonostante tutto, la bondiola poggese resiste, e resiste assai bene. Lo dimostra anche l’eccellente successo dell’edizione 2013 della sagra, annualmente ad essa dedicata e organizzata dal Comune insieme con l’A.C.D. Polisportiva Poggese, a cui ho partecipato anch’io. A Poggio Renatico la tradizione della bondiola e della sua commercializzazione è sempre saldamente in mano a CARLO ALBERTO MONTANARI e alla sua omonima salumeria-macelleria (si veda box), anche se non mancano in zona altri produttori di qualità. È sempre alle sue sapienti mani di maestro salumiere che si affida la
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sagra annuale settembrina, di cui è il rifornitore ufficiale. Il signor Montanari ha però origini romagnole: la bondiola deriverebbe, infatti, dal bèl e còt, tipico salume delle cittadine di Lugo e Bagnacavallo situate nella limitrofa provincia di Ravenna, luoghi in cui la sua famiglia affonda le proprie radici. Carlo Montanari, oggi ultraottantenne, utilizza la ricetta tramandata dal 1873 prima dal nonno Ottavio, norcino a Bagnarola di Budrio (nel confinante Bolognese), poi dal padre Mario, maestro salumiere fino all’età di 100 anni e vissuto per 103. Della bondiola, non a caso, si dice che favorisca la longevità! Sarebbero stati quindi i Montanari ad importarla a Poggio, adattandola poi alla realtà locale in modo tanto originale da farle meritare la definizione di “poggese”.
C’è anche da rimarcare che la bondiola appartiene comunque al vasto mondo dei salumi cotti ferraresi, prima fra tutti la famosa salama da sugo. Ma, ripeto, il prodotto si differenzia comunque per la sua unicità di impasto e di sapori, per cui va considerato in sé e per sé. Tanto meno va confuso con la bondiola veneta, come mi hanno fatto ben notare i poggesi presenti alla sagra, e nemmeno con quella lombarda. La bondiola poggese è un salume insaccato in vescica suina e composto da capocollo, cotenna battuta e spezie, non stagionato. Necessita di una cottura paziente, fatta a regola d’arte: va sistemata in un sacco e fissata ad un legnetto, in quanto non deve toccare il fondo del recipiente in cui deve bollire non meno di quattro ore. Una volta
La bondiola, salume cotto tipico del Ferrarese.
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Zirudèla d’la bondiola di Narzìs (Narciso) Zirudèla d’la bondiola, profumèda c’me ‘na viòla, l’an è brisa veneziéna e t’pu dir ch’l’è sòl nustréna. Se ’na fèsta al Pùz ai è (mò se t’vù anch tott i dè) sòlla tèvla ag vól un quèl ch’al sudèsfa al tó pinguèl. Se tu offri la bondiola non sarai ’na banderuola, ma sarai considerato uno che stima il palato. La parrèv ’na salamènna mo l’è sòl ’na sò cusènna,
l’è picànta, anc un pó dòlza e la fàm li l’at asmórza; se tè t’è da festegèr San Michèl o ’l dè d’Nadèl, la bondiola l’è da ufrìr a qualùnque furastìr. L’an è brìsa d’la Rumàgna mò la vèn da la campagna, l’è d’la nostra tradiziòn e la pèr un salamòn; còt’ in t’l’àqua par quàtr’ór la mantèn al só savòr dèntar tót in t’la budèla… tòc e dài la zirudèla.
La tradizione della Salumeria Montanari di Poggio Renatico ha origini che risalgono al 1873, quando OTTAVIO MONTANARI, nonno dell’attuale titolare CARLO ALBERTO, iniziò questa attività a Bagnarola di Budrio, in provincia di Bologna. Ottavio ebbe undici figli; alcuni incominciarono ben presto ad aiutare il padre nello stesso lavoro, altri intrapresero strade diverse. Uno di questi, Ernesto, iniziò la conduzione di un’azienda agricola nel comune di Poggio Renatico (Ferrara), la Tenuta Pioppa, e i fratelli Mario e Giacomo lo seguirono. Nel 1925 Mario e Giacomo decisero poi di aprire una salumeria nel centro di Poggio Renatico, attività oggi ancora aperta. Da subito i fratelli si specializzarono nei salumi locali, tra cui la famosa salama da sugo, che per loro merito è diventata un vero “cavallo di battaglia”, rinomata a tal punto da apparire fin dal 1967 nell’Annuario dell’Accademia Italiana della Cucina, con citazione su Itinerari della buona tavola di MARIO SOLDATI. La collaborazione tra Mario e Giacomo proseguì fino al 1976, quando quest’ultimo si ritirò dall’attività. Mario Montanari ha avuto la soddisfazione di vedere il proprio figlio Carlo Alberto seguire la stessa strada fin da giovanissimo, essendo entrato nell’azienda paterna nel 1947. Dal 1976, coadiuvato dalla moglie Lorena, ha assunto la conduzione dell’azienda e del piccolo laboratorio di produzione salumi per continuare a soddisfare la schiera degli amici buongustai nel tempo susseguitasi. Lo spirito della Salumeria Montanari si può riassumere in poche parole: la costante attenzione alla qualità dei prodotti portata avanti con dedizione. «Il nostro segreto — scrivono i titolari — è l’amore, l’amore per il nostro lavoro, il rispetto delle materie prime, il desiderio di servire la propria clientela nel migliore dei modi, poi il divertimento e l’entusiasmo nell’intrattenere la clientela, scambiando quattro chiacchiere mentre si procede all’assaggio di qualcuna delle nostre specialità» (in foto, la Salumeria Montanari). >> Link: www.montanarisalumeria.it
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cotta, va tolta la “buccia” tutta in un colpo, rovesciandola verso l’esterno come si fa con i guanti, dopo di che la bondiola, bella rotonda e compatta, va tagliata a spicchi (come se fosse una mela) e poi gustata, come ho fatto io, con il purè di patate. Il sapore è forte, antico, rustico e insieme raffinato: difficile discernere le singole spezie, anche perché sono segreti artigianali che non vanno rivelati per non perdere il primato sul campo. Comunque è più delicata della salama da sugo e l’abbinamento con il purè stempera gli eccessi esaltandone le caratteristiche. Alla loro bondiola i poggesi hanno dedicato anche un’altra tipicità del territorio, la zirudèla (cioè un componimento umoristico in dialetto che veniva recitato “a braccio” durante i convivi contadini e che oggi viene ripreso durante qualsiasi tipo di festa collettiva, compresi i matrimoni). La riporto così, senza tradurla in italiano, perché mi sembra comprensibile, soprattutto dopo quanto già detto al riguardo. E poi è così bella, nel suo dialetto arcaico e dai suoni larghi e cantanti, senza necessità di snaturarla in un’altra lingua. Anche Gianni Morandi (di origine bolognese) ha voluto ricordare questo idioma in una delle sue più recenti canzoni: composta da TADDIA, è intitolata Bellemilia, è ispirata al terremoto del 2012 ed è interpretata dal cantante — insieme con il coro Giovani della parrocchia locale — proprio in dialetto poggese. Ciononostante, se qualcuno avesse necessità di spiegazione, vi consiglio di andare a cercarla direttamente a Poggio Renatico, così avrete modo, nel frattempo, di gustare la bondiola locale con il suo bel contorno fumante. Non dimenticando che nel corso della sagra di settembre ad essa dedicata vengono proposti molti altri piatti locali non meno apprezzabili, come le penne alla poggese, i caplàz con la zùca, lo stinco al forno, il somarino con polenta e la “concorrente” salama da sugo, anch’essa con purè di patate. In tal modo, tra segni del territorio e prodotti tipici la vita va avanti. Nunzia Manicardi
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Piemonte tipico
Salame di patate, prodotto povero da tutelare di Nunzia Manicardi
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n tempo veniva preparato il giorno dell’uccisione del maiale. Nasceva, come facilmente si può intuire dal nome, da situazioni di povertà endemica che rendevano necessario il ricorso ad ogni espediente per cercare di aumentare cibo e calorie e far sopravvivere la famiglia. Tipico del Piemonte, è un insaccato dal sapore delicato a base di patate bollite e carne di maiale, condito con aglio, sale e pepe. Si mangia fritto o cotto alla brace oppure spalmato sul pane. Deriva dalla categoria più generale dei sanguinacci, tant’è vero che in alcune zone del Biellese viene aggiunto un po’ di sangue per dare al prodotto un colore rosaceo. Con differente terminologia è denominato anche “salampatata”. Prodotto agroalimentare tradizionale della Regione Piemonte Il salame di patate è prodotto specialmente nelle aree del Canavese, di Ivrea, di Castellamonte e di Cuorgnè (Torino), dove è possibile acquistarlo anche nei negozi e non solo degustarlo nei luoghi della ristorazione. Pur nella sua rustica e antica semplicità, e anche proprio per questo, il salame di patate è un prodotto che va salvaguardato e tutelato. Infatti, con delibera DGC n. 163 del 31/5/2006, è stato classificato come “Prodotto agroalimentare tradizionale” della Regione Piemonte, ai sensi dell’art. 8 del DLgs. 30 aprile 1998 n. 173 e dell’Allegato alla delibera della Giunta regionale 15 aprile 2002 n. 46-5823. La preparazione del salame di patate è abbastanza semplice; tuttavia, bisogna prestare una certa attenzione.
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Innanzitutto vengono fatte bollire le patate ma, poiché il prodotto è stagionale (va lavorato soltanto da ottobre a marzo), quelle novelle non vanno bene perché non sono adatte alla lavorazione per le loro caratteristiche intrinseche; inoltre, il salame di patate, essendo molto delicato, patisce il caldo. I ritagli di carne (carnetta, triti di banco, grasso di sottogola, spolpo di costine, ecc…) vengono passati nel tritacarne insieme alle patate e agli aromi. Vanno poi aggiunti il sale (nella misura di 2-2,5 kg per 1 quintale di carne), il pepe grosso e fine, una grattugiata di noce moscata, la cannella e i chiodi di garofano in polvere, senza mai abbondare per quanto riguarda le spezie perché si correrebbe il rischio di
coprire o alterare il gusto di base della preparazione che, come già detto, è molto delicato. Una volta, quando c’era la miseria, nell’impasto predominavano le patate. Attualmente si utilizzano proporzioni uguali di circa ⅓ di patate, ⅓ di carne suina, ⅓ di grasso suino; in alcune zone si utilizzano ancora molto le patate, ma fino al 50% e non oltre. Il composto così ottenuto viene infine insaccato in budello naturale, con tagli ritorti e di misura non grande. Finita la lavorazione, che si basa su pezzature di circa 1 ettogrammo, il salame di patate viene consumato subito: se fresco (in tal caso pure spalmato sul pane), entro 5 o 6 giorni; se asciutto, entro 15 o 20 giorni.
Il salame di patate, un prodotto da tutelare e salvaguardare per la sua rustica semplicità (photo © www.parks.it).
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Ma è difficile resistere a un prodotto così stuzzicante e dai tempi d’attesa così brevi… Per cui, già a partire dal secondo giorno, viene affettato anche per evitare che, aspettando troppo, si asciughi perdendo fino anche a circa la metà del peso complessivo. Pure la cottura alla griglia o alla brace può essere fatta nei primi giorni. Si consiglia però, per un consumo fresco che sia ottimale, di farlo “maturare” almeno due o tre giorni. In frittata o come sanguinaccio Una ricetta particolare è quella con la frittata. In questo caso bisogna prendere 4 uova per un salame di pezzatura media, un po’ di burro, un goccio d’olio, del prezzemolo tritato, sale e pepe e, se si gradisce, qualche cucchiaio di latte (non più di due o tre) oppure uno di panna, per ammorbidire il composto e renderlo anche più cremoso. Poi, naturalmente, si cuoce come una normale frittata. Abbiamo già ricordato che il salame di patate appartiene, in senso lato, alla famiglia dei sanguinacci. Un’altra ricetta, a questo proposito, lo vede trattato proprio alla pari dei questi ultimi, tanto che fargli pren-
Preparazione del salame di patate canavesano (photo © www.parks.it). dere il nome di “sanguinaccio con patate”. In questo caso i salsicciotti, anziché di un tenue rosa, appaiono di colore scuro (vista la predominanza del sangue di suino). Gli altri ingredienti sono i soliti già elencati: patate bollite, rifilatura di pancette, grasso, aglio, pepe, sale e droghe, il tutto insaccato in budello
e venduto fresco. Anche in questo caso il prodotto può essere consumato pure bollito o comunque cotto. In Piemonte è diffuso un po’ dappertutto ma specialmente nelle zone di montagna di Bellinzago, di Novara e della Valsesia, dove la patata costituisce una coltura tradizionale. Nunzia Manicardi
La Sagra del salam ‘d patata a Settimo Rottaro Al salame di patate è dedicata una sagra che si tiene tutti gli anni vicino a Torino, a Settimo Rottaro, alla fine di gennaio. La “Sagra del salam ‘d patata” ha lo scopo di promuovere i prodotti tipici e le tradizioni piemontesi e di aiutare il grande pubblico nella riscoperta dei sapori genuini. Si legge nel sito della comunità collinare “Intorno al lago” di Settimo Rottaro, con particolare riferimento alla prima edizione della manifestazione (2003): “Del maiale non si butta via niente. Siamo partiti proprio da questa frase che ci dicevano i nostri nonni nel tentativo di inculcarci il loro concetto di ottimizzazione delle risorse, oggi più modernamente definito consumo responsabile. In tempi di consumismo sfrenato, pubblicità invadente, sprechi, confezioni ridondanti e omologazione strisciante abbiamo voluto fare, per una volta, un passo indietro, nel tentativo di capire insieme se non sia possibile trovare un filo sottile che possa unire idealmente quello stile di vita legato al sorgere e al tramontare del sole e alle stagioni e quello attuale ipertecnologico i cui ritmi frenetici vengono dettati principalmente da una produzione sempre più concorrenziale basata sulla quantità piuttosto che sulla qualità (…). È in quest’ottica di una modernizzazione basata su uno sviluppo sostenibile che abbiamo pensato di dedicare questa sagra ad un prodotto tra i più poveri della tavola piemontese i cui ingredienti, carne di maiale e patate, danno vita ad un prodotto tipicamente canavesano dal gusto delicato, leggero che evoca fortemente la terra da cui nasce. Purtroppo sapori così semplici e genuini, in genere apprezzati da tutti i palati, nell’era della globalizzazione dei mercati e della sovrapproduzione tendono a essere sottovalutati cadendo inevitabilmente nel dimenticatoio. Una scarsa educazione alimentare spesso agevolata dal bombardamento pubblicitario sta causando soprattutto nei più giovani una incapacità ad assaporare gli alimenti e ad analizzarne il gusto (…). Una fetta di salame, un pezzo di formaggio accompagnati da un buon bicchiere di vino, se di qualità, riescono certamente a soddisfare anche i palati più esigenti aiutando nel contempo i piccoli produttori che sono la spina dorsale dell’agricoltura piemontese”. E che cosa trovare di meglio, allora, per riproporre il nostro passato ai nostri giovani che non un bella fetta di salame di patate abbinato ad un buon bicchiere di vino rosso piemontese?
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Specialità dimenticate: il sanguinaccio Prodotto già al tempo degli antichi Romani, il sanguinaccio è una specialità realizzata in tutta Italia e nota anche Oltralpe. La storia e la notorietà non sembrano però ancora sufficienti per una sua riabilitazione completa sulle tavole. La produzione è infatti modestissima, limitata a poche macellerie e a chi il maiale lo macella ancora a casa di Sebastiano Corona
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l detto secondo cui del maiale non si butta via niente non è solo un modo di dire, si sa. Eppure, andando alla ricerca delle antiche tradizioni legate alla lavorazione dei suini, si scoprono ogni volta prodotti nuovi e davvero straordinari che, oltre ad essere ottimi da gustare, hanno il pregio di essere realizzati con ciò che rimane dell’animale dopo la macellazione, perché nulla vada perduto, appunto. Alcuni insaccati nascono con lo scopo di recuperare tutte quelle parti, anche piccolissime, che altrimenti non avrebbero altro impiego. Il sanguinaccio ne è un esempio classico. Nessun altro derivato della carne permette di recuperarne il sangue e di renderlo — grazie anche
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all’aggiunta di altri ingredienti — un ottimo prodotto. Normalmente è realizzato con le interiora del maiale, ma le varianti regionali sono innumerevoli. Ogni riferimento a questa specialità andrebbe fatto con un tempo verbale al passato. Il sanguinaccio, infatti, veniva realizzato quando il maiale veniva ucciso e lavorato in casa. Oggi la macellazione nelle abitazioni è cosa piuttosto rara. Seppur ancora fatta nelle zone interne a vocazione pastorale, allevare e poi macellare il suino in ambienti domestici è cosa molto meno frequente di un tempo. Non mancano però piccole realtà artigianali che, nel recuperare vecchie ricette di insaccati tipici,
inseriscano nella produzione anche questa specialità. Sangue, ricotta e cioccolato Il sanguinaccio di cui oggi normalmente trattano le rubriche di cucina è quello dolce, fatto con il cioccolato, a cui effettivamente sino a qualche decennio fa veniva aggiunto il sangue del maiale. Attualmente, per ovvi motivi (avere in frigo una tazza di sangue di maiale è un fatto quantomeno anomalo), quel delizioso dessert è preparato per Carnevale e senza l’impiego di carne o derivati. Tuttavia, anche il sanguinaccio insaccato ha avuto quasi sempre una componente dolce. In Calabria, per esempio, dove è noto anche con il termine sangiari, viene preparato,
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oltre che con il sangue di maiale, anche con l’impiego di ricotta o vino cotto e, in alcune zone, come una vera e propria crema con cacao in polvere, noci e uva sultanina. Lo stesso dicasi per la versione lucana, dove viene conservato in barattoli di vetro come fosse marmellata. Non è raro che nel sanguinaccio venga aggiunto del cioccolato. Accade nella zona del Vulture, dove, oltre al cioccolato fondente, viene aggiunta vaniglia, cacao amaro e cannella. In Campania, invece, ru sanguanatu viene preparato con sangue, riso, cacao, pinoli, bucce d’arancia e uva sultanina e viene consumato freddo a fettine o riscaldato in padella o al camino. Regione che vai, sanguinaccio che trovi Nelle Alpi è detto boudin in valdostano, bodin in piemontese e birölt in Alta Valtellina. In tutte queste regioni montane si consuma cotto insieme alla polenta e in Piemonte e Lombardia viene normalmente preparato, oltre che con il sangue del maiale, anche con pane, patate e spezie. Nella versione dell’Alta Val Camonica, il sanguinaccio si presenta come una sorta di cotechino e viene consumato lessato insieme ad altri salumi oppure stagionato per qualche mese. In Liguria, invece, la ricetta del berodo — questo il suo nome nel dialetto locale — prevede l’impiego di pinoli, sale, latte e cipolle. Per continuare da Nord a Sud e viceversa, in Puglia lu sangunaz viene fatto con l’intestino del maiale cotto nel sangue. La stessa cosa avviene in Sicilia, dove viene poi servito a fettine. Anche in Sardegna le varianti sono diverse. Qui su sanguineddu o sanguini de proccu viene preparato in maniera differente a seconda delle zone e del gusto personale. Le combinazioni sono infatti tra le più disparate: oltre al sangue di maiale si aggiunge sapa, uva sultanina, sale, pepe, noce moscata, zucchero, noce a pezzi, scorza di limone o arance grattugiate, miele, semi di finocchio selvatico, cannella, chiodi di garofano, lardo o strutto, latte, cacao. Dopo una notte a riposo il composto viene insaccato nell’intestino crasso con
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Morcilla di Burgos con ripieno di polpo. La morcilla più grande del mondo è stata realizzata proprio a Burgos qualche anno fa: lunga 187 metri, pesava 250 kg (photo © www.elmariscodepescafacil.com). un imbuto per formare delle piccole salsicce di 10 o 15 centimetri di lunghezza. Viene però consumato freddo, previa cottura in acqua bollente o arrosto. Tuttavia, la regione in cui tuttora questa tradizione si rinnova anche fuori dalle mura domestiche è la Toscana. Qui viene realizzato il biroldo della Garfagnana, oggi presidio Slow Food. La ricetta locale si distingue dalle altre poiché prevede un utilizzo esclusivo della testa del maiale, con l’unica eccezione del cuore. L’aggiunta delle spezie può essere diversa a seconda delle preferenze personali e delle zone, ma non prevede mai i pinoli che, invece, sono sempre presenti nel biroldo di Lucca. Nel sanguinaccio lucchese forte l’impiego delle spezie toscane, con una prevalenza del finocchio selvatico, ma vengono aggiunti anche sale, pepe, noce moscata, chiodi di garofano, cannella e anice stellato e in certi casi aglio. Prima del consumo viene bollito per oltre tre ore, per essere poi messo a raffreddare lentamente all’aria, sotto la pressione di un peso che consenta di far perdere la parte più grassa. Il periodo di produzione tradizionale è quello dei mesi invernali, da ottobre ad aprile, ma a realizzarlo sono rimasti davvero in pochi, come nel resto d’Italia.
I sanguinacci europei Eppure un certo interesse attorno a questo prodotto esiste. Qualche macellaio lo propone ancora e non è escluso che — con le dovute modalità — una specialità come questa non abbia un futuro anche nel mercato, tanto più che è noto anche fuori dal Belpaese. Non si pensi infatti che il sanguinaccio sia prerogativa delle nostre campagne. Al contrario, esistono produzioni in altre nazioni che ricordano quello nostrano in tutto e per tutto. La somiglianza con la morcela portoghese, il black pudding inglese, il blutwurst tedesco con la morcilla spagnola sono infatti evidenti. Anche di quest’ultima esistono molte versioni differenti tra loro. In tutti i casi si tratta di un insaccato fresco fatto, oltre che con sangue di maiale, anche con quello di vacca o pecora unito al riso, i pinoli, l’uvetta, la mollica di pane, il porro, la cipolla e il pangrattato. Il risultato è un salume piuttosto grasso, destinato al consumo in occasioni speciali e solo in quantità ridotte, vista la “pesantezza” del prodotto. Eppure il problema del sanguinaccio non è che sia poco digeribile. È che ce n’è poco. Sebastiano Corona Nota A pagina 30 fette di blutwurst (photo © it.wikipedia.org)
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ISIT: Lorenzo Beretta nominato nuovo vicepresidente Il 2014 si apre con un’importante novità per la struttura direttiva di ISIT – Istituto Salumi Italiani Tutelati. Lorenzo Beretta, già presidente del Consorzio del Salame Cacciatore Dop, si inserisce nella giunta dell’Istituto per ricoprire il ruolo di vicepresidente. Questa nomina si è resa necessaria dopo che Cristiano Ludovici ha dovuto rinunciare a questo ruolo a seguito della sua elezione a presidente del Consorzio del Prosciutto Toscano Dop. Beretta, andando ad affiancare il presidente Nicola Levoni nella direzione dell’Istituto, ha espresso grande entusiasmo per la sua nuova nomina. «Sono onorato per la fiducia che mi è stata accordata e felice di poter apportare in maniera ancora più attiva il mio contributo alle attività dell’Istituto, mettendo a disposizione le mie competenze per la promozione e la valorizzazione delle produzioni Dop e Igp della nostra salumeria». Il nuovo vicepresidente presiederà e coordinerà anche il nascente Comitato Attività e Servizi di ISIT, che svolgerà compiti operativi e di coordinamento delle iniziative di valorizzazione, promozione e vigilanza dell’Istituto. >> Link: www.salumi-italiani.it
L’Academia Judices Salatii lancia il concorso “E il Bio fece I Salumi” L’Academia Judices Salatii ha indetto un concorso dedicato alla migliore produzione salumeria bio italiana. La partecipazione al concorso è assolutamente gratuita. Possono partecipare tutti i produttori di salumi certificati da “Agricoltura Biologica”. I salumi saranno quindi divisi e valutati per categorie. Per vincere una categoria devono essere presenti e giudicati almeno 5 campioni. In ogni caso il prodotto che avrà ricevuto il punteggio più alto, fra tutti quelli pervenuti, sarà dichiarato “Il Re della Festa”, anche se facesse parte di una categoria che non raggiunge i 5 campioni. I campioni, del peso di almeno 1 kg, dovranno essere inviati entro e non oltre il 20 marzo 2014 presso il Circolo Graziosi di Carpi (MO) (via Carlo Sigonio, 25), con dicitura evidente “Concorso Academia Judices Salatii”. I salumi dovranno essere accompagnati dai documenti che ne comprovano la certificazione biologica, con chiari riferimenti del produttore ed eventuali note (zona di produzione, caratteristiche particolari, tempi di stagionatura e modalità di lavorazione se insoliti, ed altro). Le premiazioni avverranno in data e luogo da definirsi. Tutti i partecipanti al concorso saranno pubblicati sul sito dell’Academia ed i nomi dei vincitori saranno comunicati alle riviste specializzate tra cui Premiata Salumeria Italiana. L’Academia Judices Salatii garantisce un panel di almeno 20 giudici, allenati ed esperti. Garantisce l’assoluta trasparenza e terzietà. È pronta a fornire le schede di valutazione, relative ai propri salumi, ai produttori che ne faranno richiesta. L’associazione L’Academia Judices Salatii – Gotha “Salami” è una realtà che accomuna appassionati della storia e del recupero di antiche tradizioni legate al mondo dei salumi, alla divulgazione dei sistemi e dei modi per giudicare e “punteggiare” i salumi stessi. In sintesi (dallo Statuto dell’Associazione): “L’Associazione non ha finalità di lucro, non distribuisce utili tra i soci e si prefigge lo scopo di tutelare e valorizzare la produzione di salumi, in special modo esaltando le caratteristiche della tradizione, da mantenere e preservare; educare i consumi verso l’apprezzamento di valori tradizionali, legati alla storia ed alle caratteristiche peculiari del territorio; addestrare i propri associati alla analisi sensoriale; fare opera di divulgazione delle tecniche di analisi e giudizio dei prodotti; promuovere momenti formativi ed informativi rivolti sia ai soci che al pubblico, consistenti in corsi, seminari, convegni, organizzati anche attraverso l’egida dei rispettivi organi ministeriali, regionali, provinciali e locali del comparto turistico-enogastronomico in Italia ed all’estero; realizzare iniziative ed attività atte alla promozione e divulgazione dei prodotti locali, tipici e di qualità, da realizzare in forma congiunta e con la collaborazione di enti, produttori ed associazioni che perseguano gli obiettivi statutari; designare e nominare propri rappresentanti o delegati in enti, organismi o consessi in cui la rappresentanza sia concessa od ammessa, nell’interesse dell’associazione; rappresentare i propri soci e tutelarne gli interessi”. >> Link: www.academiajudicessalatii.it
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Indagini
Dop e Igp fattori di traino 12 miliardi di fatturato al consumo e crescita del valore dell’export. Nel 2013 registrati 13 nuovi prodotti tra Dop e Igp. Colmato un vuoto con due presenze nella classe “Paste alimentari”
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l comparto delle DOP e IGP ha continuato nel 2012 il suo trend crescente, con il sostanziale consolidamento dei volumi certificati per le produzioni più importanti e l’incremento più consistente delle quantità per altri prodotti di riconoscimento relativamente più recente. La produzione certificata, pari a circa 1,3 milioni di tonnellate, nel suo complesso è cresciuta di oltre il 5% nel 2012, dopo la sostanziale stabilità del 2011 ed il buon incremento del 2010. L’incremento del 2012 è stato determinato principal-
mente dalla crescita produttiva degli ortofrutticoli e cereali (+7,2%) e dei formaggi (+5,5%), mentre di poco positivi risultano gli aumenti per i prodotti a base di carne (+1,3%) e gli aceti balsamici (+0,5%). Continua nel 2012 il buon trend di crescita delle carni fresche (+23,3%), mentre gli oli extravergini di oliva risultano essere l’unico comparto con la produzione certificata in calo (-2,1%). La voce residuale “altri comparti” segna inoltre complessivamente un +6,5%. È interessante rilevare che nel 2012 è aumentata la quantità certificata per
i prodotti ittici, mentre è ormai dal 2009 che si assiste ad un incremento dei volumi certificati degli altri prodotti di origine animale. Una crescita complessiva quindi che, in misura più o meno importante, coinvolge praticamente tutti i settori. Passando ad analizzare i valori di mercato del comparto delle DOP e IGP, ISMEA stima nel 2012 un giro d’affari potenziale di circa 7 miliardi di euro alla produzione, mentre, per quanto riguarda il valore al consumo si arriva a 12,6 miliardi di euro, di cui circa 8,9 registrati sul mercato nazio-
Paesi di destinazione dell’export delle Dop e Igp italiane (fonte Qualivita).
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I principali indicatori delle Dop-Igp italiane (fonte Qualivita). nale. In relazione alle tendenze, nel 2012 il fatturato all’origine registra un aumento del 2,1%, generatosi prevalentemente grazie al maggior contributo del mercato estero (+4,6%) che non del mercato interno (+0,8%) che sconta le conseguenze della crisi dei consumi. In riferimento al fatturato al consumo, si è registrato lo scorso anno un incremento intorno al 5% sia per quello complessivo sia per quello rilevato sul solo mercato nazionale. Osservando il fatturato alla produzione complessivo generato dai singoli prodotti, si continua a rilevare una forte concentrazione su poche denominazioni. Nel 2012 le prime dieci DOPIGP assommavano quasi l’84% del fatturato totale del comparto, una percentuale che però si è assottigliata di circa quattro punti rispetto a circa dieci anni fa. Effettuando anche quest’anno un confronto per tipologia merceologica tra peso in termini di numero denominazioni con quello del fatturato all’azienda si nota in
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molti comparti un’asimmetria tra incidenza delle denominazioni e del valore di mercato. Negli ortofrutticoli il numero totale di denominazioni pesa sul totale per poco più del 39% ma il fatturato complessivo ha un’incidenza stimata del 7%; per gli oli di oliva il numero di denominazioni incide sul totale per il 17% ma il fatturato ha un peso di poco superiore all’1%. Quasi opposto è invece il fenomeno per i formaggi ed i prodotti a base di carne. Formaggi I formaggi rappresentano il principale comparto delle DOP-IGP, con un’incidenza nel 2012 del 59% sul fatturato alla produzione complessivo e del 52,2% sul fatturato al dettaglio nel mercato nazionale. Come accennato in precedenza, nel 2012 la produzione certificata di formaggi a denominazione di origine ha registrato un aumento del 5,5%, dovuto soprattutto agli incrementi registrati dal Grana Padano (+11,2%), dal Pecorino Ro-
mano (+9,8%) ed in misura minore dal Parmigiano Reggiano (+4,4%) e dall’Asiago (+3,3%). Il comparto dei formaggi DOP e IGP ha sviluppato nel 2012 un fatturato di 4,1 miliardi alla produzione (di cui 1,5 realizzati sui mercati esteri) e di 4,7 al consumo sul mercato nazionale. Si tratta anche in questo caso di un comparto molto concentrato: i primi due prodotti, Grana Padano e Parmigiano-Reggiano, rappresentano oltre il 75% del valore totale alla produzione, i primi cinque il 91% e i primi dieci quasi il 97%. Il comparto dei formaggi DOP, ha registrato nel 2012 un incremento del fatturato alla produzione dell’1% circa, a fronte di un aumento più elevato (+6,2%) di quello al consumo sul mercato nazionale. Prodotti a base di carne I prodotti a base di carne DOP-IGP rappresentano il secondo comparto per fatturato alla produzione ed al consumo, con un’incidenza sul valore totale delle DOP e IGP tra il
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28% e il 37% circa. Nel 2012 la produzione certificata di prodotti a base di carne è aumentata dell’1,3%, a causa soprattutto degli aumenti registrati dal Prosciutto di San Daniele e dalla Bresaola della Valtellina, entrambi in crescita di oltre il 2%, e dal Prosciutto di Parma, la cui produzione è salita dell’1,6%. Al contrario, nel 2012 diminuiscono i volumi certificati di Prosciutto Toscano (-10%) e, in misura minore, di Mortadella Bologna (–1,8%) e Speck Alto Adige (–1,3%). Il comparto dei prodotti a base di carne DOP e IGP ha realizzato nel 2012 un valore di mercato che ha sfiorato i 2 miliardi alla produzione (di cui 487 milioni vanno all’estero) e di circa 3,4 miliardi al consumo relativo al solo mercato nazionale. Anche questo comparto è molto concentrato: i primi cinque prodotti per fatturato alla produzione (nell’ordine: Prosciutto di Parma e Prosciutto di San Daniele, Mortadella Bologna, Bresaola della Valtellina e Speck Alto Adige, graduatoria immutata rispetto al 2012) rappresentano il 92% circa del valore totale.
Il comparto dei prodotti a base di carne DOP e IGP ha registrato nel 2012 una sostanziale stabilità del fatturato alla produzione ed un aumento (+1% circa) di quello al consumo sviluppato sul mercato nazionale. Aceti balsamici Il comparto degli aceti balsamici presenta ormai una certa rilevanza nell’ambito del comparto delle denominazioni di origine. L’entrata sul mercato alcuni anni orsono dell’IGP Aceto Balsamico di Modena ha infatti consentito di sviluppare consistenti volumi produttivi, cresciuti di molto in particolare nel 2010. Tuttavia, nel 2012 questi sembrano essersi stabilizzati, crescendo di appena lo 0,5%. Nel 2012 la produzione certificata complessiva è passata dai 73,5 ai 73,8 milioni di litri grazie al quasi esclusivo contributo dell’Aceto Balsamico di Modena. In riferimento al valore della produzione, nel 2012 gli aceti balsamici hanno registrato un fatturato franco azienda di 265 milioni di euro (di cui oltre 243 sui mercati
Il Salame di Felino, nuova Igp. esteri) e di 444,7 milioni al consumo (38,6 sul mercato nazionale). Il fatturato all’origine complessivo del settore è sostanzialmente stabile nel 2012, mentre quello al consumo sul mercato nazionale nello stesso anno è in lieve flessione. Fonte: Rapporto Qualivita-Ismea 2013 >> Link: www.ismea.it www.qualivita.it
Nuove registrazioni Europa Dal 1o gennaio al 30 novembre 2013 sono stati iscritte nel registro dei prodotti a marchio DOP, IGP e STG 73 nuove denominazioni, di cui 71 europee e 2 extraeuropee ed è stato cancellato un prodotto per la Germania, della classe 2.1 Birre. Il totale è quindi di 1.209 produzioni registrate al 30/11/2013, suddivise in 585 DOP (48,40% sulle denominazioni totali), 581 IGP (48,05% delle denominazioni) e 43 STG (che continuano ad avere un ruolo marginale con il 3,55%). Del numero totale delle produzioni certificate, 15 sono i prodotti registrati per i Paesi extra-UE: nel 2013 Tailandia e Principato di Andorra registrano per la prima volta un prodotto a testa portando così a 6 il numero dei Paesi extra-UE che utilizzano il sistema delle DOP IGP insieme a Cina, Colombia, India e Vietnam. Fra i Paesi UE, spicca per numero di registrazioni il fronte mediterraneo con in testa l’Italia (261), seguita dalla Francia (208), dalla Spagna (171), dal Portogallo (123) e dalla Grecia (100) mentre fra i paesi nordici la Germania è il primo con 95 registrazioni. Nel numero complessivo delle nuove registrazioni DOP, IGP, STG del 2013 il gruppo più consistente appartiene alla classe 1.6, Ortofrutticoli e cereali, freschi o trasformati, con 19 nuove registrazioni, seguito dalla classe 1.1 Carni fresche e frattaglie, con 11 nuovi prodotti, dalla classe 2.4 Prodotti di panetteria, biscotteria, con 10 registrazioni, e dalla classe 1.3 Formaggi, con 9 nuovi prodotti. Seguono le altre classi.
Nuove registrazioni Italia Nel 2013 l’Italia ha registrato 13 nuovi prodotti di cui 4 DOP e 9 IGP: Salame Felino IGP, Mela Rossa Cuneo IGP, Ficodindia di San Cono DOP, Panforte di Siena IGP, Salmerino del Trentino IGP, Agnello del Centro Italia IGP, Trote del Trentino IGP, Pasta di Gragnano IGP, Melone Mantovano IGP, Maccheroncini di Campofilone IGP, Pecorino di Picinisco DOP, Puzzone di Moena/Spretz Tzaorì DOP e Cozza di Scardovari DOP. Da una rapida analisi delle nuove denominazioni italiane si può sottolineare che il nostro paese, famoso e conosciuto nel mondo per la pasta, ha finalmente registrato due prodotti nella classe 2.7 Paste alimentari, dove paradossalmente non aveva ancora nessuna registrazione e ben tre nella classe 1.7 Pesci, molluschi, crostacei freschi e prodotti derivati, dove ce n’erano solo due. Da evidenziare anche la classe 2.4 Prodotti di panetteria, pasticceria, confetteria o biscotteria, dove per l’Italia sono presenti due soli prodotti, tutti e due appartenenti all’antica tradizione dolciaria senese, i Ricciarelli di Siena IGP e il Panforte di Siena IGP. Nell’insieme si tratta di registrazioni molto interessanti, ben strutturate già nella fase di protezione transitoria, che arricchiscono il comparto con filiere che portano sostanza e completano il già interessante panorama nazionale della qualità certificata.
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Prosciutto di Modena Dop, produzione in aumento e nuove prospettive di mercato Chiude il 2013 con risultati positivi il Prosciutto di Modena Dop. Gli ultimi dati ufficiali diffusi dal Consorzio del Prosciutto di Modena infatti parlano di una produzione che, nei primi 10 mesi dell’anno, segna un +45% rispetto all’analogo periodo del 2012. «Un traguardo importante — ha commentato Anna Anceschi, direttore del Consorzio — che insieme all’apprezzamento mostrato dai mercati nazionale e internazionale per il nostro prodotto, ci incoraggia a fare sempre meglio. L’impegno profuso in questi anni per la promozione sta dando i suoi frutti: nonostante il difficile momento congiunturale, il Prosciutto di Modena Dop registra una domanda crescente e ci fa guardare con ottimismo al futuro. Tra l’altro, il recente lancio del portale multilingue www.piaceremodena.it, dove si può acquistare direttamente on-line anche il nostro prodotto, ci apre inedite frontiere e mercati anche molto lontani». In foto Anna Anceschi insieme al conduttore televisivo Davide Mengacci durante una puntata del programma di Rete 4 “Ricette di famiglia” dedicata alla provincia di Modena e alle eccellenze che la hanno resa famosa nel mondo: Parmigiano Reggiano, aceto balsamico e lambrusco e, naturalmente, il prosciutto di Modena Dop. >> Link: www.piaceremodena.it – www.consorzioprosciuttomodena.it
Speck Alto Adige: Matthias Messner nuovo responsabile del Consorzio Cambio al vertice del Consorzio Tutela Speck Alto Adige. Dal primo gennaio, infatti, il nuovo responsabile è Matthias Messner, che raccoglie il testimone di Michael Desaler, per cinque anni alla guida del Consorzio. «Siamo convinti che con Matthias Messner abbiamo trovato un nuovo responsabile che possiede i requisiti necessari per svolgere al meglio le attività del Consorzio», spiega Andreas Moser, presidente del Consorzio Tutela Speck Alto Adige. La politica di qualità, la difesa della marca e la promozione rappresentano i campi principali d’attività del Consorzio che Messner dovrà affrontare nel suo nuovo incarico. «Oltre a proseguire nel solco delle attività intraprese dal Consorzio, sarà compito di Messner di sviluppare ulteriori iniziative e nuovi progetti istituzionali per esaltare la tipicità dello Speck Alto Adige Igp e valorizzare la posizione del Consorzio a servizio dei produttori consorziati» dichiara Moser. Il presidente del Consorzio Tutela Speck Alto Adige ringrazia Michael Desaler per l’impegno profuso negli ultimi anni e per il contributo dato allo sviluppo del Consorzio.
Il Consorzio per la promozione dello Speck Alto Adige è stato costituito nel 1992 da parte di 17 produttori e sotto l’amministrazione della Camera di Commercio di Bolzano. Il Consorzio è autorizzato dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali secondo il Decreto del 04/12/2003 a rappresentare gli interessi dei produttori di speck. Gli ambiti di attività del Consorzio Tutela Speck Alto Adige sono la politica di qualità, la tutela del marchio e le iniziative promozionali, regolamentati da chiare direttive contenute nelle leggi dell’UE (Reg. 510/2006), dello Stato (Legge 526/99) e della Provincia Autonoma di Bolzano. Nello svolgimento di tali attività il Consorzio collabora attivamente con diverse istituzioni sia a livello locale che nazionale: la Provincia Autonoma di Bolzano, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, l’istituto indipendente Nord Est Qualità (INEQ), l’organizzazione export Alto Adige della Camera di commercio (EOS). >> Link: www.speck.it
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Mercati
Le migrazioni del cibo L’integrazione è un dovere morale per nazioni che, come l’Italia, ospitano milioni di stranieri. È a tavola infatti che avviene più facilmente la commistione tra culture e la cucina diventa un’occasione preziosa di sviluppo e di lavoro per tutti di Sebastiano Corona
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a popolazione europea ha superato quest’anno il tetto dei 500 milioni di abitanti. L’Unione è divenuta patria di oltre 34 milioni di immigrati. Di questi, più di 4 milioni e mezzo sono nel nostro Paese e rappresentano il 5,6% della cittadinanza complessiva. L’apporto degli stranieri alla vita produttiva nazionale è fondamentale e lo è ancor più in comparti come l’agricoltura, dove la presenza degli extracomunitari cresce costantemente, come documentato dal III Rapporto annuale “Gli immigrati nel rapporto di lavoro in Italia” a cura della Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione. Anche nel 2012 infatti, a dispetto della crisi economica in atto, il numero degli occupati stranieri nel settore primario è cresciuto di 7.000 unità,
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raggiungendo quota 320.000, di cui oltre 128.000 extracomunitari. Secondo la Confederazione Italiana Agricoltori, i lavoratori immigrati rappresentano oggi oltre il 20% del totale della manodopera aziendale, con una presenza forte (53,8%) nella raccolta della frutta e nella vendemmia. Un terzo (il 29,9%) è impegnato nella coltivazione e preparazione del pomodoro e degli ortaggi in generale; il 10,6% nelle attività di allevamento; il 3,2% nel florovivaismo e il restante 3,5% in attività varie che comprendono l’agriturismo e la vendita dei prodotti. Il lavoratori subordinati in questo settore aumentano di anno in anno e si stanno organizzando anche dal punto di vista sindacale. FLAI CGIL, per citare un caso, ha annunciato la nascita del coordinamento dei lavoratori immigrati del settore dell’agroin-
dustria. Una federazione composta da rappresentanti dei numerosi lavoratori extracomunitari che operano nel settore agricolo, a testimonianza del fatto che la presenza straniera nel comparto agroalimentare è sempre più rilevante. Gli immigrati rappresentano ormai una componente irrinunciabile per l’agricoltura, ma lo sono anche nell’ambito della trasformazione, soprattutto in alcune zone del Paese. Il loro apporto in questo contesto non è però da intendersi solo in relazione alla forza lavoro. Gli stranieri sono infatti anche consumatori e per quanto le loro abitudini alimentari vengano influenzate dalla nostra cultura del cibo, rimane il fatto che essi abbiano richieste differenti da quelle classiche del mercato nazionale e che questa do-
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manda, che abbiamo il dovere morale di assecondare, va letta anche come un’occasione di mercato importante e come un elemento che sempre più modificherà abitudini di acquisto e di consumo anche di noi Italiani. Il cibo occidentale è per molti migranti, che vengono da culture alimentari completamente diverse, un vero e proprio choc, sia dal punto di vista psicologico sia fisico. Se da una parte aumenta il consumo di cibi etnici per richiesta degli Italiani, è altrettanto vero che molti immigrati acquisiscono a tavola abitudini occidentali e che questo avviene con grave danno per la loro salute. Per quanto si registrino delle resistenze e una tendenza, da parte degli stranieri, a continuare a consumare gli stessi cibi di cui si nutrivano quando erano nel proprio Paese d’origine, la loro dieta si modifica e vede l’ingresso di nuovi alimenti che sino all’arrivo in Italia erano in gran parte sconosciuti. D’altronde l’alimentazione è uno degli aspetti più sensibili alle variazioni dell’ambiente circostante, sebbene sia saldamente legato a tradizioni e consuetudini radicate. È così che dal regime alimentare degli immigrati spariscono pietanze classiche come il piatto unico caratterizzato da verdure, legumi, cereali o pesce, per fare spazio a pasta e pizza, ma anche cappuccino e cornetto. Dopo una certa permanenza in Italia buona parte degli immigrati accusa
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le classiche, deleterie patologie del mondo occidentale come obesità, diabete, malattie cardiovascolari e neuro-degenerative. A soffrire di più sono gli asiatici, la cui alimentazione e stile di vita sono molto differenti dai nostri. Per maggior tutela i migranti dovrebbero mantenere le abitudini alimentari della propria cultura d’origine ma reperire i prodotti, avere tempo e modo per cucinarli e trasformarli non è sempre facile. L’Italia non è ancora in grado di rispondere adeguatamente alle nuove richieste del mercato interno e in questo il processo di integrazione mostra margini di miglioramento importanti. Al di là di ciò che offrono i grandi centri urbani del Paese, si pensi a quanto può essere difficoltoso per certi soggetti acquistare prodotti kosher o halal. Ci sono piatti che fanno parte della cultura gastronomica di alcuni Paesi che non solo in Italia non vengono usualmente consumati, ma in certi casi non sono proprio considerati commestibili dalle nostre norme in materia. Niente di nuovo sotto il sole La forte presenza di immigrati nel Belpaese ha però un’altra faccia: lo straniero è esso stesso soggetto ed oggetto del cambiamento alimentare. Infatti la presenza di comunità di immigrati sancisce, anche per noi, l’introduzione di alimenti preceden-
Ravioli ripieni di carne. temente poco diffusi o pressoché sconosciuti. Se il primo impatto con i cibi esotici può essere di rifiuto (si pensi all’odore invadente e fortemente speziato di certe cucine asiatiche), in un secondo momento i nuovi alimenti trovano spazio ed entrano a pieno titolo nelle abitudini delle popolazioni ospitanti. Questo è quello che sta accadendo anche in Italia dove consuetudini alimentari, gusti e qualità della nostra dieta si stanno pian piano modificando. L’interesse sempre maggiore degli Italiani verso nuove cucine sta determinando la richiesta di prodotti o materie prime che sino a poco tempo fa nessuno domandava e a seguire sta generando la nascita di nuove tipologie di imprese e l’introduzione di processi produttivi impensati sino a qualche decennio fa. In realtà non c’è nulla di nuovo. Era ciò che accadeva in passato ogni volta che un territorio veniva conquistato dal nemico, ma è anche ciò che è accaduto più recentemente, all’interno dello Stivale a seguito delle migrazioni da Sud a Nord. Alla polenta, al minestrone e al riso si è affiancata la pasta; l’olio d’oliva ha trovato ampio spazio vicino a grassi di origine animale come strutto e burro e anche il pomodoro è entrato a pieno titolo a far parte della cucina dei settentrionali. Questo accadeva mezzo secolo fa. Le contaminazioni nel cibo sono continue così come
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lo sono nel linguaggio, nello stile di vita, nelle ricorrenze e in tantissimi altri ambiti della quotidianità. Halloween è un esempio eclatante. Una festa che sino a qualche anno fa era in Italia quasi sconosciuta, non solo sta entrando a pieno titolo nella lista delle ricorrenze per gli Italiani, ma si porta dietro una serie di cibi e manicaretti legati alla festività che piano piano sono sempre più apprezzati e richiesti dal mercato. In fondo ciò che accade a tavola è sotto molti aspetti il riflesso di ciò che succede nella quotidianità di ogni popolo. Non si pensi che le contaminazioni asiatiche o africane siano maggiori di quelle occidentali. La globalizzazione infatti ha in sé dei tentativi importanti di omologazione che non escludono il cibo. Nuove opportunità commerciali Le mode alimentari d’Oltreoceano hanno generato da tempo fenomeni di massa che implicano anche il consumo di alimenti sino a pochi decenni fa scarsamente presenti sulle nostre tavole. Se è vero che già da un pezzo abbiamo esportato negli Stati Uniti pizza e pasta (complici anche i nostri conterranei che in America hanno cercato fortuna un secolo fa), è pur vero che i fast food — con la relativa offerta di hamburger, pollo fritto e patatine — sono un’importazione impattante tanto quanto il cibo cinese. Per non dispiacere nessuno, però, il fast food e il suo relativo modello (piatti pronti da mangiare subito, sovrabbondanza di calorie, dimensioni dei cibi identiche tra loro, condizioni igieniche ineccepibili e velocità nel servizio) propongono un’omologazione del gusto ed eliminano il legame tra cibo e territorio, qualunque territorio, di fatto spogliando quell’alimento da ogni identità. Specialità come kebab, falafel, couscous, sushi sono sempre più richiesti e venduti nel nostro Paese nei supermercati, come piatti pronti o da cucinare, ma anche nei ristoranti e nelle piccole rivendite artigianali dove è previsto il take-away o la somministrazione sul posto. È questo canale che ha dato la possibilità a molti stranieri di diventare piccoli imprenditori e aprire
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Preparazione del kebab. un’attività in proprio. Su 6 milioni di imprese in Italia (fonte FONDAZIONE LEONE MORESSA) alla fine del 2011, 454.000 erano gestite da immigrati (il 7,4% del totale). Che il trend per le aziende condotte da stranieri sia positivo è dimostrato dal saldo con segno più di oltre 26.000 unità che si contrappone ad una diminuzione del numero delle attività degli Italiani di oltre 28.000 imprese. Tra i settori dove gli extracomunitari sono più presenti vi è il commercio, con oltre 156.000 aziende, in buona parte rappresentato da rivendite di alimenti. Ma tra i numeri di rilievo vi è anche il 7,7% delle imprese impegnate nel settore alberghi e ristoranti e la manifattura (6,3%) dove rientrano anche le attività di trasformazione di prodotti alimentari come le piccole gastronomie. Secondo COOP ITALIA (Rapporto 2012, Consumi e distribuzione), “nonostante la congiuntura sfavorevole non si è arrestata la vendita dei prodotti etnici nella GDO con un +4% nell’ultimo anno e +40% dal 2007 al 2012, in virtù di una maggiore specializzazione degli spazi espositivi, ma soprattutto del crescente apprezzamento delle tipicità straniere da parte del consumatore italiano”. Al top delle richieste vi sono i prodotti cinesi, ma anche i messicani e gli indiani, consumati principalmente da giovani tra i 20 e 45 anni, di livello
culturale, sociale ed economico medio alto, oltre che dai migranti del Paese d’origine del prodotto stesso. Nei maggiori centri urbani non si disdegnano i cibi di Etiopia, Eritrea ed Egitto, consumati non solo nei take-away, ma anche nei ristoranti etnici che possono altresì contare su un canale equo solidale importante, soprattutto per prodotti come il riso, le spezie e il caffè. L’integrazione è quindi un’occasione, per tutti. Mettere gli stranieri nelle condizioni di poter perpetuare tutte o parte delle proprie abitudini alimentari non è solo un atto di fratellanza che arricchisce chi lo compie, ma è altresì un modo per aprire nuove opportunità al mercato. Un ristorante etnico, un negozio di cibi asiatici, un laboratorio che propone kebab non sono solo importanti veicoli di ingresso di alcune comunità nel nostro Paese. Sono anche fonte di reddito, denaro che circola, aziende che creano indotto, che contribuiscono dal punto di vista fiscale e che nel complesso tengono alte le sorti della nostra economia. Nel Paese del buon cibo per eccellenza, l’integrazione delle comunità straniere si fa soprattutto a tavola. Sebastiano Corona Nota A pagina 39 i falafel, una specialità araba costituita da polpette di legumi e spezie.
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Turismo gastronomico
Ibiza: sole, mare e gastronomia tradizionale di Riccardo Lagorio
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nche aree del Vecchio Continente che hanno basato il proprio sviluppo quasi esclusivamente sul turismo vacanziero e spensierato si stanno in questi tempi rendendo conto dell’importanza della gastronomia come stimolo ed esaltazione per il raggiungimento dell’obiettivo finale: quello di accaparrarsi viaggiatori curiosi e in cerca di esperienze che vanno al di là di sole, mare e ozio. Neppure Ibiza si sottrae a questa rivoluzione copernicana. Il trinomio che ha caratterizzato l’isola negli ultimi decenni si arricchisce di un impulso imprevisto con la creazione di un marchio collettivo geografico, di cui si è fatto promotore l’ente di coordinamento politico ed amministrativo insulare. Rientrano da subito in questo paniere il liquore d’erbe aromatiche, l’olio delle varietà Empeltre e Arbequina, l’agnello di razza autoctona, il flaó (dolce a base di formaggio e mentastro), a cui si aggiungono ben presto i vini (tra cui una Malvasia secca ed aromatica ed il Monastrell,
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a bacca rossa, ampiamente diffuso sulla penisola tra la Comunità di Valencia e quella di Murcia) ed il pesce locale (Peix nostrum), specie lo zerro utilizzato in scapece. Elementi che fanno riflettere sulla grande ricchezza dell’attività agropastorale che un tempo predominava sull’isola ed oggi pressoché scomparsa, seppellita, come è stata, da lustri di espansione degli esercizi ludici e di svago che si sono impossessati della costa. I suini neri In fase di caratterizzazione fenotipica e giunto ai primi stadi di incremento della razza è il suino dal manto nero, con le cui carni si vuole recuperare l’originale sobrasada, la salsiccia elaborata con l’aggiunta di peperone di Maiorca, ed un’ampia serie di piatti tradizionali come lo stufato contadino (sofrit pagès) ed il risotto della mattanza (arroz de matanzas), che richiedono animali dal grasso superficiale ben sviluppato. Sono divenuti l’emblema di questa riscoperta RONNIE ANDERSON e RICHARD STURGESS,
che su 15 ettari di terreno biologico e bosco coltivano i cereali necessari per la crescita dei loro animali: suini e ovini, ma anche galline e conigli di razze d’Ibiza. La loro arca di Noè si trova nell’entroterra di Santa Eulària des Riu e prende il nome dalla località dove si trova (Can Pere Mussona, telefono: +34 971325281). Con il contributo scientifico dell’Università di Cordoba, che sta seguendo l’aspetto genetico della reintroduzione del suino di Ibiza, hanno da poco più di un anno intrapreso il non facile lavoro di fare rivivere una razza reliquia, affidata a non più di tre esemplari di sesso maschile. Stanno a tal proposito effettuando dei retro-incroci con femmine di razza di Maiorca-Formentera x Duroc e contano, in capo a qualche anno, di poter proporre al mercato locale soggetti geneticamente riconducibili al 100% all’antica razza di Ibiza. Gli animali vivono in ampi recinti costruiti con palizzate di legno a coppie o solitari, tranne i suinetti, che crescono a gruppi anche numerosi in ampi spazi. Il benessere animale si
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compendia con l’idea che gli animali si possano vedere vicendevolmente. L’alimentazione prevede cereali, carrube, ghiande, fichi secchi (una specifica varietà detta higos de porc, fichi del maiale) e farina di cereali e piselli. I tratti somatici che contraddistinguono la razza di Ibiza sono il muso molto affusolato simile a quello del cinghiale, orecchie cadenti sugli occhi, zampe esili ma muscolose, pelo nero secondo la tradizione delle razze mediterranee. La carne è molto rossa, non rilascia acqua se viene preparata in padella ed è assai marezzata. Il che la rende anche particolarmente saporita e ideale per la cottura alla griglia. Pecore, agnelli e flaó Per quanto riguarda gli agnelli di razza di Ibiza, il cui recupero è iniziato nel 2010 e che si fregiano del marchio collettivo geografico, essi vivono allo stato semibrado su terreni di arena rossa insieme alle madri. Il numero di esemplari di razza di Ibiza raggiunge complessivamente i 300 capi. La lana di questa razza veniva molto apprezzata dai Romani per la morbidezza del vello e la buona capacità a trattenere il color porpora che serviva per la confezione delle tuniche dei quiriti. Sino agli anni ‘70 del Novecento si contavano sull’isola circa 8.000 agnelli; anche in questo caso la drastica riduzione del numero è andata di pari passo con l’espansione del turismo di massa. La pecora adulta di Ibiza si caratterizza per vello bianco e macchie nere irregolari sul capo e sulle zampe, la fronte concava e la lunga coda che cade talvolta sotto le ginocchia. La pecora di Ibiza è a doppia attitudine (carne e latte), essendo il formaggio fresco che se ne trae ingrediente fondamentale del dolce caratteristico, il flaó. La carne degli agnelli da latte di razza d’Ibiza si contraddistingue per il sapore intenso, la marezzatura che la rende saporita e la consistenza che deriva anche dal fatto che i soggetti crescono allo stato semibrado e sono buoni camminatori. Il progetto di reintroduzione delle antiche razze di Ibiza da parte di Anderson e Sturgess ha incoraggiato JORGE MURIAS (Carnicería Los Gallegos, avda 8 de agosto edificio Brisol, 07800 Ibiza telefono:
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Stagionatura della sobrasada (photo © Riccardo Lagorio). +34 971199994-971314652) a riprendere la produzione della sobrasada e la commercializzazione degli agnelli da latte di razza di Ibiza. Se per Jorge, di origini galiziane e norcine, il percorso di reintroduzione dell’agnello di Ibiza è stato relativamente facile, risulta essere complesso il recupero del prodotto originale poiché se ne era perduta la pratica di realizzazione con il suino autoctono. Murias ha iniziato in queste settimane la produzione delle prime sobrasada di prova con le carni di alcuni soggetti di razza ibrida di Ibiza: va in sostanza ricostruito il percorso relativo alle condizioni di insacco, di stagionatura e di aggiunta di polvere di peperone di Maiorca essiccato, che conferisce il caratteristico colore rosso come avviene per certe preparazioni di salumeria in Basilicata e Calabria con il peperone di Senise. In verità il peperone rosso di Ibiza (citró de matances), il cui utilizzo principale e tradizionale era proprio l’aggiunta nella sobrasada, è con-
finato oggi all’autoconsumo. L’alimentazione e la razza paiono essere le discriminanti maggiori rispetto all’esperienza maturata nel corso degli anni con la fornitura di suini Large White, Landrace, Duroc o loro incroci: una carne più soda, dalle caratteristiche molto diverse da quelle di solito utilizzate. Ripercussioni si hanno nel differente apporto di sale, nel taglio della carne, nelle numerose possibilità dell’insacco. Le prove si stanno effettuando con l’uso di tutta la carne dell’animale tranne la testa e le costine; il grasso deriva dalla pancetta e se ne stanno collaudando disparate percentuali. Il soggetto ha (o aveva) 14 mesi di età per un peso di circa 200 kg. Lo scopo e le modalità di lavoro sono interessanti e invogliano la ricerca: si tratta di ricreare la tradizione perché l’innovazione si possa un giorno definire essa stessa tradizione. Riccardo Lagorio Nota A pagina 44 tramonto a Ibiza.
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Il sogno di Villani è realtà Il primo museo in Italia interamente dedicato alla secolare arte salumiera
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ove se non nella “terra dei salumi” per definizione, in quel comprensorio modenese al tempo stesso fucina e custode di saperi e sapori che hanno marchiato la tradizione gastronomica del Belpaese, poteva nascere il MUSA, il primo museo in Italia interamente dedicato alla secolare arte salumiera? Tre piani ed oltre 200 metri quadrati di spazio espositivo, un itinerario del gusto scandito da immagini, video, testi descrittivi con storie e aneddoti delle singole produzioni, esposizione di antichi macchinari, focus sui mestieri legati alla lavorazione — dall’arte del taglio
a quella della legatura, passando per la salatura — e ancora sulle materie prime quali spezie ed aromi utilizzati in produzione. Insomma, un percorso didattico e, al tempo stesso, una possibilità davvero unici: veder raccolte le eredità e le diverse espressioni regionali che formano quel giacimento gastronomico senza uguali che tutto il mondo ci invidia. Un sogno che prende finalmente forma quello della VILLANI SPA (www.villanisalumi.it), realtà attiva dal 1886 e da anni riconosciuta come punto di riferimento per la qualità nel mondo del “Salume”: un’azienda familiare, oggi alla quinta generazione,
che ha saputo saldare e rinnovare nel tempo il fortissimo legame con questo territorio, con le sue tradizioni e le sue genti. Il museo è per ora visitabile solo con visite guidate su prenotazione: per info e prenotazioni telefonare all’URP del Comune di Castelnuovo Rangone, al numero 059 534810 o scrivere a urp@comune.castelnuovorangone.mo.it. MUSA – Museo della Salumeria Via E. Zanasi 24 41051 Castelnuovo Rangone (MO) E-mail: info@museodellasalumeria.it Web: www.museodellasalumeria.it
Il museo dell’arte salumiera è stato concepito come una sorta di Agorà del gusto aperta a tutti.
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Alla realizzazione del MUSA ha partecipato l’arch. Francesco Catalano, già autore di importanti esposizioni multimediali.
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Locali di gusto
Squisito a Napoli: il trionfo dello spettacolo della cucina Un supermercato, un laboratorio di produzione e un punto ristoro. Tutto questo è Squisito, nuovo progetto di Fausto Amodio realizzato con l’ausilio dell’esperienza trentennale di Costa Group
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e intuizioni alla base di Squisito? “Preparare il prodotto davanti al cliente, servirlo subito e prêt à manger”, ma anche “celebrare la terra campana con una selezione dei suoi prodotti migliori”. Ma che cos’è Squisito? Si tratta di un nuovo concetto, un supermercato del gusto, un negozio di quartiere in cui trovare tutte le tipicità campane e consumare allo stesso tempo pranzi, cene o aperitivi,
ma non solo. Squisito — progetto di Fausto Amodio, realizzato con l’ausilio dell’esperienza trentennale di Costa Group — è anche un luogo dove assistere alla produzione della mozzarella campana, seguire il lavoro dei panettieri e pizzaioli e sentire poi il profumo delle sfornate. Ma lo spettacolo del cibo non si ferma qui: dalla vetrata della cucina a vista, si possono infatti sbirciare i cuochi impegnati nella preparazione dei piatti
dell’ampio menu. E il contributo di Costa Group? Per quel che riguarda il design «abbiamo voluto restituire la naturalità e la genuinità dei prodotti tipici attraverso l’uso di materiali naturali — ci dice l’architetto Gianfranco Berghich — mentre per le aree più tradizionali, come il banco della macelleria, abbiamo optato per scelte classiche e pulite come il marmo di Carrara». Importante è stato anche il contributo di Costa Group per gli
Il banco salumi e formaggi di Squisito a Sant’Anastasia in provincia di Napoli.
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Da Squisito si può passeggiare tra i vari reparti gettando un’occhiata a chi prepara il pane, la pizza o la mozzarella, lasciandosi sedurre da stuzzichini vari ma fermandosi anche a pranzo o a cena.
Costa Group Srl Via Valgraveglia Zai 19020 Riccò del Golfo (SP) Telefono: 0187 769309/08 Web: www.costagroup.net
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Squisito Via Pomigliano (angolo via Marciano) 80048 Sant’Anastasia (NA) Telefono: 081 5302328 Web: www.facebook.com/mysquisito
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Per comunicare la genuinità dei prodotti, Costa Group ha scelto materiali naturali e classici. Ha curato inoltre gli aspetti più funzionali di cucina, forni e laboratori a vista. aspetti più funzionali del locale: per fare in modo che “lo spettacolo delle cucina, dei forni e dei laboratori a vista” non trovasse impedimenti per chi tutti i giorni nel locale lavora, si sono rese necessarie una serie di accortezze realizzabili solo grazie al talento e all’esperienza. E così, entrando da
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Squisito si passeggia volentieri tra i tanti reparti, si è tentati dagli assaggi e dalle tartine sempre pronte e si è stuzzicati dai profumi irresistibili dei forni e della cucina. Ma se è vero che la cucina non è soltanto questione di pancia, qui l’esperienza culinaria si arricchisce
di tutti gli altri sensi e celebra, così, lo spettacolo Squisito della cucina campana. Nota Studio Progettazioni e arredi Costa Group, Massimiliano Faggioni, Gianfranco Berghich.
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ARREDO NEGOZI
COSTAGROUP SRL Salumeria VIA VALGRAVEGLIA ZAI 19020 RICCÓ DEL GOLFO (SP) ITALY T./F. +39 0187 769309/08 INFO@COSTAGROUP.NET Premiata Italiana, 1/14 51
Lucania mitica Un vero e proprio manifesto in difesa della più antica tradizione lucana il menu di Federico Valicenti del ristorante Luna Rossa. Grattonato, coscia della zita e u ped’i puorc le ”Ricette da salvare” di Massimiliano Rella
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n’esperienza gastronomica nella più autentica tradizione lucana tra ricette antiche e ingredienti di territorio. Ce la offre, a mille metri d’altezza, il ristorante Luna Rossa dello chef FEDERICO VALICENTI, con un menu di carni, formaggi e un lavoro di ricerche sulle antiche ricette che rischiavano l’estinzione. Il paese di Terranova di Pollino (Potenza), nel Parco Nazionale del Pollino, conta non più di 1.300 abitanti, ma si popola in estate
con i turisti attratti dal paesaggio e da fantastici itinerari tra cime, gole, boschi e panorami incantevoli. Valicenti, 55 anni, è nativo di Terranova, ma dopo varie peregrinazioni in Italia e in Europa, in seguito al terremoto dell’80, è tornato alle origini, in questo luogo ameno nel silenzio della natura, aprendo — ormai 33 anni fa — un ristorante oggi conosciuto e apprezzato tra i buongustai per la sua cucina lucana rivisitata. Allora Luna Rossa era l’unico locale del
paese, oggi ne troviamo una decina, aperti per lo più nel periodo estivo. «Fu una scelta da incosciente e un po’ da fricchettone — scherza Valicenti, ripensando ai tempi da ragazzo — in realtà è stata una grande scommessa, anche economica». Da autodidatta appassionato lo chef ha studiato il cibo dal punto di vista alimentare e nutrizionale, ma anche per le valenze storiche e antropologiche. Incuriosito da aneddoti, storie, tradizioni, riti contadini,
Tortino di patate “seccagne” e salsiccia lucanica con crema di pecorino e peperone crusco di Senise su panfritto con verdurine (photo © Massimiliano Rella).
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spiegazioni sociologiche o di economia domestica. Un’esplorazione nel tempo e nel luogo condotta con sguardo simbolico e gastronomico sul cibo che si traduce in pratica nella ricerca e nella proposta di vecchie ricette di territorio, prodotti di nicchia, ingredienti artigianali e di qualità. Gli spunti non mancano in Basilicata. Uno dei piatti riproposti da Valicenti è il Mischiglio, una pasta fatta in casa con ben cinque farine diverse: ceci, orzo, fave, grano carosella e semola rimacinata di grano senatore Cappelli. Nella forma ricorda i cavatelli ed è caratteristica di tre paesini lucani: Calvéra, Teana e Fardella. Oppure il maiale nell’arancia “staccia”, con peperoni cruschi e vincotto. La staccia è una varietà tardiva grande e dolce, che matura tra aprile e maggio. Dalla forma schiacciata ai poli, è tipica delle colline a nord di Metaponto. Purtroppo rischia l’estinzione perché poco attraente per la Grande Distribuzione. Ogni arancia ha un peso che supera anche il mezzo chilo e una buccia spessa che però si può utilizzare in cucina in tante ricette. Altro piatto “topico-lucano” ripescato da Valicenti è l’agnello sutta supa (sotto sopra), sopra cucinato in crosta con mollica di pane, pecorino, origano e timo, e sotto sull’amido della patata intriso di aceto; praticamente nello stesso momento cuoce in due modi diversi, sopra croccante, sotto morbido. È tipico della zona di Acerenza, nel Vulture. Tanta tradizione e ingredienti locali selezionati li ritroviamo anche nel tortino di patate seccagne, tipiche del Pollino, e salsiccia lucanica, con crema di pecorino e peperone crusco di Senise su panfritto con verdurine. D’altro canto il menu di Valicenti dedica un capitolo a parte alle “Ricette da salvare”. Fanno parte di questo giacimento gastronomico piatti gustosi come il Grattonato, un antipasto che si preparava anticamente nei giorni nuziali, composto da trippa tritata con uova, pepe, formaggi, il tutto amalgamato con un brodo come se si trattasse di un risotto. Oppure la Coscia della zita, una coscia di agnello steccata con spezie e cucinata in occasione dei pranzi nuziali. E ancora, U ped’i puorc, ovvero lo
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Il Mischiglio: tagliatelle con noci e mollica fritta. La pasta è fatta con 5 tipi di farina (photo © Massimiliano Rella). stinco di maiale su verdure, che — anziché infornato — viene bollito con le erbe spontanee. «Sono ricette antiche, difficili da ritrovare anche nelle famiglie più tradizionaliste», sottolinea Valicenti. Il menu cambia ogni sei mesi anche perché i prodotti locali usati si trovano più o meno tutto l’anno. La carta dei vini è principalmente regionale, supportata da qualche buona etichetta nazionale. Una cinquantina i vini lucani, quasi tutti anche al calice. Ma sono in arrivo i biodinamici. Il conto medio dall’antipasto al dolce
si aggira su € 40,00, mentre il menu degustazione a € 35,00 prevede tre assaggi di antipasti, due primi, due secondi, due dolci, liquorino della casa e caffè. Ne vale la pena: dà una panoramica abbastanza ampia della filosofia “lucana” di Valicenti. Massimiliano Rella Ristorante Luna Rossa Via Marconi, 18 85030 Terranova di Pollino (PZ) Telefono: 0973 93254 E-mail: info@federicovalicenti.it Web: www.federicovalicenti.it
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Le mille forme della lumaca Una sosta golosa al ristorante Lumaca d’Oro a Bevagna, in provincia di Perugia, per riscoprire la bontà della lumaca a 360 gradi e le glorie dell’inossidabile e magnifica cucina campestre di Riccardo Lagorio
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e cronache del tempo vogliono che San Francesco qui predicasse agli uccelli. Oggi, però, i dolci pendii ed i borghi medievali appollaiati o quelli cinti da mura là in basso rappresentano meta di visita incoraggiata, specie per gli stranieri, dalla capacità di rendere il Sagrantino, il vitigno locale, autentico asso nella manica del territorio. Basta recarsi sulle belle piazze di Montefalco o di Bevagna per sentire parlare inglese dall’influsso americano, coreano, russo. Quasi un pellegrinaggio fattosi laico… Contribuisce a rendere ancora meno astratto il paesaggio una sosta golosa, una di quelle che vorremmo incontrare con più frequenza, lontana dai prosceni dove l’unico obiettivo è stupire con imbarazzanti accostamenti e piatti inebetenti. È la Lumaca d’Oro, attività trentennale aperta da GIUSEPPE PENSA come bar di paese e trasformata in ristorante, ma anche pizzeria, nel 2005 dai due figli SIMONE e FEDERICO. Per il ristorante bisogna entrare nel cortile che dà sul retro dell’immobile e iniziare a sfogliare l’archetipico manuale delle pietanze preparate da Roberta Ridolfi, accasata con Federico. La specialità, lo dice il nome del locale, è la lumaca, declinata in ogni sua forma. Fu proprio Giuseppe Pensa a organizzare la prima sagra della lumaca da queste parti. Erano ancora gli anni Settanta. Scelta amplissima di antipasti con porcini e lumache, la crema di ceci con lumache lardellate e guanciale o il crostino di lumache e mozzarella con rotolo di cicoria
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e prosciutto cotto. Simile crostino, ma con crema di formaggio, al pari si possono ordinare i semplici spiedini di lumache con guanciale. Nel gran piatto di antipasti trova spazio anche un curioso involtino di melanzana, prosciutto cotto e lumache. Se pensare ad antipasti a base del simpatico gasteropode non è tanto temerario, ecco allora i primi piatti come l’insalata d’orzo, pomodorini, mozzarella e lumache, un cantico di rustica raffinatezza, ed il risotto con porcini e lumache, una combinazione nostalgica e celestiale di sapori. Diversi sono i formati di pasta con il ragù di lumache in rosso: la Casa suggerisce le tagliatelle, ma anche i fusilli e le farfalle. Le tagliatelle, rugose e preparate in loco, meritano
l’assaggio con la variante di salsiccia e patate. Come portata principale ci ha coinvolto per bontà e buona attitudine ad accordare tra loro i sapori quello di lumache sgusciate al sugo piccante e torta al testo. Semplice, sontuoso. Altrettanto accattivante il piatto che ne è seguito: lumache e ceci, sempre proposte con torta al testo. A dimostrazione di quanto la cucina popolare italica possa ancora insegnare al mondo, i Pensa sono ambasciatori delle lumache alla cantalupese, piatto con cui nacque la sagra della lumaca. Passate prima sui carboni, le lumache vengono insaporite con finocchio, sale e pepe e poi ripassate in forno con abbondante olio extravergine d’oliva.
Pizza alle lumache.
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foglia di mentuccia sul filetto di merluzzo per rendersi conto di quanto la cucina campestre sia gloriosa e sapida, inossidabile e magnifica. Lo facciano magari di fronte ad un piatto di lumache alla contadina, rese gustose dalle patate e da un pizzico di peperoncino, di una lineare pizza alle lumache (a lunga lievitazione, mai inferiore a 48 ore). Che noi non suggeriamo (ma vi mostriamo in foto), non perché altrettanto prodigiosa al pari di quanto abbiamo appena raccontato, ma perché bloccherebbe l’appetito a qualsiasi stomaco normale, impedendo di conoscere l’infinita varietà di portate che Roberta Ridolfi sa preparare con la lumaca. Riccardo Lagorio Gran piatto di antipasti. Particolare l’involtino di melanzana, prosciutto cotto e lumache. Versione umbro-mediterranea di quelle lumache alla bourguignonne che imperversano ovunque si richieda un piatto a base di lumache.
Passino quindi da questi luoghi francescani anche i numerosi, indaffarati chef della cucina che impiegano quindici minuti per posare un’inutile
Ristorante Lumaca d’Oro Via Madonna Addolorata, 72 Frazione Cantalupo 06031 Bevagna (PG) Telefono: 0742 361204 335 6228240 Web: www.piandarca.it
I piatti e le ricette a base di lumache di Cantalupo, una frazione del comune di Bevagna (PG), provengono quasi tutte dalla tradizione povera e contadina essendo, o essendo stato, questo mollusco facilmente reperibile nelle campagne e nelle zone umide adiacenti al paese. Molte sono le testimonianze di contadini del piano o delle colline che trovavano le lumache sotto il fieno tagliato o nelle cavità degli olivi e che, procurato qualche sasso e della brace, cuocevano le lumache direttamente sul posto condendole solo con erbe selvatiche e con un filo di olio. La tradizione della cucina a base di lumache si perde nella notte dei tempi essendo state ritrovate tracce di gusci nelle tombe arcaiche e in quelle greche e romane. A Cantalupo, le lumache sono ancora cucinate nelle famiglie di tradizione rurale seguendo i piccoli segreti della cucina tramandati dalle antiche massaie di campagna. Ora, questa tradizione che lega fortemente abitanti e territorio è diventata elemento centrale della Sagra della Lumaca, un appuntamento imperdibile che si svolge per dieci giorni nella seconda metà di agosto. La lumaca alla base di tutti i piatti gustosi serviti durante la sagra della Lumaca è l’Helix aspersa di produzione nazionale chiamata anche zigrinata o maruzza. Ricca di proteine (12%) di elevato valore biologico e di sostanze minerali, povera di grassi (0,9%), la lumaca costituisce anche un importante integratore alimentare soprattutto negli stati di deficit proteico. La Helix pomatia, leggermente più grande dell’Aspersa, è invece utilizzata per i sughi e le salse. La ricetta delle “Lumache alla cantalupese”, simbolo della sagra, prevede la cottura dei molluschi sui carboni roventi. Le lumache vengono poi condite con erbe aromatiche e olio d’oliva. Le “Lumache alla contadina”, piatto a base di lumache, ceci e olio d’oliva, sono invece una ricetta assai recente; nata come esperimento culinario durante la Sagra, ha ricevuto molti apprezzamenti e il primo premio della “Guida Michelin” alla manifestazione di Bevagna “Arte in Tavola 2010” per la straordinaria capacità di legare in maniera armonica gli ingredienti della gastronomia popolare locale. >> Link: www.prolococantalupocastelbuono.com
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Sapori mediterranei
Rugiada di mare Il rosmarino: con la carne, con il pesce, con le verdure e con qualche sorpresa di Giorgia Fieni
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ugiada di mare, questo significa rosmarino. Perché la nota pianta aromatica porta con sé la freschezza, l’aria e il sole dei luoghi in cui cresce, sia in orto sia in vaso, e quando è presente in tavola il suo aroma contrasta ed allo stesso tempo arricchisce molte pietanze. Pare tra l’altro che abbia anche qualche potere terapeutico, se già i Romani lo utilizzavano più in medicina che in cucina e se uno studio del Center for Human Nutrition Department dell’Università di Los Angeles ha dimostrato che, aggiungendolo in mix con l’origano all’asado argentino, si riduce il rischio di aterosclerosi. L’abbinamento erbe e carne ci riporta però immediatamente ai sapori dell’infanzia: agnello, anatra, manzo, coniglio, coppa fresca
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di maiale, piccione, selvaggina (già nel 1662, ne “L’arte di ben cucinare”, BARTOLOMEO STEFANI scriveva di “Lepre cotte arrosto, tutte lardate di condito, e sopra furono servite con salsa reale, aceto di fior di rosmarino, ed adornati con uccelletti grassi cotti arrosto”). Tutto ciò che diventa arrosto e sugo porta con sé un incredibile bagaglio di ricordi, che possiamo rinnovare aggiungendo verdure di stagione, frutta secca e latticini. MAURO IMPROTA, per esempio, riempie un fagottino di maiale con pinoli, uvetta, rosmarino e basilico, lo fa bollire, avvolto in pellicola, in acqua profumata al rosmarino, lo passa in uova e pangrattato e lo frigge in olio aromatizzato con aglio, buccia d’arancia e ancora rosmarino, così da ottenere una combinazione piutto-
sto fresca e sicuramente aromatica. GIANFRANCO VISSANI cuoce le costine di vitello in casseruola con rosmarino e caffè e le serve con salsa tonnata, purè di ravanelli e insalata russa scomposta. RENATO SALVATORI rosola il filetto di maiale a fette tonde con extravergine, uva passa, pinoli, dadini di mela Golden, rosmarino e aceto di mele. In Abruzzo gli arrosticini sono meno gustosi senza la marinata in vino bianco e rosmarino e lo stesso dicasi in Sicilia per la carne di castrato — ma con aceto di vino bianco. CARLO CRACCO ci propone la sua versione di kebab: «Io sceglierei del pollo a pezzi, da lasciar marinare nel pomodoro verde cotto. Ci aggiungerei un po’ di miele o caramello, e poi lo farei cuocere. Non userei spezie, semmai ci andrei sopra con del sale,
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magari una versione aromatizzata al rosmarino, che sta molto bene con la carne». La rugiada di mare si abbina ovviamente benissimo anche al pesce, come marinatura per la cottura al forno, ma pure in preparazioni specifiche come il guazzetto (in bianco o al pomodoro) da servire sui crostoni. Sempre l’estro di VISSANI ci propone un’orata fatta riposare in tè verde freddo, sale, pepe, rosmarino, poi ripassata nel burro e servita con zuppa di lenticchie. GENNARO ESPOSITO farcisce il pagello con buccia di limone e rosmarino prima di cuocerlo in forno e servirlo con una salsa di zafferano e brodo di pesce. MORENO CEDRONI lo usa per dare sapore alla rana pescatrice prima di scottarla in padella e comporla a millefoglie con pomodorini al forno, completando con erba cipollina; lo stesso chef lo usa per aromatizzare, con legno di faggio, aglio e sale, filetti di ricciola, usando un freezer a fumo freddo. FABIO DRUIDI lo mette in padella con l’astice come sugo per i paccheri. Noi invece possiamo utilizzarne i rametti per preparare spiedini di mazzancolle fritte, che serviremo con maionese al caffè in tazza. E se il rosmarino ama carne e pesce, che dire delle verdure? Al con-
Piadina romagnola e mousse di pancetta con rosmarino (photo © http:// chatapoche.com). gresso Identità Golose del 2008 TOKAVCIC ha impiegato la marinata che di solito prepara per il prosciutto (rosmarino, appunto, con paprika dolce, pepe, salvia e vino terrano) per una zuppa che ha servito assieme a grissini al malto e miele d’edera cotti su piastra. Ai partecipanti era stata fornita anche una sciarpa provvista di tasca contenente un mix di erbe da mettere intorno al collo, così provare una sensazione di comfort food totale. Più semplicemente si può cucinarlo con lamelle di aglio su lunghe fette sottili di melanzane e zucchine, da cuocere in forno, avvolgere intorno alla mozzarella di bufala, disporre in piedi in una pirofila e gratinare cosparse di provola. Oppure per rosolare finocchi sbollentati, aiutandosi pure con burro, aglio e miele di agrumi diluito in vino bianco secco. Del risotto? Abbiniamolo pure, insieme MAZ
Crema di zucca con rosmarino (photo © www.zuccheroesale.it).
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a funghi (sia porcini sia shiitake), piselli, zenzero e scampi. Della pasta? Basta ricordare le parole di ALDO FABRIZI («La pasta e ceci vuole l’odore di rosmarino, legato nel velo dei confetti, con aglio in camicia e lo aggiungo a un soffritto con peperoncino, acciughe, pomodoro, dadi, ceci, acqua e pasta») e confrontarle con quelle di Massimo Bottura («Sopra ai maltagliati servo una crema di pasta e fagioli e sopra aria di rosmarino, perché detesto il rosmarino, aggredisce il palato per entrare in confusione»). A mettere pace ci pensa PAOLO RICCI, che prepara le tagliatelle a mano e le condisce con salvia, rosmarino, aglio, cipolle dorate, pancetta, olio extravergine e pecorino in un sugo detto alla maremmana. E anche PAOLO DONEI, che lo aggiunge nell’impasto delle lasagne, da servire con fonduta di Gra-
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Fette di pane con lardo di Arnad, granella di nocciola, miele di acacia e rosmarino (photo © www.giuliafoodpassion.com). na Padano Riserva 27 mesi (e salvia, burro, panna fresca) e finferli (saltati in padella con zucchine a fiammifero, maggiorana, aglio, sale e pepe). Dei latticini? Basta passare fettine di mozzarella di bufala nell’uovo e in un trito di mandorle e pinoli e poi friggerle in olio, aglio e rosmarino. Di crostini e focacce? L’olio aromatizzato al rosmarino serve sia come ingrediente sia come condimento (per esempio sulla pizza gorgonzola e fichi), mentre come accompagnamento delle tigelle o delle bruschette possiamo servire il lardo al rosmarino. Altro prodotto tipico è il pane al ramerino toscano, già menzionato da Lorenzo il Magnifico e che da specia-
lità tipica del periodo di Quaresima è diventato un dolce reperibile nelle panetterie quasi quotidianamente. E poi andrebbero assaggiati la crescentina del già citato BOTTURA, con parmigiano polverizzato, essenza di rosmarino e polvere di tapioca, cotta in padella e condita con spuma di lardo, parmigiano e olio al rosmarino, e il migliaccio presentato da DAVIDE OLDANI a Taste of Milano 2011, con semola, fico cotto, gelato di latte, pepe nero e rosmarino, ma anche i meno stellati scones con pecorino, uvetta e rosmarino. Nel sottotitolo vi avevo però preannunciato qualche sorpresa, ovvero ricette che forse non avete mai
sentito nominare ma che di certo desteranno in voi curiosità e stupore, un po’ com’è successo a me. Eccole, dunque, iniziando da NIKO ROMITO, che prepara una granita di patate al rosmarino per accompagnare baccalà e peperoni arrosto, continuando con PIETRO LEEMANN, che bolle il seitan in un brodo aromatizzato alla soia e poi lo cuoce in forno su un letto di carote, patate, sedano verde e mela ricoperto da un trito di rosmarino e salvia, con BOTTURA (ancora lui) che non lo ama ma lo usa pure nella faraona non arrosto con pelle di petto caramellata e ripiena di ritagli ridotti in crema con cioccolato bianco, aglio, rosmarino, appunto, e frattaglie aromatizzate al cioccolato peruviano, con ALESSANDRO BORGHESE, che lo prepara in emulsione con olio di noci, aceto balsamico e miele di sulla e lo usa per condire piramidi di anguria cosparse di feta sbriciolata e pisellini freschi, con VALERIA PICCINI, che ne fa ingrediente (assieme ad albume, olio extravergine, farina di castagne e 00, semola e sale grosso) per delle cialde. Finiamo con JAMIE OLIVER, che ne usa i profumati rametti per comporre spiedini di prugne (ripiene di formaggio di capra e avvolte nella pancetta affumicata), cubetti di pane rustico bianco senza crosta e foglie di alloro fresco, da cuocere sul barbecue spennellandoli con cotognata (o marmellata d’albicocche) leggermente diluita. Senza arrivare a questi livelli di bravura, possiamo anche semplicemente aggiungerlo alla nostra abitua-
Il rosmarino appartiene al genere Rosmarinus, famiglia delle Labiatae, ed il suo nome scientifico è Rosmarinus officinalis. È una pianta arbustiva, perenne, con portamento cespuglioso che può raggiungere un’altezza di tre metri. Il fusto all'inizio è prostrato, poi eretto e molto ramificato con radici molto profonde e tenacemente ancorate al terreno. Le foglie sono piccole, prive di picciolo, un po’ coriacee, di un bel colore verde scuro sulla pagina superiore e verde-argentatebianche in quella inferiore, strette, lineari e molto fitte sui rami e ricche di ghiandole oleifere. I fiori, riuniti in grappoli, sono di colore azzurro-violetti e sono presenti quasi tutto l'anno. I frutti sono degli acheni che diventano scuri a maturità. Il rosmarino è considerata la pianta balsamica per eccellenza, conosciuta ed utilizzata fin dai tempi più antichi per le sue proprietà medicinali: stimolante, tonico, stomachico, antispasmodico, eupeptico, anti-ossidante, antinfiammatorio e antisettico. L'olio essenziale di rosmarino è un potente antibatterico e fungicida ed è molto usato anche in profumeria entrando nella composizione di numerose lozioni, profumi, saponi e collutori. Viene usato come tonico digestivo del fegato. Ha proprietà astringenti dovute al tannino. È efficace nei casi di meteorismo e dei disturbi intestinali in genere, nel caso di spasmi ventrali, vertigini, inappetenza e per l'esaurimento psicofisico. Inoltre, rinfranca la memoria debole ed è ottimo nei casi di depressione. È uno stimolante naturale per aumentare il flusso sanguigno e ristabilizzante della resistenza dei capillari fragili. L'infuso di rosmarino e salvia è ottimo per il mal di gola. Se si vuole godere a pieno delle sue caratteristiche sarebbe preferibile utilizzare il rosmarino spontaneo perché, anche se quello coltivato mantiene le sue caratteristiche, queste sono maggiori nelle piante allo stato spontaneo.
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Panino aromatizzato al rosmarino (photo © www.saison.ch).
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le ricetta per la torta di mele. Ma anche per preparare un liquore dal potere digestivo come fanno in Val d’Enza, con foglie di erba cedrina (luigina), alcol e sciroppo di acqua e zucchero o, in alternativa, un cocktail, con gli aghi pestati con succo di lime e zucchero di canna su cui versiamo ghiaccio, birra e gazzosa. Oppure prepariamo un dolcetto con spuma di mascarpone, tuorli, zucchero a velo, latte e liquore sambuca alla liquirizia e la alterniamo con limone confit al rosmarino, scaglie di cioccolato fondente e una spolverata di liquirizia. O immergiamo semplicemente il cucchiaio in miele di rosmarino: bianco e dal profumo delicato. In qualunque modo abbiate deciso di abbinarlo, non dimenticate comunque che “anche l’occhio vuole la sua parte” come scrive BENEDETTA PARODI in “Cotto e mangiato”. “Piatti buoni sì, brutti no. Una spolverata di parmigiano o un giro di olio extravergine a crudo, sulla pasta, due foglie di basilico o prezzemolo o qualche rametto di rosmarino accanto a una pietanza, lo zucchero a velo sulle torte: con questi non si sbaglia mai”. E siccome il consiglio vi arriva dritto da chi scrive i libri di cucina più venduti in Italia perché prende ispirazione direttamente dalle nostre case, è opportuno tenerlo a mente. Giorgia Fieni
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Pasta fresca e sapori salentini Di passaggio a Lecce, tra Guagnano e Nardò, sosta a L’Oriecchietta e a Corte Santa Lucia con sagne ‘ncannulate, tria, orecchiette, cavatelli, pizzicarieddi al ferro ma anche pittule, legumi nella pignata, paparina. Specialità tipiche pugliesi assolutamente da non perdere di Massimiliano Rella
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a pasta fresca del Salento, la signora Lisetta, al secolo ELISABETTA SCARCIGLIA, ha imparato a farla a mano quando era ancora bambina. Ma nel 1991 ha trasformato questa sua abilità maturata in anni di pratica in un curioso pastificio artigianale. Curioso
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perché attrezzato con una cucina e qualche tavolino per poterla gustare con un condimento. Impastata e cotta all’istante. E a prezzi popolari, il che non guasta. Siamo a Guagnano (Lecce), sede de L’Orecchietta — un nome un programma — laboratorio a conduzione familiare con negozio
e cucina. Accanto a mamma Lisetta i figli Mino e Simona. Quando nel 1991 fu aperta L’Orecchietta l’idea suscitò qualche perplessità: vendere pasta fresca in un piccolo paese del Salento dove le massaie se la fanno abitualmente in casa. «All’inizio ci dicevano:
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siete matti ad aprire un laboratorio di pasta a Guagnano?» ricorda la signora Lisetta. «A Guagnano c’è sempre stata la tradizione di far la pasta in casa: le sagne ‘ncannulate, la tria, le orecchiette, i cavatelli, i pizzicarieddi al ferro. Aprire il pastificio è stata una scommessa, ma è andata bene. Ci siamo ingranditi e qualche anno fa abbiamo aperto anche la cucina». Questa piccola azienda “dal produttore al degustatore” impiega 5 dipendenti, inclusi 2 cuochi. Madre e figlia impastano ogni giorno acqua e semola di grano duro pugliese per fare pasta fresca locale, ma anche tortellini, ravioli e altro ancora. Tra i formati più richiesti ci sono le sagne ‘ncannulate, fatte con semola di grano duro locale e acqua. A seconda del tempo e del vento, Tramontana o Scirocco, le proporzioni di acqua e farina cambiano. «Quando soffia la Tramontana — ci svela la signora Lisetta — la pasta tende ad asciugare in fretta e il colore è più vivace, invece con l’umidità dello Scirocco si asciuga più lentamente e l’aspetto si imbrunisce. Ma per darle un colore più acceso
nell’impasto aggiungiamo anche un po’ di crusca». Dopo qualche minuto viene tirata la sfoglia, a macchina o mattarello, poi arrotolata e tagliata in striscioline, che vengono “ritorte” a mano a forma di lunga spirale: queste sono le sagne ‘ncannulate. Un chilo costa 6 euro, un piatto di sagne con pomodorini e cozze appena 4 euro, mentre le orecchiette con cacioricotta e pomodoro 3 euro. E ancora, verdure, pittule, le tradizionali frittelle tonde, a volte insaporite con un ripieno di verdure, (10 a 1 euro), polpettine e altre saporite tipicità accompagnano le paste di L’Orecchietta. A pranzo (la menzatia in dialetto salentino) e a cena, fino alle 21,00. Pasta fresca e sapori salentini anche alla Corte Santa Lucia, l’osteria di Nardò della cuoca PATRIZIA PAGLIALUNGA, che ci propone ricette tradizionali semplici e gustose, ma non solo. Il locale prende il nome dalla sua ambientazione, un’antica curte salentina, cioè un gruppo di case imbiancate a calce, che si affacciavano su un cortile, con le fosse per il grano, il pozzo, gli abbeveratoi per gli animali.
La cuoca Patrizia Paglialunga (photo © Massimiliano Rella). Oggi la corte è stata trasformata in un profumato giardino di agrumi, dove si può cenare con il bel tempo sui tavoli in legno collocati sotto le piante. Il ristorante, aperto dal 2000, ma preso in gestione dalla signora Patrizia nel 2008, è in un vecchio frantoio del ‘600. In tutto
Le sagne ‘ncannulate (photo © Massimiliano Rella).
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La signora Elisabetta de L’Orecchietta (photo © Massimiliano Rella). offre 80 coperti all’interno e 100 nell’agrumeto. Il menu è un’aperta sfida ai buongustai e a chi ama la cucina pugliese: pittule, parmigiana alle melanzane,
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legumi cotti lentamente nella pignata di terracotta. Uno dei piatti classici è ciceri e tria, una pasta fresca fatta a mano con semola e acqua, di forma simile alle sagne, ma meno attorcigliata, con i ceci. Nella cottura si aggiungono cipolla, sedano, pomodorini, un soffritto di olio extra vergine d’oliva e cipolla intera, una parte dei ceci cotti schiacciati con un cucchiaio per creare una specie di salsa cremosa insieme ai ceci interi e alcune trie soffritte in olio. Il termine “tria” deriva dall’arabo itrya, che significa pasta fritta o pasta secca. Un’altra specialità locale, di febbraio-aprile, prima della fioritura dei papaveri, è la paparina: piante di papavero saltate in padella con extra vergine, aceto e olive di varietà Cellina di Nardò. Proposte “innovative”, pensate per valorizzare i prodotti locali, sono: le sagne ‘ncannulate con ceci, vongole e filetti di mandorle; e i tagliolini al Negroamaro ai frutti di mare. Tra i secondi, il pesce fresco del mar Ionio si presta alla cottura al
forno oppure alla brace. In alternativa ci sono piatti di carne, come la fiorentina, gli straccetti con radicchio, gorgonzola ed emulsione al balsamico. E, infine, perché il dolce non sia da meno, zuccotto gelato oppure millefoglioline con fragole e crema chantilly, accompagnato da un liquore artigianale. Menu a € 25,00. Massimiliano Rella L’Orecchietta Via Vittorio Veneto 49 73010 Guagnano (LE) Telefono: 0832 705796 E-mail: lorecchietta@lorecchietta.com Web: www.lorecchietta.com Hostaria Corte Santa Lucia Via S. Lucia 46 – 73048 Nardò (LE) Telefono: 0833 835275 Web: www.cortesantalucia.com Nota A pagina 61 sagne ‘ncannulate con pomodorini e cozze. Piatto del pastificio con cucina L’Orecchietta di Guagnano (photo © Massimiliano Rella).
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Tradizioni
I timballi, delizie pasticciate di Clara Scaglioni
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e si cerca la parola timballo sul vocabolario della lingua italiana si trovano tre definizioni. La prima suona così: “antico strumento a percussione formato da una cassa semisferica di metallo sulla quale è distesa una membrana”; la seconda, “tegame circolare in cui si cuociono gli sformati”; e la terza, “pietanza cotta al forno, costituita da un ripieno di carne, di pesce, di pasta o di verdura, coperto di solito da pasta sfoglia”. Ad una prima lettura queste definizioni sembrano non avere un filo conduttore comune, ma, analizzandole con attenzione, ci si accorge del nesso che le lega. Tutto nasce da uno stampo dalla forma leggermente conica, detto anche dariola, la cui altezza è uguale al diametro, realizzato in ferro stagnato o acciaio inossidabile. Essendo simile, nella forma, proprio all’antico tamburo, ne è derivato che la preparazione alimentare a base di riso e carne o pesce o pasta, condita con intingoli vari e cotta in questo stampo, è stata chiamata “timballo” (e, di conseguenza, anche lo stampo stesso). C’è però da fare un’osservazione: quando in gastronomia si parla di “timballo”, ci si dovrebbe riferire solo alla specialità realizzata con lo stampo omonimo. Eppure, scorrendo i libri di cucina, si nota che non è così. Viene infatti definito “timballo” tutto ciò che è fatto di pasta, o di riso, o di pesce, condito di solito a strati con ragù vari, incassato in pasta frolla o brisé, messo a cuocere in recipienti di tipo diverso, stampi o tortiere, che nulla hanno a che vedere con quelli a forma di tamburo. Molto spesso allora, vengono definiti “timballo”: il pasticcio di maccheroni, il sartù di riso e il timpano, due tipiche specialità della cucina napoletana, la bomba di riso parmigiana, gli sformati e anche le lasagne.
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Nell’ambito dei timballi veri e propri, se ne possono distinguere due tipi perché, accanto a quello in crosta, c’è quello semplice, composto da una farcia di pesce o di carne cotta lentamente a bagnomaria, in forno. In quello in crosta la pasta esterna può essere cotta prima in bianco e poi riempita dell’elemento caratteristico della preparazione, oppure cotta insieme agli ingredienti che la compongono. Tra le specialità che non sono propriamente timballi, ma che richiedono assolutamente di essere
preparate e messe in forno nello stampo classico citiamo la bomba di riso, che deve arrivare in tavola dorata e croccante con la forma del tamburo. Piatto tradizionale della cucina parmigiana e piacentina, ha come base il riso prima cotto al dente e, successivamente, condito con un ragù che, anche se spesso viene utilizzato un altro tipo di carne, dovrebbe essere preparato secondo la ricetta tipica con il piccione. Anche il timballo di melanzane alla Norma è una splendida e saporita ricetta che, con i suoi ingre-
Timballo di riso con melanzane, piselli, mozzarella e Parmigiano Reggiano (photo © dolcemente-salato.blogspot.it).
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Bomba di riso con il piccione Ingredienti per 6 persone • 500 g di riso tipo Carnaroli • 2 o 3 piccioni • 1 cipolla • 3 foglie di salvia • vino bianco (meglio cognac) • brodo di carne • qualche pezzetto di salsiccia sbriciolata • 50 g almeno di parmigiano grattugiato • 1 uovo • pane grattugiato • burro • olio d’oliva • sale e pepe Esecuzione In un tegame di terracotta fate sciogliere 50 g di burro e 5 cucchiai da tavola ben colmi di olio d’oliva. Unite la cipolla tagliata a grosse fette, fatela rosolare leggermente e appena la vedrete ben colorita toglietela perché deve soltanto insaporire il condimento. Accomodate nel tegame i piccioni assieme a salvia, sale e pepe. Fate rosolare a fuoco vivace per alcuni minuti, quindi bagnate con il vino o il cognac. Fate evaporare e portate a cottura bagnando con il brodo caldo. Aggiungete alla fine, quando vi sembrerà che le carni sono ben cotte, qualche pezzetto di salsiccia sbriciolata e fate andare ancora per una decina di minuti. Fate raffreddare il condimento e disossate i piccioni per rimetterli a pezzettini nel sugo dopo avere tolto la salvia. In alcune città, come Piacenza, il piccione viene tagliato in quattro parti e non disossato. Cuocete intanto il riso al dente in acqua salata. Scolatelo e conditelo con il sugo dei piccioni (solo il sugo), il burro e il parmigiano. Preparate lo stampo da timballo e seguite questo procedimento per ottenere una bella crosticina quando lo sformerete. Per prima cosa imburratelo, bagnatene le pareti con due uova sbattute e poi spolverizzatelo molto bene di pane grattugiato. Ripetete questa operazione almeno due volte, in modo da eliminare ogni residuo di liquido d’uovo, e per fare attaccare bene il pane e l’uovo, mettete lo stampo in frigorifero o in un luogo fresco. Mettete nello stampo 3/4 del riso, facendo una conca che riempirete con i piccioni disossati e poi chiuderete con altro riso, ma solo per 2/3 dello stampo. Spargete sulla superficie dei fiocchetti di burro, spolverate con pane grattugiato in abbondanza e mettete in forno a 175 gradi per 40 minuti. Fate passare almeno 10-15 minuti prima di sformarlo.
Timballo di pasta alla Norma Ingredienti per 6 persone • 450 g di mezze penne • 1 kg di pomodori maturi • 1 kg di melanzane del tipo lungo • 1 cipolla • 4 spicchi d’aglio • un mazzetto abbondante di basilico • 150 g di ricotta dura • 100 g di pecorino grattugiato • 10 cucchiai di olio d’oliva • sale e pepe • olio di semi d’arachide per friggere C’È BISOGNO DI: uno stampo da timballo da 2,5 litri circa, antiaderente Esecuzione Scottate i pomodori in acqua bollente, scolateli, privateli dei semi e della buccia e tritateli grossolanamente (potete usare anche i pomodori pelati, va bene una scatola da mezzo chilogrammo). Lavate le melanzane, tagliatele a fettine alte e friggetele nell’olio di semi senza farle diventare troppo dorate e scure; mantenetele morbide e mettetele ad asciugare dall’eccesso di unto di frittura su carta da cucina. Sbucciate la cipolla e tritatela, togliete la pellicola all’aglio e tagliatelo a fettine sottilissime. In un tegame con circa 5 cucchiai di olio d’oliva e due rametti di basilico fate appassire la cipolla e l’aglio senza farli colorire. Aggiungete i pomodori, salate, pepate e continuate la cottura per 30 minuti circa a fuoco moderato, mescolando ogni tanto con un cucchiaio di legno. A fine cottura aggiungete il basilico rimasto. Preparate allora lo stampo. Mettetevi tutte le fette di melanzana già fritte, sovrapponendole con garbo una sull’altra e cercando di farle sporgere dallo stampo. Consiglio assolutamente di usare uno stampo antiaderente perché in questo modo non è necessario ungerlo. Cuocete molto al dente la pasta, conditela con il sugo di pomodoro, con il pecorino e la ricotta dura grattugiati e alcuni pezzetti di melanzana rimasti dalle fette fritte in precedenza. Ponete in forno già caldo e fate cuocere a 180 gradi per 25 minuti circa. Capovolgete lo stampo e portate in tavola con sopra un poco di salsa di pomodoro e intorno del basilico fresco e profumato come decorazione. Se resta un poco di salsa, servitela a parte, in salsiera. Vi consiglio di cuocere lo sformato e di non farlo riposare, ma di portarlo in tavola appena esce dal forno perché la pasta potrebbe scuocere.
dienti (pomodoro, basilico, ricotta dura, formaggio pecorino), ricorda i profumi tipici del Sud d’Italia e dei suoi prodotti. Con il pesce poi sono tante le preparazioni da applauso quando si
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portano in tavola. Una certamente facile da realizzare è il timballo di pesce (più propriamente, però, si tratta di una lasagna) i cui ingredienti si possono assemblare sia nello stampo rotondo da timballo che in quello
rettangolare classico da lasagna. Nel momento in cui si gusta, piace per la delicatezza degli ingredienti, tutti molto ben equilibrati, ed è sempre un successo. Clara Scaglioni
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Giorni di festa
Primi piatti di Carnevale, la tradizione continua di Nunzia Manicardi
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arlando di piatti tipici di Carnevale il pensiero va immancabilmente ai dolci e ai fritti, abbinamento ideale per festeggiare l’eccesso, l’abbondanza, ovvero tutto quello che il rito stagionale del Carnevale (momento fondamentale di passaggio, lungo arco temporale fra l’inverno e la primavera) vuole porre in primo piano. Fritti di maiale — elemento base, legato alla macellazione che avviene in questo periodo — e dolci fritti, il più tipico fra tutti i “mangiari di grasso”: le varianti in ogni parte d’Italia sono infinite. Eppure la tradizione si conserva anche in alcuni primi piatti. La Lasagna napoletana Uno dei più famosi è senz’altro la Lasagna napoletana di Carnevale o Lasagna campana (è un primo piatto diffuso anche nel territorio circostante). Viene consumata il martedì grasso, quando si dà l’addio al periodo di festa sfrenata per inoltrarsi nella Quaresima, tesa alla purificazione del corpo e della mente, durante la quale si dovrà mangiare di magro e non si potranno commettere più peccati di gola per quaranta giorni. Si basa su una ricetta molto antica, che ci si tramanda di generazione in generazione, ed è un piatto talmente ricco che è difficile definirlo “soltanto” primo piatto. Richiede innanzitutto sapienza e pazienza per l’elaborata e lunghissima preparazione. La carne, ad esempio, viene utilizzata in tre diverse forme: ragù, polpettine e ripieno. Il ragù può essere considerato, insieme alle polpettine, l’ingrediente fondamentale. Deve essere un buon ragù, abbondante, e, a differenza di quello abituale, preparato esclusivamente con carne di maiale. Le pol-
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pettine, piccole quanto una nocciola, vengono fritte in olio di oliva e messe ad ammorbidire nel ragù. La salsiccia napoletana va a costituire il ripieno delle lasagne insieme con ricotta di pecora, uova sode, mozzarella fior di latte e un misto di parmigiano e pecorino grattugiato (e scusate se è poco…). Una volta preparate, le lasagne si cuociono in forno finché non si forma una bella crosta dorata. Si rimane sazi certamente fin dopo la Quaresima! La Frittata di bucatini dell’Irpinia Questo piatto, tipico della provincia di Avellino, in confronto al precedente può sembrare un po’ povero, ma non dobbiamo dimenticare che è espressione di un territorio montuoso, chiuso, spartano, molto differente da quello marittimo, solare, aperto e luminoso di Napoli e dintorni. Inoltre, il motivo per cui si consuma questa frittata per Carnevale non dipende
dal tipo di ingredienti ma dal fatto che è comoda da mangiare all’aperto, seguendo l’usanza locale di radunarsi tutti insieme nella piazza del paese a festeggiare, ballando, mangiando e bevendo. La ricetta di base (per 4 persone) richiede: 400 g di bucatini, 250 g di ricotta (preferibilmente di pecora), 3 uova, olio per friggere (girasole, arachide o mais), pepe e sale q.b. Per le eventuali aggiunte si consiglia un po’ di provola o mozzarella a dadini, qualche tocchetto di salame piccante e del Parmigiano Reggiano (anche mescolato al pecorino). La preparazione è quella classica della frittata di pasta. Si raccomanda, però, di scolare bene i bucatini e di cuocerli bene al dente. Focaccia salentina La Focaccia salentina o Fucazza de Carnuale è una torta salata ripiena di carne di maiale, la cui origine affonda nella notte dei in tempi, perfetta come piatto unico ma anche come
Gnocchi con pastissada de caval (photo © www.smatteo.it).
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La ricca lasagna napoletana (photo © memoriediangelina.com). contorno. In pratica si deve formare un contenitore di pasta (la pasta lievitata per la pizza) e imbottirlo di un ricchissimo ripieno di carne, tagliata a pezzetti e saltata in padella con un leggero soffritto di cipolla, pecorino grattugiato (se possibile, quello leccese), mozzarella a tocchetti e pomodori a fettine sottili. Dopo la farcitura bisogna far lievitare e poi cuocere in forno per un’ora circa a 180ºC, pungendo la parte superiore con una forchetta per far uscire il vapore. Ne risulta una sorta di grandissimo “calzone” che, se si vuole, si può spennellare con olio d’oliva misto ad origano. Ravioli incaciati del Piceno Molto apprezzati e presenti nei ristoranti di Ascoli, Offida e Castignano, i principali centri del Carnevale Storico Piceno, i ravioli incaciati (che significa “con il formaggio”), nel dialetto locale “li raviuole n’caciate”, tradizionalmente vengono preparati in casa e portati in tavola il giovedì e il martedì grasso. Sono i protagonisti assoluti dei pranzi del Carnevale locale. Per il ripieno (anche questa volta ricchissimo!) si prepara un brodo con la gallina e i classici odori: cipolla, carota, sedano e anche prezzemolo. Una volta cotta, si disossa la carne e la si macina aggiungendo pangrattato (oppure pane raffermo ammollato nel brodo), formaggio pecorino, rossi d’uovo e zucchero e cannella, due
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ingredienti particolari che nel Rinascimento era abituale inserire nelle preparazioni con carne più raffinate. Fatto sta che è proprio questo particolare sapore dolce-piccante dato dall’accostamento del pecorino con la cannella e lo zucchero che rende unici i ravioli del Piceno. Una volta riempita la pasta con l’impasto sopra descritto (facendo bene attenzione a che esso non fuoriesca in fase di cottura), i ravioli vengono conditi con pecorino grattugiato e ancora cannella. Segnaliamo che esiste anche una versione esclusivamente dolce, con impasto di castagne — cotte, spellate e macinate — cioccolato, rum, alchermes e zucchero. In questo caso si friggono in abbondante olio. Gnocchi di patate di Verona Chiudiamo in bellezza con un piatto che a Verona “è” il Carnevale stesso. Parliamo degli gnocchi, che qui danno persino il nome alla festa: il Bacanal del Gnoco (baccanale nel significato di baldoria, gozzoviglia), di cui la maschera di Papà del Gnoco, la più antica d’Italia e d’Europa di cui si abbiano dei documenti certi, è il Re. Rappresentato come un uomo anziano, rubicondo e con una lunga barba bianca, con mantello e una tuba rossa a cui sono attaccati dei sonagli, ha come scettro una grande forchetta dorata in cui è infilzato uno gnocco di patata. Viene tradizionalmente eletto fra gli abitanti del quartiere di San Zeno. La domenica dell’elezione chiunque può partecipare alla votazione, ottenendo come ricompensa un piatto di gnocchi al pomodoro. L’origine di questa simpatica tradizione risalirebbe a più di cinquecento anni fa: fra il 1520 e il 1531, infatti, a causa di un’inondazione del fiume Adige e delle scorrerie dei Lanzichenecchi, Verona soffrì una terribile carestia. Il 18 giugno 1531 la popolazione, affamata e disperata, andò ad assaltare i fornai di San Zeno per far provviste di grano e di pane. La situazione fu salvata dal Podestà e da alcuni cittadini benestanti che provvidero a loro spese a rifornire di viveri i cittadini più poveri della contrada, nel numero di dodici e su nomina. Si dice che tra gli eletti ci fosse anche Tommaso Da Vico, indicato come
I ravioli di castagne (photo © ristorantipiceni.it). “istruttore e restauratore” del “Baccanale del Gnocco”, avendo di sua volontà distribuito viveri (pane, vino, burro, ecc…) ai sansenati. Davanti al sagrato della Basilica di San Zeno esiste tuttora la “pietra del gnocco”, dove venivano invitati i poveri il venerdì precedente la quaresima, detto Venardì consolàr (venerdì consolatore). Durante la sfilata, il Venardì gnocolar, il Papà del Gnoco dispensa caramelle per i bambini e porzioni di gnocchi per gli adulti assieme ai suoi servitori (i gobeti o macaroni). Si muove a cavallo di una mula, dato che gli gnocchi venivano tradizionalmente conditi con la pastissada, uno stracotto d’asino spesso preparato anche con la carne di cavallo (secondo quanto risulta dal sito ufficiale del Carnevale di Verona, però, oggi gli gnocchi preparati in piazza San Zeno sono rigorosamente al pomodoro). La pastissada si serve anche con la polenta e ci sono illustri buongustai che vengono con l’occasione a Verona più per mangiarla che per assistere al Carnevale. La ricetta di questa specialità? Eccola: prendere della polpa di cavallo (girello o scamone), tagliarla a pezzettini, aggiungere altrettanta cipolla, qualche carota, uno spicchio d’aglio, spruzzare il tutto con vino rosso e far cuocere lentamente, il più a lungo possibile, finché la carne quasi si scioglie. Nunzia Manicardi
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Delicatessen
Il norcino… di pesce di
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econdo la libera enciclopedia del web Wikipedia, il norcino è colui che macella il maiale e si occupa della lavorazione delle sue carni. Può anche riferirsi al gestore della norcineria, ovvero della bottega dove si preparano e si vendono tutti i prodotti derivati dalla lavorazione delle carni suine. Comunque la si voglia spiegare, certo è che dobbiamo molto a questa figura, non solo perché in grado di farci apprezzare una carne che, sapientemente trasformata in gustosi e appetitosi salumi, viene resa conservabile e consumabile nel tempo, ma perché, in un certo senso, è stata portatrice di quella filosofia, largamente conosciuta e praticata da tempo, che ci ricorda che “del maiale non si butta via niente”. Questo detto è noto e attuato in tutta Italia, ma da toscano quale sono posso dire, senza ombra di dubbio, che trova nella tradizione enogastro-
Maurizio Dell’Agnello
nomica della mia regione la sua più stretta e rigorosa applicazione. La storia vuole che le antiche famiglie contadine mezzadrili, se avevano la fortuna di possedere un maiale, ne usassero ogni sua parte, per preparare alimenti da conservare sottolio o attraverso la salagione. Perfino il sangue veniva trasformato nel famoso “mallegato”, una sorta di salsicciotto speziato appartenente alla categoria dei sanguinacci, intarsiato di grasselli e arricchito in qualche caso con chicchi d’uva. Eppure da qualche tempo l’arte e la filosofia norcina, applicata da sempre ai prodotti della terra, ha trovato una nuova area di esercizio, rivolgendosi al mare e ai suoi prodotti. In effetti non si è trattato di un’impropria mutazione genetica, data la ben nota e consolidata tradizione che si basa sulla trasformazione e conservazione dei pesci per mezzo
di essiccazione o salagione; diciamo piuttosto che ha riguardato l’applicazione della “tecnica norcina” ai prodotti del mare. Il nostro norcino di pesce si chiama PAOLO ORAZZINI, chef del ristorante Askos di San Vincenzo (LI), a cui è venuta l’originale idea di partire dai prodotti del mare per dar vita a qualcosa di “diversamente buono e gustoso” e, a vedere il successo di pubblico che il suo stand durante EXPO Rurale di Firenze lo scorso settembre, direi che ci è perfettamente riuscito. Aggiungerei anche che ci è riuscito doppiamente! Infatti, l’importante vetrina fiorentina di Fortezza da Basso non solo ha consentito di far apprezzare i “germogli di idee” nati dalla mente e dalle mani dello chef, ma, anticipando i temi fondanti dell’agricoltura del domani dell’Expo 2015 di Milano, ha messo in opportuna evidenza le potenzialità alimentari del pesce,
La mortadella di mare.
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Le creazioni di Paolo Orazzini I salumi di pesce • Porketta di tonno (cotta al vapore) • Roast beef di tonno (Roast fish) • Prosciutto di palamita • Finocchiona di mare • Lonzino di tonno • Mortadella di mare • Pancetta/speck di tonno (per Carbonara e Mariciana) • Tarese di tonno (dalla pancetta tipica Tarese del Valdarno) • Mallegato di mare (ottenuto con la buzzonaglia di tonno) • Lampredotto di mare (polpo, seppia, calamaro verace e pescatrice; l’aspetto è simile al lampredotto fiorentino).
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Le “dolci” novità del mare: i fish-cakes • Rocher di palamita • Cheesecake di azzurro • Spumini di palamita
della sua produzione e della possibile diversificazione di prodotto mediante la sua trasformazione. Questi aspetti del “sistema pesce” sapranno essere certamente protagonisti di una nuova “ruralità”, orientata ad uno stile di vita attento alla qualità, alla salute e ad un’ecologia di rapporti tra le persone e l’ambiente che fa dei consumi consapevoli la bandiera di un rinnovato sistema alimentare italiano. In questo scenario la diversificazione dell’offerta di prodotti ittici, anche attraverso la ricerca di nuovi modi di proporli, rappresenta senza dubbio la nuova frontiera per il sistema produttivo pesca e per tutto quello che ad essa è collegato, e il positivo apprezzamento delle realizzazioni presentate da Orazzini ne sono la prova. Del resto, se l’acquacoltura ha dato ampio contributo alla diversificazione delle specie allevate ed all’aumento dell’offerta e della disponibilità di prodotti ittici per il mercato, la possibilità di sperimentare nuove produzioni, ampliando la gamma dei processi di trasformazione, costituisce la naturale evoluzione del sistema che — evidentemente — ha raggiunto una sua maturità ed ha l’opportunità di percorrere nuove
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strade da proporre per adattarsi ai cambiamenti del mercato e della società. “Aggiungere qualità alla qualità” deve essere il motto dei nuovi norcini, i quali, a partire da prodotti già largamente apprezzati e conosciuti, ne accrescono l’eccellenza, offrendo qualcosa di unico e originale in grado di fare la differenza e distinguersi sul mercato. Parlando di norcini di pesce, ci corre l’obbligo di citare alcuni pionieristici esempi che hanno anticipato il nuovo corso della “salumeria ittica”, come ad esempio il meravigliosamente speziato salame di trota di FRANCO ARIANO di Cuneo o la splendidamente variopinta soppressata di polpo in vendita presso alcuni banchi della Grande Distribuzione, che, accompagnata a rucola, un filo di olio extravergine di oliva e magari due gocce di limone, ben si presta per singolari e appetitosi antipasti di mare. Chissà, forse proprio grazie anche a queste idee innovative, non è troppo lontano il tempo in cui in pescheria chiederemo un paio di fettine di “mortadella di tonno” o un etto di “salame di palamita”. A volte il futuro è meno futuribile di quanto si pensi! Maurizio Dell’Agnello
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Rassegne Il più grande, il più buono, il più divertente zampone del mondo
Castelnuovo Rangone: il Superzampone eccolo qua
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l grande giorno del Superzampone 2013 è arrivato anche questa volta, la venticinquesima per l’esattezza. Domenica 8 dicembre a Castelnuovo Rangone, in provincia di Modena, è stata di nuovo festa grande, per celebrare e assaggiare l’insaccato più grande del mondo. A condurre la festa organizzata dall’Ordine dei Maestri Salumieri il simpatico intrattenitore televisivo Andrea Barbi in compagnia di Stefano Bortolamasi, che ha raccolto l’eredità di papà Sante, ideatore del Superzampone. Con 720 chili di
bontà, servita calda e fumante allo scoccare esatto del mezzogiorno gratuitamente assieme ad un contorno di fagioli, un panino e un bicchiere di Lambrusco, non è stato battuto il record assoluto che, per quanto riguarda il peso del Superzampone, è di 942 chili. «720 kg rappresentano un paio di quintali in meno del record assoluto — ci hanno raccontato alcuni soddisfatti rappresentanti dell’Ordine dei Maestri Salumieri — ma quest’anno la nostra attenzione è stata tutta rivolta ad ottenere una forma ed una
dimensione tale da poter offrire uno zampone dal gusto indimenticabile. Il peso inferiore, con l’attuale tecnologia di cottura, ci ha permesso infatti di portare in piazza il miglior Superzampone di sempre!». A Daria Denti, presidente dell’Unione Terre di Castelli, e Paolo Ferrari, presidente del Consorzio di tutela Zampone Modena Cotechino Modena IGP, l’onore di tagliare la prima fetta. Molto applaudita anche miss Superzampone 2013, la bionda sassolese Anna Laura Mucci.
Il Superzampone 2013 pesava 720 kg. Entrato il 5 dicembre nell’enorme zamponiera di acciaio lunga quasi 4 metri allestita in piazza a Castelnuovo, è stato mantenuto in cottura per tre giorni e tre notti, avvolto da un involucro di lino e canapa cucito a mano. Domenica 8 dicembre è stato tagliato sul palco allestito ad hoc e distribuito gratuitamente a tutti i golosi presenti.
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Un simbolo da record Tra i simboli della cucina emiliana, lo zampone è un insaccato realizzato con cotenne e carni suine tritate, salate e speziate, il cui impasto viene inserito nella pelle della zampa anteriore del suino. Il Superzampone 2013 è stato organizzato dall’Ordine dei Maestri salumieri modenesi, in collaborazione con il Comune di Castelnuovo Rangone, la Strada dei vini e dei sapori “Città Castelli Ciliegi”, e con il patrocinio della Provincia di Modena. Dal 1989 in poi questa iniziativa è diventata di anno in anno una sagra di importanza sempre maggiore, un evento di grande richiamo per il turista appassionato di enogastronomia. Il primo Superzampone fu di 224 kg e ogni anno il peso è andato via via aumentando. Oggi, grazie a questa sagra, Castelnuovo Rangone detiene il record dell’insaccato più grande del mondo, iscritto nel Guinness dei primati nel 2000 con 450 kg, nel 2006 con 751 kg e, infine, nel 2008 con 942 kg, record tutt’ora imbattuto. Il gusto raccontato ai bambini “C’era una volta un paese fatto di cotechino. Gli abitanti erano
Alla cerimonia di inaugurazione della sagra, miss Superzampone 2013, Anna Laura Mucci, il sindaco di Castelnuovo Rangone, Carlo Bruzzi, Stefano Bortolamasi, Daria Denti, presidente dell’Unione Terre di Castelli, e Paolo Ferrari, presidente del Consorzio di tutela Zampone Modena Cotechino Modena Igp. sempre affamati perché non potevano mangiare il cotechino, altrimenti sarebbero rimasti senza casa…”. Comincia così uno dei duecento racconti scritti dai ragazzi di Modena (ultime due classi delle elementari e medie) per il concorso letterario “Racconti di
gusto”, promosso dal Consorzio di tutela in occasione della terza edizione della Festa dello Zampone Modena e del Cotechino Modena IGP. «I ragazzi hanno svolto in modo tenero ed emozionante un tema sui sapori della cucina di casa, sui ricordi dei pranzi
Onore al Superzampone anche nel fumetto Mutina Capitalis in Tabula È un fumetto d’avventura e una storia d’amicizia la bella e divertente opera appena pubblicata da TerrediModena.it e intitolata “Mutina Capitalis in Tabula”. Due curiosi personaggi, il cuoco Giacomone e il maiale Ninel, viaggiano attraverso la provincia di Modena alla scoperta dei prodotti e tradizioni tipiche della gastronomia del territorio, con il preciso compito d’imbandire un pranzo, “100% modenese”, degno di una regina. Cornice alla loro eroica impresa le leggende, gli aneddoti e i fatti storici, che narrano la storia del grande patrimonio culturale, quale la gastronomia modenese. Dalla nascita dello zampone, alla leggenda del tortellino, dall’aceto balsamico tradizionale alle crescentine (e non tigelle) ed ancora nocino, prosciutto, parmigiano e lambrusco di Sorbara, tra mille avventure i due amici accompagnati da ospiti d’eccezione (guest star emiliane e modenesi), giungono al fatidico lieto fine. L’autore Cesare Buffagni ha esordito come fumettista professionista nel 1993 sulle pagine della rivista “Modena Amica”, edita da Zanfi. Dal ‘94 ha cominciato la collaborazione con la casa editrice Macchia Nera, che sfocia nella nascita del personaggio Cattivik. Nel 2005 ha illustrato il libro di Allan Bay “Cuoco me” (Feltrinelli). È autore di “Vipering”, il primo fumetto di satira sul mondo del gossip (2007). Continua la sua opera illustrando i grandi classici Shakespeariani in collaborazione con Teatro Comunale di Modena. Mutina Capitalis in Tabula Itinerario gastronomico a fumetti nella provincia di Modena, 48 pp. – € 11,90 – TerrediModena.it
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1) Daria Denti e Attilio Montorsi. 2) Alcuni rappresentanti dell’Ordine dei Maestri salumieri modenesi insieme a Paolo Ferrari, presidente del Consorzio di tutela Zampone Modena Cotechino Modena Igp. 3) Sante Levoni con i figli Luca e Lorenzo e alcuni nipoti. 4) Tiziano Parmeggiani, Sante Levoni, Attilio Montorsi e i fratelli Romeo e Pierantonio Gualerzi. 5) Luca e Lorenzo Levoni con Tiziano Parmeggiani. 6) Carlo Bortolamasi, Luisa Vecchi, Alfonso Bavieri e Sante Levoni. in famiglia — ha dichiarato Paolo Ferrari, presidente del Consorzio di tutela Zampone Modena Cotechino Modena — e dai loro racconti ci si rende conto che zamponi e cotechini sono per loro presenze familiari, che rendono caloroso e irripetibile un giorno di festa». La premiazione dei racconti più belli si è svolta sabato 7
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dicembre nel meraviglioso contesto di Piazza Grande, a Modena, preceduta da una lezione molto speciale tenuta dallo chef Massimo Bottura. Una narrazione di storia e sapori quella della grande cucina, nella quale i prodotti del territorio possono trasformarsi in un racconto fantastico nel magico mondo del gusto. «Dob-
biamo far apprezzare ai più giovani questi grandi tesori della tavola — ha proseguito Ferrari — e solo un vero mito della cucina internazionale, che conosce queste prelibatezze fin da bambino, poteva illustrarle e svelarne ai ragazzi tutta la suggestione». Così la favola, nel regno incantato dello zampone, continua...
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Sabato 7 dicembre, in occasione della festa dello Zampone e del Cotechino, nel centro storico di Modena lo chef Massimo Bottura ha raccontato ai ragazzi delle scuole elementari e medie della cittĂ come imparare a conoscere appieno queste due straordinarie specialitĂ della salumeria locale. Due tesori della tavola da gustare non solo a Natale.
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Carrù, premiato il bue grasso ma senza gualdrappa Oltre 20.000 visitatori e quintali di bollito serviti alla 103a edizione di questa fiera che celebra la razza Piemontese e i suoi orgogliosi allevatori, la storia e le eccellenze gastronomiche di Langa
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na giornata allietata da un insolito clima mite, un intenso profumo di bollito nell’aria, minestra di trippe e vin brulé: questo il clima festaiolo che ha accolto i 20.000 visitatori che giovedì 12 dicembre hanno invaso le vie di Carrù. Tra questi non poteva mancare Carlo Petrini, il patron di Slow Food, abituale frequentatore della manifestazione. Davvero un’edizione da ricordare quella della Fiera nazionale del Bue Grasso 2013, che ha visto raddoppiate le presenze rispetto
all’appuntamento dell’anno precedente e che non si è fermata davanti al misterioso furto della gualdrappa più ambita, quella destinata al primo classificato della categoria “Bue grasso della coscia” che ha visto sfilare “sua maestà” Pippo 2, dell’allevamento Luigi Vallino di Marene, senza il famoso drappo dipinto a mano. In attesa dell’incoronazione con un’altra gualdrappa già commissionata al pittore carrucese Bruno Bianco, l’allevatore ha ricevuto una medaglia d’oro, la tradizionale moscarola e il
diploma riservati al primo classificato dei Buoi della coscia. Dalla Banca Alpi Marittime gli è stato assegnato un trofeo, tre marenghi d’oro e 250 euro. Dall’ANABORAPI il premio speciale per il “Bue meglio preparato e presentato”. Infine, 300 kg di mangime della Martini Spa. L’allevatore, che in fiera aveva portato tre buoi, ha registrato altri due ottimi piazzamenti. Un terzo posto nella stessa categoria e il settimo per i buoi nostrani. I buoi presenti al Foro boario, 130 sui 140 iscritti, prima della premia-
Sparita durante la manifestazione, niente gualdrappa sul dorso del bue primo classificato nella categoria Buoi grassi della coscia. Il premio è andato Luigi Vallino, allevamento di Marene (photo © Antonio Alfieri).
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zione sono usciti dall’ala Borsarelli in un ring che ha reso pubblico il momento della valutazione, novità della kermesse che ha puntato moltissimo sul coinvolgimento degli spettatori.
Code d’attesa ai ristoranti, porzioni di bollito misto andate a ruba e apertura del padiglione Carrù Expo, vetrina enogastronomica dei prodotti di eccellenza del territorio, con salumi,
vino, birra, nocciole, hanno fatto il resto. Piena soddisfazione da parte degli organizzatori per la riuscita della manifestazione. Ci rivediamo a dicembre.
Aperitivo in salumeria: dai Chiapella salumi, bollicine e musica Chi arriva a Carrù per partecipare alla Fiera del Bue Grasso non può mancare all’appuntamento con il tradizionale aperitivo delle 11.00 offerto ad amici, turisti, clienti, giornalisti e gourmets dalla gastronomia dei Chiapella “Salumieri in Langa” (www.chiapellasalumi.it). Salatini, salumi, bollicine, musica e, soprattutto, tanta allegria a casa di una famiglia meravigliosa che è divenuta un basilare punto di riferimento della gastronomia cuneese. Ogni anno, poi, questi “eccellenti artigiani della carne” preparano una qualche gustosa sorpresa, una nuova chicca scaturita dalla loro fantasia. Per l’edizione 2013 della fiera, ad esempio, i Chiapella hanno proposto il Salame con Parmigiano Reggiano Dop. E non stiamo parlando di un Parmigiano “anonimo”, ma del pluripremiato Parmigiano Reggiano di montagna lavorato nel Caseificio di Cavola proprio come in malga. Un’altra prelibatezza da segnalare è il SALAME CON NOCCIOLA PIEMONTE IGP, dal sapore deciso e insieme delicato, in cui trionfa la “Tonda Gentile Trilobata”, capace di trasferire nella carne tutta la saggezza delle colline piemontesi. «Affettare un salame — spiegano i Chiapella, sorridenti nella loro salumeria-gioiello ubicata sotto i portici, proprio di fronte alla cattedrale — è come spillare il vino dalla botte in cantina, è un rito. Si assaggia il salame, ma dentro non c’è soltanto il maiale, c’è l’anno passato con le sue stagioni». La filosofia aziendale dell’azienda parte dall’animale e dal suo benessere, si fonda su un dialogo continuo e proficuo con gli allevatori, perché l’alimentazione, gli spazi e la libertà dell’animale in allevamento sono la miglior garanzia per una carne sana, genuina e saporita. I Chiapella scelgono sempre e solo suini pesanti, i più adatti per i salumi perché presentano una carne con una discreta percentuale di grasso e che, in stagionatura o in cottura, liberano un buon patrimonio aromatico. «Un moderno salumificio — ci racconta Alessandro Chiapella — è certo distante dal tradizionale mondo contadino, ma i laboratori artigianali come il nostro, pur non potendo prescindere da alcuni complicati macchinari, rimangono ancorati ai passaggi lavorativi manuali che aggiungono valore e tradizione al prodotto finito».
In alto: Giovanni Chiapella insieme ai figli Alessandro e Davide. In basso: a sinistra, il manifesto creato dalla famiglia per l’evento. A destra: la salumeria Chiapella di Carrù vestita a festa.
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Fiere Oltre 6.000 le visite degli operatori professionali, più 30% i buyer esteri
Marca, il decennale nel segno della crescita
È
stata nel segno della crescita la decima edizione di MarcabyBolognaFiere, la fiera dedicata alla marca del distributore svoltasi il 15 e 16 gennaio scorsi. La manifestazione ha visto un aumento delle visite degli operatori professionali che sono state circa 6.600 (dati in fase di certificazione ISF Cert ISO 25639), mentre 454 sono state le aziende espositrici. Si è registrato inoltre il 30% in più di buyer esteri, in rappresentanza di insegne
leader arrivate principalmente da Germania, Austria, Svizzera, Russia e Svezia, che hanno dato vita a circa 450 incontri. MarcabyBolognaFiere si è presentata quest’anno con un nuovo layout, vale a dire una maggiore superficie espositiva distribuita su tre padiglioni e l’apertura del secondo accesso “Nord”. DUCCIO CAMPAGNOLI, presidente di BolognaFiere, in apertura di manifestazione ha sottolineato il successo in una congiuntura non
certo favorevole. «Marca è punto di riferimento per il mondo della marca commerciale e realizza un paradigma fondamentale per l’Italia, mettendo in sinergia le piccole imprese con la piattaforma delle grandi reti distributive. Sarebbe la formula di successo del nostro Paese». Grande partecipazione e interesse ai convegni, a cominciare dall’incontro inaugurale di Adm (Associazione Distribuzione Moderna) sul tema del contributo al sistema
Mauro Marin, vincitore del Grande Fratello 10, e Marcello Palmieri del Salumificio Mec Palmieri di San Prospero (MO) specializzato nella produzione della mortadella Favola.
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In alto: Enrico Zironi e Matteo Barbieri nello stand di Alcar Uno, Castelnuovo Rangone (MO). In basso: Vincenzo Rota con il suo staff nello stand del Salumificio San Vincenzo, Spezzano Piccolo (CS).
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In alto: nello stand del gruppo Bresaole Pini di Grosotto (SO), Roberto Pini ed Edoardo Mattaboni. Al centro: presente in fiera la piemontese Raspini, salumieri per vocazione dal 1946. In basso: la BP Prosciutti del Gruppo Suincom.
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Paese delle produzioni a marchio del distributore. «Siamo soddisfatti per Marca 2014 — ha affermato Francesco Pugliese, presidente di ADM — una manifestazione in costante crescita che deve il proprio successo alla capacità di dimostrarsi un fertile terreno di incontro tra aziende della Distribuzione Moderna Organizzata e imprese di produzione per la marca del distributore, due settori che continuano a investire in questo evento ottenendo concreti risultati per la loro attività economica». Attesissimi il convegno sulla presentazione del X Rapporto sulla marca commerciale — dal quale è emerso che la marca privata ha raggiunto una quota del 17,9%, con un aumento a valore del 4% e a volume dell’1,2 % rispetto all’anno precedente, per un giro d’affari pari a 7,55 miliardi di euro — e l’indagine ad hoc realizzata sul comportamento dello shopper di marca commerciale presentata da GUIDO CRISTINI, coordinatore scientifico dell’Osservatorio sulla marca commerciale, e da GIANMARIA MARZOLI, vicepresidente di IRI. Infine, molto partecipato il seminario “Un pack virtuoso per la distribuzione moderna? Attrattività e sostenibilità per il consumatore, ottimizzazione dei costi di logistica per la filiera”, che ha inaugurato la novità Marca Tech, nuova sezione della fiera dedicata all’innovazione tecnologica a supporto della marca privata. Grande attenzione al packaging: in Italia, infatti, si realizza il 6% di tutti gli imballaggi a livello mondiale. Un comparto molto vitale dove il green avanza e crescono le opportunità anche per i packaging destinati ai prodotti a marchio d’insegna. Sono cinque le parole chiave per il futuro del pack: sostenibilità, con particolare riferimento ai materiali provenienti da riciclo e alle materie prime naturali; costo dell’imballaggio primario, secondario e terziario; attrattività, per valorizzare il brand in modo accattivante; funzionalità e servizio. >> Link: www.marca.bolognafiere.it
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Parma 05-08 Maggio 2014
Per informazioni: www.cibus.it | cibus@fiereparma.it
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Cibus 2014: la strategia per conquistare i mercati esteri e tante novità I dati 2013 dell’export, la grande distribuzione estera, spazio al dettaglio alimentare tradizionale e alla ristorazione organizzata: questi i punti fondamentali del programma della 17a edizione di Cibus. Appuntamento a Parma dal 5 all’8 maggio
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n prodotto alimentare italiano su cinque viene venduto all’estero, quasi il 40% delle imprese alimentari è già impegnato sui mercati internazionali. L’export alimentare nel 2013 ha fatto registrare un giro d’affari di 27 miliardi di euro, con un incremento del +6,5% sull’anno precedente. Il prodotto italiano viene esportato ovunque: 62,5% in Europa, 10,6% negli USA, 1,8% in
America Latina, 1,5% in Australia, 1,7% in Medio Oriente, 5,3% in Asia, 0,7% nel Sud-est asiatico (dati 2013 FEDERALIMENTARE). In questo contesto si inseriscono le iniziative preparatorie di Cibus 2014, la cui 17a edizione si terrà a Parma dal 5 all’8 maggio. «I dati più recenti dell’export di settore rimangono positivi» ha dichiarato FILIPPO FERRUA, presidente di FEDERALIMENTARE. «Stanno andando deluse, tuttavia, le speranze di
un’accelerazione del passo espansivo dell’export 2013, dopo il +6,9% registrato nel 2012, a compensazione della caduta inarrestabile del mercato interno. È la conferma delle difficoltà del settore a svincolarsi dalla stretta della crisi e ad inserirsi finalmente nel “punto di svolta” verso convincenti profili di ripresa. Da qui la validità della tradizionale scelta strategica di FEDERALIMENTARE di organizzare assieme a Fiere di Parma
L’ingresso di Cibus.
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Cibus 2014, alla ricerca di ogni possibilità di contatto e di ogni spunto di sviluppo e sostegno della proiezione export-oriented delle imprese italiane, soprattutto PMI». Una joint venture vincente Per assicurare il successo dell’internazionalizzazione del food made in Italy va chiarito come penetrare i mercati esteri, come aiutare le piccole e medie imprese ad entrare in queste dinamiche, quali mercati sono promettenti e per quali prodotti. «Dobbiamo esser capaci di capitalizzare all’estero, in tempi brevi, le nostre competenze distintive — ha sottolineato ANTONIO CELLIE, AD di Fiere di Parma — realizzando alleanze con gli operatori leader nei mercati obiettivo. La nostra joint venture con la Fiera di Colonia è una best practice: in 12 mesi abbiamo garantito ai nostri espositori la massima visibilità su un mercato strategico come l’Asean grazie ad un accesso privilegiato alla fiera tailandese Thaifex, che con i suoi 1.500 espositori è la più grande e visitata fiera dell’Asia. Le prossime tappe di Cibus/Anuga sono Cina e Sud America, sempre all’interno di eventi leader. I nostri clienti non possono permettersi costosi o lunghi esperimenti. Lavorare su piattaforme consolidate ci consente inoltre di entrare in relazioni con i top buyers di tutto il mondo e quindi garantire la loro presenza a Parma durante Cibus dove potranno culminare sul territorio la loro esperienza di business con il made in Italy alimentare». Tutti i punti sensibili dell’export “Cibus Market Check” è una delle iniziative congiunte di Fiere di Parma e FEDERALIMENTARE complementari e propedeutiche a Cibus 2014: dopo aver incontrato le catene distributive in Russia, Tailandia, Brasile e Stati Uniti d’America, la prossima tappa è rappresentata dal Giappone. Il 6 ed il 7 marzo un gruppo di aziende italiane incontrerà i buyer e i category manager di quattro tra le più rappresentative catene di Tokyo per capire il placement del prodotto italiano a scaffale e come migliorarne presenza e comunicazione. I buyer giapponesi,
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come quelli degli altri Paesi visitati nel “Cibus Market Check”, saranno poi ospiti di Cibus 2014 in un contesto di forte spinta all’incoming degli operatori esteri. Il Ministero dello Sviluppo Economico, in collaborazione con FEDERALIMENTARE, FEDERBIO e Fiere di Parma, avvalendosi anche del contributo della Comunità Ebraica Italiana e del Centro Islamico Culturale d’Italia per le tematiche culturali e scientifiche di rispettiva competenza, ha promosso un programma di diffusione delle certificazioni agroalimentari biologica e religiose, kosher e halal, presso le aziende italiane. Il programma approderà a Cibus 2014 con un’area informativa e con un programma di incoming dedicato alle aziende partecipanti al progetto ed espositrici in fiera (aziende che potranno fregiarsi dei loghi “Cibus Kosher” e “Cibus Halal”). «Il crescente interesse delle imprese alimentari per l’export si riflette nelle adesioni a Cibus 2014» ha riferito ELDA GHIRETTI, Cibus brand manager Fiere di Parma. «Ad oggi, il trend di conferme di prenotazione degli espositori registra un segno positivo. Sono tante le imprese che vengono a Cibus per la prima volta, anche attratte dalle novità di questa edizione». Tra le novità spicca “Cibus nel Dettaglio” un’iniziativa volta a valorizzare il dettaglio alimentare tradizionale. Grazie alla collaborazione con Lekkerland, società internazionale leader di distribuzione di prodotti dolciari, bevande ed articoli d’impulso in Italia, è stata organizzata un’area di 1.000 m2 che ospiterà 100 espositori, scelti tra i fornitori di Lekkerland, e di uno spazio convegnistico. «L’obiettivo è essere protagonisti a Cibus — ha dichiarato CARLETTO BAROVERO del CdA di Lekkerland — dando spazio al mondo del dettaglio, analizzandone le problematiche e proponendo il negozio ideale con l’assortimento ideale». I convegni da segnare in agenda Cibus 2014 rappresenterà anche il mondo della ristorazione organizzata ed il travel retail con un convegno, “Alimentiamo le vendite”, in cui verranno presentate le realtà della
ristorazione “di flusso” con testimonianze delle imprese attive nel duty free e negli spazi travel. Si terrà per la prima volta all’interno di Cibus il tradizionale convegno “Quale futuro per la promozione delle vendite”, promosso dall’Università di Parma e da Nielsen. Il focus è sulla leva promozionale nella Grande Distribuzione e su come migliorarne la qualità. «Ci sarà anche una novità, cioè una parte espositiva a margine del convegno — ha annunciato GIAMPIERO LUGLI, professore di Economia all’Università di Parma — dedicata alle innovazioni tecnologiche nel campo della promozione, in primis alle varie “app” studiate per gli smartphone di fornitori e consumatori». Rimanendo nel campo della GD, anche in questa edizione di Cibus verrà consegnato un premio a quelle catene distributive estere che meglio hanno valorizzato il prodotto alimentare made in Italy. L’evento, intitolato “Le operazioni delle più importanti catene internazionali per spingere l’Italian food”, oltre al premio prevede una presentazione dei mercati più promettenti per il prodotto italiano ed una tavola rotonda con produttori e retailer italiani. Altri momenti qualificanti saranno: “Cibus Bollicine”, “Cibus Land”, l’area Confectionary, Cibus Frozen, il concorso Alma Caseus, Micromalto, Cibus Bio, Free From, Pianeta Nutrizione & Integrazione. >> Link: www.cibus.it
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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com
Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.
Formaggio
Profumi intensi di erbe selvatiche, bosco e sottobosco Nel Parco Nazionale del Pollino Maria Stellato gestisce insieme al marito e ad alcuni collaboratori un allevamento di pecore e capre con annesso laboratorio caseario e grotte per l’affinamento. Tre i tipi di formaggi prodotti: pecorino, ovicaprino e caciotta di capra di Massimiliano Rella
È
formaggio artigianale da golosi e intenditori quello dell’azienda zootecnica a conduzione familiare Stellato, orgoglio della signora Maria, produttrice a Chiaromonte, in provincia di Potenza. Siamo a 750 metri sul livello del mare nel Parco Nazionale del Pollino. Un posto fantastico per riposarsi, figuriamoci per far crescere agnelli e capretti nel migliore dei modi. Maria Stellato, insieme al marito Nicola e con l’aiuto di un operaio fisso più gli stagionali, gestisce con passione un allevamento di pecore e capre con annesso laboratorio caseario e grotte per l’affinamento dei formaggi. Gli animali sono ovini di razza Sarda, 270 capi, e 260 capre di razza francese Saanen, selezionate da latte. Una piccola quota di agnelli e capretti è destinata a rifornire le macellerie locali, in particolare durante le festività natalizie e pasquali. L’allevamento Stellato nacque negli anni ‘40 e oggi conta 100 ettari tra bosco di querce, seminativi e pascolo, terre concimate con il letame autoprodotto. Gli animali sono allevati allo stato brado, nutriti di erbe locali spontanee, molto timo, finocchietto selvatico, mentuccia, aromi predominanti che poi ritroviamo nei formaggi della signora Maria. A fine serata sono riportati nei capannoni. La produzione di formaggio è assicurata tutto l’anno, esclusi novembre e dicembre quando gli animali sono sottoposti a parti programmati. I
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Controllo stagionatura del formaggio (photo © Massimiliano Rella).
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La stagionatura del formaggio in grotta su tavole di legno a temperatura naturale (che non scende mai sotto i 12°C). Le forme sono controllate ogni giorno. In foto Maria Stellato (photo © Massimiliano Rella). piccoli sono alimentati solo con latte materno (senza farine lattee), che viene quindi sottratto alla produzione casearia. Formaggi da intenditori Con 10 litri di latte di capra, più povero di caseina, si ottiene 1 kg di formaggio. Con 10 litri di latte di pecora circa 1,5 kg di pecorino. «La nostra idea è di non spingere la produzione di latte, di curare il benessere degli animali, di fare un prodotto naturale, artigianale, buono, di territorio», puntualizza la Stellato. La lavorazione comincia la mattina con il latte della sera prima e del mattino stesso, latte crudo a una temperatura sotto i 36°C, con aggiunta di caglio in pasta di agnello. Dopo 35 minuti c’è la rottura della cagliata, si raccoglie la pasta e si mette nelle fuscelle che danno la forma al formaggio. Il siero rimanente viene portato a 82°C per fare la ricotta, che viene venduta fresca. La sera stessa viene eseguita la salatura a secco
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delle forme, che dopo due giorni passano in grotta per la fase di stagionatura. Il caseificio produce tre tipi di formaggio, a seconda del tipo di latte. Sono il pecorino, prodotto tra gennaio e marzo, stagionato in grotta per minimo 60 giorni; l’ovicaprino (50 e 50), fatto tra marzo e giugno, stagionato in grotta fino a 12 mesi; e, infine, la caciotta di capra, tra giugno e novembre, con minimo 60 giorni di affinamento in grotta fino a 12 mesi, a seconda del tipo di prodotto che si vuole ottenere. Poi seguono due mesi di sospensione — il “periodo di asciutta” — per la preparazione al parto. La stagionatura avviene su tavole di legno ad una temperatura naturale che non scende mai sotto i 12°C e un’umidità, anche in inverno, dell’80%, che viene mantenuta gettando acqua in terra nei periodi meno umidi. L’umidità è importante per evitare l’indurimento della crosta e la formazione di lesioni sullo scalzo, che aprirebbero la strada a fermenta-
zioni non desiderate. Le forme sono controllate tutti i giorni per evitare la formazione di muffe non nobili. Lentamente si formano invece le muffe nobili attorno alla crosta, che viene costantemente unta con olio extra vergine (di produzione propria) per ammorbidirla e favorire una buona maturazione. Il risultato sono formaggi che emanano profumi intensi di erbe selvatiche, di bosco e sottobosco. La vendita è soprattutto locale, oppure in fiere in giro per l’Italia. Oltre ai formaggi la famiglia Stellato organizza fattorie didattiche per i bambini delle scuole e stage per “apprendisti” casari. Massimiliano Rella Azienda Agricola Zootecnica Stellato di Maria Stellato Contrada Battifarano 85032 Chiaromonte (PZ) Telefono: 0973 686098 Fax: 0973 584092 E-mail: formaggistellato@hotmail.it
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Casu axedu, la nicchia nella nicchia È versatile come un prodotto altamente innovativo perché capace di rispondere alle esigenze della vita frenetica moderna. Ma è anche antico come la maggior parte delle eccellenze locali. Una delle eccellenze meno note della cultura gastronomica pastorale sarda si fa spazio nel mercato, senza perdere il legame con il territorio di Sebastiano Corona
C
he la Sardegna sia patria di ottimi formaggi è risaputo. Si è portati però a credere che il meglio della produzione casearia isolana si esprima nei pecorini DOP e nei caci stagionati o semi-stagionati. Eppure la vocazione agricola sarda propone un ampio ventaglio di specialità, certamente poco conosciute, ma non per questo meno degne di nota, anzi. Coloro che hanno avuto il piacere di visitare l’Ogliastra, la Barbagia di Seulo o il vicino Sarrabus si sono sicuramente visti proporre a colazione o come antipasto il Casu axedu. Forse il nome utilizzato non era proprio questo, considerata la lunga lista di sinonimi con cui viene chiamato — Fruhe, Frughe, Frua, Merca, Fiscidu, Viscidu, Ischidu, Bìschidu, Vischidàle, Préta, Piéta, Casàdu, Cagiadda, Casu Agéru, Casu e fitta, Latte cazàdu, Latti callàu — ma, fatta una sommaria descrizione, non ci può essere spazio per fraintendimenti. È un formaggio a pasta fresca di colore bianchissimo, la cui consistenza sembra quella di un budino ma da sapore più simile allo yogurt. Normalmente è commercializzato in forme analoghe a piccoli parallelepipedi di 10 o 15 centimetri di lato e circa 5 di altezza, come fossero dei grossi panetti. La grammatura solita non è sotto i 250 grammi di peso.
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Il Casu axedu è un formaggio a pasta fresca o stagionato e conservato costantemente in salamoia (photo © Saba Antonio, Regione Autonoma della Sardegna).
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Il suo profumo e l’aroma richiamano il latte impiegato per la produzione, che può essere di pecora o di capra. Anche il sapore varia in ragione del fatto che il prodotto sia fresco o conservato in salamoia. Appena fatto è più dolce e delicato, quando invece è stagionato — e prende il nome di Fiscidu, Viscidu o Merca — il suo gusto è più piccante e deciso. Viene infatti, talvolta, utilizzato al posto del sale o del pecorino maturo per aromatizzare i cibi e conferire alla pietanza con cui viene amalgamato un aroma più intenso e pepato. La preparazione Il Casu axedu nasce come un prodotto di autoconsumo nelle piccole aziende pastorali, ma è oggi realizzato anche da qualche mini-caseificio o da piccole strutture artigianali che stanno assecondando una notorietà e una richiesta sempre crescente. Sia esso di pecora o di capra, normalmente il latte viene utilizzato crudo dal pastore. Quando invece la produzione è artigianale e avviene in locali appositi, il processo produttivo prevede una fase di pastorizzazione. In nessun caso, però, la temperatura a cui il latte è sottoposto in cottura supera i 36 gradi centigradi. È a quel punto che viene aggiunta in su caddargiu — questo il nome in sardo del tipico recipiente in rame stagnato in cui viene lavorato il prodotto — una coltura naturale in siero, residuo della lavorazione precedente, oltre a dei fermenti e al caglio di vitello, di capretto o di agnello, a seconda delle preferenze. La coagulazione avviene in un quarto d’ora circa, mentre l’indurimento si ottiene in 4 o 5 ore. Il coagulo, risultato finale di questo breve processo, viene dunque tagliato in fette (da qui uno dei sinonimi: Casu e Fitta) e lasciato acidificare e spurgare sotto siero per almeno un giorno intero. È quindi un prodotto che si ottiene in poco più di 24 ore di lavorazione. Può essere consumato fresco, al cucchiaio, e per questa sua caratteristica è noto come prima colazione del pastore. È ottimo se abbinato al miele locale e in questo caso si può trasformare anche in un delicato dessert. Ma può essere proposto anche
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I culurgionis sono classici ravioli ogliastrini la cui farcitura viene spesso arricchita da questo saporitissimo formaggio (photo © lattefiele.blogspot.it). semplicemente spalmato sul pane carasau, o sul pane pistoccu, oppure condito con un filo di olio extravergine d’oliva locale e altri ingredienti a piacere, per essere servito come secondo o come antipasto. La sua produzione è stagionale — da maggio a novembre, quando l’erba è secca e il latte particolarmente grasso — ma il Casu axedu può essere anche salato e conservato per oltre un anno. In questo caso, visto il suo gusto deciso, viene utilizzato per condire minestre o aromatizzare piatti a scelta. Il classico utilizzo, sia nella versione fresca sia in quella stagionata, è nei culurgionis, i classici ravioloni di patata ogliastrini la cui farcitura viene spesso arricchita da questo saporitissimo formaggio, in alternativa ad un pecorino o un caprino. Che sia un prodotto artigianale che rappresenta una nicchia di mercato lo si intuisce dal packaging normalmente utilizzato. Qualche anno fa ci fu il timido tentativo di un gruppo di allevatori di richiedere la Denominazione di Origine Protetta, ma ora anche questo progetto sembra accantonato. Al contrario, è evidente che i pochi produttori che si spingono oltre confine per proporre questa prelibatezza nei negozi specializzati non hanno ancora una vera strategia di marketing. Le vaschette che solitamente vengono utilizzate per la vendita
del prodotto confezionato sono di plastica trasparente e senza troppe pretese. Pur con un proprio spazio anche presso qualche catena della DO o della GDO, i contenitori del Casu axedu sono spartani, come se ne vedono pochi in commercio. Lasciano intravedere il prodotto, oltre un’etichetta che normalmente riporta solo gli elementi essenziali richiesti dalla legge. Non è certamente l’immagine del prodotto a catturare l’attenzione di chi si sposta tra gli scaffali del supermercato. Non ci sono, infatti, effetti cromatici o grafici a richiamare il consumatore all’acquisto. Non c’è niente di artefatto che induca a preferire questo formaggio a tutti gli altri che trovano spazio nel banco frigo. Ma i veri cultori delle specialità regionali ne conoscono le virtù e si fanno tentare, senza bisogno di ammiccamento alcuno. A dispetto dell’assenza di qualunque supporto promozionale, la notorietà del Casu axedu aumenta di giorno in giorno. Nonostante la carenza in termini pubblicitari, questo antico prodotto è sempre più conosciuto e richiesto. La sua bontà rimane impressa al primo assaggio e la versatilità che lo caratterizza lo rende adatto ad ogni occasione. Di questo prodotto, che fa fare bella figura con i commensali anche a chi in cucina non si destreggia troppo bene, sentiremo certamente parlare di nuovo molto presto. Sebastiano Corona
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Merletti, saline e pecore Alla scoperta del pecorino di Pago, tra i più conosciuti e premiati prodotti caseari del mondo di Riccardo Lagorio
L’
isola di Pago, poco a nord della città di Zara, in Dalmazia, è stata per secoli luogo conteso per le sue saline. Nel tempo ha saputo conquistarsi notorietà anche per i preziosi merletti confezionati a mano dalle donne e per gli ovini che ondeggiano su una carente vegetazione di natura carsica, ricca di essenze profumate. Del resto qui le pecore hanno sempre sfamato gli abitanti dell’isola, al pari del pesce, delle olive e del sale. Oggi gli agnelli, grazie alla carne saporita che garantiscono, e la pecora, per il suo latte trasformato in formaggio, rappresentano il maggior introito per la popolazione locale insieme al turismo, in perfetta armonia con l’ambiente. Il pecorino di Pago è in effetti uno tra i più conosciuti e premiati prodotti caseari del mondo. Ciò si deve senz’altro alle condizioni microclimatiche dell’isola, che ne determinano un gusto distintivo: la vegetazione e le erbe aromatiche spontanee assunte dagli animali, infatti, si trasferiscono inevitabilmente al gusto del formaggio; inoltre, il vento salato (posolica) generato dalle Alpi Bebie ricopre le erbe stesse di sale, conferendo loro il sapore caratteristico. Il vento salato è uno dei fenomeni naturali più straordinari dell’isola: è un vento molto forte, che fa precipitare sull’erba e sulle rocce la schiuma del mare, che si gela. Del resto anche la bora è ben nota, tanto che, per spezzarne la furia, le stradine del centro storico di Pago sono tutte leggermente a curva. Per raggiungere una certa uniformità nel risultato finale, nonché garantire ai pastori un efficace sbocco di mercato per il proprio latte, nel
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1946 fu creata una cooperativa tra produttori. Differenti modalità costitutive l’hanno caratterizzata nel corso dei decenni: dal collettivismo alla privatizzazione sino alla costituzione di una cooperativa privata nel 1992, l’attuale Paška sirana si è
specializzata nella lavorazione del latte per la produzione di formaggio e nella carne di agnello. Gli impianti, del 2008, sono in linea con gli standard europei. La produzione annua di formaggio è di circa mille tonnellate. Paška sirana impiega direttamente un’ottantina
Ana Fabianić, direttrice della cooperativa Paška sirana.
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A sinistra: pecorino in stagionatura. A destra: spalmatura con olio. di persone e raccoglie il latte da 200 conferitori dell’isola, al quale si aggiunge quello di 3.000 ovini posseduti direttamente dalla cooperativa. ANA FABIANIĆ è la direttrice dello stabilimento e ci conferma i grandi passi avanti fatti dalla società negli ultimi anni. «Malgrado alleviamo animali anche direttamente, la notorietà del nostro prodotto ci costringe, per alcuni formaggi, anche ovini, ad approvvigionarci sul continente. Delle 1.000 tonnellate di formaggio prodotte, 600 sono di latte vaccino. Il resto è formaggio di pecora e, per un quarto della produzione, il latte proviene da greggi che non sono dell’isola di Pago. Ovviamente solo quello elaborato partendo da latte dell’isola viene marchiato con il simbolo dell’indicazione geografica protetta. Siamo certi che la nostra adesione all’Unione Europea avvenuta a luglio
2013 accelererà il riconoscimento internazionale per il formaggio». In verità il pecorino di Pago è già di per sé riconoscibilissimo: lo differenziano il profumo intenso di frutta secca e il sapore erbaceo, sapido. Il latte, giunto in caseificio, viene (purtroppo) pastorizzato. La cagliata è ottenuta con caglio di vitello e la sua rottura avviene finemente a mano. Lo spurgo del siero avviene anche per mezzo della sovrapposizione di pesi. La forma passa due giorni in salamoia e dopo tre mesi è pronta per essere venduta. Servono 7 litri di latte per ottenere 1 kg di formaggio. Dopo un mese dalla produzione la forma viene lavata, fatta asciugare e spalmata con olio di girasole. Di certo è che le forme stagionate almeno 180 giorni esprimono qualità organolettiche più felici, perdendo circa il 20% del peso
Nel convento benedettino di Santa Margherita, sull’isola di Pago, si produce da oltre 300 anni il baškotin, una specie di pane duro al latte, simile ad un biscotto. Le suore hanno sempre protetto la loro specialità dolciaria, che oggi porta l’indicazione assegnata al prodotto autoctono croato (izvorno hrvatsko) e al prodotto autoctono isolano (hrvatski otočni proizvod). In passato, agli ospiti in visita veniva offerto sempre il baškotin con il latte macchiato ed era impensabile organizzare una festa senza questo dolce.
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iniziale e assestandosi intorno ai 2,5 kg. «La gamma di produzione della Paška sirana è però molto più vasta e comprende anche formaggi di media stagionatura come il Dalmatinac a latte misto ovino e vaccino, il Mediterano (aromatizzato con la salvia di Pago, molto intensa) o il Paprenjak, piacevolmente piccante per l’aggiunta di peperoncino. Ogni formaggio che abbia passato con successo il controllo qualità ottiene un numero progressivo applicato su una delle facce piane», continua la Fabianić. Tuttavia, il pecorino di Pago rimane il più gettonato nei ristoranti della zona, che lo propongono come aperitivo, insieme a del prosciutto dalmata e olive nere. Alcuni chef lo utilizzano anche per condire pasta e gnocchi. Un abbinamento curioso, ma interessante per le papille gustative, può essere con il baškotin, pane a doppia cottura elaborato nel monastero di Santa Margherita, sempre nel centro storico di Pago. E, va da sé, una buona bottiglia di vino di Pago (a bacca rossa come il Vranac, se il formaggio è di buona stagionatura, o a bacca bianca come il Gegić, qualora il formaggio abbia compiuto 90 giorni d’età). Riccardo Lagorio Paška sirana d.d. Pag Zadarska, 5 – 23250 Pago (Croazia) Telefono: +385 23600810-23600811 E-mail: paska-sirana@zd.t-com.hr Web: www.paskasirana.hr
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Pasta
La Igp a Gragnano di Sebastiano Corona
L
a capitale della pasta secca, dopo anni di peripezie, vede finalmente riconosciuti i propri meriti storici. Secoli di produzione, segreti tramandati di padre in figlio, un clima ideale, ma anche un’acqua pura e cristallina hanno permesso all’Italia di acquisire la sua 254a Indicazione Geografica Protetta.
Esperienza, impegno, acqua, aria e fantasia Dopo ben otto anni di lavoro e di impegno, il consorzio di promozione (Consorzio Gragnano Città della Pasta) giunge al tanto sospirato bollino. È stata una procedura lunga e impegnativa, come lo è ogni iter di acquisizione di una denominazione europea, ma questo riconoscimento darà certamente impulso ai produttori per fare di più e meglio. Ai pastai va dato atto di una grande maturità nell’aver sempre sostenuto il processo senza generare frizioni interne o problemi che potessero in qualche modo arrestarne o rallentarne il meccanismo. Gli industriali gragnanesi, con grande generosità e senso di responsabilità,
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hanno rinunciato alla produzione con il teflon, confermando che la pasta di Gragnano era ed è tuttora realizzata unicamente con trafile in bronzo capaci di attribuire al prodotto caratteristiche di qualità uniche. Il resto è storia e oggi l’Unione Europea decreta ufficialmente l’ingresso della pasta di Gragnano nell’Olimpo delle eccellenze mondiali. “È il prodotto ottenuto dall’impasto di semola di grano duro con acqua della falda acquifera locale. I formati ammessi sono diversi, tutti tipici, frutto della fantasia dei pastai gragnanesi. La zona di produzione comprende tutto il territorio del comune di Gragnano, in provincia di Napoli”: così recita il Disciplinare che da qualche mese è diventato vero e proprio Vangelo per i produttori del piccolo centro campano.
Questa pasta, che si caratterizza per il suo colore giallo paglierino e per la sua superficie rugosa, capace di sposarsi con qualunque condimento e di tenere sempre la cotture al dente, deve le sue caratteristiche organolettiche non solo a secoli di esperienza nella produzione, ma anche ad elementi più impercettibili come acqua ed aria. Questo dice il Disciplinare e questo è stato nel concreto. La struttura della città di Gragnano venne a suo tempo modificata e rivista dal punto di vista urbanistico perché le strade fossero ampliate e si permettesse all’aria di circolare più agevolmente nelle vie del centro. La cittadina campana, che nella sua storia è arrivata a vantare un centinaio di pastifici, vedeva quotidianamente le sue principali arterie allestite con grandi essiccatoi dove la pasta faceva bella mostra di sé.
“Acqua, sole, aria, tradizione e mani esperte: questi gli elementi che hanno convinto l’Unione Europea ad attribuire al prodotto italiano per eccellenza il giusto riconoscimento di origine e qualità” Premiata Salumeria Italiana, 1/14
Il primo elemento che permette una produzione di tali caratteristiche qualitative è, infatti, l’aria e il microclima mite, dominato da vento, sole e una leggera umidità. Seppure Gragnano si sviluppi su un pianoro che si affaccia sul Golfo di Napoli, l’altimetria di questo bellissimo paesino di circa 30.000 abitanti è, infatti, superiore ai 100 metri e questo connubio tra mare e montagna, tipico di alcuni angoli del Mediterraneo, contribuisce a fare di questa pasta una specialità unica. Il secondo elemento che lega il prodotto all’ambiente è l’acqua dei monti Lattari, quell’acqua pura e cristallina che permetteva in passato l’attività degli oltre 30 mulini, dove la materia prima per la pasta veniva trasformata. Il torrente Vernotico, scorrendo lungo quella che viene chiamata valle dei Mulini, azionava le centinaia di pale grazie alle quali avveniva la macinazione di grani. L’acqua… che
nella pasta di Gragnano, ora come allora, non può essere presente in misura superiore al 30% dell’impasto e deve necessariamente provenire “dalla falda acquifera locale” (come lo stesso disciplinare di produzione impone). La trafilatura non è un elemento meno importante di quelli citati. Una volta ottenuto l’impasto di semola di grano duro e di acqua, il prodotto viene trafilato in stampi che consentono di ottenere la forma voluta. Le trafile utilizzate per la pasta di Gragnano IGP sono esclusivamente in bronzo, affinché la temperatura non salga più del dovuto e la superficie del prodotto finale risulti rugosa e in qualche modo porosa, in grado di trattenere ogni tipo di sugo. La trafila al bronzo “non ammette errori”, dichiarano i produttori del consorzio promotore, “perché tende a mettere in evidenza le imperfezioni. Questo significa che la materia prima deve essere sempre eccellente”.
Tutto ciò non sarebbe però sufficiente se non ci fossero le mani esperte e la sapienza dei pastai gragnanesi, che dal XVI secolo e senza sosta tramandano da padre in figlio l’antica arte di produrre pasta eccellente. A loro si deve la capacità di creare un impasto perfetto, senza macchie e senza difetti, di ottima consistenza. A loro si deve la straordinaria varietà di formati e, soprattutto, un processo di essiccazione che oggi si fa con cicli di ventilazione in celle statiche o tunnel di essiccamento, ma che i mastri pastai sono in grado di portare avanti anche con metodi più tradizionali, semplicemente lasciando il prodotto all’aria aperta e tastandolo per sentire, con il solo uso delle mani, se è pronto al confezionamento oppure no. Benvenuta Igp! A Gragnano l’euforia è tangibile e l’entusiasmo non si nasconde. «Que-
Alberto Zampino, socio del pastificio Gentile e, come ama definirsi lui, fabbricante di maccheroni, con il fratello Pasquale e la loro pasta.
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La locandina prodotta dal Consorzio per l’ottenimento dell’Igp. sto riconoscimento ci attribuisce un merito, ma è anche una grande responsabilità, quella di fare sempre meglio, nel rispetto delle regole, del disciplinare e del consumatore. Questo è un riconoscimento importante perché secoli di storia e di tradizione finalmente hanno il giusto plauso. La cosa che in più ci gratifica è sapere che d’ora in poi sarà più difficile usurpare il nostro nome o utilizzarlo per vendere prodotti di scarsa qualità», dichiara ALBERTO ZAMPINO, socio dello storico Pastificio Gentile, una delle prime imprese ad aver scommesso su questo percorso iniziato nel lontano 2003, quando una decina di aziende del settore decisero di unirsi per lavorare a questo scopo.
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Gli fa eco un emozionatissimo GIUSEPPE DI MARTINO, titolare di due pastifici a Gragnano e, soprattutto, presidente dell’associazione dei pastai che ha promosso il procedimento. «Da tempo la pasta di Gragnano subiva imitazioni e ingiuste usurpazioni del nome. Non accadeva tanto in Italia quanto all’estero, dove la pasta gragnanese è quasi più conosciuta che a casa nostra. La richiesta di uno strumento che certificasse la qualità e la certezza dell’origine non era sentita solo dai produttori, ma anche dai consumatori e dalle stesse istituzioni. Da anni si avvertiva la necessità di una tutela forte. Quella della IGP è quindi per noi una tappa fondamentale alla quale
abbiamo lavorato tutti con impegno e investendo tempo, risorse ed energie», precisa Di Martino. I pastifici che fanno parte del consorzio, in questo momento, sono nove, ma tre hanno già fatto richiesta di ingresso e, a quanto pare, altri sono in procinto di fare questo passo importante. Il consorzio associa soprattutto piccole imprese che realizzano il prodotto con tecniche tipicamente artigianali. Solo alcune sono industriali, ma operano comunque con processi tradizionali. I pastifici aderenti all’associazione al momento sono Di Martino, Faella, Gentile, Fabbrica della Pasta di Gragnano, Le Stuzzichelle, Pastificio D’Apuzzo Sebastiano, Le antiche Tradizioni di Gragnano e Pastificio dei Campi. «Tutti questi pastifici, nell’attenersi al disciplinare, impiegano un’ottima materia prima ricca di proteine. Il disciplinare la impone, infatti, al 13%, il 3% in più rispetto a quanto chiede la legge. E poi i mastri pastai di Gragnano vantano un’esperienza di decenni, talvolta di secoli, e soprattutto utilizzano la nostra acqua, capace di dare al prodotto caratteristiche uniche», precisa il presidente Di Martino, che aggiunge: «Sono molte le persone che ci hanno accompagnato in questo lungo viaggio. Ricordo con piacere la passione e la dedizione con la quale la dottoressa LAURA LA TORRE e il dottor ROBERTO VARESE del Ministero dell’Agricoltura ci hanno guidato e accompagnato all’inizio. Con la stessa passione ci ha appoggiato il presidente della Commissione Agricoltura e Sviluppo Rurale del Parlamento europeo, dottor PAOLO DE CASTRO, già Ministro dell’Agricoltura, con il quale condividiamo oggi — giornata storica per Gragnano — la gioia e la soddisfazione di questo momento». Sebastiano Corona Nota A pagina 90 i conchiglioni del Pastificio di Martino. La pasta di Gragnano si caratterizza per il suo colore giallo paglierino e per la sua superficie rugosa, capace di sposarsi con qualunque condimento e di tenere sempre la cotture al dente (photo © www. pastadimartino.com).
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Haripro, leader in Italia nella produzione di proteine e aromi naturali, fornisce le pi첫 importanti aziende produttrici di ingredienti per la salumeria. Haripro grazie ad una continua ricerca, ha sviluppato negl'anni prodotti sempre pi첫 all'avanguardia, come proteine funzionali ed aromi naturali anallergici ad alto valore nutrizionale. Haripro is a leading producer of proteins and natural flavours in Italy. It supplies the most important Companies which blend ingredients for the meat industry. Haripro, thanks to a continuous research, had developed through years more advanced products like functional proteins and hypoallergenic natural flavours with high nutritional value.
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Vino
Cantina La Motte, enoturismo d’eccellenza in Sudafrica di Massimiliano Rella
L’
ospitalità in varie forme distingue la cantina sudafricana La Motte, a Franschhoek, nel distretto di Cape Winelands, premiata nel 2012 e di nuovo nel 2013 come azienda enoturistica di eccellenza da GREAT WINE CAPITALS. Offre la possibilità di pernottamento in diverse case in stile Cape Dutch dell’800; visite e degustazioni nella bella sala con vista sulla cantina di vinificazione. Inoltre, nel museo dell’azienda, aperto tutti i giorni e con ingresso gratuito, si può vedere la collezione d’arte di famiglia, inclusa una raccolta di circa 40 opere, tra dipinti ed acquerelli, di Jacob Hendrik Pierneef, il più grande artista
sudafricano. Il nome dell’azienda deriva dagli Ugonotti francesi che popolavano la zona nel ‘600: erano francesi i primi proprietari della cantina, che si ispirarono ad un villaggio nel sud della Francia, La Motte d’Aignes, in Provenza. L’azienda fu creata tra il 1688 e il 1691 e da allora ha avuto ben 18 proprietari, tra ugonotti, inglesi, tedeschi ed un francese. Dalla fine degli anni Sessanta appartiene alla ricca famiglia Rupert, proprietaria di altre due tenute vitivinicole. La cantina ha anche un ristorante che valorizza a 360 gradi la saporita carne locale. Gestito dallo chef CHRIS ERASMUS, ci propone una gastronomia moderna, basata sulla ricerca e il
recupero di vecchie ricette di varia influenza e provenienza, un po’ la cartina di tornasole del moderno Sudafrica, ma reinterpretate con creatività, cotture lente, uso di erbe e verdure locali. La carne, dicevamo, ha un ruolo importante in menu. Lo chef utilizza le carni più diffuse nel mondo, come il maiale e l’agnello, ma anche animali del territorio come lo gnu, un grande quadrupede che ricorda vagamente il cavallo. I piatti sono preparati con condimenti o contorni di vegetali, come patate, funghi, barbabietole, oppure verdure fresche, anche dell’orto della cantina. Tra le proposte più invitanti troviamo la pancetta di maiale allevato
Il salotto di degustazione della cantina sudafricana La Motte (photo © Massimiliano Rella).
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all’aperto in confit di burro, ripassato in padella con contorno di funghi, ravanello bianco, purea di verdure in ragù, piccole radici e pelle di maiale croccante. Oppure il cosciotto di agnello di Karoo a cottura lenta con limone e rosmarino, purea di mela affumicata, finocchio e rapa locale arrosto. E ancora: le fettine di carne di gnu marinate con limone ed erbe, insalata, rafano germogli e lecca lecca di peperone, per citare qualche esempio. Di immancabile c’è il biltong, una carne stagionata alla maniera tipica sudafricana, che qui è proposta in un piatto insieme a salsicce secche e sottaceti. Il biltong è carne di manzo, antilope, struzzo o selvaggina, marinata, spolverata di sale e spezie, come semi di coriandolo e pepe nero, ed essiccata con diversi procedimenti: con il dry aging, per 28 giorni, o con il wet aging, che consiste in una maturazione ottenuta sottovuoto nei liquidi della carne stessa al fine di mantenerla morbida e saporita. Si consuma tagliata a strisce, a pezzetti o fette, a tavola ma anche fuori pasto. Ai piatti del ristorante sono abbinati i vini della cantina, tra i quali il Sauvignon Blanc, un bianco fresco e leggero, prodotto anche nella versione da uve biologiche; oppure i rossi La Motte Shiraz oppure La Motte Pierneef Shiraz Viognier, a base di uve Shiraz, o ancora il La Motte Millenium, ottenuto da un uvaggio di Merlot, Cabernet Sauvignon e Franc, Shiraz, Malbec e Petit Verdot. Varcare l’ingresso del ristorante Pierneef à La Motte, con il suo arredamento contemporaneo giocato sull’elegante contrasto tra il bianco e il nero e le lampade che riproducono opere di Pierneef, è un’esperienza di gusto, ma anche di classe. Per chi ama mangiare a contatto con la natura, all’esterno il tavolo ancorato ad un albero è una sistemazione originale. Mentre una soluzione più esclusiva è il Table Chef, una saletta privata dove lo chef segue da vicino gli ospiti concordando menu personalizzati e selezionati abbinamenti enologici. Massimiliano Rella >> Link: www.la-motte.co.za
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Il ristorante Pierneef à La Motte (photo © Massimiliano Rella).
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Nella splendida cornice del Lago di Garda
Torna a Lazise l’Anteprima del Bardolino e del Chiaretto Domenica 16 marzo, 60 produttori, 200 vini in degustazione e, per la prima volta in contemporanea, l’Anteprima del Custoza
T
ra le varie Anteprime vinicole che si tengono in questi mesi in Italia, quella del Bardolino e della sua versione rosata, il Chiaretto, è l’unica che presenta effettivamente i vini dell’ultima vendemmia, pronti per entrare in commercio. L’Anteprima del Bardolino e del Chiaretto dell’annata 2013 si svolgerà a Lazise, sulla riva veronese del Garda, domenica 16 marzo, con apertura al pubblico dalle 10.00 alle 18.00 (l’ingresso è gratuito). Più di sessanta i produttori presenti ai tavoli nello storico edificio della Dogana Veneta, sul porticciolo. Circa duecento i vini in libero assaggio: un’occasione straordinaria per rendersi conto di persona dello stato dell’arte della produzione vinicola gardesana. All’esterno,
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sul lungolago, sarà invece possibile conoscere i prodotti tipici del territorio: formaggi, salumi, olio, miele e altre chicche dell’agroalimentare. «Quelli del 2013 — ha dichiarato il presidente del Consorzio di tutela del Bardolino, GIORGIO TOMMASI — sono i figli di una vendemmia difficile, ma certamente interessante: il Chiaretto è profumatissimo e ricco di freschezza giovanile, il Bardolino è leggero, speziato e andrà probabilmente atteso un po’ più a lungo del solito». Tra l’altro, la vendemmia del 2013 ha visto anche una riduzione delle rese ammesse per la produzione del Bardolino, passate da 130 a 110 quintali di uva per ettaro. Intanto, le vendite nel 2013 hanno segnato un incremento del 4% rispetto all’anno precedente e
un po’ tutte le guide di settore hanno evidenziato la notevole crescita qualitativa messa a segno negli ultimi anni dalla denominazione, attribuendo i massimi riconoscimenti al Bardolino o al Chiaretto. Quest’anno, poi, c’è un’altra sorpresa che attende gli appassionati del vino a Lazise. In concomitanza con l’Anteprima del Bardolino e del Chiaretto, presso la sala civica del municipio, a poche decine di metri dalla Dogana Veneta, si svolgerà infatti per la prima volta l’Anteprima del Custoza, il bianco delle colline tra Verona e il Garda, la cui zona di produzione si sovrappone in parte a quella del Bardolino. Circa cinquanta i vini in degustazione. >> Link: www.ilbardolino.com
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In alto: i vigneti del Bardolino sul Lago di Garda. In basso: sala dell’Anteprima del Bardolino (photo Š Paola Giagulli).
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I vini di Premiata Salumeria Italiana
La salsiccia Napoli: di Laura
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n salume della grande tradizione italiana, la cui zona di produzione corrisponde alla provincia di cui porta il nome, Napoli, ma che tocca anche le province di Benevento e Avellino. L’insaccato viene preparato con carne di suino macinata a crudo (da coscia, lombo e spalla) e lardo tagliato a mano. La concia
prevede l’uso di sale, pepe e semi di finocchio. L’impasto ottenuto viene insaccato in budello naturale suino e, legato con lo spago, gli viene data la classica forma ad “U”. Segue affumicatura e stagionatura per circa due mesi. Ne deriva un salume dal gusto intenso ed equilibrato, sapido e lungo nelle sfumature speziate; accompagnano giusta
Irpinia DOC Campi Taurasini Santo Stefano 2008 Cavalier Pepe
Terre del Volturno IGT Pallagrello Nero Ambruco 2011 Terre del Principe
Irpinia DOC Aglianico Terra d’Eclano 2010 Quintodecimo
Solo uve Aglianico provenienti dal vigneto Carazita per questo calice. Uve adatte alla produzione di vini complessi e strutturati, atti a lungo invecchiamento. Le uve, raccolte al momento della loro completa maturazione, verso la prima decade di novembre, sono accuratamente selezionate prima di essere diraspate. Segue macerazione a freddo che ottimizza l’estrazione di aromi fruttati ed antociani ed una fermentazione a temperatura controllata. Duplice l’affinamento: almeno 10 mesi in barriques di rovere francese e poi 10 mesi in bottiglia. Alla degustazione si presenta di un bel rosso rubino intenso, con profumi netti e puliti di frutta rossa, visciole e frutti di bosco, ribes e prugne cotte, spezie e tostatura a completamento. In bocca è armonico, rotondo, circolare. Stappate con un’oretta d’anticipo. Vino complesso e dalla tessitura decisa, si accompagna molto bene con la cacciagione, da piuma e da pelo. Da provare con la salsiccia Napoli, magari utilizzata in timballi di riso o paste al forno.
I titolari di questa cantina hanno abbandonato la vita cittadina per dedicarsi alla produzione del vino e ai vitigni autoctoni della zona, in particolare al Casavecchia e al Pallagrello bianco e nero. Proprio con uve Pallagrello nero in purezza viene prodotto questo calice di stoffa. Le uve vendemmiate manualmente subiscono macerazione prolungata e affinamento in barriques di rovere francese per 12 mesi. Ne deriva un calice suadente, di potenza e struttura. Sono sentori di frutta scura e matura, prugne in marmellata, marasche, fava di cacao e cardamomo. Persistenza aromatica olfattiva decisa e importante. La degustazione continua con una sorsata piena e avvolgente, morbida con note soavi e vellutate, anche grazie ad un tannino addomesticato e integratissimo. Un’armonia di fondo e di produzione chiude la degustazione, equilibrata in tutte le sue parti. Ottimo con piatti di carne strutturati ricchi di speziatura come un brasato di manzo arricchito con abbondanti tocchi di salsiccia Napoli.
Laura e Luigi Moio producono questo vino con Aglianico al 100%. Le uve vengono vendemmiate manualmente e vinificate separatamente per ogni parcella (!), così da scegliere la miscela più adatta alla produzione. Dopo la macerazione, la fermentazione malolattica avviene in barriques di rovere francese, dove continua l’affinamento per 18 mesi. L’ultima fase, in vetro, dura 6 mesi. L’olfattiva sprigiona una immediata eleganza con note pulitissime di frutta scura, prugne e more mature, tinte speziate di carrube e foglie di tabacco, vaniglia e pot-pourri. La sorsata è armonica, circolare nei sentori. Pieno, ricco e strutturato, parti morbide e dure in equilibrio, lunga la persistenza aromatico olfattiva, trama splendida e vellutata. Si presta a numerosi abbinamenti, soprattutto a piatti di carne complessi, ricchi e gustosi. Da provare con uno spezzatino di carne in umido arricchito da tocchi di salsiccia Napoli e patate. Non sfigurerà con una fetta di pane sciocco accompagnato da fettine di salsiccia Napoli piccante.
Tenuta Cavalier Pepe Via Santa Vara 83050 Sant’Angelo all’Esca (AV) Telefono: 0827 73766 info@tenutacavalierpepe.it
Terre del Principe Soc. Agr. Srl Via SP 325 SS Giovanni e Paolo, 30 81010 Castel Campagnano (CE) Telefono: 0823 867126 info@terredelprincipe.com
Az. Agr. Quintodecimo Via San Leonardo 83036 Mirabella Eclano (AV) Telefono: 0825 449321 info@quintodecimo.it
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vini in abbinamento Franchini morbidezza e dolcezza derivante dal grasso. Esiste anche la versione calabrese della salsiccia, arricchita dal famoso peperoncino e caratterizzata da ovvia nota piccante. I vini in abbinamento dovranno avere una necessaria intensità aromatico-olfattiva e una buona persistenza, atte ad accompagnare le relative note del salume. Non da
meno saranno necessarie freschezza e una buona morbidezza della trama, per garantire un equilibrio gustativo e olfattivo tra vino e salume. Le scelte della degustazione hanno privilegiato vini campani, per chiudere il cerchio della meravigliosa regione che ha visto la nascita di questo gustosissimo prodotto.
Falerno del Massico DOC Rosso Etichetta Bronzo 2010 Masseria Felicia
Paestum IGT Aglianico Argylos 2010 Belrisguardo
Costa d’Amalfi DOC Ravello Rosso Selva delle Monache 2011 Sammarco Ettore
Siamo alle falde del Monte Massico dove si produce il Falerno del Massico, vino di antichissime origini: l’Etichetta Bronzo è portabandiera di Masseria Felicia e protagonista di questa degustazione. Compongono il calice uve di Aglianico per l’80% e Piedirosso per il 20%, vinificate in tronco conici di castagno aperti ed elevate in barriques francesi per 12/24 mesi e in vetro per altri 12 mesi. Un calice risoluto e virile che regala intense note olfattive di prugne scure e more, more del gelso e ribes, vaniglia e cannella. Altrettanto convincente e affascinante la degustazione al palato, non è certo l’equilibrio a mancare in questo vino. Morbidezza e alcolicità sono supportate da una necessaria spalla acida, il tono sapido è presente, assolutamente amalgamato, la tessitura tannica è setosa. Un calice armonico, adatto anche al rito della meditazione. Si sposerà perfettamente con della pasta all’uovo servita con sughi di selvaggina e secondi piatti di carne strutturati. Perfetto un risotto al sugo di salsiccia Napoli piccante.
Siamo nel cuore del Parco Nazionale del Cilento con questa azienda che segue la filosofia produttiva del biologico. Non fanno eccezione le uve di questo calice, Aglianico in purezza, selezionate in vendemmia nella prima settimana di ottobre. Subito dopo la raccolta, in piccole cassette, avviene la diraspatura. La fermentazione si effettua con macerazione a temperatura controllata e dura 12 giorni. Affina per 12 mesi in legno, barriques di rovere francese e castagno, e in bottiglia per 3 mesi. Il colore è un rosso rubino intenso, come intensa è la nota olfattiva. Netti i sentori di frutta rossa, amarene e frutti di bosco, fave di cacao e banana, spezie e tinte balsamiche. La sorsata è ricca, piena, soave. Circolare le note olfattive, rivela un netto equilibrio tra durezze e morbidezze. Buona la spalla acida e la vena sapida, in equilibrio con alcolicità e trama glicerica. Si accompagna perfettamente con piatti di carne, ricche grigliate, formaggi stagionati. Da provare con fette di salsiccia Napoli, anche piccante, anche grigliata.
In quell’angolo di paradiso che è la costiera amalfitana la viticoltura è strappata alle rocce a picco sul mare e, ovviamente, ardimentosa e difficile. Qui nasce questo calice composto per il 40% da uve Piedirosso (Per’ e Palumm) e Sciascinoso e Aglianico per il rimanente 60%. La fermentazione avviene a contatto prolungato delle bucce, per ottenere una giusta tannicità, cui segue l’affinamento in barriques di rovere francese. Il vino si presenta di un bel rosso rubino, pulito. Al naso si apre ampio e netto, fine. Sono soprattutto note fruttate di frutta rossa, tinte floreali, note di incenso e piccola speziatura a contorno. Il palato è altrettanto convincente e raffinato. Durezze e morbidezze in armonia, buona freschezza e sapidità, vellutata la vena tannica. Un calice armonico, di grande eleganza. Si presta all’abbinamento con i piatti di carne della tradizione napoletana, dal ragù alle braciole al forno. Da provare con salsiccia Napoli e pane abbrustolito o con un sugo di salsiccia Napoli piccante e salsa di pomodoro.
Masseria Felicia SP 104 Località S. Terenzano 81037 Carano di Sessa Aurunca (CE) Telefono: 0823 935095 info@masseriafelicia.it
Belrisguardo Soc. agr. di Brancato Vito & C. Sant’Antuono – 84020 Bellosguardo (SA) Telefono: 345 2511691 info@belrisguardo.it
Casa Vinicola Ettore Sammarco Via Civita, 9 84010 Ravello (SA) Telefono: 089 872774 info@ettoresammarco.it
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Birra
La birra artigianale: orgoglio del made in Italy Dai paesi Scandinavi al Giappone, passando per l’Australia, i mastri birrai del Belpaese hanno conquistato persino il Regno Unito di Antonella Malaguti
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ionda, ambrata, scura, bianca, al malto, al frumento o al riso, non fa differenza, l’importante è che sia artigianale, servita alla giusta temperatura (8-15°C) e spillata ad arte. È un vero e proprio boom quello che, negli ultimi anni, ha coinvolto la birra artigianale italiana. Questo prodotto, infatti, ha saputo farsi largo nel mercato internazionale e nazionale (nel 2013 circa 3.000 ristoranti propongono una carta delle birre), conquistando anche i più tradizionalisti pub inglesi. All’estero trionfano soprattutto i grandi marchi industriali, ma gli oltre 500 microbirrifici attivi sul nostro territorio stanno contribuendo in maniera determinante a modificare il mercato. Il Rinascimento italiano della birra Secondo l’ISTAT siamo passati dai 190 milioni di chili (questa l’unità di misura riferita nelle statistiche) di birra nel 2010 a circa 210 milioni del 2011: una “moda” destinata a non esaurirsi in tempi brevi e che vede la birra artigianale italiana affermarsi anche nei Paesi Scandinavi, raggiungendo perfino territori extraeuropei come il Giappone e l’Australia. Se i dati generali sono incoraggianti — nel 2012 le esportazioni hanno fatto segnare un +10% —, il segnale sorprendente arriva dal mercato inglese: le esportazioni verso il Regno Unito, secondo le stime della COLDIRETTI, fanno segnare un incremento pari al 22%: un vero e proprio riconoscimento internazionale per la birra made in Italy. Dal punto di vista storico i birrifici artigianali
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nascono negli Stati Uniti, frutto di quel fenomeno che va sotto il nome di Renaissance, sviluppatosi grazie al contributo degli immigrati europei a metà degli anni Ottanta. Per ovviare all’industrializzazione selvaggia, che tende ad appiattire (e a deprimere) i gusti del cibo, alcuni cittadini iniziarono a riscoprire l’autoproduzione di alimentari tradizionali, tra cui, ovviamente, non poteva mancare la birra. In Italia i birrifici artigianali — la maggior parte dei quali risulta dislocata lontano dalle mappe turistiche — sono di piccole dimensioni e hanno birre dai nomi suggestivi come “Terzo Miglio”, “Milady”, “Seta”, ecc… Queste micro-realtà si
distinguono per l’attenzione verso l’ambiente e l’utilizzo di ingredienti naturali, e sono tendenzialmente animate da uno spirito di innovazione e sperimentazione, mirato alla produzione di birre sempre nuove per incontrare le più varie esigenze del consumatore. Ad essere migliorata è anche la formazione dei birrai e dei fornitori di materie prime, tuttavia i birrifici continuano a sostenere spese molto alte per la loro attività, e quindi faticano a restare sul mercato, nonostante la richiesta del prodotto sia in costante crescita. I “piccoli” sono costretti a far leva sulla vendita diretta, con la conseguenza di prezzi
Dal 13 al 15 settembre 2013 a Roma, presso le Officine Farneto, è andata in scena la prima edizione di “Fermentazioni”, festival della birra artigianale.
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al pubblico piuttosto elevati; molti birrifici, inoltre, sono di recente apertura, e quindi hanno ancora molti investimenti in corso. Ma il grande merito di questi produttori è quello di aver fatto comprendere in Italia — nazione conosciuta in tutto il mondo per il vino — che la birra non è un prodotto esclusivamente industriale, ma che, al pari del “rosso nettare”, può essere preparata in modo genuino e tradizionale. Oltre a essere una delle bevande alcoliche più consumate al mondo, la birra è anche tra le più antiche, nata (probabilmente) nello stesso momento in cui l’uomo ha iniziato a cucinare il pane — visto che con esso condivide in pratica tutti gli ingredienti — viene anche chiamata “pane liquido”: un impasto di farina lasciato fermentare in acqua dà pane, se è maggiore la quantità di farina, dà birra se invece è maggiore la presenza di acqua. La birra deriva dunque dalla fermentazione di zuccheri che provengono da sostanze contenenti amido, tra queste la più usata è il malto d’orzo (orzo germinato ed essiccato), ma si possono utilizzare anche frumento, mais e riso. Il malto viene messo in acqua calda dove, grazie ad alcuni enzimi, è convertito in zucchero; si forma così una specie di mosto dolciastro che può essere aromatizzato con erbe, frutta, o, più comunemente, luppolo; si immette quindi un lievito che dà inizio alla fermentazione e porta alla formazione di alcol. Per realizzare questo processo si utilizzano metodi
Una fase della preparazione della birra all’interno di un birrificio artigianale (photo © Studio Leoni Genova). produttivi differenti, che permettono di classificare le birre in: “ale”, “lager” o “a fermentazione spontanea”. Quando si parla di “birra industriale” ci si riferisce alla birra pastorizzata e microfiltrata, che durante questi procedimenti perde qualsiasi traccia di microrganismi presenti nel lievito e a cui successivamente vengono aggiunti conservanti al fine di “stabilizzare” il prodotto. Le birre artigianali non sono pastorizzate e presentano lieviti definiti “attivi”, nei quali i microrganismi continuano a vivere e a svolgere la propria funzione. Anche per questo motivo la birra artigianale, al pari del vino, continua a modificarsi dopo essere stato imbottigliata, o può anche rimanere in botte per alcuni anni.
La nazione che a livello mondiale produce il maggior numero di marchi di birra, artigianale e non, è il Belgio, che può vantare una varietà incredibile di birre e di metodi di lavorazione. In questo Paese all’inizio del XIV secolo nascevano, a Bruges, Liegi e Bruxelles, delle organizzazioni chiamate “gilde”, che si occupavano esclusivamente della produzione e della commercializzazione della birra. Se è giusto affermare che l’Italia non può ancora competere con nazioni che hanno una tradizione di questo livello, è certo che la passione di tanti mastri birrai sta permettendo alla nostra produzione di recuperare, in tempi molto brevi, il terreno perduto. Antonella Malaguti
Ogni birra artigianale è il frutto di una ricetta particolare ideata da un maestro birraio. Per valorizzare i numerosi ingredienti che la compongono, la birra deve essere servita con cura e in modo corretto: prima di tutto è necessario pulire il bicchiere con acqua, eliminando eventuali goccioline; quando apriamo la bottiglia, poi, dobbiamo controllare che il tappo in metallo non presenti ossidazioni, poiché significherebbe che la bottiglia non è stata sigillata. A questo punto bisogna versare la birra avendo l’accortezza di inclinarlo, al fine di formare una schiuma abbondante. Nella bottiglia deve rimanere solo poca birra, che servirà successivamente per recuperare i lieviti sul fondo. Il bicchiere va poi poggiato con il contenuto su un piano, affinché in pochi secondi la schiuma si assorba e si compatti andando a formare un “cappello”, che ha il compito di preservare la birra dal contatto con l’aria, mantenendo intatte le sue qualità organolettiche. È ora il momento di riprendere la bottiglia e di rotearla lentamente per mescolare i lieviti presenti sul fondo e infine aggiungerli al bicchiere. Appena versati, si noterà che il colore della birra viene leggermente modificato, solo quando sarà di nuovo uniforme sarà finalmente il momento di assaporare il primo sorso!
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Olio
La nuova era dell’olio italiano Uno dei prodotti più caratteristici della dieta mediterranea trova da oggi una normativa rigida e severa, destinata a supportare i produttori d’eccellenza e a condizionare in maniera importante le scelte d’acquisto di Guido Guidi
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iù che la cronistoria di un iter legislativo, quello della Legge 9 del 2013 sembra una telenovela a cui periodicamente si aggiunge una nuova puntata. Non è nata sotto i migliori auspici la Legge Mongiello, sottoposta più volte a colpi di scena nella sua applicazione, ma la novità è che forse siamo giunti ad un punto fermo. Che non potesse essere gradita a tutti, soprattutto Oltralpe, era già evidente prima della sua approvazione definitiva. L’Unione Europea decise infatti a suo tempo — e ben prima della discussione in Parlamento — di attivare la procedura per la sua sospensione. La Commissione si era avvalsa all’epoca delle facoltà derivanti dall’articolo 9, comma 3, della Direttiva 98/34/
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CE del 22 giugno 1998, che prevede letteralmente che: “Gli Stati Membri rinviano l’adozione di un progetto di regola tecnica di dodici mesi […], se, nei tre mesi successivi, la Commissione notifica la sua intenzione di proporre o di adottare una direttiva, un regolamento o una decisione conformemente all’articolo 189 del trattato a questo riguardo”. Le motivazioni addotte a sostegno di questa presa di posizione che, per la verità, è sembrata da subito pretestuosa, è che la Commissione europea stesse rivedendo alcuni specifici aspetti dei regolamenti relativi all’olio d’oliva. Pertanto, appariva prematuro e insensato che l’Italia anticipasse tali decisioni con un testo di legge proprio. La legge “salva olio”,
così definita fin da subito, che sarebbe dovuta entrare in vigore all’indomani dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale a gennaio del 2013, è rimasta in stallo sino a giugno di quest’anno quando anche l’Antitrust ne ha sconsigliato l’applicazione. Siamo però forse giunti all’ultimo atto della vicenda con la fine della sospensiva dell’Unione Europea. Pertanto la legge è ora pienamente vigente. Le obiezioni avanzate da alcuni Stati Membri come Gran Bretagna e Olanda che non gradivano l’obbligatorietà di misure restrittive in fase di commercializzazione e che rifiutavano il tappo anti rabbocco non sono venute meno, ma forse l’Italia ha segnato un punto a suo favore.
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Nel Paese dell’olio di qualità per eccellenza la norma è accolta con un certo favore ma le novità sono diverse e tutte importanti e non meritano di essere sottovalutate. Chi incorre in errore, infatti, anche senza dolo, potrebbe trovarsi costretto a pagare cara la distrazione. Gli aspetti salienti della norma, quelli che ridisegnano le regole di salvaguardia del prodotto e del consumatore, vanno dall’indicazione di origine alle dimensioni dei caratteri dell’etichetta; dai tappi anti rabbocco al divieto d’uso di marchi equivoci; dall’indicazione dell’annata di produzione alle vendite sottocosto. E molto altro ancora. Ma andiamo per ordine Il primo aspetto trattato dalla Legge Mongiello è l’indicazione di origine degli oli di oliva vergini. Tale indicazione deve essere facilmente visibile, chiaramente leggibile e riportata nel campo visivo anteriore del recipiente, in modo da essere distinguibile in maniera certa dalle altre informazioni. La differenziazione va ricercata nella stampa con caratteri di dimensioni prestabilite e in contrasto con il colore di fondo dell’etichetta, in modo che l’informazione sia immediatamente percepibile dal consumatore. Le misure comunitarie previste a questo proposito sono predeterminate nel regolamento comunitario 29/2012. Le miscele di oli di oliva estratti in un altro Stato Membro dell’Unione europea o in un Paese Terzo vanno debitamente evidenziate con il termine “miscela” stampato con maggiore e più visibile rilevanza cromatica rispetto al colore di fondo del packaging, della denominazione di vendita e delle altre indicazioni. Il tappo anti rabbocco è certamente una delle maggiori novità introdotte dalla norma e, non a caso, è anche una di quelle che sta facendo più discutere in Italia e all’estero. Questo espediente, che è entrato in vigore il 1o gennaio 2014 e che non concerne gli oli confezionati e/o commercializzati prima di tale data, ha lo scopo di scoraggiare i furbetti della somministrazione che spacciano un olio per un altro, creando così grave danno a consumatori e produttori.
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L’olio di oliva è presente sulle tavole di tutti gli Italiani ed è uno degli elementi più caratteristici dell’eccellenza agricola nazionale. Ma non è finita qui. La legge, in linea con la nuova normativa dell’Unione Europea in tema di informazione sui prodotti alimentari, dispone anche il divieto di uso dei marchi ingannevoli per l’origine. Pertanto, qualunque uso cromatico o richiamo grafico che possa indurre in errore riguardo l’origine dell’olio è vietato. L’annata di produzione è un altro elemento di novità. Essa è inseribile in etichetta dall’inizio dell’anno 2014 purché tutto il suo contenuto provenga dalla campagna olearia indicata. Un elemento destinato a creare problemi a frantoi e olivicoltori è certamente quello degli alchil esteri. Se, infatti, superano il valore di 30 mg/kg, l’azienda sarà soggetta a un piano di sorveglianza straordinario e prorogabile, della durata di 12 mesi. Il termine minimo di conservazione è stabilito in 18 mesi e verrà espresso con la dicitura “da consumarsi preferibilmente entro”, seguita dalla data. Per scoraggiare azioni di svendita del prodotto che possono creare grave turbamento al mercato, la Legge Mongiello stabilisce che la vendita sotto costo degli oli di oliva extra vergine sia soggetta a comunicazione al comune dove è ubicato l’esercizio commerciale. Tale informazione deve essere effettuata almeno 20 giorni prima dell’inizio della promozione e può aver luogo solo una volta nel corso dell’anno.
È altresì vietata la vendita sottocosto di oli extravergini di oliva da parte di esercizi commerciali che, da soli o congiuntamente a quelli dello stesso gruppo di appartenenza, detengono una quota superiore al 10% della superficie di vendita complessiva esistente nel territorio della provincia dove hanno la loro sede. Insomma, il tentativo non è solo quello di proteggere e tutelare i consumatori, ma anche di limitare comportamenti che generino turbative di mercato. L’olio di oliva è presente sulle tavole di tutti gli Italiani ed è uno degli elementi più caratteristici dell’eccellenza agricola nazionale. Il Belpaese, secondo la COLDIRETTI, è oggi il secondo produttore mondiale di olio di oliva con oltre mezzo milione di tonnellate realizzate, 250 milioni di piante e ben 40 oli extravergine d’oliva a denominazione europea tra DOP ed IGP. Il fatturato, stimato in 2 miliardi di euro per un impiego di manodopera pari a 50 milioni di giornate lavorative, attribuisce al settore una rilevanza assoluta nel comparto agroalimentare nazionale sia in qualità, sia in quantità. Pertanto, da questa operazione di trasparenza e tutela, l’Italia non ha che da guadagnare. Guido Guidi Nota A pagina 102 olio d’oliva.
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Aceto
Aceto Balsamico di Modena, si costituisce il Consorzio Tutela Nasce dalla fusione dei due Consorzi esistenti. Obiettivi: tutela dell’Igp in Italia e nel mondo e difesa da imitazioni e contraffazioni. Nominato il nuovo CdA: Stefano Berni presidente
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opo una lunga gestazione si è costituito a Modena, nel corso di un’affollata cerimonia, il Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena, con lo scopo di tutelare e sviluppare questa famosa denominazione che dal 2009 gode della IGP europea. Il prodotto rappresenta un grande esempio di successo dell’agroalimentare italiano nel mondo: con una quota di export che sfiora il 90% e un valore di mercato di circa 600 milioni di euro, l’Aceto Balsamico di Modena si pone ai vertici della classifica dei prodotti italiani DOP e IGP, addirittura il primo per quanto riguarda l’export. Un successo perseguito con determinazione da un’ottantina di aziende, piccole e grandi, che risiedono nella zona di origine composta dalle province di Modena e di Reggio Emilia, e che hanno saputo dar vita ad un comparto fortemente organizzato, dinamico ed orientato all’export, con il prodotto distribuito in oltre 100 Paesi e in continua crescita. Tuttavia, il settore è anche afflitto da un elevato tasso di contraffazione e di imitazione, che rischia di erodere l’immagine di qualità legata al prodotto, danneggiandone l’economia. La necessità di sviluppare efficaci azioni di tutela e di divulgazione, unendo le forze di tutti ha convinto i produttori a riunire i due distinti consorzi che li hanno finora rappresentati per formare un unico Consorzio di Tutela, rappresentativo della produzione e con le caratteristiche per ottenere i previsti riconoscimenti ministeriali, atti a renderlo capace di
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portare avanti le necessarie azioni di difesa in campo nazionale e internazionale. Superate le difficoltà del passato, si è finalmente rivolto lo sguardo al futuro: questo è quanto emerge unanimemente dalle dichiarazioni delle presidenti uscenti dei due consorzi, Mariangela Grosoli e Sabrina Federzoni. Per accordo delle parti, il Consorzio Tutela sfrutta la struttura del preesistente Consorzio Aceto Balsamico di Modena e riunisce oggi 50 operatori, rappresentanti il 98% dell’intera produzione. Ha sede presso Palatipico, che già ospita i consorzi delle altre DOP e IGP modenesi, e la sua direzione è affidata all’avvocato Federico Desimoni. L’assemblea dei soci, riunitasi in forma plenaria per la prima volta il 9 dicembre scorso, ha nominato all’unanimità i componenti del nuovo Consiglio di Amministrazione, designando Mariangela Grosoli e Sabrina Federzoni, Giovanni Carandini, Armando De Nigris, Angelo Giacobazzi, Cesare Mazzetti, Giacomo Ponti ed Enrico Zini. La presidenza è stata affidata a Stefano Berni, attuale direttore del Consorzio Grana Padano, che si è offerto di farsi garante delle parti in questa delicata fase di avvio del Consorzio unico. Gli obiettivi dichiarati con forza sono la tutela della IGP in Italia e nel mondo, la difesa da imitazioni e contraffazioni, per proteggere il prodotto, valorizzarne il territorio d’origine e quindi difendere i produttori e i lavoratori del settore. Nel comporre questa nuova realtà hanno concorso il sostegno
Stefano Berni, presidente del Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena.
del Ministero, della Regione e delle Amministrazioni locali, che da alcuni anni cercavano di stimolare la nascita del Consorzio: decisivo si è dimostrato l’intervento di AICIG, l’associazione dei Consorzi dei prodotti a Indicazione Geografica, i cui vertici hanno saputo illustrare ai produttori di aceto l’importanza di una coesione non solo interna, ma anche con le altre denominazioni protette, per riuscire a far fronte comune contro le contraffazioni. I rappresentanti del Ministero, presenti all’assemblea con i vertici dell’Assessorato regionale all’Agricoltura, nel salutare con entusiasmo il nuovo Consorzio hanno informato che le procedure di riconoscimento sono state correttamente avviate, e che la “tutela” è in fase di rilascio.
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Tecnologie
La ricetta del successo di Eurochef Italia Srl Una buona idea condita da impegno, qualità e il giusto partner informatico, CSB-System
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UROCHEF ITALIA nasce da un’intuizione di STEFANO STANGHELLINI: in una vita sempre più frenetica e veloce, infatti, i piatti pronti di gastronomia fresca individuavano un settore di mercato non ancora pienamente sfruttato e con grandi opportunità di sviluppo e crescita. Gli inizi non sono stati facili, ma la perseveranza e la fiducia nel progetto si sono dimostrate ben riposte: in pochi anni Eurochef Italia ha visto crescere vertiginosamente i volumi, raggiungendo nel 2012 una capacità produttiva di 1.200 tonnellate di prodotto finito. A più di dieci anni dalla sua fondazione, il trend di crescita rimane positivo. Non solo, il bacino d’utenza ha recentemente varcato i confini nazionali e la gastronomia pronta a marchio Eurochef Italia sta proponendo il nuovo modo di assaporare la cucina tradizionale italiana anche al più grande mercato europeo, rappresentato per ora da Francia, Germania e Irlanda. Per conquistare, però, la fiducia dei consumatori e del mercato non bastano una buona idea ed un’attenta osservazione delle richieste, ma occorre anche un forte impegno in ricerca e sviluppo, qualità assoluta dei prodotti, un atteggiamento market oriented e, per ultima, ma non meno importante, la scelta di partner che condividano la passione per l’eccellenza e la filosofia di servizio al cliente.
CSB-System come partner informatico La collaborazione tra Eurochef Italia (www.lochefacasa.it) e CSBSystem, software-house che da oltre 35 anni fornisce soluzioni
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Stefano Stanghellini, fondatore di Eurochef Italia.
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In alto: il moderno stabilimento di Eurochef Italia, inaugurato a luglio 2009, a Sommacampagna. In basso: evasione ordini. Il CSB-System ha determinato un controllo piĂš efficiente del magazzino, ottimizzato con la gestione delle giacenze ed in grado di generare proposte di riordino automatiche per acquisti sempre in linea con le necessitĂ aziendali.
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le informazioni necessarie per reagire a situazioni critiche. La qualità per Eurochef Italia, comunque, non si ferma ai prodotti realizzati, ma si spinge anche al consolidamento dei rapporti con tutti i partner aziendali. Infatti, è diffuso l’utilizzo del modulo di gestione EDI per lo scambio dati con clienti, fornitori e piattaforme distributive, riducendo, quindi, al minino gli inserimenti manuali, lo scambio documentale cartaceo e le possibilità di errore del personale.
Preparazione ricette. Si noti anche in questo settore aziendale l’aiuto fornito dalla tecnologia CSB-System. gestionali su misura alle aziende del settore alimentare, è nata in occasione dell’apertura del nuovo stabilimento, moderna struttura inaugurata nel 2009 a Sommacampagna (VR), cittadina del veronese adagiata sulle colline moreniche. La scelta di Stanghellini di escludere soluzioni “a isola” e di affidarsi ad un unico software capace di integrare tutti i processi aziendali all’interno di una sola piattaforma tecnologica è stata lungimirante: ha fornito soluzioni alle problematiche esistenti, ponendo però, allo stesso tempo, solide fondamenta per una crescita futura. Il CSB-System, infatti, con la sua costruzione modulare, è estremamente flessibile e cresce insieme all’azienda, con tutti i vantaggi che ne derivano. Descrizione del progetto L’implementazione del CSB-System ha inizialmente interessato trasversalmente tutti i processi aziendali principali: dalla gestione acquisti e magazzino, fino alla produzione con distinte base e ricette, dalle vendite con gestione offerte, listini e condizioni, alla totale rintracciabilità di filiera, senza dimenticare il controllo qualità, anch’esso gestito con il CSB-System. Il modulo qualità consente di inserire, gestire e archiviare, tutte le rilevazioni e i controlli previsti dal piano di autocontrollo aziendale, in linea e
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in tempo reale. Qualora siano rilevati valori al di fuori di quelli stabiliti nelle procedure, il CSB-System attiva in automatico le procedure di non conformità. L’attuazione di tutte le norme — direttive e leggi nazionali ed internazionali — ed il continuo miglioramento dei processi aziendali hanno consentito ad Eurochef Italia di conseguire certificazioni quali BRC, IFS, ISO 22000:2005, ISO 9001:2008 e Certificato di Conformità dei Prodotti Biologici (rilasciato da BIOAGRICERT) per competere da leader in Italia e sui mercati internazionali. I vantaggi dell’aver integrato queste fasi in un unico sistema sono facilmente intuibili: il CSB-System ha consentito all’azienda veronese la corretta pianificazione della produzione sulla base degli ordini dei clienti, vincolati in funzione delle offerte attive e delle promozioni personalizzate. Ciò ha determinato un controllo più efficiente del magazzino, ottimizzato con la gestione delle giacenze e in grado di generare proposte di riordino automatiche per acquisti sempre in linea con le necessità aziendali. Il tutto supportato dalle statistiche messe a disposizione dal CSB-System, in particolar modo quelle di analisi delle vendite per verificare se gli obiettivi posti dalla direzione siano stati raggiunti, ma, soprattutto, per fornire in tempo reale ai responsabili di reparto
Nuove sfide La fiducia nella collaborazione costruttiva tra Eurochef Italia e CSB-System è stata recentemente avvalorata dalla decisione di implementare ed integrare nell’ERP in uso anche i moduli di Contabilità Generale, Cespiti, Banche e Contabilità Industriale. Eurochef Italia insieme a CSB-System costituisce un altro caso di successo e dimostra come l’alta qualità dei prodotti e la professionalità dei partner aziendali premiano pure in tempi di crisi. «CSB è per noi un ingrediente fondamentale — ha dichiarato in proposito Stefano Stanghellini — che ha reso la nostra attività aziendale più efficiente ed efficace anche grazie alla ridefinizione dei processi di gestione. Ora il sistema è entrato nel nostro DNA come uno strumento qualificante ed alla portata di qualsiasi nostro collaboratore. Se mi venisse chiesto di consigliare il CSB-System, sicuramente non esiterei a ribadire il ruolo importante che riveste nella nostra azienda».
Referente: • Dott. A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (Verona) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: segreteria@csb-system.it Web: www.csb-system.it
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Storia e cultura
Cibi da strada e l’invenzione del panino di Giovanni Ballarini
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iente di nuovo sotto il sole! Oggi come ieri, le strade, ora anche autostrade, sono state, rimangono e resteranno anche luoghi di alimentazione e di diffusione degli alimenti e dei gusti. Le tabernae dell’antica Roma Le strade dell’antica Roma, variamente distribuite nel territorio del suo grande impero, erano punteggiate dalle tabernae o cauponae, locali che, data l’insufficiente qualità del cibo e la scarsa igiene, erano frequentati da clienti di basso ceto sociale. Dall’insegna marmorea di una taverna presente a Roma nei Musei Capitolini sappiamo che venivano offerti pollo, pesce, prosciutto e pavone (Abemus in ce(na) pullum, piscem, pernam, paonem…), ma certamente anche altri cibi meno nobili, come ci suggeriscono alcuni indizi interessanti giunti fino a noi. Caponata e capon magro sono, infatti, due preparazioni di cucina povera che nel nome fanno riferimento alle cauponae, anche se di certo in quelle romane non vi era la melanzana, che sarebbe stata portata dagli Arabi in Sicilia almeno un millennio dopo. Ritornando all’insegna della taberna, essa ci svela che già allora il prosciutto veniva venduto nei punti di ristoro, anzi, in quelli migliori. Il turismo gastronomico non è invenzione moderna, dunque, come ci dimostra quell’epigrafe marmorea, che contiene due diversi tipi di segnali. Un primo gruppo, di tipo simbolico, è rivolto a tutti, anche stranieri e, soprattutto, analfabeti, come potevano essere gli schiavi e i conduttori di carri. Accanto alle raffigurazioni di un cuore (amore e attenzione per il cliente, o soltanto “insegna” del locale?) e di un’erba (foraggio per 112
gli animali), vi è quella di una ruota (rimessa o “officina” per i carri), quindi “attenzione e servizi per il viaggiatore”. Un secondo gruppo d’informazioni riguarda il “menù del giorno” o le “specialità del locale”, indirizzate a chi sapeva leggere e aveva una cultura gastronomica, quindi ad una clientela di alto livello, come di elevata qualità è la “carta dei cibi”. L’insegna marmorea, infatti, dice: Abemus in ce(na) pullum, piscem, pernam, paonem. Pollo, pesce, pavone e pernam, ossia coscia, quindi prosciutto, erano le specialità del locale offerte per la cena, cioè il pasto principale, soprattutto per i viaggiatori che, dopo un’intera giornata di cammino, a cavallo o su di un più o meno traballante veicolo, con il riposo cercavano anche, secon-
do le loro possibilità, un conforto gastronomico. Il prosciutto è soltanto uno dei tanti cibi prosciugati, non solo dal sale, ma anche dal sole, che hanno “percorso” le strade, come i pesci salati, le olive in salamoia e i fichi secchi. Per meglio comprendere come questi fossero piatti prelibati, citiamo un autore, KLEBERG1, dal quale apprendiamo che le tabernae offrivano ai clienti meno abbienti salsicce, carne bollita, verdura, lardo, prosciutto e latte, a prezzi che oggi diremmo popolari. In un’iscrizione rinvenuta a Isernia2 si possono leggere alcune battute tra cliente ed oste. “Padrone, fammi il conto!” “Hai un sesterzio di vino, un asse di pane e due di companatico”
Panino con salame, fichi, formaggio di capra e rucola. Premiata Salumeria Italiana, 1/14
“D’accordo” “Per la ragazza otto assi” “D’accordo anche per questo” “Il fieno del mulo due assi” “Questo mulo mi manderà in rovina” Un conto che, ragazza e fieno del mulo a parte, non arriva ai due sesterzi, quindi oggi si direbbe economico. Bisogna infatti considerare che, ai tempi di Traiano, un cliente riceveva dal suo padrone, giornalmente, una sportularia di sei sesterzi3. La ragazza che entra nel conto del viaggiatore, tra l’altro, potrebbe far riconsiderare il significato del simbolo del cuore riportato sull’epigrafe della taberna, dandogli il significato di un amore erotico o, più precisamente, di un servizio erotico mercenario. Dal Medioevo alla ristorazione autostradale Nel Medioevo la ristorazione di strada si espanse conseguentemente all’incrementarsi dei pellegrinaggi e degli scambi commerciali. Negli ostelli e nei ricoveri (rimangono ancora molti toponimi, come ricò) i pellegrini trovavano pane, vino, formaggio e certamente carni salate. Nel XV secolo, nei paesi islamici nacquero i primi caffè, che nelle città europee si diffusero all’inizio del XVII secolo, in sostanza i primi locali di ristoro mondani frequentati per motivi culturali e politici, dando avvio ad una ristorazione collettiva di qualità. Tuttavia, in quel periodo, lungo le strade, rimasero le stazioni di posta, che assieme all’alloggio dei viaggiatori e allo stallatico offrivano una cucina semplice e sempre pronta. Durante il XIX secolo, una ristorazione collettiva si insediò nelle stazioni termali e nei grandi alberghi rivolgendosi ad una clientela più esigente sotto il profilo alimentare e del servizio. Nel XX secolo si progettarono e si realizzarono nuove strutture di ristoro collettivo indirizzate al contenimento dei costi e dei tempi, in altre parole specializzate nel ristoro economico e rapido per chi viaggiava, studiava o lavorava. In sintesi, si verificò una nuova mutazione della ristorazione: dalle
Premiata Salumeria Italiana, 1/14
Insegna di taberna romana, Musei Capitolini, Roma. stazioni di posta nacquero gli autogrill e i refettori si trasformarono in mense; il tutto per soddisfare le nuove richieste del mercato, cioè le esigenze dei clienti che, per motivi di studio, turismo e lavoro, erano costretti a consumare molti dei loro pasti fuori casa. In seguito all’incremento della rete viaria, cominciò a svilupparsi la ristorazione autostradale, rivolta a soddisfare le esigenze dei viaggiatori, ossia tantissime persone aventi diverse caratteristiche (età, nazionalità, professione, ecc…) ed esigenze (lavoro, turismo, professione). Le particolarità della sosta di ristorazione autostradale sono svariate e ben precise: di norma è di breve durata; è finalizzata a soddisfare diverse richieste alimentari che vanno dal semplice caffè al panino, sino al pasto completo; l’aspettativa del cliente è quella di trovare anche altre tipologie di servizi (i servizi igienici, il market, l’edicola, la connessione wi-fi, punti ricreativi per bambini, zone adibite alla sosta degli autotrasportatori, le aree trucker, e dei motociclisti, aree per cani, ecc…). Tutto questo 24 ore su 24! Nonostante ogni giorno moltissimi viaggiatori-consumatori usufruiscano di queste aree della rete autostradale, per la ristorazione
l’Unione Nazionale Consumatori ha riscontrato disservizi. Tra i punti a sfavore dei consumatori vi sono i costi eccessivi dei prodotti e, in generale, uno scarso rapporto qualità/prezzo degli stessi. Inoltre, è carente l’offerta dei prodotti alimentari destinati a particolari categorie di consumatori quali celiaci, vegetariani e vegani. Disagi sono segnalati anche da individui allergici, a causa della mancanza di un’adeguata etichettatura dei prodotti alimentari. Altri reclami riguardano la scarsità di aree attrezzate per bambini e strutture idonee per disabili. È però con la ristorazione di strada che si è diffusa l’abitudine tipicamente italiana del “panino”, oggi consolidatasi in tutta Europa. Una preparazione che può essere mangiata senza uso di posate, quindi particolarmente adatta come street food. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma Note 1. KLEBERG T. (1957), Hôtels, restaurants et cabarets dans l’antiquité romaine, Uppsala, pp. 54-55. 2. C.I.L. IX 2689, Isernia, Cit. TACCA A. (1990), Perna et Parma, Ed. Tipolitotecnica, Parma, pag. 36. 3. CARCOPINO J. (1983), Vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero, Laterza, Bari, pag. 211.
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“Sistema Cooley”: la rivoluzione del burro nel New England di fine ‘800 di Raffaele Bertolini
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uando, il 20 febbraio 1877, WILLIAM COOLEY presentò il dispositivo da lui inventato per separare la parte lipidica del latte dalla parte non lipidica ai tecnici dell’Ufficio Brevetti degli Stati Uniti d’America, aveva ben chiaro quali fossero i punti di forza su cui puntare: una strizzata d’occhio la mandò alla classe emergente di ricchi proprietari terrieri che avevano investito le loro fortune nell’allevamento bovino e che erano smaniosi di intascarsi i guadagni della nascente industria lattiero-casearia, e un’altra all’amministrazione e ai suoi dipartimenti di igiene, calcando la mano sul fatto che quel dispositivo, che prese poi il suo nome, preservava la purezza del latte da qualsiasi contaminazione esterna. “Il metodo invalso per ottenere la panna è utilizzando contenitori aperti, siano essi piatti o fondi, per poi scremare manualmente la panna dalla superficie del latte, posto a riposo da circa 36/48 ore. Questo procedimento è sottoposto a diversi rischi, tra i quali sono da annoverare l’esposizione del latte all’aria, dai quali attrae insetti e
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assorbe odori e gas spesso deleteri, e dalla quale riceve e trattiene polvere e sporcizia; l’agitazione della sua superficie dovuta al vento o ad altre cause; il lungo tempo impiegato per far affiorare la panna; l’inevitabile mancanza di uniformità nella qualità del latte e, di conseguenza, nel burro da esso prodotto, a causa delle sostanze invisibili che tendono a colorarlo, acidificarlo o altrimenti a deturparlo; la completa e diretta esposizione a tutti i repentini cambiamenti — elettrici, termici e altri — dell’aria unitamente alla necessità di aver un numero sufficiente di contenitori dove alloggiare il latte proveniente da due o più giorni di mungitura”. Fino ad allora si estraeva la panna dal latte in maniera rudimentale, lasciando a riposo il latte in contenitori di latta o di legno per 36/48 ore e poi raccogliendo la panna con delle spannarole. Il processo era lungo, dispersivo (un terzo del grasso rimaneva ancora nel latte) e soggetto a contaminazioni batteriche e organiche. La meccanizzazione nel settore lattiero-caseario aveva coinvolto la
produzione del formaggio ma non quella del burro, che rimaneva pertanto nelle mani delle singole fattorie. Questo era diretta conseguenza della struttura agricolo-economica del Vermont in particolare e del Canada in generale. Per due secoli, dal 1600 fino ai primi del 1800 la lana rappresentava l’unica fonte di vero guadagno per chi viveva in campagna. Nella stessa cittadina di Waterbury, dove nacque Cooley, l’allevamento ovino era molto diffuso. Ma la crisi del settore stimolò la ricerca di un’alternativa. Le vacche erano arrivate al seguito dei coloni di Plymouth e presto l’interesse si focalizzò sull’oro bianco che stillava dalle loro mammelle. L’industria cittadina pagava prezzi molto alti per avere del buon latte; in questo modo i contadini non erano più tentati a produrre formaggio, bensì burro, che l’industria ancora non produceva per mancanza di tecnologie. In un periodo in cui la donna, a parità di mansione, guadagnava un quarto di un uomo, la cura del bestiame e secondariamente la lavorazione del latte per produrre burro era, mali-
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finale dalle qualità superiori, che avrebbe spuntato prezzi migliori sul mercato. Questa piccola finestrella, nel giro di poco tempo, ebbe una ripercussione tremenda sull’economia agricola. Attraverso di essa l’allevatore, il tecnico, la massaia, l’imprenditore scoprirono che la linea di separazione latte/burro variava in seguito alla stagione di raccolta, alla parte del giorno, alla razza dell’animale e alla sua alimentazione.
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Figure 1/2/3 – Il dispositivo brevettato da William Cooley. ziosamente, da ritenersi appannaggio femminile. Gli uomini si riunivano la sera per discutere di come aumentare la resa in latte delle loro vacche o quale tipo di concime utilizzare per i loro campi. Tutto questo avveniva in seno all’Associazione dei produttori di latte del Vermont, fondata nel 1868; nei loro resoconti assembleari è chiara l’urgenza di massimizzare la resa e di abbassare i costi di produzione. Tra il 1850 e il 1880 nel solo stato del Vermont si toccò la cifra record di 35.000 fattorie attive, quota mai più raggiunta successivamente. Fu in questo ambiente fervido e operoso che si svilupparono le idee di Cooley. L’uomo era un imprenditore, aveva una fabbrica a Waterbury che impiegava dalle 12 alle 16 persone e produceva macchinari per il settore idraulico. L’invenzione (Figura 1) si basava sulla constatazione che la separazione della parte lipidica del latte da quella non lipidica viene accelerata con l’abbassarsi della temperatura; lo stesso Cooley propone una temperatura ideale attorno ai 7°C. Per
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ottenere questo bisognava immergere il contenitore del latte in un altro contenente acqua fredda e sigillarlo fino al rabbocco: in tale modo si garantiva l’assoluta impermeabilità del latte da agenti contaminanti esterni e la velocizzazione del processo di scrematura. Ma l’idea che aveva germogliato nella mente di Cooley e che lo rendeva bramoso di brevettare era la tecnica di prelievo della panna: non più dall’alto della cisterna, come si era fatto fin ora; quel metodo ormai era rozzo e rischiava di compromettere la qualità del burro; ora la si spillava dal basso, tramite un tubicino regolabile in altezza (Figura 3). Tramite una finestrella attraverso la quale si intravedeva il livello del latte e della crema di latte si decideva se prelevare prima l’una o l’altra, in modo delicato, senza compromettere la fragile struttura della panna. La delicatezza non aveva in sé nessun trasporto romantico; era semplicemente la conseguenza della constatazione di essere un passaggio obbligato per ottenere un prodotto
Fermento Le campagne e la vita che vi si conduceva al loro riparo non sarebbe stata più la stessa. Il miraggio del guadagno le stravolse e scatenò quella rivoluzione agricola i cui effetti conosciamo oggi. Miglioramenti genetici, produzioni su larga scala, progresso tecnico, specializzazione. Il “sistema Cooley” divenne popolare in tutte le fattorie del New England e fu soppiantato solo dal separatore a centrifuga dello svedese De Laval, arrivato sul mercato alla fine del secolo. Per dare un’idea della portata rivoluzionaria del progetto di Cooley, basta considerare il fatto che nel ventennio tra il 1879 e il 1899 la produzione annua di burro passò da 2270 kg a 9.988.000 di kg. Nel 1900 la cittadina di St. Albans era la più grande produttrice di burro al mondo, con un totale di 900.000 kg all’anno. E pensare che William Cooley, quella finestra, l’aveva messa perché i propri bambini potessero meravigliarsi davanti allo spettacolo della natura… Raffaele Bertolini Bibliografia • “Canadian dayring” sul sito del Museo Agricolo del Canada, http://www.agriculture.technomuses.ca/english/collections_research/index.cfm • DEVIS A.F., “Postcards from Vermont. A social history”, pag. 55 • Vermont Dairyman Association, annuari • Richiesta di Brevetto da parte di W. Cooley sul sito http://www.google. com/patents?vid=USPAT187516 Nota A pagina 114 panetto di burro (photo © it.lifestyle.yahoo.com).
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Cucina astratta o creativa? di Angelo Valentini
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hiedo venia ai lettori della mia rubrica se oso paragonare la cucina all’arte pittorica. Certe cucine di oggi vogliono strafare, senza avere però la conoscenza e le basi per fare ricerca. Solo ai grandi chef, infatti, è concessa la libertà di sperimentare, come Pablo Picasso che, prima di imboccare la via dell’astrattismo, dimostrò la perfetta padronanza del figurativo. Un carissimo amico, considerato uno dei più grandi chef a livello mondiale, non ha mai ceduto alla tentazione di fare piatti astratti senza contenuti e non c’è gourmet al mondo che non lo ricordi con nostalgia. ANGELO PARACUCCHI nasce a Cannara, in Umbria, il 21 marzo 1929 da una famiglia di agricoltori possidenti. Il suo paese di origine è noto nella storia sacra poiché secondo la tradizione, a Piandarca, nei pressi di Cannara, ebbe luogo la famosa predica agli uccelli di San Francesco. La scena del miracolo è raffigurata nella navata centrale della Basilica superiore di Assisi, capolavoro di Giotto che realizzò superbamente le scene della vita del Santo. Del Cantico delle Creature francescano, altissimo inno al Signore per aver creato il mondo, manifestazione concreta della Sua bontà e del Suo amore, Angelo Paracucchi aveva sposato, facendone una filosofia di vita, la terzina che recita: “Laudato si’, mi Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.”. La grande cucina parte dalle materie prime, dalle cose genuine del creato, che lo chef trasforma in prelibatezze senza violentarle nei loro intrinseci sapori. Paracucchi non trascurava questo aspetto: rammento i racconti delle sue sveglie all’alba per
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recarsi al mercato e acquistare direttamente dagli ortolani, l’appuntamento con i pescatori di ritorno dalle pesche notturne. Certo al mondo i cuochi sono tanti, ma pochi sono gli “eletti”. Angelo la cucina l’aveva nel suo DNA, era vocato, aveva il cosiddetto physique du rôle, insuperabile, ad esempio, nel cucinare al tavolo dei clienti “alla lampada” (una fiamma da sala disegnata e prodotta da Alessi su idea del maestro). La cucina fra creatività e tradizione Angelo Paracucchi Si diploma in Agraria per poi passare all’Istituto Alberghiero di Spoleto dove si distingue per la sua passione nell’arte culinaria. Una volta diplomato, dopo aver fatto
esperienze in diverse case signorili, l’Istituto gli affida la docenza. Inizia contemporaneamente la sua attività all’Hotel dei Duchi di Spoleto, città del Festival dei due mondi, richiamando al suo desco personaggi famosi presenti alla rassegna. In seguito, rimane alcuni anni alla direzione di un villaggio turistico nel Gargano, Pugnochiuso, ma la notorietà arriva con il trasferimento al nord, al Motel dell’Agip di Sarzana, in provincia di La Spezia. La sua fama e quella della sua cucina si espande a macchia d’olio, tra Lombardia, Toscana, Liguria, Emilia, tanto che molti uomini d’affari dovendosi recare al sud preferivano fare un tragitto più lungo pur di be-
Angelo Paracucchi è stato uno dei padri fondatori della cucina creativa italiana; ha segnato profondamente la storia della cucina del nostro Paese, soprattutto negli anni bui (1970-80), quando l’arte della cucina aveva perso di considerazione e prestigio nella società. Lo chef umbro aprì nel 1975, ad Ameglia, La Spezia, la Locanda dell'Angelo, che il figlio Stefano conduce ancora oggi (in foto uno dei piatti proposti). Il comune di Cannara che gli ha dato i natali gli ha dedicato qualche anno fa una via. Paracucchi adorava l’olio extra vergine e le cotture brevi del pesce. Suo il trancio di orata al vino rosso, una provocazione di estremo successo. Per chi volesse cimentarsi nel rifare piatti paracucchiani suggeriamo il suo libro intitolato “La cucina fra creatività e tradizione”, Editore Sperling & Kupfer, 2003.
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neficiare di una sosta gastronomica che li appagasse. Angelo, come tutti gli artisti, è un’anima inquieta. Anela a mettersi in proprio, libero dai vincoli e dai regolamenti che gli impone la struttura in cui lavora. Acquista perciò un terreno non lontano dal Motel, ad Ameglia, dove realizza finalmente il suo sogno, affidandosi all’architetto e designer italiano Vico Magistretti. Nasce allora la tanto agognata Locanda dell’Angelo, ristorante e albergo vicinissimo al mare, contornato da un boschetto di ulivi ed un viale di tamerici, che nascondono la bella piscina in marmo bianco della vicina Carrara. La cucina e la notorietà di Paracucchi varcano i confini d’Italia ed è la volta di Parigi dove approda nel 1983 per dirigere il ristorante Il carpaccio, all’interno dell’Hotel Royal Monceau, in avenue Hoche. Angelo non ha tregua, è lo chef del momento, è colui che ha sfidato la grande e finora incontrastata cucina francese. I giapponesi non perdono l’occasione, gli fanno proposte allettanti ed Angelo accetta di aprire una locanda ad Osaka. Un impegno gravoso, svolto sempre con grande passione. Nel contempo è ambasciatore nella terra del Sol Levante di molti prodotti di eccellenza italiani, facendoli conoscere ed apprezzare da quel mondo ricco di antichissime tradizioni. Sempre in Oriente, in occasione delle Olimpiadi a Seul del 1988, gestisce la cucina per gli atleti azzurri. Tutta la vita di Angelo è stata costellata di successi, di fatiche, l’uomo dall’aereo facile. Gli sono stato sempre vicino, seguendolo in ogni dove. Ora riposa a Trevi, città della moglie Francesca, valida spalla di Angelo. Lo immagino intento a preparare per Santi e Beati piatti fuori dalla nostra terrena immaginazione. Una cosa di cui sono orgoglioso è quella di essere riuscito con caparbietà e la collaborazione del comune di Cannara a fargli intitolare una via, quale “Maestro della cucina italiana”. Auspico che su altre piazze e vie d’Italia siano ricordati anche gli eroi dei fornelli, servirebbe a celebrare il tanto declamato ma poco sostenuto made in Italy. Angelo Valentini
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Libri
Grandi salumi del Gambero Rosso Prima edizione della guida dedicata ai migliori produttori italiani di salumi. L’eccellenza premiata con le 3 fette di salame
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rima edizione della pubblicazione che Gambero Rosso dedica alle specialità di carni conservate. 253 aziende per 600 salumi corredati di analisi organolettica, scelti nel settore di nicchia e frutto di oltre mille degustazione alla cieca. 29 eccellenze che fotografano la produzione salumiera nazionale di altissimo livello e 8 premi speciali dedicati agli insaccati senza additivi e conservanti, ai quelli biologici, a quelli di filiera e al miglior rapporto qualità/prezzo. Non solo derivati del maiale, la fonte principale dei salumi, ma anche di bovino, pecora, capra, oca, bufala, selvaggina, tacchino e cavallo. La guida dei salumi del Gambero Rosso ha voluto dare voce a questa grande varietà di materia prima, cercando anche prodotti poco conosciuti, selezionando aziende grandi e realtà norcine piccole presenti sul mercato nel proprio territorio. Le degustazioni sono state effettuate alla cieca alla Città del gusto di Roma nell’arco di 6 mesi, nel corso dei quali sono stati presi in esame oltre mille insaccati e sono stati coinvolti degustatori esperti, maestri assaggiatori di salumi, chef, sommelier, specialisti del settore, selezionatori e titolari di negozi di specialità alimentari. Ricorrendo all’analisi sensoriale, i prodotti sono stati analizzati con tutti e cinque i sensi: vista, udito, olfatto, gusto e tatto. Per fare questo si usano delle metodiche standardizzate, protocolli e procedure ben precise che consentono risultati oggettivi, ripetibili e riproducibili. A seconda del grado di piacevolezza ai salumi sono state assegnate da 1 a 3 “fette di salame”, più l’Eccellenza conferita ai salumi capaci di emozionare. Ogni regione è corredata da una breve introduzione con l’elenco delle relative certificazioni DOP e IGP e i migliori negozi specializzati. Inoltre, in ciascuna scheda dell'azienda sono contenute informazioni sugli spacci di vendita, tipo di carne impiegata, tipo di distribuzione ed eventuale uso di suini rustici. Inoltre gli abbinamenti con il vino giusto e una mini-guida all’analisi sensoriale. La regione con il maggior numero di prodotti premiati con le 3 fette di salame è l’Emilia Romagna con 31 segnalazioni, seguita dalla Toscana con 11 e dal Friuli Venezia Giulia con 10. L’Emilia Romagna è la prima regione anche tra le Eccellenze con ben 9 premiati, seguita dal Friuli Venezia Giulia con 5. >> Link: www.gamberorosso.it
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Grandi salumi Gambero Rosso – 336 pp. – € 11,90
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100 ragù d’autore
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alsa o condimento a base di ingredienti sminuzzati per solleticare o eccitare l’appetito quando è mortificato”. Così si legge sull’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert alla voce Ragoût. Ma tutto ciò non basta: che sia di carne, di pesce o di verdure, l’ingrediente determinante è lo spirito con cui viene preparato. Seguendo questa filosofia, Maria Benassati ha raccolto 100 ricette donate da amici e personaggi non solo del mondo gastronomico, ma anche dell’arte, della moda, della musica. Alcune sono ricche di ingredienti, altre ne prevedono pochi, tutte sono assolutamente da provare. Vittorio Sgarbi, Barbara Alberti, Allan Bay, Massimo
Bottura, Ernst Knam raccontano, ognuno con il proprio stile, come preparano i loro ragù, da gustare rigorosamente con la massima libertà di abbinamento. L’autrice Maria Benassati, modenese, è cresciuta in una famiglia di grandi industriali del Novecento (il nonno fondò la Società Internazionale Olearia). Fotografa e appassionata di arti visive, ha lavorato per alcuni anni con Vittorio Sgarbi e ha aperto a Modena una galleria d’arte. Ha sostenuto il Festival di Spoleto e l’Accademia di Santa Cecilia perché crede che la musica unisca gli animi quasi quanto un piatto di tagliatelle al ragù.
MARIA BENASSATI 100 ragù d’autore Vezzi privati e pubblici ragù Sapori e fantasia, Gribaudo Ed., 2013 160 pp. – € 16,00
propria storia, ma anche l’amore per il proprio mestiere. La guida descrive il territorio attraverso i suoi sapori, le DOP e le sue IGP, come il Formai de Mut e la Bresaola di Valtellina. È un repertorio di prodotti che suona come una sinfonia, dedicato a chi ama la buona cucina, il tipico e le eccellenze: il Glossario dei Sapori. Tra gli 85 ristoranti di questa prima edizione della Lombardia troviamo Cracco, Dal Pescatore, Berton, Pisacco, Trussardi alla Scala, Sadler, Innocenti Evasioni e anche il Ristorante Macelleria Motta e l’Ambasciata. Il progetto editoriale non si limita solo al prodotto cartaceo. L’anima di Ristoranti & Delicatessen è anche (molto) social, con una forte presenza su Facebook, Instagram, Foursquare e Foodspotting. Attraverso questi canali gli chef della Guida possono mantenere un contatto diretto con i propri fans e follower, segnalare eventi e novità e pubblicare ricette.
Ristoranti & Delicatessen Lombardia La guida 2014-2015 Smarti Editrice 242 pp. – € 13,50 www.smarticomunicazione.com
Risto & Deli
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istoranti & Delicatessen” è il progetto editoriale di Smarti Editrice per la valorizzazione della ristorazione di qualità, delle tipicità e delle eccellenze della Lombardia. Una guida di pregio dedicata ai ristoranti, al territorio e ai suoi sapori, con repertorio fotografico unico e qualità di contenuti. Segnala i migliori ristoratori, dedicando due pagine illustrate; fotografa e, attraverso giornalisti, ne racconta la storia, la filosofia, le peculiarità, la selezione delle etichette e, naturalmente, i sapori e i profumi della cucina. Ristoranti & Delicatessen è un viaggio lungo le strade della buona ristorazione, luoghi di gusto in cui si valorizzano le risorse locali e le tradizioni: i migliori ristoranti della Lombardia che presentano come comune denominatore l’attenta ricerca delle materie prime e la legge della stagionalità e che portano in tavola, con la cortesia degli ospiti, non solo la
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È l’ambizioso titolo dell’ultimo libro del fondatore di Slow Food
“Cibo e libertà” “Il cibo potrà renderci liberi se tornerà a essere il nostro cibo, in tutti i modi esistenti e immaginabili, secondo le diverse culture e inclinazioni. Perché cibo è libertà”
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quattro anni da “Terra Madre. Come non farci mangiare dal cibo” (Giunti/Slow Food Editore, 2009), CARLO PETRINI riassume così il suo ultimo libro dal titolo ambizioso: “Cibo e libertà. Slow Food: storie di gastronomia per la liberazione”. La “gastronomia per la liberazione” che Petrini ha voluto già in copertina deve essere in prima linea nel movimento per il diritto al cibo, il diritto all’acqua e alla salvaguardia della biodiversità. «La nostra meta comune è la liberazione dai gioghi, l’uscita dalle gabbie più scandalose: le disuguaglianze, le oppressioni, gli scempi che si perpetrano sull’ambiente e sulle persone» afferma il fondatore e presidente internazionale di Slow
Food. Difendere la biodiversità, rafforzare la rete di Slow Food e Terra Madre, rendere le comunità africane protagoniste attive delle politiche del continente, combattere la fame nel mondo. La più vasta associazione mondiale impegnata nella scienza gastronomica esemplifica così i suoi prossimi obiettivi. Un programma troppo ambizioso, una nuova utopia? Parlando di “gastronomia per la liberazione”, Carlo Petrini non vola affatto troppo alto, al contrario tiene i piedi più che mai per terra: con i successi già raggiunti in molti luoghi del mondo, spesso fra i più colpiti dalla speculazione agroindustriale e dall’impoverimento, Slow Food e la rete di Terra Madre stanno influenzando anche le grandi agenzie della governance mondiale. Un impegno che Petrini ripercorre attraverso le molte storie che valorizzano il lavoro dei piccoli contadini, le produzioni tradizionali, l’educazione alla qualità del cibo sotto la bandiera del “buono, pulito e giusto” e che sfocia nel programma della “gastronomia liberata”, lungo la
CARLO PETRINI Cibo e libertà Slow Food: storie di gastronomia per la liberazione Giunti Editore/Slow Food Editore 192 pp. – € 12,00 strada necessaria per riconciliare gli esseri umani alla Terra e affrancarli dalla piaga della fame e dalla vergogna della malnutrizione.
Carlo Petrini, nato a Bra (CN) nel 1949, ha al suo attivo studi di sociologia e un costante impegno nella politica e nell’associazionismo. Negli anni Ottanta fonda Arcigola, divenuta nel 1989 Slow Food, di cui è tuttora presidente internazionale. Tra le tante altre attività di Slow Food, ha ideato il Salone Internazionale del Gusto di Torino, la rete di Terra Madre e l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Nel 2004 la rivista TIME MAGAZINE gli attribuisce il titolo di Eroe Europeo del nostro tempo nella categoria Innovator. Nel gennaio 2008 compare, unico italiano, tra le “50 persone che potrebbero salvare il mondo”, elenco redatto dal quotidiano inglese THE GUARDIAN, mentre nel settembre 2013 gli viene conferito dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) il premio Campione della Terra, “per aver reso più efficienti e più sostenibili l’alimentazione e l’offerta di cibo in numerosi paesi del mondo”. Editorialista de LA REPUBBLICA e collaboratore del gruppo editoriale L’ESPRESSO, ha pubblicato l’Atlante delle grandi vigne di Langa (Arcigola Slow Food 1990), Le ragioni del gusto (Laterza 2001), Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia (Einaudi 2005) e Terra Madre. Come non farci mangiare dal cibo (Giunti/Slow Food Editore 2009).
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Il profumo della tradizione, il gusto della qualitĂ .
Bacio della Luna Spumanti s.r.l. Via Rovede, 36 31020 Colbertaldo di Vidor TREVISO info@baciodellaluna.it www.baciodellaluna.it Premiata Salumeria Valdobbiadene Pinot Italiana, 1/14 Prosecco Superiore DOCG Millesimato
Vino Spumante Extra Dry Rosè
Prosecco DOC Vino Spumante Extra Dry
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