Premiata Salumeria Italiana 1-2015

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Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXVII N. 1 Gennaio-Febbraio 2015

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N. 1 Anno XXVII Gennaio-Febbraio 2015

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Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Renato Bergonzini – Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni – Alessandra Rotondi P.O. Box 569, New York, NY 10101-0569 Tel./Fax +1 212 956 8566 E-mail: stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Carlo Cantoni (Milano) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia) Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CS5.5. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CS5.1.

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N. 1

In questo numero: Immagini

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Agenda

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Lettere alla Redazione

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Expo 2015

Cibus è Italia: ecco il padiglione Expo Federalimentare

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Commissione europea

Comunicazione al consumatore: cosa dire e cosa no

Sebastiano Corona

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Il food in rete

Social food

Elena Benedetti

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Tendenze

Stampanti 3D in cucina

Giovanni Ballarini

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Aziende

Scherzerino, bontà salumiere lungo la via Appia

Massimiliano Rella

Caseificio Il Fiorino, formaggi artigianali di Maremma

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I gioielli di famiglia

Elena Benedetti

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Salame Felino Igp Monpiù: è l’aria pura di montagna che lo fa più buono

Gaia Borghi

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Dal 1975 i valori della famiglia Bergamaschi diventano eccellenti salumi

Riccardo Lagorio

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Dop e Igp: non è tutto oro quello che luccica

Sebastiano Corona

50

Denominazioni europee: presente, futuro…

Paolo De Castro

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Interviste

Cina: rischi ed opportunità del più grande mercato al mondo

Sebastiano Corona

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Prodotti tipici

Cotta o cruda è sempre mortadella di fegato di maiale

Nunzia Manicardi

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Dalla formula “ora et labora” alla goletta piacentina

Josette Baverez Blanco 64

Fabriano e il salame di Garibaldi

Riccardo Lagorio

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Pendola, tradizione veneta verso l’oblio

Giorgio Montanari

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Mercati

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Premiate Salumerie Italiane

Vecchia Latteria di Codemondo, qui piacere è un sostantivo

Fabio Butturi

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Sapori mediterranei

Sacro alloro

Clara Scaglioni

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Rassegne

Il più grande Superzampone di sempre

Elena Benedetti

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Fiere

Carrù, la Piemontese in festa con il Bue grasso

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Marca: cresce l’interesse dei grandi retailer nel più importante appuntamento italiano per la MDD

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Vino

Bollicine al… Bacio

Elena Benedetti

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I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione con salame Felino: quale vino?

Laura Franchini

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Formaggio

Israele e l’antica arte di fare il formaggio

Raffaele Bertolini

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Piacentinu ennese, il pecorino con lo zafferano

Nunzia Manicardi

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Dolci

Fritti e colorati, sono i dolci di Carnevale

Josette Baverez Blanco 106

Tecnologie

Innovazione tecnologica al servizio di qualità e tradizione: così nasce la collaborazione tra G. Pfitscher e CSB-System

Arti e mestieri

Antonio Romano, identità e design made in Italy

Angelo Valentini

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Storia e cultura

Storia, preistoria e leggende della pizza

Giovanni Ballarini

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Libri

Ristoranti & Delicatessen Emilia Romagna, sempre più interattiva e social

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116

Amerigo 1934, ottant’anni straordinari In Italia con Massimo Bottura

117 Clara Scaglioni

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In copertina: Prosciutto di Parma Dop (photo © Massimiliano Rella).

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Immagini

A Itri, Latina, Scherzerino La Rocca porta avanti l’attivitĂ avviata dal nonno nel 1953. Scherzerino vende ottime carni di bovini e suini allevati allo stato semibrado e alimentati naturalmente e, ovviamente, salumi, come il capocollo che vedete in foto. Ce ne parla Massimiliano Rella a pagina 36 (photo Š Massimiliano Rella).

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Agenda Milano Vi appassiona la cucina d’autore? Allora non potete mancare all’appuntamento di Identità Golose – Identità Milano, al MiCo di Milano, dall’8 al 10 febbraio. L’undicesima edizione del congresso celebrerà “Una sana intelligenza”. «Il mondo del piccante e quello del dessert, le Identità di pasta e le Identità di pane che si riflettono in quelle di pizza perché la seconda è la logica evoluzione della prima. E ancora il mondo della cucina naturale, che spesso è sinonimo di cultura vegetariana e vegana. Ma noi di Identità Golose andiamo oltre e non ci scordiamo di essere onnivori. Con questo intendiamo dire che la qualità assoluta di un pasto va oltre la contrapposizione tra chi rifiuta ogni ingrediente di origine animale e chi mangia pesce e carne (e verdure in pratica sovente come contorno tanto per colorare il piatto). L’onnivoro autentico rispetta tutto e tutti e inizia il suo pasto informandosi sull’origine dei prodotti, sulla loro naturalità»: così scrive Paolo Marchi, ideatore e curatore dell’evento (a sinistra, rognone cotto sul sale, salsa alla china e bacche di goji firmato da Carlo Cracco nell’edizione 2014; photo © Brambilla-Serrani per Identità Golose). www.identitagolose.it Firenze Taste, il salone dedicato alle eccellenze del gusto e del food lifestyle, è il salotto italiano del mangiare bene e stare bene, dove si danno appuntamento i migliori operatori internazionali dell’alta gastronomia, ma anche il sempre più vasto e appassionato pubblico dei foodies. L’edizione 2015 è in calendario dal 7 al 9 marzo, sempre all’interno della Stazione Leopolda di Firenze. Per scoprire piccoli grandi produttori artigianali del made in Italy agroalimentare, per andare a caccia di tendenze e per celebrare la cultura del cibo di qualità che quest’anno compie 10 anni. Ideato da Davide Paolini, Taste Firenze resta un appuntamento da non mancare (a lato, Renato Brancaleoni di Fossa dell’Abbondanza, eccelso stagionatore di formaggi a Roncofreddo, FC, espositore di Taste 2014; photo © Officine Fotografiche). www.pittimmagine.com Verona Il 2015 sarà un anno speciale per l’immagine del vino italiano nel mondo, con i riflettori accesi dell’Expo di Milano. Impegnata direttamente nella realizzazione del Padiglione “Vino – A taste of Italy” sull’esperienza vitivinicola italiana, Veronafiere ha riorganizzato e ampliato il suo calendario degli eventi dedicati al vino in Italia e all’estero, per renderli sinergici con il grande appuntamento milanese. Vinitaly si svolgerà dal 22 al 25 marzo, con un’anticipazione da aprile a marzo che ha fatto ripartire con maggiore impeto i lavori di preparazione dopo le festività natalizie. Le attività per l’organizzazione del più importante Salone internazionale del vino stanno procedendo rapidamente, come pure quelle per Sol&Agrifood ed Enolitech (www.solagrifood.com – www.enolitech. com) che si svolgono in contemporanea e per OperaWine (www.operawine.it), in programma il 21 marzo. Cambia anche la programmazione di Vinitaly and the City, il Fuori Salone serale di Vinitaly. L’evento, che si svolgerà per la prima volta all’aperto nelle piazze storiche della città di Verona, è in calendario dal 19 al 24 marzo: 6 giorni al posto dei 2 dello scorso anno, per dare ai winelovers e agli operatori in arrivo da tutto il mondo più tempo per scoprire il gusto e la qualità dell’enogastronomia italiana (photo © Ennevi Veronafiere). www.vinitaly.com

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Lettere alla Redazione Piadina Igp: realtà o sogno? Pubblichiamo di seguito il testo della e-mail ricevuta in Redazione a firma dell’avvocato Chiara Marinuzzi. “Lo storico riconoscimento della piadina romagnola potrebbe non essere realtà. I recenti provvedimenti normativi potrebbero infatti non resistere alla vicenda processuale che sta ancora caratterizzando il prodotto. A livello comunitario il riconoscimento della IGP Piadina romagnola è avvenuto con Reg. CE 1174/14 del 4 novembre scorso. Tuttavia, la procedura comunitaria si è chiusa, nonostante nel maggio 2014 il TAR Lazio avesse annullato il disciplinare di produzione, sostenendo che la reputazione della denominazione poteva essere riconosciuta unicamente al prodotto ottenuto a livello artigianale. Di fatto il regolamento comunitario ha dato attuazione ad un disciplinare dichiarato nullo e ancora sotto il vaglio del Consiglio di Stato. Il 17 dicembre scorso si è svolta l’udienza avanti a questo giudice che non ha sospeso la sentenza e si è riservato sulla decisione. Quindi oggi ci si chiede: vale la normativa comunitaria in corso? Quale sarà l’effetto della decisione del giudice? Le domande sono aperte e l’attesa della sentenza del supremo giudice amministrativo è fervida. Nel frattempo, l’azienda che aveva impugnato il disciplinare di produzione e i decreti di protezione transitoria emessi dalle autorità italiane ha deciso di impugnare anche il regolamento comunitario avanti alle autorità giudiziarie dell’Unione Europea. Si tratta di una situazione

Piadina romagnola con prosciutto crudo (photo © Claudia Annie Carone). giuridica molto complicata che di certo non garantisce agli operatori la possibilità di affrontare i mercati nazionali ed internazionali con serenità. Il rischio è che il susseguirsi di pronunce giurisprudenziali, magari in contrasto tra loro, possa creare danni imponendo ai protagonisti modifiche alle attività certo non facilmente gestibili verso i clienti e i consumatori. Probabilmente sarebbe stato

più cauto, da parte sia delle autorità nazionali che di quelle comunitarie, attendere le decisioni giudiziarie definitive, invece che far avanzare una procedura che ha portato all’adozione di provvedimenti normativi che poi potrebbero decadere, rendendo sempre più incerta la situazione”. Avv. Chiara Marinuzzi Studio legale Gaetano Forte Ferrara

Cambio alla presidenza di ASS.I.CA., arriva Nicola Levoni Lo scorso 15 dicembre, giunta e consiglio direttivo di ASS.I.CA. hanno designato Nicola Levoni, già presidente di Levoni Spa, nuovo presidente dell’associazione. Lisa Ferrarini ha infatti rassegnato le proprie dimissioni da presidente in ottemperanza alle regole di Confindustria sulle incompatibilità tra la vicepresidenza nazionale e le cariche nel sistema confederale. «Ringrazio Lisa Ferrarini per il lavoro svolto e per l’impegno profuso per il settore in questi quattro anni e i membri di Giunta e Consiglio per la mia designazione» ha dichiarato Levoni. «È un momento chiave per il nostro comparto. Nel 2015 ci aspettano sfide importanti come l’Expo e il rinnovo del Contratto nazionale di lavoro. A questo si aggiunge tutto quello che dovremo fare insieme per crescere, creare reddito e occupazione: aprire i mercati internazionali ai salumi e alle carni fresche, sostenere i consumi in Italia, recuperare redditività e affrontare le sfide delle nuove legislazioni nazionali ed europee, a partire dalla grande rivoluzione dell’etichettatura. Sono grandi temi che ASS.I.CA. affronterà con le istituzioni nazionali e comunitarie, dialogando con tutti gli anelli della filiera e i Consorzi di tutela: perché oggi il comparto cresce se lavora unito».

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Expo 2015

Cibus è Italia: ecco il padiglione Expo Federalimentare In uno spazio di 5.000 m2, i mille marchi del made in Italy alimentare accoglieranno milioni di visitatori e oltre 2.000 operatori professionali esteri. Per il ministro Maurizio Martina si parla di «qualità, varietà e sicurezza di un paesaggio produttivo unico al mondo». Un’occasione per sostenere l’export italiano con l’obiettivo di raddoppiarlo nei prossimi anni

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uecento aziende chiave del settore, con i loro 1.000 marchi, si racconteranno in Expo 2015 attraverso un padiglione di 5.000 m2. Un padiglione che attende non solo i milioni di visitatori dell’Esposizione Universale, ma anche oltre 2.000 operatori professionali da tutto il mondo, le cui

visite sono già pianificate, da maggio a ottobre del 2015. Questo il profilo di “Cibus è Italia”, il padiglione dell’industria alimentare italiana ad Expo 2015 presentato nei giorni scorsi al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali a Roma. Il padiglione è collocato di fronte all’ingresso est di Expo, a pochi

Il Padiglione “Cibus è Italia – Il padiglione Expo Federalimentare” (photo © Ufficio stampa Federalimentare).

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metri dal parcheggio pertinenziale dell’Esposizione, dove arriveranno taxi e navette, di fronte al Parco della Biodiversità, sul viale che porta al vicino Padiglione Italia. È una delle strutture più grandi dell’Esposizione e si sviluppa su due piani espositivi più una terrazza per incontri ed eventi. Il padiglione è stato realizzato da Federalimentare (l’associazione confindustriale composta da oltre 6.000 imprese alimentari) e da Fiere di Parma, con il decisivo contributo del Ministero delle Politiche Agricole. L’obiettivo è quello di presentare al mondo il nostro straordinario paesaggio produttivo: la storia, la tradizione, il saper fare e la bontà dei prodotti alimentari italiani, il rapporto virtuoso tra le imprese — di qualsiasi dimensione — e i loro territori. Per sei mesi i visitatori potranno fruire di un meraviglioso percorso di edutainment che li accompagnerà “dentro” i prodotti italiani più amati e celebri per conoscere la loro storia e i segreti della loro qualità. Contemporaneamente, grazie alla regia di ICE e al know how di Cibus, migliaia di operatori internazionali potranno terminare questo percorso, iniziato nel padiglione, sulla terrazza riservata al business matching con le aziende e quindi nei territori dove saranno ospitati dopo la visita ad Expo. Al padiglione si affiancherà anche una piattaforma on-line, sviluppata in collaborazione con eBay, per consentire ai visitatori di acquistare i prodotti esposti durante e dopo Expo. Parte il progetto per raddoppiare il nostro export agroalimentare Il peso delle esportazioni sul fatturato dell’alimentare è quasi raddoppiato in dieci anni, passando dal 13% del 2003 al 20% del 2013, per un valore di 33 miliardi di euro, compensando in parte l’effetto della recessione costante dei consumi interni (–14 punti dal 2007, –3% solo nel 2013). Il grande padiglione collettivo corporate“Cibus è Italia – Il padiglione Expo Federalimentare” sarà un punto di riferimento qualificato e corale in una Esposizione Universale che, per la prima volta, tocca il tema della nutrizione del pianeta, raggiungendo un livello d’attenzione mai conseguito

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Particolare del Padiglione (photo © Ufficio stampa Federalimentare). prima: 144 paesi espositori, un record assoluto, 20 milioni di visitatori attesi (12 milioni dall’Italia, 6 milioni dall’estero, rispettivamente 3 milioni dall’Europa e 3 milioni dagli altri continenti, un milione dai soli Stati Uniti d’America). «Ad Expo vogliamo rappresentare la grandezza del patrimonio agroalimentare italiano che vanta una storia, una qualità e una ricchezza straordinarie, frutto anche del profondo legame con i territori di tutto il Paese» ha dichiarato il ministro MAURIZIO MARTINA presentando l’iniziativa. «Il nostro obiettivo è quello di portare all’attenzione di tutto il mondo, per l’intera durata dell’Esposizione, la forza del made in Italy e la sua unicità, così da conquistare ancora maggiori spazi all’estero, sfruttando l’enorme potenziale che abbiamo ancora da esprimere». L’impegno di Federalimentare è stato illustrato dal presidente FILIPPO FERRUA. «Un investimento di 10 milioni di euro fatto per le aziende e dalle aziende che credono in questa grande opportunità, che è prima di tutto partecipazione diretta al più grande evento globale sul food. Qui si presenteranno le più prestigiose produzioni industriali, che non sono solo prodotti, ma sono anche storie di uomini e di idee che hanno dato alla tradizione domestica un respiro internazionale. Con il nostro Padiglione

Corporate, Federalimentare porta concretamente le imprese italiane all’interno di Expo per divulgare la loro immagine nel mondo e sviluppare il loro business sui mercati esteri». «Con Federalimentare e Fiere di Parma — ha dichiarato RICCARDO MONTI, presidente dell’ICE, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane — abbiamo impostato un programma di incoming ad Expo che prevede la selezione e invito di top retailer della distribuzione organizzata e di importatori e distributori di primario rilievo con l’obiettivo di promuovere il comparto agroalimentare e contribuire a valorizzare l’industria alimentare italiana, i prodotti e i marchi. Le delegazioni avranno esclusivamente un taglio business e le missioni saranno distribuite lungo l’arco di svolgimento dell’Expo, da maggio a ottobre 2015. Ciascuna missione prevede un format di base, adattabile a seconda dei casi e delle esigenze: visita al Padiglione “Cibus è Italia – Il padiglione Expo Federalimentare”, al Padiglione Italia e al rispettivo Padiglione Nazionale nonché organizzazione di workshop e B2B. Il piano di attività dell’ICE si integrerà con altri programmi gestiti dalla nostra Agenzia all’Expo e in particolare i progetti Federbio e Confagricoltura, i

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programmi “Expo is now” e “ExportRT / Confartigianato” e il progetto in collaborazione con l’ANIE, per un investimento complessivo di circa 2.600.000 euro». Il padiglione “Cibus è Italia – Il padiglione Expo Federalimentare” è suddiviso in 15 zone tematiche rappresentative delle filiere e delle eccellenze italiane: Latte e Formaggi, Filiera della carne bovina, Riso, Pasta, Dolci & Snack, Pomodoro e Vegetali, Design&Comunicazione, Carni suine e Salumi, Aceti e condimenti, Olio, Tecnologie di produzione sostenibili, Bere italiano, Filiera avicola, Nutraceutica, Territori. Ad esse si aggiungerà la presenza di altri anelli della catena del valore alimentare made in Italy, come l’eccellenza meccano-agricola rappresentata nell’area FederUnacoma (la Federazione Nazionale Costruttori Macchine per l’Agricoltura). La scenografia prevede macroarchitetture organiche, che suddivideranno lo spazio, creando i percorsi di

visita e aree integrate sul piano visivo e tassonomico, dove il visitatore sarà immerso grazie alle tecniche di proiezione interattive e 3D live. I contenuti saranno costruiti insieme a ciascuna azienda, che racconterà la propria storia e il proprio saper fare, i propri prodotti e le loro peculiarità. Sarà un viaggio ipermediale nel paesaggio produttivo italiano dove i visitatori, semplici consumatori o operatori professionali, capiranno perché, grazie ad imprenditori orgogliosi della loro tradizione, il nostro Paese è diventato la patria della qualità tutelata e senza compromessi ovvero dei DOP, DOCG, IGP, STG, BIO, nonché di brand molto reputati in tutto il mondo. La terrazza è pensata come lounge per i business meeting degli espositori e come spazio per eventi organizzati dalle aziende di Federalimentare, riservato ad un pubblico professionale. All’esterno sono previsti punti di degustazione dislocati sull’area perimetrale del padiglione. Il design esterno sarà caratterizzato da una

installazione-performance di forte impatto pensata da FELICE LIMOSANI e all’interno il layout sarà curato dal FRANCO COSTA; non mancherà neppure una provocazione di uno dei più importanti artisti italiani. Sugli obiettivi di Expo 2015 e del padiglione dell’alimentare made in Italy è intervenuto anche il vicepresidente di Federalimentare, con delega a Expo, PAOLO ZANETTI. «Questa iniziativa serve anche a ridare all’Italia la giusta leadership che le spetta in Europa in campo alimentare, colmando il gap che da troppo tempo ci distanzia dai principali concorrenti come Francia e Germania, mirando a raddoppiare sul passo lungo il valore delle nostre esportazioni. Ed è anche un’occasione unica per denunciare contraffazioni ed Italian sounding, e lanciare un appello e un confronto sull’abolizione delle barriere non tariffarie». (Federalimentare) >> Link: www.federalimentare4expo.it

Pasta: istituita “Cabina di regia” per promuovere e sostenere la filiera Il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali rende noto che è stata istituita la “Cabina di regia sulla pasta”, grazie ad un apposito decreto firmato dal ministro Maurizio Martina e dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. In particolare, la Cabina di regia ha tra le sue principali finalità: • promuovere e sostenere la competitività dell’intera filiera, dalla produzione primaria del frumento fino alla trasformazione industriale della pasta attraverso l’incentivazione, lo stimolo e il supporto ad accordi di filiera tra coltivatori di grano e produttori di pasta per il sostegno alle coltivazioni di grano duro di qualità; • favorire i processi di aggregazione dell’offerta della materia prima; • individuare percorsi di valorizzazione e di incentivazione di frumento duro di qualità; • individuare strategie di attrazione dei fondi comunitari destinati al settore nella programmazione 2014-2020 e di ulteriori fondi nazionali e comunitari per iniziative promozionali a supporto della produzione e dell’esportazione; • incentivare l’investimento in innovazione e ricerca nell’intera filiera produttiva. «Abbiamo voluto fortemente questa azione in sinergia con il Ministero dello Sviluppo economico — ha commentato Martina — per andare incontro alle esigenze di un settore simbolo del made in Italy come la pasta. Siamo leader mondiali con una produzione annua da 3,4 milioni di tonnellate, un fatturato di più di 4,6 miliardi di euro con oltre 7.500 addetti impiegati. Negli ultimi dieci anni il trend delle esportazioni ha registrato tassi di crescita importanti, arrivando a 2 miliardi di euro. Con la Cabina di regia potremo supportare meglio le aziende sul fronte dell’export, organizzare una promozione integrata in ambito Expo e favorire una migliore distribuzione del valore lungo la filiera». La Cabina di regia sulla pasta, composta da rappresentanti del MIPAAF e del MISE, riserva infatti un’attenzione specifica anche al tema dell’Esposizione Universale di Milano. «L’Italia è il primo produttore europeo anche di grano duro e proprio per questo — prosegue Martina — abbiamo inserito questa coltura tra quelle a cui destinare parte degli oltre 146 milioni di euro annui che abbiamo stanziato per il piano seminativi all’interno delle risorse relative agli aiuti accoppiati». Le attività della Cabina di regia saranno svolte attraverso l’istituzione di gruppi di lavoro tematici, formati da rappresentanti delle principali associazioni industriali di settore e delle organizzazioni professionali e delle cooperative. (Ufficio Stampa MIPAAF)

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20 Premiata Salumeria Italiana,–1/15 Salumi¿ cio Ferrari Erio & C. S.p.a. – Via Canaletto Nord, 565/A – 41122 MODENA ITALY Tel. +39 059 310015 – Fax +39 059 450251 – E-mail: info@salumiferrari.it


Commissione europea

Comunicazione al consumatore: cosa dire e cosa no Regolamenti europei, decreti, codici: norme di più generi disciplinano oggi i contenuti delle etichette alimentari e di qualunque altra forma di pubblicità di un cibo. L’attenzione resta al massimo di Sebastiano Corona

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are facile, ma non lo è per niente. Predisporre i contenuti di un’etichetta alimentare sta diventando ogni giorno più complicato. Non si deve tenere conto solo delle indicazioni obbligatorie, ma anche del fatto che

quelle facoltative devono avere determinate caratteristiche e devono stare entro un certo perimetro individuato dalla normativa di riferimento. Non è finita qui. Superata la parte descrittiva del prodotto, ci si imbatte in quella illustrativa dove disegni, loghi, richia-

mi grafici e colori non sono ammessi senza limite alcuno. La bussola al momento è data dal Decreto Legislativo 109/1992 e dalle successive modifiche ed integrazioni, ma a fine anno è entrato in vigore il Regolamento UE 1169/2012, rifor-

Alla fine del 2014 è entrato in vigore il Regolamento UE 1169/2012. Alla base, l’assunto secondo cui l’etichettatura del prodotto alimentare deve assicurare la corretta informazione al consumatore e non indurlo in errore (photo © Antonio Diaz, mangiarebuono.it).

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Spesso alla denominazione di un prodotto si affiancano aggettivi per renderlo più accattivante, ad esempio “pasta casereccia” o “pasta lavorata a mano” o, ancora, “pane tipico”. Per una corretta etichettatura è bene non inserire termini che possano alimentare interpretazioni ambigue (photo © www.ilmangiaweb.it). mando completamente la materia, sebbene la legislazione italiana contenga da tempo molte delle recenti prescrizioni di Bruxelles. La norma nazionale parte dall’assunto secondo cui l’etichettatura del prodotto alimentare debba assicurare la corretta e trasparente informazione al consumatore e — soprattutto — non debba indurre in errore l’acquirente sulle sue caratteristiche. Per caratteristiche del prodotto si intende in particolare la sua natura, la sua identità, la qualità, la composizione, la quantità, la conservazione, l’origine o la provenienza, ma anche le modalità di fabbricazione o di ottenimento del cibo stesso. Questo significa altresì che nell’etichetta non devono essere attribuiti all’alimento effetti o proprietà che non possiede o proprietà atte a prevenire, curare o guarire una patologia. Né l’etichetta deve accennare a tali proprietà, fatte salve le disposizioni comunitarie relative alle acque minerali ed ai prodotti alimentari destinati ad un’alimentazione particolare. Quanto elencato deve considerarsi un principio generale; resta inteso

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che maggiori specifiche sono previste sia nel Decreto 109 sia da ulteriori norme che sono sottoposte ad una disciplina propria. Inoltre, l’etichettatura non deve “suggerire che il prodotto alimentare possieda caratteristiche particolari quando tutti i prodotti alimentari analoghi possiedono caratteristiche identiche”. Anche questo aspetto, infatti, potrebbe essere visto come un elemento atto ad indurre in errore l’acquirente. La denominazione del prodotto Il primo scoglio nel predisporre i contenuti di un’etichetta è la scelta del nome. La denominazione di vendita di un prodotto alimentare è

la denominazione prevista per tale prodotto dalle disposizioni europee ad esso applicabili. In mancanza, è quella prevista dalle disposizioni dell’ordinamento italiano. Essa non può essere sostituita da marchi di fabbrica o di commercio ovvero da denominazioni di fantasia. Con questi elementi si potrebbe andare sul sicuro, ma la tentazione di attribuire un aggettivo accattivante o anche solo identificativo di qualcosa di specifico può essere forte. È per questo che spesso ci troviamo di fronte a prodotti che al supermercato vengono presentati come “pasta casereccia” o “pasta lavorata a mano”, e ancora “pane tipico”, “dolce tradizionale”.

“L’aggettivo artigianale è spesso impiegato a sproposito o laddove non potrebbe essere utilizzato. Cosa significa infatti? Che è realizzato da un’impresa iscritta all’albo delle imprese artigiane? Che l’azienda produttrice, pur non iscritta, utilizza metodi di produzione e modalità di lavoro tipiche di un piccolo laboratorio? O che il prodotto è fatto come lo faceva nonna Maria nel secolo scorso?” Premiata Salumeria Italiana, 1/15


Le qualificazioni che si possono inventare con un po’ di creatività sono tante e hanno tutte lo scopo di rendere l’alimento più interessante agli occhi di chi lo acquista. Ma ad attribuire aggettivi a caso bisogna fare una grande attenzione. Il termine “casereccio” per esempio, o il “fatto in casa” che rievoca qualcosa di confezionato tra le mura domestiche e in quanto tale più buono, dovrebbe essere usato con una certa cautela. Questo appellativo, destinato a rievocare un prodotto preparato con la stessa cura che metterebbe una nonna che cucina per i propri nipotini, infatti, non può avere alcun riscontro nella realtà. Se produco il pane in un panificio regolarmente iscritto alla Camera di Commercio e soggetto alle autorizzazioni della ASL, quel pane non può essere casereccio. Di contro, se non producessi secondo le regole suddette sarei un perfetto abusivo e non potrei proporre proprio il mio pane al mercato. Quindi, l’utilizzo del termine va fatto in maniera particolarmente attenta e non nella denominazione di vendita. Si può aprire altresì un problema nel caso dell’impiego del termine “naturale” parola che mai, come in

“Il legislatore comunitario ha introdotto una serie di nuovi elementi come la tabella nutrizionale, il luogo di provenienza e le indicazioni degli allergeni, ma la disciplina a cui i produttori del Belpaese si sono dovuti adeguare negli ultimi decenni ha ampiamente anticipato il regolamento europeo che non prevede sostanziali novità” questo caso, significa tutto e niente. Ogni alimento è infatti sempre di origine animale o vegetale o entrambe le cose, per quante lavorazioni e manipolazioni esso possa subire. Pertanto, qualunque cibo si può teoricamente considerare naturale. Il termine quindi, oltre a non avere un intendimento comune preciso, può indurre in errore il consumatore, generando non pochi problemi al produttore, se usato impropriamente in etichetta. L’artigianale e il fatto a mano Anche l’aggettivo “artigianale” è spesso impiegato a sproposito o laddove non potrebbe essere utilizzato. Cosa significa infatti artigianale? Che è realizzato da un’impresa iscritta all’albo delle imprese artigiane? Che l’azienda produttrice, pur non

iscritta, utilizza metodi di produzione e modalità di lavoro tipiche di un piccolo laboratorio? O che il prodotto è fatto come lo faceva nonna Maria nel secolo scorso? In realtà, siccome non ci sono rilevabili differenze o differenze oggettive tra un prodotto realizzato in un laboratorio artigianale ed uno confezionato in uno stabilimento industriale, scrivere che un prodotto è artigianale può lasciar credere che abbia caratteristiche diverse e/o superiori a prodotti invece identici. Con l’uso dell’aggettivo, quindi, si attribuirebbero impropriamente al prodotto delle caratteristiche particolari, sebbene i prodotti alimentari analoghi come quelli realizzati in stabilimenti industriali e stabilimenti artigianali possiedano caratteristiche

Asciugatura salami senza aglio (photo © delizieitineranti.wordpress.com).

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intrinseche uguali poiché la differenza tra gli uni e gli altri è meramente legata a questioni dimensionali da ricondurre al numero dei dipendenti e ad altri fattori che nulla hanno a che vedere con la natura del processo produttivo e dell’effetto di tale processo sul prodotto. In sintesi, distinguere un prodotto artigianale da uno industriale potrebbe essere pressoché impossibile, tanto più che nella maggior parte dei casi modalità produttive e macchinari impiegati sono gli stessi. Il metodo utilizzato per la realizzazione del prodotto non si traduce infatti sempre in un più elevato livello delle caratteristiche nutrizionali, chimico-fisiche, organolettiche o igienico-sanitarie. Esiste, però, una possibilità per chi vuole mettere in evidenza il fatto che il prodotto sia realizzato in un piccolo laboratorio che presumibilmente non realizza in larga scala gli alimenti e che quindi — il condizionale è d’obbligo — potrebbe proporre un cibo di particolare qualità. La strada che potrebbe essere percorsa è quella di scrivere in etichetta accanto alla denominazione “prodotto in laboratorio artigianale” o “prodotto da azienda artigiana”. Purché ovviamente il requisito di iscrizione all’albo sussista realmente. La circolare del Ministero delle Attività Produttive n. 168 del 10 novembre 2003 conferma questa linea sottolineando che l’indicazione “produzione artigianale” non garantisce una qualità organolettica, nutritiva o sanitaria superiore. Pertanto — aggiungiamo noi — il riferimento non può essere utilizzato nella denominazione (es.: birra artigianale). La stessa circolare afferma inoltre che indicazioni come “lavorato a mano” possano essere utilizzate come garanzia sul metodo solamente se sia possibile dimostrare l’esecuzione manuale di tutte le fasi del processo produttivo e questo fatto, come sappiamo, è al giorno d’oggi più impossibile che improbabile. Se è vero che queste indicazioni vengono utilizzate soprattutto nella vendita del prodotto sfuso, è pur vero che anche la vendita diretta è soggetta alla norma e in quanto tale sanzionabile.

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Si vendono in tutto il mondo kit miracolosi che promettono di falsificare i più prestigiosi formaggi italiani ma anche per produrre vini come il Barolo o il Valpolicella. Un danno economico e di immagine per il made in Italy più volte denunciato dalla Coldiretti (photo © www.wine-square.it). Le norme applicabili Oltre alla normativa generale che risiede principalmente nel Decreto 109 e successive modifiche ed integrazioni, non va dimenticata la normativa specifica per certe categorie di prodotto per le quali sono previste ulteriori prescrizioni, ma anche le norme di tutela al consumatore come il Codice del consumo o gli articoli del Codice Penale sulla frode in commercio. Secondo quest’ultimo infatti, chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale, ovvero di uno spaccio aperto al pubblico, consegni all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita è perseguibile con sanzioni pesantissime che non escludono la carcerazione. Sebbene questi siano casi di maggiore gravità di un mero errore di descrizione in etichetta di un prodotto alimentare, è pur vero che la portata della norma non va sottovalutata. I produttori e i rivenditori di prodotti alimentari devono prestare particolare attenzione all’utilizzo in etichetta, sia nei prodotti preconfezionati che in quelli sfusi o venduti previo frazionamento, di menzioni tendenti a creare, per il prodotto stesso, un vantaggio commerciale richiamando nella mente dei consumatori l’idea di caratteristiche diverse da quelle di altri alimenti similari.

Prospettive in merito normativo Se la riforma della normativa in materia è attesa con l’applicazione del Reg. UE 1169/2012, si sappia che nessuno stravolgimento particolare è previsto per gli operatori italiani. Il legislatore comunitario ha introdotto una serie di nuovi elementi (tabella nutrizionale, luogo di provenienza, indicazioni degli allergeni), ma la disciplina a cui i produttori del Belpaese si sono dovuti adeguare negli ultimi decenni ha ampiamente anticipato il regolamento europeo che, per quanto ci riguarda, non prevede novità in termini di finalità e di principi generali. Alla luce delle norme appena entrate in vigore e delle leggi già applicate da tempo in Italia, verrebbe da dire che non solo gli operatori dovrebbero evitare le aggettivazioni improprie — specie quando si riferiscono a patologie o proprietà salutistiche dell’alimento — ma forse, al di là delle prescrizioni obbligatorie, dovrebbero scrivere in etichetta il meno possibile. Qualunque elemento, aggettivo, termine o illustrazione che non abbia infatti riscontro, anche scientifico, nella realtà, potrebbe essere messo in discussione e divenire oggetto di contestazione da parte degli organi competenti. Fare un’etichetta non è certo impossibile, ma oggi non è più roba per improvvisati o dilettanti. E non sono ammesse giustificazioni. Sebastiano Corona

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Crisi russa: l’import di carne italiana sceso da 56,9 a 9,7 milioni ma le tecnologie made in Italy per il settore coprono il 20% delle importazioni di Mosca L’import di carne italiana nella Federazione Russa è passato da 56,9 milioni di euro del 2013, in crescita del 7,71% rispetto all’anno precedente, a poco meno di 9,7 milioni di euro nel periodo gennaio-luglio 2014, con un crollo del 55,9% sullo stesso periodo del 2013. Tanto che l’Italia è scesa al 22o posto tra i Paesi annoverati da Mosca fra gli importatori. Nel periodo 2011-2013 il nostro Paese si collocava in 18a posizione. I dati, elaborati dall’ICE, sono la conseguenza delle tensioni fra Unione Europea e Russia, sfociati poi nelle sanzioni di Bruxelles e il conseguente embargo su alcuni settori dell’economia, fra cui anche le carni. Secondo ICE, inoltre, fra il 2011 e il 2013 la Russia rappresentava la 9a destinazione per l’export di carne italiana, mentre oggi è slittata al 17o posto. Le cifre sono state comunicate a Veronafiere dal segretario generale della Camera di Commercio italo-russa, LEONORA BARBIANI, nel corso dell’evento sui “Mercati e filiere delle carni all’estero” organizzato in vista della prossima edizione di Eurocarne, rassegna internazionale dedicata alla carne, in programma a Verona dal 10 al 13 maggio 2015. A livello europeo, da luglio ad agosto 2014 la fornitura di carni bovine è diminuita del 64%, scendendo da 4.600 tonnellate a 1.700, mentre il pollame ha registrato una flessione mensile del 65%, passando da 10.000 tonnellate a 2.600 (fonte: Meatinfo). «Rimangono elevate le opportunità di business per le macchine e le tecnologie legate alla lavorazione e trasformazione delle carni» afferma la Barbiani. «La Russia importa l’80% delle macchine dall’Europa e l’Italia rappresenta il 20% del volume totale importato, seconda soltanto alla Germania, leader del mercato con il 30%, e davanti ad Austria, Polonia, Danimarca e Olanda». Secondo il segretario generale Barbiani, «il recente accordo siglato da Cremonini con le Ferrovie russe per la ristorazione può rappresentare un traino per tutto il comparto delle carni, a partire dalle tecnologie». (Servizio Stampa Veronafiere, www.eurocarne.it)

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Il food in rete

Social di Elena

2. Il salame Felino è on-line

1. Quando la schiscetta si fa social

Prodotto nella provincia di Parma e tutelato da un Consorzio che ne certifica la tipicità e la denominazione geografica, il SALAME FELINO IGP è uno dei salumi più apprezzati e consumati in Italia e fuori confine. Per conoscere tutti i segreti del Disciplinare di produzione e per sapere quali sono i salumifici che aderiscono al Consorzio c’è il sito salamefelino.com. E per chi avesse voglia di fare una gita fuori porta c’è anche il Museo del Salame di Felino, presso il Castello di Felino, in Strada al Castello 1 (photo © Alessandro Gandolfi).

Dopo il successo del libro “Schiscetta Perfetta”, il progetto del food blogger milanese ALESSANDRO VANNICELLI è diventato un vero e proprio portale tematico, visitabile al link schisciando.com. Un progetto cresciuto in fretta, nato appena tre anni fa, quando, alla fine del 2012, Alessandro decide di fotografare le sue “schiscette” e di pubblicarle sul web, ogni giorno, per un anno. Le foto piacciono, i like aumentano rapidamente e nasce una vera e propria comunità di appassionati che passa da Tumblr (oltre 90.000 fan) a Facebook, fino a Instagram e Pinterest. In foto Alessandro con lo chef Gennaro Marciante, chef del ristorante Acquapazza di Cetara (SA), alle prese con una “Schiscetta d’autore”.

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food Benedetti

3. Delicanto, il made in Italy è la nostra più grande risorsa Dall’intuizione di due giovani imprenditrici trevigiane è nato un nuovo portale, delicanto.it, che propone una nuova filosofia del viaggio attraverso territori e tradizioni. “Immergersi nell’esperienza” invece di restare in superficie ad osservare. Tagliare un grappolo d’uva durante la vendemmia piuttosto che accontentarsi di bere un’ottima bottiglia di vino in un ristorante stellato. È questa la proposta Delicanto: offrire ai propri ospiti l’opportunità di vivere l’Italia nell’autenticità delle sue tradizioni, delle sue passioni e del suo stile di vita. Esperienze di enogastronomia e artigianato per valorizzare le eccellenze italiane più nascoste che rappresentano la vera identità del nostro Paese. Bravissime!

4. La gioia di vivere e di mangiare italiano Vivete fuori dai confini dell’Italia e avete voglia di preparare un pasto della nostra cucina con ingredienti autentici e locali? Digitate Paisan.it e scegliete il menù che più vi ispira. Tra una ribollita e uno spaghetto coi tartufi, una pizza napoletana oppure una panzanella, lo staff di PAISAN spedisce un kit completo tra antipasti, primo, vino in abbinamento e un dessert. I video on-line dello chef Nicola Russo e informazioni collaterali sul lifestyle italiano (moda, design, cultura e sport) completano l’atmosfera di una cena tra amici, molto italiana!

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I foodies di tutto il mondo incoronano il Parmigiano Reggiano simbolo del food made in Italy. Sul podio anche pasta e prosciutto di Parma L’Oscar del gusto made in Italy 2014 va al Parmigiano Reggiano. Ad incoronare il “Re dei formaggi” è stata la community internazionale dei 700.000 foodies di I Love Italian Food, chiamati a scegliere le icone della cucina tricolore tra una lista di prodotti tipici e di ricette emblematiche del nostro Paese. La consultazione — via web — si è tenuta nel mese di novembre 2014: il Parmigiano Reggiano ha raccolto il 20% delle preferenze complessive. Completano il podio, nell’ordine, la pasta e il prosciutto di Parma. Seguono, comunque in ottima posizione, l’olio extravergine di oliva e la pizza. Scorrendo la classifica, disponibile al link www.iloveitalianfood. org, non mancano le sorprese. Per fare un esempio, due simboli di italianità come il cappuccino e la passata di pomodoro risultano fuori dalla top 10 dei più votati. A promuovere la consultazione è stata I Love Italian Food: una realtà no-profit nata nel 2013 con la mission di difendere e diffondere la cultura del cibo italiano di qualità. Un obiettivo ambizioso, che ha il sostegno di un network internazionale di oltre 700.000 foodies e di oltre 5.000 professionisti del settore, tra food blogger, chef, ristoratori, buyer e scuole di cucina. I Love Italian Food si appresta ora a celebrare degnamente le icone della cucina tricolore scelte dai foodies di tutto il mondo. I 12 tra prodotti e ricette più votati diventeranno infatti i protagonisti del progetto: “2015: a 100x100 Italian Year”. A valorizzarli saranno altrettanti maestri della cucina italiana, tra cui HEINZ BECK, CRISTINA BOWERMAN, MORENO CEDRONI e ANTONELLA RICCI. Ad ogni chef, I Love Italian Food chiederà di interpretare, in forma di ricetta, un prodotto simbolo: ne nascerà così il visual di una campagna di comunicazione noprofit, per la valorizzazione delle eccellenze enogastronomiche italiane nel mondo. «Questo contest ci ha permesso di capire quali sono i veri ambasciatori del gusto made in Italy all’estero. E anche quali sono i tesori della nostra cucina che è necessario promuovere, perché ancora faticano a entrare nel cuore dei foodies stranieri» commenta ALESSANDRO SCHIATTI, fondatore di I Love Italian Food. «Siamo convinti che il food rappresenti un motore importante per la nostra economia. Questo ci motiva ogni giorno a diffondere e difendere la cultura e i valori del sistema agroalimentare italiano». La campagna “2015: a 100x100 Italian Year” accompagnerà inoltre la nascita del progetto “100x100 Italian”, che intende raccontare agli stranieri i nostri prodotti, le ricette della tradizione e le aziende che oggi si impegnano a produrre cibo di filiera 100% italiana.

Vino: Wine2wine, cantine italiane sempre più 2.0 Sito internet, Facebook, Twitter ma anche Pinterest e Youtube. Le cantine italiane si scoprono sempre più 2.0 e connesse con il mondo intero H24. È la sintesi della ricerca “Le imprese vitivinicole italiane e il web”, condotta da BeSharable e presentata recentemente a wine2wine (www.wine2wine.net), il primo forum di Veronafiere-Vinitaly dedicato al business del settore vitivinicolo. Secondo l’indagine, realizzata su 3.439 imprese del settore, il 94% delle cantine dispone di un sito internet, supportato dalla presenza sui social, in primis Facebook, che cattura il 73% dei profili aziendali. Tra gli altri strumenti utilizzati è Twitter a primeggiare, con il 30% delle cantine che “cinguettano”, subito seguito da Instagram, l’applicazione di condivisione delle immagini nata nel 2010, che raccoglie il 16% delle imprese italiane del vino. Tra i prodigi della rete anche l’upgrade linguistico del vino italiano che ora comunica anche in inglese per il 96% del panel. E se lingue europee, in rete, vanno per la maggiore (in aggiunta all’italiano e all’inglese), non è così per quelle dei mercati obiettivo del settore. Infatti solo il 6% delle aziende comunica in cinese, mentre il russo si deve accontentare di appena un 3%. >> Link: www.wine2wine.net

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar Premiata Salumeria Italiana, 1/15 31 perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


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Tendenze

Progresso tecnologico o aumento della solitudine?

Stampanti 3D in cucina di Giovanni Ballarini

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hi avrebbe immaginato, solo qualche decennio fa, che le onde elettromagnetiche della radio senza fili inventata da Guglielmo Marconi sarebbero entrate in cucina e avrebbero dato avvio alla cottura nel microonde? Qualcosa di simile non potrebbe accadere con le stampanti 3D? Pizza spaziale in tre dimensioni Tra tutte le possibili applicazioni per la stampa 3D, quelle alimentari sono state prese in considerazione sin dall’inizio della creazione di questo tipo di tecnologia. Già nel 2013 la NASA, l’agenzia spaziale americana, aveva deciso di investire 125.000 dollari nella creazione di un prototipo per stampare cibo nello spazio.

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Il progetto, realizzato dalla Systems and Materials Research Corporation, parte dallo stesso modello di tutte le altre stampe in 3D, ma in modo più mirato e preciso, essendo dotato di diverse cartucce in grado di rilasciare vari ingredienti su richiamo delle testine. E tra gli alimenti più gettonati da fornire agli astronauti non c’è solo il cioccolato o l’hamburger: in effetti, è la pizza la vera sfida del progetto spaziale! Con buona pace di tutti i pizzaioli e dei gastronomi e puristi della pizza, soprattutto napoletani, per la creazione della pizza spaziale la macchina parte dalla pasta stampata e scaldata, alla quale si aggiungerebbero il pomodoro in polvere diluito in acqua e olio più altri ingredienti a scelta. Il dispositivo ha come base

fisica la RepRap Mendel 3D printer, una stampante che può essere costruita con 400-500 euro di componenti, mentre il software dovrebbe essere scaricabile gratuitamente. Sarà bene anche precisare che la pasta della “pizza” (mai come in questo caso sono necessarie le virgolette) prevista per lo spazio non sarà ottenuta con la tradizionale, buona farina, ma sarà composta da tre strati di polveri nutrizionali provenienti da insetti, erba e alghe e ogni ricarica chiusa avrà una durata di 30 anni! La componente basale di stampa 3D trasmetterà al cibo i macronutrienti (amido, proteine e grassi), mentre dal getto aggiuntivo usciranno i micronutrienti, il sapore l’aroma e l’odore.

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A parte questo limite, libera è la fantasia dello chef e la macchina, una volta che la cioccolata è stata riscaldata, può produrre le creazioni degli aspiranti cioccolatai in meno di dieci minuti, pronte da mangiare.

Techno sugar cubes (3D Systems/Chefjet; photo © 3dprinteros.com). Stampanti 3D per cibi terrestri Per applicazioni “terresti” la ditta Natural Machines commercializza la stampante 3D per il cibo denominata FOODINI, una macchina che ha l’aspetto di un forno a microonde ed è progettata per funzionare con ingredienti “reali” liofilizzati. Questa stampante 3D — spiegano i creatori — svolge le parti difficili inerenti la preparazione del cibo, che richiedono molto tempo e a tutt’oggi sono svolte completamente a mano. Uno degli obiettivi è ottimizzare alcune delle attività più ripetitive in cucina, per incoraggiare più persone a preparare cibi freschi e salutari. Il dispositivo funziona con sistema operativo Android, può essere controllato tramite un display da 7 pollici e permette di impostare i cibi da preparare consultando tutti i suggerimenti e le ricette degli appassionati di FOODINI, e con i quali è possibile condividere le proprie idee. Una volta scelta la ricetta da preparare, è la macchina a dire quali e quanti ingredienti inserire nelle capsule. Ci sono troppi cibi già pronti sul mercato — spiegano i ricercatori della Natural Machines — molti dei quali con ingredienti non identificabili dal consumatore medio. FOODINI permette di preparare questi cibi, ai quali le persone si sono abituati, ma con ingredienti freschi. La stampante 3D permette anche di presentare il cibo in forme difficili da creare a mano e di rendere il cibo divertente.

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Alta gastronomia 3D Le stampanti 3D non sono viste soltanto come macchine per cuochi che non hanno il tempo o la voglia di dedicarsi a determinati compiti, o vogliono ottimizzare il lavoro come avviene per qualsiasi robot da cucina. Per esempio, nel ristorante di Barcellona Dos Cielos, con tanto di stella Michelin, i due chef JAVIER e SERGIO TORRES hanno deciso di utilizzare la FOODINI per le loro raffinate creazioni, al fine di realizzare presentazioni insolite e assolutamente innovative. FOODINI, comunque, non è l’unica stampante 3D progettata per il cibo. Al Consumers Electronics Show 2014 a Las Vegas è stata presentata CHEFJET. La versione casalinga che prepara piatti di un solo colore della CHEFJET ha un prezzo al di sotto dei 5.000 dollari, mentre la variante PRO costa intorno ai 10.000 dollari e permette di realizzare creazioni di tutti i colori. Un materiale che si presta molto bene all’utilizzo culinario di una stampante 3D è il cioccolato e la macchina CHOCABYTE, relativamente a buon mercato (99 dollari, meno di 72 euro), permette di modellare la cioccolata nelle forme che maggiormente si preferiscono, anche partendo dalla foto di un cioccolatino che si vuole “clonare”. Una limitazione è fornita dalle dimensioni della CHOCABYTE, che permette creazioni inferiori a 5x5x2,5 centimetri.

Stampare a 3D carne e pasta Meno facile, a quanto pare, è ancora l’utilizzo delle stampanti 3D per preparare piatti di carne, almeno a giudicare dai risultati ottenuti finora dai creatori della macchina BotBQ, che stanno trovando serie difficoltà a “stampare” un hamburger. Gli ugelli del dispositivo si dimostrano infatti non particolarmente adatti allo scopo, nonostante i molti tentativi effettuati per perfezionare il procedimento. L’idea di “stampare” un piatto di pasta potrebbe sembrare quasi un’eresia per un italiano, abituato ad un certo tipo di cucina legato a prodotti tipici e locali, ma non bisogna dimenticare che la pasta ha già subito una trasformazione epocale con l’introduzione di una macchina, il torchio, che con le sue trafile si è affiancato al tradizionale mattarello, dando l’avvio alla grande innovazione della pasta secca dalle mille forme. Forse anche per questo motivo, l’idea di una stampante 3D per la pasta non è venuta in mente a qualche americano interessato a stampare i famigerati “spaghetti alla bolognese”, ma ad un’impresa italiana il cui marchio è sinonimo di pasta nel mondo. Stiamo parlando della BARILLA, storica azienda di Parma, che ha tra i suoi programmi quello di dotare i ristoranti che si riforniscono con i suoi prodotti di apparecchi tridimensionali per produrre formati ad hoc nella quantità e nel disegno desiderati. Per fare ciò ha avviato una partnership con l’olandese TnO di Eindhoven. La difficoltà maggiore al momento è la velocità di stampa, già oggi molto più veloce di tre anni fa, quando è iniziata la sperimentazione. L’aspetto più avvincente della stampa a 3D della pasta è l’altissimo livello di personalizzazione ottenibile. Così, ad esempio, il marito potrà stupire la moglie con una pasta a forma di rosa; oppure, si potrà portare al ristorante la forma di pasta che piace, salvata su chiavetta USB,

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Stampa 3D di biscotti con Foodini (photo © panorender.com). e farsela stampare sul posto in pochi minuti. Considerando i continui progressi tecnologici, probabilmente in avvenire l’unico vero limite sarà la fantasia degli utilizzatori e presto potremo stamparci completamente la nostra cena, dall’antipasto al dolce. Frutta stampata in 3D È dello scorso maggio la notizia che a Cambridge è stato stampato un lampone in 3D, completamente creato in laboratorio. Il processo prende ispirazione dalla cucina molecolare e in parole semplici è il seguente. Succo di lampone, addizionato ad acido algicinico, trasformato in globuli gelatinosi e poi immerso in una soluzione fredda di calcio, viene inserito in una stampante che, in poco più di un minuto, produce il frutto. Chi lo ha assaggiato afferma che il gusto è buono e sembra (?) uguale a quello del frutto creato dalla natura. Secondo i progettisti, questa invenzione aprirà uno scenario nuovo non solo nel campo della ristorazione (si pensi ad un concetto di frutta on demand per rendere migliori le creazioni culinarie degli chef) e non è escluso, a quanto affermano gli inventori del lampone in 3D, che in un futuro si possano realizzare anche a casa propria frutti e altri vegetali personalizzati non ancora esistenti. Nuovi per forma, consistenza e sapore. Una sorta di nuova genesi.

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Quale cucina a 3D? L’utilizzo di questa nuova tecnologia in cucina, al di là dell’aspetto strettamente alimentare, induce ad un’altra riflessione di carattere più squisitamente sociale, sulla quale ha recentemente richiamato l’attenzione la dott.ssa ELISABETTA COCITO. La prospettiva di creare in casa gli alimenti andrebbe a infliggere un altro colpo ad uno dei valori che vanno sempre più scemando nella nostra società, quello della condivisione del cibo, del suo valore sociale. I sostenitori della cultura del cibo nel senso più ampio del termine stanno notando con sconforto quanto i modelli sociali e i nuovi strumenti tendano a spingere sempre più verso l’autosufficienza, sottovalutando il fatto che, a volte, essa sconfina nella solitudine, nella perdita di contatti umani e di quella caratteristica fondamentale, non solo umana, che è la socializzazione. Anche se, per fortuna, almeno in Italia resistono ancora le “due chiacchiere al bar”, spesso ci si ritrova a mangiare e bere da soli accanto ai distributori automatici di bibite e tramezzini. Ma pensiamo — continua la dottoressa Cocito — ai supermercati di nuova generazione, dove scegliamo il prodotto, lo etichettiamo, scannerizziamo il prezzo alla cassa e paghiamo direttamente ad una macchina: sempre soli, dal momento della scelta fino al saldo del dovuto. Anche al ristorante si può scegliere digitando l’ordinazione su un personal computer in contatto diretto con la cucina, senza perdere tempo con il cameriere o con il patron nella descrizione dei piatti o dei vini, e a tavola, mentre si aspetta (a volte anche mentre si mangia), invece di discorrere con gli altri commensali, continuiamo a lavorare con l’ausilio del cellulare. Con la stampante 3D, a meno di non scambiarsi i programmi informatici, c’è il rischio di perdere anche la gioia di preparare il cibo con le proprie mani. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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Aziende

Scherzerino, bontà salumiere lungo la via Appia A Itri, Latina, Scherzerino La Rocca porta avanti l’attività avviata dal nonno nel 1953 e vende salumi e ottime carni da bovini di Chianina marchigiana, suino bianco italiano e Nero casertano, animali allevati allo stato semibrado e alimentati naturalmente di Massimiliano Rella

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l segreto sta nella qualità delle carni, nella scelta e nel dosaggio delle spezie, oppure nella stagionatura? Probabilmente in tutti questi fattori messi insieme con l’aggiunta di una lunga esperienza nel settore. Certo è che i salumi di Scherzerino convincono all’assaggio. Eccome! Scherzerino è il nome proprio dell’attuale proprietario dell’omonima azienda che appartiene alla famiglia La Rocca dal 1953. Si chiama

come il nonno che avviò l’attività, ma in paese è più conosciuto come Rino. Anche suo padre, Antonio, ha lavorato in quest’impresa familiare che si è tramandata in sessant’anni fino alla terza generazione. Siamo a Itri, cittadina del Lazio meridionale lungo la via Appia, tra l’incantevole e vacanziera Sperlonga e Formia, la città dove morì Cicerone. Itri, toponimo probabilmente derivato dal latino iter, cioè strada, cammino, viaggio,

potrebbe indicare l’antica vocazione di crocevia del piccolo centro incluso nel Parco naturale dei monti Aurunci. L’azienda comprende un laboratorio e un negozio e occupa 7 dipendenti tra norcineria e banco carni. Scherzerino vende ottime carni bovine di razza Chianina marchigiana, di suino bianco italiano e di Nero casertano, animali nati e allevati secondo un disciplinare “interno”, in vari allevamenti di fiducia dell’Ap-

La macelleria e salumeria di Scherzerino a Itri (LT).

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pennino centrale tra Umbria e Molise. Il disciplinare prevede un codice etico e un tipo di allevamento semibrado con alimentazione naturale, senza uso di antibiotici. La macellazione è prevista solo dopo che i capi hanno superato i 12 mesi d’età. Le carni di suino sono acquistate sia per la vendita che per la trasformazione e la produzione interna di salumi e prosciutti. La lavorazione esclude l’uso di conservanti e le carni sono trattate e insaporite solo con erbe, spezie, peperoncino dolce e piccante, secondo le ricette, sale marino integrale delle saline di Nubia, vicino Trapani, a grana mista per i pezzi interi, e sale fino per gli insaccati. La produzione conta ben 18 prodotti diversi tra prosciutti, culatte, fiocco, ottenuto dalla parte finale della culatta di maiale, pancetta, capocollo, salame con pepe nero di Rimbas, a sua volta un presidio Slow Food della Malesia, salame al coriandolo. Di salsiccia, sia da cuocere che stagionata pronta da gustare, Scherzerino ne fa quattro tipi: al finocchietto selvatico, al coriandolo e peperoncino, al coriandolo, al pepe di Rimbas. La carne è tagliata a grana grossa, magro e grasso dosati e mescolati per dare al prodotto un sapore ricco e una consistenza morbida. Insaccata in budello naturale, è presentata in pezzi della lunghezza di un metro ripiegati nella tradizionale forma a cappio. Il capocollo è proposto nelle versioni “riserva” e di Nero casertano: il primo è fatto con carne magra e grassa di collo insaporita con sale e spezie, lavato con vino moscato e sottoposto a speziatura leggera; il secondo con carne massaggiata con miele prima di salatura e speziatura e stagionato fino ad un anno. Anche il prosciutto crudo è sia di suino bianco che di Nero casertano, stagionato 16 mesi il primo, 24 il secondo. Morbido, mai secco, con un armoniosa combinazione di dolce e salato e un retrogusto intenso e persistente. È ottimo anche il lombo, ottenuto da taglio pregiato, dall’inconfondibile sapore dato da spezie ed erbe fresche.

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Scherzerino La Rocca con uno dei suoi prosciutti di suino Nero casertano. Per la stagionatura in cantina, naturale e lenta fino alla giusta maturazione, che conferisce ai salumi la caratteristica muffa naturale all’esterno, profumi e gusto intensi, sono utilizzati locali ubicati nelle Marche. La famiglia sta valutando di realizzare un proprio spazio sui monti Aurunci. La scelta potrebbe cadere su Campodimele, un borgo arroccato su una collina a quasi 647 metri sul livello del mare, tra le pendici dei monti Ausoni e la catena degli Aurunci e distante solo 15 km da Itri. E ora qualche prezzo. In negozio il salame costa 20,00 €/kg; il prosciutto di Nero casertano 80,00 €/kg se comprato affettato oppure intero con l’osso a 40,00 €/kg; il capocollo intero

18,00 €/kg. I salumi e i prosciutti Scherzerino sono in vendita in 260 negozi e gastronomie di tutta Italia più una trentina all’estero. La bottega di Itri è chiusa lunedì mattina e domenica. Negli altri giorni è aperta con orario 8.00-13.00 e 16.30-19.30. Massimiliano Rella Scherzerino Srl Corso Vittorio Emanuele II 04020 Itri (LT) Telefono: 0771 727140 E-mail: info@scherzerino.it Web: www.scherzerino.it Nota Photo © Massimiliano Rella.

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Caseificio Il Fiorino, formaggi artigianali di Maremma Solo latte ovino proveniente da allevamenti locali unito alla passione e alla dedizione degli esperti casari

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occalbegna è un borgo incastonato nella roccia che dalla montagna si affaccia sulla Maremma: un luogo privilegiato e protetto, alle pendici del Monte Amiata, rimasto ancora incontaminato. Qui nel 1957, è nato il Caseificio Il Fiorino. Duilio Fiorini è figlio e nipote di pastori che, dal Casentino, zona a cavallo tra le province di Firenze e Arezzo, raggiungevano la Maremma per la transumanza delle greggi e decisero di stabilirvisi. Da qualche anno Duilio ha passato le consegne alla figlia Angela che, insieme al marito Simone, ha fatto

conoscere anche fuori dai confini nazionali i prodotti de Il Fiorino. La lavorazione, che si svolge interamente all’interno del caseificio, è ancora oggi esclusivamente artigianale e si basa su una scelta accurata delle materie prime. Il pecorino e la ricotta costituiscono la parte principale della produzione, a cui si aggiungono anche alcune referenze miste. Principio fondante e basilare del caseificio è l’utilizzo del latte ovino, rigorosamente proveniente dalla Maremma. A ciò va aggiunta la dedizione e la passione degli esperti

artigiani casari. Il forte legame con allevamenti locali viene sostenuto ed incentivato grazie alla stipula di contratti meritori, tali da garantire sempre un alto livello di qualità. I formaggi risentono ovviamente della disponibilità stagionale della materia prima: la reperibilità di latte ovino è infatti concentrata nei mesi primaverili. Nel corso degli anni, oltre ai numeri, è aumentato anche l’assortimento dell’offerta, lasciando inalterati i procedimenti tradizionali della lavorazione. La gamma di pecorini dell’azienda maremmana comprende

Marchiatura del Pecorino toscano Dop presso il Caseificio Il Fiorino.

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tutti i classici toscani. Inizialmente, il Caseificio era conosciuto per la produzione di Marzolino, essendo stati tra i primi a recuperare “la ricetta” di questo antico formaggio. Oggi sono più di venti le tipologie realizzate. Tra i prodotti d’eccellenza troviamo la Riserva del Fondatore, un pecorino da 18 chili circa che viene lasciato stagionare nelle cantine di famiglia per oltre 20 mesi (il “Pecorino delle Cantine di Roccalbegna” è tra i prodotti agroalimentari definiti tradizionali delle regioni italiane in base al DM del 8 settembre 1999 n. 350, NdR). Non mancano poi il Marzolino e il Pecorino semistagionato classico, oltre al Pecorino toscano DOP. Accanto ai “nobili” troviamo “gli aromatizzati” che rappresentano una nicchia del mercato. L’azienda veicola le proprie referenze soprattutto attraverso grossisti e gastronomie. Particolare attenzione è riservata anche alla GDO, sia per il retail italiano che per quello estero. Il Fiorino esporta i suo pecorini “realizzati senza conservanti e con il solo obiettivo teso alla qualità”, in diversi mercati esteri. Tra questi, USA, Europa, Spagna, Inghilterra, Norvegia, Germania, Svezia, Danimarca e Giappone. Una ricerca completa, nata dalla penna di Maria Novella Batini e Ornella d’Alessio, è stata dedicata alla storia del Caseificio Il Fiorino, nel volume “Cacio Toscano” recentemente pubblicato da Moroni Editore. Caseificio Il Fiorino Località Paiolo 58100 Roccalbegna (GR) Telefono: 0564 989059 E-mail: info@caseificioilfiorino.it Web: www.caseificioilfiorino.it

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In alto: Duilio Fiorini al lavoro presso il Caseificio il Fiorino. In basso: ovini al pascolo.

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I gioielli di famiglia Per la famiglia Giusti di Modena sono le botti secolari di aceto balsamico, tramandate di generazione in generazione, insieme a spirito imprenditoriale e una cura maniacale dei dettagli di Elena Benedetti

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osa avranno mai in comune un lungimirante Duca, la Tour Eiffel e una delle produzioni agroalimentari più bramate in tutto il mondo? Per scoprirlo basta andare a Lesignana, appena fuori Modena, in piena campagna. Al civico 155 di via Quattroville c’è un’antica dimora perfettamente conservata, che da decenni racchiude veri tesori. È il Gran Deposito Aceto Balsamico Giuseppe Giusti, tra le più datate e premiate acetaie esistenti, che ogni settimana accoglie visitatori e curiosi da ogni continente. Un passato ricco di fascino La storia di questa famiglia attraversa la fine dell’Ottocento e l’inizio Novecento, un periodo di grande fervore culturale, artistico e innovativo, anche dal punto di vista delle nuove tecnologie e scienze. Un’onda di benessere che portò ottimismo e gioia di vivere, la seducente Belle Époque. Le sue tracce, stilistiche e comunicative, si possono scorgere nel marchio dell’azienda, inconfondibile e prezioso. All’inizio del Novecento Giuseppe Giusti ebbe infatti l’intuizione di racchiudere nell’immagine dell’allora stemma, oggi logotipo, i tanti onori raccolti dalla sua famiglia in un’immagine Liberty, ricca e prestigiosa. Quelli furono gli anni della produzione di aceto balsamico e di fiere che, prima Giuseppe poi Pietro Giusti, girarono in mezza Europa raccogliendo medaglie e premi per i balsamici invecchiati anche cent’anni. Fu allora che il lavoro di questa famiglia — della cui attività restano tracce risalenti al periodo del Duca d’Este, che dal 1598 al 1859 trasferì il suo Ducato a Modena —, si fece grande, tanto da essere presente a Parigi sotto la Tour Eiffel, costruita per la celebre Exposition Universelle di inizio secolo. Uno stile molto personale Lo stile dei Giusti, la loro attenzione a ogni dettaglio, l’attitudine a fare le cose bene, molto bene, lasciando scorrere il tempo sulle antiche botti di legno, sono oggi il loro biglietto da visita. L’azienda, oltre cent’anni dopo, si appresta a organizzare eventi in un’altra Expo, quella di Milano

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L’Aceto Balsamico di Modena prende consistenza e profumo nei legni delle sue botti, ciascuno intriso del proprio aroma. Le botti del Gran Deposito Aceto Balsamico Giuseppe Giusti risalgono al 1600, al 1700 e al 1800. Un patrimonio unico oggi meta di visitatori da tutto il mondo. 2015, mantenendo intatto il sapore di quell’epoca. Il tutto però con un dinamismo moderno, tipico dei nostri tempi, e una frenesia buona, come si scorge visitando gli uffici dagli ambienti contemporanei ed essenziali, attraverso i quali tutti corrono indaffarati. A capo del Gran Deposito c’è oggi CLAUDIO STEFANI GIUSTI, un passato in Accenture e una sfida di famiglia che, insieme alla sorella Francesca, non poteva non essere raccolta. Le sue sfide sono oggi quelle di mantenere intatto lo scorrere lento del tempo nella maturazione del balsamico, traghettando l’azienda in una nuova e moderna concezione di sostenibilità ambientale e welfare aziendale. I ritmi sono veloci e gli strumenti moderni, anche nella comunicazione, con la presenza sui social e le porte sempre aperte a visite e degustazioni guidate in acetaia.

L’aceto balsamico in bottiglia Tra i segni distintivi del Gran Deposito Aceto Balsamico Giuseppe Giusti c’è la forte personalizzazione, segno distintivo che quest’azienda modenese si porta avanti praticamente da sempre. Un esempio? La scelta di utilizzare per varie linee di prodotto una champagnotta da 100 ml. Le sue dimensioni ridotte la rendono pratica all’uso, semplice e versatile (in foto nella linea “Banda Rossa”).

Un ricco catalogo La produzione Giusti oggi comprende varie linee con balsamico, lo stravecchio e affinato Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP, l’Aceto di Modena IGP, salse, condimenti e riserve speciali, oltre ad alcuni prodotti farciti come i panettoni, i cioccolatini, il sale bianco di Sicilia, tutti abbinati all’Aceto Balsamico di Modena IGP.

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La ricetta del balsamico è spesso e volentieri un segreto tramandato a voce, di padre in figlio. È nel 1863, in occasione dell’Esposizione Agraria di Modena, che Giuseppe Giusti fissa per iscritto le regole d’oro per ottenere un “perfetto Aceto Balsamico”, ovvero “scelta delle uve, qualità dei recipienti e tempo”. Tornando alle varie gamme di balsamico, c’è la linea “Il Profumato”, con l’Aceto balsamico di Modena, anche IGP, invecchiato in botti di rovere francese del 1900 e l’aggiunta di bal-

samico prelevato da batterie di botti secolari. Imbottigliato nell’originale bottiglia da lambrusco, si presenta sul mercato con una forte personalità. C’è poi “Il Classico”, un balsamico otte-

La storia di un marchio Ad inizio Novecento Giuseppe Giusti ebbe l’intuizione di racchiudere nel marchio ancora oggi utilizzato i tanti onori raccolti dalla sua famiglia. In uno stile grafico che rimanda all’Art Nouveau francese, ricca e dal personale stile visivo.

nuto da mosto di uve cotto e aceto di vino invecchiato in botti e barriques di rovere con aggiunta di aceto balsamico prelevato da antiche batterie. La terza linea, “Riccardo Giusti”, dedicata all’antenato a cui si deve la paternità della ricetta, nasce da uve dolci e passite. Seguono un “Quarto Centenario”, ideato per festeggiare i 400 anni della famiglia Giusti, e il “Banda Rossa”: un aceto balsamico che ha riposato in antiche botticelle risalenti al 1600-1700 e viene prelevato solo una volta all’anno in piccole quantità; è disponibile anche nella versione biologica. Elena Benedetti >> Link: www.giusti.it www.facebook.com/Aceto BalsamicoGiusti goo.gl/UTMR65 (YouTube) Nota A pagina 40, la 17a generazione della famiglia Giusti, con Luciano Stefani Giusti insieme ai figli Claudio e Francesca.

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ph: Franceschini Vincenzo

Da oltre 50 anni curiamo i nostri prodotti con grande amore. Selezioniamo solo le migliori carni di suini Italiani e le lavoriamo nel rispetto della tradizione.

FRANCESCHINI GINO & C. SRL Via dei Marmorari, 38 - 41057 Spilamberto (Mo) Tel. + 39 (0) 59784037 - Fax +39 (0) 59784075 - info@franceschinigino.it - www.franceschinigino.it


Salame Felino Igp Monpiù: è l’aria pura di montagna che lo fa più buono Selezione accurata delle materie prime, budello gentile, legatura a mano e una produzione tradizionale: queste le caratteristiche del salame Felino Igp prodotto dal Salumificio Monpiù a Costa di Castrignano. Se a ciò aggiungiamo l’artigianalità della lavorazione e la stagionatura a 600 metri sul livello del mare, otteniamo un insaccato tipico straordinario di Gaia Borghi

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are che nella seconda metà del Settecento a Felino, il paesino in provincia di Parma che dà il nome al famoso insaccato, ci fossero 1.400 maiali per 2.200 abitanti. Un numero decisamente elevato, che testimonia la centralità di questo animale e delle sue carni, trasformate e non, nell’alimentazione e nella gastronomia tradi-

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zionale del Parmense. Oggi il salame Felino gode della tutela della denominazione europea Igp, l’Identificazione Geografica Protetta, a sottolineare, se mai l’omonimia non bastasse, il forte legame del salume con il suo territorio d’origine. Un’area, come riporta lo stesso Disciplinare di produzione, caratterizzata da zone “pianeggianti e collinari allo stesso tempo e dalla

presenza di laghi e miniere di sale”. Proprio in virtù della presenza di queste miniere, tra le quali citiamo la miniera “Pietra del Fuoco”, tuttora visitabile, presso Salsomaggiore, fin dal 1300 nel Parmense la salagione delle carni di maiale e la loro trasformazione ha portato alla creazione di insaccati la cui notorietà ha da tempo valicato i confini nazionali.

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Lavorazione artigianale e aria pura di montagna: questo è il salame Felino Igp di Monpiù A pochi chilometri da Felino, nel comune di Langhirano, e più precisamente a Costa di Castrignano, si trova il Salumificio Monpiù, attivo fin dal 1967 nella produzione dei salumi tipici parmensi: prosciutto crudo di Parma Dop, culattello con cotenna, culatello tradizionale, fiocco di prosciutto, culatta e, appunto, salame Felino Igp. Sottoposto a completo rinnovamento nelle strutture 7 anni fa, il Salumificio, che fa parte del Gruppo Valtidone Holding Spa, è ubicato lontano dal centro abitato, in una bella valle boscosa a 600 metri di altitudine. «Abbiamo scelto di produrre i nostri salami in un luogo non proprio comodissimo dal punto di vista logistico, privilegiando la

Colore, profumo e taglio perfetti: la qualità del salame Felino si comincia ad apprezzare prima tastandolo con le mani e poi, una volta tolta una parte del budello esterno che lo avvolge, controllando la consistenza della pasta. Il colore deve essere brillante senza parti scure, il bianco del grasso non trasparente. I profumi vanno da quelli di sottobosco e di cantina a quello del burro. Per effettuare un corretto taglio, il salame va appoggiato su un tagliere di legno e tagliato con un coltello lungo e sottile, non dentellato, in maniera che le fette siano spesse come uno dei grani di pepe che contiene. La tradizione impone un taglio lungo, “a becco di flauto“, obliquamente rispetto all’asse del salume per mantenere la fetta integra e saporita. Il gusto è dolce, pieno, equilibrato. Il luogo ideale per conservarlo intero è una cantina umida tra 10 e 17 gradi. Una volta affettato, la parte restante va riposta in frigo, avvolta da un canovaccio, al riparo da odori marcati. (www.salamefelino.com)

qualità del prodotto finale» mi dice MASSIMO BOCCARDI, responsabile dello stabilimento. La stagionatura all’aria pura ed incontaminata di montagna dona infatti al salume sapori e profumi inconfondibili. «La produzione del salame Felino Igp Monpiù è ancora oggi tradizionale — continua Boccardi — proprio per mantenerne elevato il livello qualitativo». La materia prima impiegata per la produzione del salame Felino Igp di Monpiù è il cosiddetto trito da banco. Le carni utilizzate non devono aver subito alcun processo di congelamento.

«La lavorazione del salame Felino è completamente artigianale e, nonostante l’introduzione della tecnologia più moderna, è rimasta nei suoi caratteri distintivi sostanzialmente inalterata nel corso dei secoli: la legatura del prodotto avviene a mano con spago non a rete e per l’insacco si utilizza budello naturale suino, il budello gentile». Il risultato è un prodotto di qualità eccelsa: al taglio il colore è di un bel rosso rubino, il gusto è dolce e delicato, del tipo una fetta tira l’altra. Gaia Borghi

Salumificio Monpiù Srl Via della Resistenza 8 Frazione Costa di Castrignano 43013 Langhirano (PR) Telefono: 0521 846131 E-mail: info@monpiu.it

Il salame Felino Igp Monpiù viene proposto in due differenti pezzature, per venire incontro alle esigenze delle varie tipologie di consumatori, dalle famiglie ai single.

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Salumificio Monpiù Srl Strada Lupazzano 50/1 Frazione Lupazzano 43024 Neviano degli Arduini (PR) Telefono: 0521 846131 E-mail: info@monpiu.it

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Dal 1975 i valori della famiglia Bergamaschi diventano eccellenti salumi di Riccardo Lagorio

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BERGAMASCHI inforca la bicicletta come fa tutti i giorni nel tardo pomeriggio. Lo fa praticamente da quarant’anni, ogni dì iscritto a calendario, per verificare di persona che ogni cosa dell’azienda sia al proprio posto, pronta per l’indomani. Fu lui nel 1969 ad intuire che i campi di cereali avrebbero potuto essere utilizzati nel migliore dei modi se accanto ad essi ci LAVIO

si dotava di un allevamento di suini, cosa che realizzò nel 1975 chiudendo, come si dice oggi, la filiera. Un’idea ed un progetto che allora non erano certo frequenti… Da allora l’azienda agricola si è progressivamente ampliata nelle strutture, nei moderni impianti di allevamento, macellazione e trasformazione della carne suina, così come nelle tecniche di coltivazione dei cereali e nella stagionatura dei

salumi. Ma ha sempre avuto come faro la tradizione e lo sviluppo è stato fatto non travalicando la dimensione artigianale. Con l’arrivo dei figli nella gestione del podere l’amore nei confronti della terra si è ancor più rafforzato, con clienti all’ingrosso come le macellerie o al minuto come i ristoranti. «Per noi le regole imposte dall’Europa, talvolta anche poco comprensibili,

Salami stagionati. Ogni tipologia di salume viene valorizzato con una stagionatura personalizzata, in celle accuratamente controllate per temperatura, grado di umidità e ventilazione (photo © www.agricolavalsesia.com).

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non hanno impedito di essere stimolo all’uso della manualità: acciaio inox e altri materiali considerati idonei nei salumifici ci hanno convinto ad impiegare metodi manuali nella lavorazione delle carni», esordisce Giovanni, il figlio che segue da vicino le sorti del salumificio. Di certo la dimensione familiare (benché l’azienda occupi una decina di dipendenti), la lavorazione artigianale e la forte connotazione agricola rappresentano per il consumatore la garanzia di un prodotto esclusivo, sano e genuino. Se le famiglie macellavano tra fine novembre e gennaio creando prodotti che dovevano durare per un intero anno in un clima prima freddo-umido e poi caldo-umido, ecco che l’esperienza dettava di mantenere quei prodotti sotto grasso in orci, la duja. E, di conseguenza, questo è il sistema di conservazione più rappresentativo dell’azienda. Il salame, di carne di prima scelta come spalla, coscia e coppa, insaccato in budello di manzo, viene fatto maturare per qualche settimana e poi posto sotto lo strutto fuso. Allo stesso modo la mortadella di fegato (fidighin), prodotta con carni magre, grasso del sottogola e della pancetta, un 12% di fegato e spezie, mantiene morbidezza e caratteristiche organolettiche in maniera naturale. Gli orci di pietra o di legno non ci sono più, ma le comode vaschette in plastica servono bene a conservare strutto e salume. «Certo, ricordando gli albori del nostro allevamento sembra che siano passate ere, non decenni. I suini dei primi anni Settanta erano agli inizi dello sviluppo genetico. L’apporto alla razza odierna lo diede una malformazione genetica in Danimarca, contraddistinta da animali più lunghi del solito e deboli di schiena. In seguito quella razza si è irrobustita e fissata nella Landrace, delicata ma molto prolifica. Gli incroci con la Large White, razza rustica ottima per trasformare il cibo in carne, hanno portato ad avere animali prolifici e robusti i cui soggetti femminili, se incrociati con la razza Duroc, acquistano ulteriore robustezza. Continuiamo ad essere curiosi di apprendere il futuro delle razze per poterne utilizzare gli aspetti mi-

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«Produciamo salumi, carni fresche e insaccati di puro suino da oltre cinquant’anni» dichiara Flavio Bergamaschi. «È la cosa che sappiamo fare meglio, perché ci mettiamo passione, cura per i dettagli e dedizione tutta artigianale» (photo © www.agricolavalsesia.com). gliori per i nostri salumi», prosegue Giovanni Bergamaschi. «Le esigenze del consumatore di oggi sono molto diverse da quelle degli anni Trenta, quando ovunque era necessario allevare animali che possedevano una spessa coltre di grasso perché era questo il prodotto necessario alla conservazione degli altri salumi». Sono oggi 1.400 i suini allevati in azienda. Vi giungono da un allevamento del Cuneese, quando pesano circa 25 kg, e vengono nutriti con i cereali coltivati sui 100 ettari aziendali con tecniche a ridotto impatto ambientale: concimi naturali e diserbanti che non lasciano alcuna traccia nella granella. Mais, orzo e soia raccolti in estate sono stivati e distribuiti nei capannoni che ospitano i suini, suddivisi per fasce di peso. Al raggiungimento di almeno 170 kg, 40 soggetti alla settimana sono avviati al moderno macello aziendale. Dalla trasformazione artigianale si ottengono salamelle in filze, lucaniche, salamelle da bollire, cotechini, ma anche tradizionali coppe, pancette, salami cotti alla Piemontese, lonze, salami tipo Varzi e tipo Milano, tutti ovviamente legati a mano e con un contenuto di salnitro estremamente ridotto. Ma anche prosciutto crudo di Parma DOP. L’allevamento segue infatti scrupolosamente i dettami im-

posti dal Disciplinare di produzione del Consorzio del Prosciutto di Parma e le migliori cosce che si ottengono in azienda vengono avviate a un selezionato stabilimento di Langhirano, che le prende in consegna per 18 o 24 mesi per la stagionatura. L’impegno e la sensibilità dei Bergamaschi però non si ferma qui. Oltre ad avere costituito un sistema di autocontrollo sanitario quindicinale per garantire la perfezione delle proprie carni, da pochi mesi hanno realizzato un impianto di biogas che consente di ottenere energia elettrica dai liquami dell’allevamento. Il sistema li rende praticamente autosufficienti. Per il funzionamento di un organismo così complesso bisogna che ogni ingranaggio sia bene istruito e addestrato ad incastrarsi con gli altri. Inizia un altro giorno, è tardo pomeriggio: Flavio Bergamaschi inforca la bicicletta e passa dai campi alla porcilaia e da qui allo spaccio, per sincerarsi che tutto sia pronto per l’indomani. Riccardo Lagorio Azienda Agricola Valsesia Via Fiume Sesia 1 28064 Sillavengo (NO) Telefono: 0321 825246 E-mail: info@agricolavalsesia.com Web: www.agricolavalsesia.com

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Mercati

Dop e Igp: non è tutto oro quello che luccica Cresce il numero delle denominazioni europee attribuite al nostro Paese che nel 2014 conferma il suo primato anche a seguito dell’ingresso di altre 8 specialità. I dati però dimostrano che il riconoscimento non basta. Urge uno sforzo importante da parte dei privati e delle istituzioni perché si possa fare realmente tesoro, anche nel mercato, dei titoli acquisiti sulla carta di Sebastiano Corona

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iamo i più bravi. Si può dire? Sì, se fosse una questione di mera capacità e non di fortuna e di generosità della nostra terra, potremmo dire che in Europa nessuno fa meglio di noi in fatto di prodotti alimentari d’eccellenza. Nel 2014 l’Italia, che già deteneva il primato del maggior numero di prodotti a denominazione, ha con-

fermato brillantemente la posizione grazie all’acquisizione di 3 DOP e 5 IGP. Meno di quante normalmente se ne conquistino in un anno nel nostro Paese, ma trattandosi di prodotti che devono mostrare una tradizione produttiva consolidata nei decenni, è ragionevole ritenere che nel tempo andranno via via esaurendosi. I nuovi ingressi sono la Patata dell’alto

viterbese IGP, lo Strachitunt DOP, il Miele varesino DOP, il Torrone di Bagnara IGP, la Pescabivona IGP, la Piadina romagnola IGP (*), la Salama da sugo IGP e il Pecorino crotonese DOP. Questi gioielli della nostra gastronomia portano a 269 il lungo elenco di specialità insignite del maggior titolo a cui un prodotto alimentare possa aspirare. In questo

Salama da sugo Dop (photo © www.cusinaebutega.com).

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sta il nostro primato: la Francia con 219 registrazioni, la Spagna con 180, il Portogallo con 125 e la Grecia con 101 vengono tutte dopo di noi! L’attribuzione di un simile titolo non sarebbe tuttavia cosa di per sé sufficiente per dimostrare reale capacità sul campo. Se da una parte rappresenta un grande merito, non fosse per l’annoso e lunghissimo lavoro che ottenerlo comporta, dall’altra è proprio il caso di dire che vedersi riconoscere una denominazione non è un punto d’arrivo, ma di partenza. Il successo del prodotto nei mercati è infatti cosa per la quale è richiesto uno straordinario sforzo sotto diversi punti di vista e magari ad opera di più soggetti. Perché un certo alimento possa davvero sfondare anche in ambito internazionale, la denominazione può aiutare molto, ma da sola non è sufficiente. Paradossalmente, visti i costi per le certificazioni e una serie di altri vincoli derivanti da una rigidissima normativa in materia, vantare una DO e non utilizzarla per le sue reali potenzialità si può rivelare una vera e propria condanna. Sorprenderà quindi sapere che, nonostante la ricchezza di prodotti, in Italia sono le prime dieci denominazioni a concentrare la stragrande maggioranza del giro d’affari. Questo è sempre stato ed è la tendenza degli ultimi anni. Secondo Fondazione QUALIVITA una decina di prodotti DOP e IGP avocano a sé l’81% del fatturato. La prima posizione è detenuta dal Grana Padano DOP. Seguono il Parmigiano Reggiano DOP, la Mela dell’Alto Adige IGP, il Pecorino Romano DOP, il Prosciutto di Parma DOP e l’Aceto Balsamico di Modena IGP. Il Gorgonzola DOP, la Mozzarella di Bufala DOP, lo Speck Alto Adige IGP e la Mela della Val di Non DOP detengono soltanto — si fa per dire — le ultime quattro posizioni (elaborazione QUALIVITA). In questo scenario i formaggi rappresentano il principale comparto delle denominazioni con un’incidenza, nel 2013, del 54% per ciò che riguarda il fatturato al consumo in Italia e il 58% del fatturato alla produzione, export compreso. Nella classifica i prodotti a base di carne,

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Lo Strachitunt DOP (photo © www.youeme4eu.it). invece, sono il secondo comparto, con un’incidenza tra il 27 e il 36% sia di fatturato al consumo, sia alla produzione. Seguono gli ortofrutticoli — che rappresentano il terzo posto per valore di mercato — e gli aceti balsamici. Questi ultimi, che si erano imposti pesantemente nel mondo delle DO, mostrano oggi una leggerissima flessione, ma anche un fatturato fortemente sbilanciato sull’export che fa sperare sempre meglio (373 milioni di euro su 392 totali). I dati citati, visti alla luce del complessivo scenario delle denominazioni, confermano che la medaglia appesa al petto, da sola, non basta. Bisogna guadagnarsi ogni giorno sul campo il favore del mercato. Bisogna riuscire a tradurre il primato del numero di denominazioni in reale fiducia dell’acquirente al momento dell’acquisto. In tempi in cui la preparazione del consumatore medio in fatto di marchi, denominazioni e normative non è notevole, è necessario concentrare i propri sforzi su promozione, valorizzazione ed educazione al prodotto. Acquisire una DO ha un senso se all’indomani del suo ottenimento si inizia una campagna di sensibilizzazione e di promozione importante. La

denominazione è uno straordinario biglietto da visita, un elemento che può aprire molte porte, ma nessuno si illuda che decreti da sola il successo di un prodotto sul mercato. Va senza dubbio fatto uno sforzo in più per dimostrare che noi italiani siamo in grado di cogliere l’occasione e fare tesoro dello straordinario patrimonio che la terra e la storia ci hanno consegnato. Il problema non è solo il fatto che la stragrande maggioranza delle denominazioni restano sulla carta perché non riescono a tradurre in quote di mercato il vantaggio competitivo di cui godono, ma i dati degli ultimi anni dimostrano anche che la produzione certificata, nel suo complesso, ha segnato una flessione. La cancellazione di un’intera categoria, quella delle acque minerali, ha inciso in maniera significativa sul calcolo del fatturato; tuttavia, è ragionevole pensare che, con le nuove registrazioni, tale gap si sarebbe dovuto compensare. Invece nel 2013 la produzione certificata complessiva (elaborazione Fondazione QUALIVITA su dati ISMEA) — pari a 1,27 milioni di tonnellate — è diminuita del 2,7%. La causa è da ricondurre principalmente agli ortofrutticoli e cereali che da soli hanno registrato un calo del 7%.

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I formaggi e i prodotti a base di carne, su alcuni dei quali si concentra la stragrande parte del fatturato complessivo dei prodotti a denominazione, hanno mostrato infatti una generale stabilità. È salita inoltre la produzione certificata degli oli (+2,1%), sebbene dovesse recuperare il calo dell’anno 2012, e ha mostrato una decisa controtendenza il settore delle carni fresche, dove l’incremento è stato del 14,4%, a conferma e consolidamento di un trend in crescita già da un triennio. La crisi non fa sconti a nessuno e colpisce anche i prodotti di qualità. Il fatturato al consumo delle DO in Italia, che si attesta su oltre 13 miliardi di euro, è calato del 3,8%, mentre quello della produzione — pari a 6,6 miliardi di euro — ha registrato una flessione più modesta, pari all’1,7%. In questo quadro a tinte fosche una nota più che positiva è rappresentata dall’export, che vale 2,4 miliardi di euro e che, nell’ultimo anno, ha mostrato l’incoraggiante incremento del 5%. L’Italia guadagna ogni giorno nuove quote di mercato oltre confine, ma i dati dell’Italian sounding e le contraffazioni di prodotto nazionale sono testimonianza del fatto che ci sarebbero ulteriori spazi, se solo noi italiani fossimo in grado di coprirli. Il problema non è infatti solo quello di fronteggiare le frodi a danno di consumatori ignari e dei produttori italiani. Il sistema Paese dovrebbe prepararsi adeguatamente a coprire quelle quote di mercato che verrebbero a crearsi se tali contraffazioni venissero meno. L’Italian sounding, che secondo alcune stime varrebbe 60 miliardi di

Torrone di Bagnara Igp (photo © www.lifestyle43.it). euro, ha un enorme peso in termini di volumi e di valore economico, ma non è detto che il Belpaese, alle prese oggi con una serie di problematiche di vario genere, sia davvero in grado di sfruttare l’occasione che potrebbe derivare da un ipotetico calo dei fenomeni criminali consumati a danno del Tricolore. Bisogna insomma rimboccarsi le maniche per avere assicurata una maggior tutela, ma anche per incrementare la produzione, laddove è possibile. In conclusione: sì, siamo bravi, è vero, ma — c’è un ma — non possiamo certamente permetterci di cullarci sugli allori. Semmai vanno avviati progetti di valorizzazione e di promozione. Il virtuoso circuito dello sviluppo agroalimentare deve

Alcuni dati * • • • • • • •

120 consorzi di tutela riconosciuti dal MIPAAF 60.600 visite ispettive e 75.500 controlli analitici 269 prodotti iscritti al registro delle denominazioni europee (161 DOP, 106 IGP, 2 STG) 1,27 milioni di tonnellate di volume complessivo prodotto certificato (di cui 2,4 esportato) 5% l’incremento dell’export (anno di produzione 2013) 6,6 miliardi di euro di fatturato alla produzione 13,2 miliardi di euro di fatturato al consumo totale

* Elaborazione Fondazione QUALIVITA su dati ISMEA

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essere rafforzato e consolidato in Italia e all’estero. Vanno realizzate più campagne di educazione al consumo e all’acquisto consapevole, affinché i prodotti a denominazione siano riconoscibili immediatamente e non ci sia possibilità di confusione. Lo sforzo in questo senso deve essere comune a soggetti pubblici e privati. I produttori, non ultimi i consorzi di tutela, ricopriranno, nei prossimi anni, più che mai, un ruolo importantissimo su cui si giocherà in buona parte il futuro della nazione. Questo non solleverà Regioni e Ministero dalla grande responsabilità di sostenere istituzionalmente le azioni dei privati, di guidarle, di assecondarle e di supportarle, anche economicamente, soprattutto nell’affrontare i mercati internazionali. Su questi soggetti grava l’onere e l’onore di portare alta la bandiera dell’agroalimentare nazionale nel mondo, promuovendolo, pubblicizzandolo, facendolo conoscere laddove le sue qualità straordinarie non fossero ancora note. Sebastiano Corona Nota (*) A proposito del riconoscimento della IGP alla piadina romagnola si veda l’approfondimento nella rubrica “Lettere alla Redazione” a pagina 50.

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Denominazioni europee: presente, futuro, fattore di competitività di Paolo De Castro

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ell’Unione Europea si contano oggi quasi 1.250 prodotti alimentari DOP e IGP. Di questi, circa il 15% fanno riferimento a prodotti lattierocaseari, in particolare formaggi. Dall’emanazione dei primi regolamenti comunitari sulle indicazioni geografiche, i riconoscimenti DOP/ IGP sono continuamente cresciuti, a dimostrazione dell’interesse dei produttori agroalimentari verso questo tipo di certificazione, che da un lato tutela le imprese da pratiche illegali di imitazione e contraffazione, dall’altro

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garantisce i consumatori sull’origine territoriale dei prodotti. Basti pensare che dal 2000 questi riconoscimenti sono più che raddoppiati (126%). Sebbene il valore di mercato espresso da questi prodotti DOP/IGP sia “ridotto” (meno di 20 miliardi di euro a livello complessivo, di cui oltre 6 miliardi riferiti ai soli formaggi), il ruolo che essi esprimono per la sostenibilità economica delle aree rurali va ben oltre questi valori economici. In Italia, le aziende agricole e di trasformazione collegate a questo sistema certificato hanno superato le 80.000 unità, per

un valore alla produzione vicino ai 7 miliardi di euro. La centralità del sistema DOP/IGP in Italia deriva dal fatto di rappresentare la principale destinazione per la produzione di suino pesante e latte vaccino, due tra le più importanti filiere zootecniche italiane. I formaggi DOP assorbono infatti la metà di tutto il latte vaccino prodotto, rappresentando altresì il 53% dell’export totale di formaggi, figurando tra i principali prodotti del made in Italy conosciuto in tutto il mondo. In particolare, la quota dei prodotti DOP/IGP italiani

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che raggiunge i mercati extra-UE è significativa, pari a circa il 48% dell’export in valore collegato a tali produzioni certificate. Il principale paese di destinazione è rappresentato dagli Stati Uniti. È importante porre l’accento sui mercati di destinazione dei nostri prodotti alla luce della crescita economica e sociodemografica che interesserà soprattutto le economie emergenti (BRIC). Basti pensare che, entro dieci anni, paesi come l’India, la Cina o il Brasile registreranno incrementi nei redditi e nel numero delle famiglie “benestanti” (con rilevante capacità di spesa) superiori al 60%. Questo aumento dei redditi comporterà una crescita dei consumi alimentari, tanto da portare ad un raddoppio delle vendite dei prodotti DOP/IGP nel mercato cinese. Tuttavia, la possibilità per tali prodotti di arrivare sui mercati esteri più lontani non è solamente frenata dall’elevata frammentazione che connota l’offerta produttiva, ma incontra una serie di barriere all’ingresso (ta-

riffarie e non tariffarie) che spesso ne rendono impossibile l’export. In conclusione, dalle evidenze illustrate precedentemente, si comprende come le DOP e le IGP rappresentino sistemi di qualità che hanno permesso di “contrastare” il crollo che ha coinvolto i consumi alimentari a causa dalla crisi economica. Basti inoltre pensare che, alla luce della prossima eliminazione delle quote latte, molti sistemi produttivi locali potranno continuare a sopravvivere proprio grazie all’esistenza dei formaggi DOP. Per tale motivo, le politiche europee per la qualità e il “pacchetto latte” del 2012 (che ha introdotto, tra l’altro, la programmazione produttiva necessaria a contrastare gli effetti negativi legati alle crisi di mercato) sono andate nella direzione di una maggior competitività dei prodotti DOP/IGP, necessaria alla tenuta e sostenibilità delle economie rurali europee. Una maggior competitività che deve necessariamente trovare un importante ambito di sviluppo nell’in-

ternazionalizzazione. Rispetto a tale obiettivo, gli ostacoli presenti nel percorso di crescita dell’export sono numerosi (basti pensare ai contrasti a livello istituzionale e commerciale per il riconoscimento giuridico delle indicazioni geografiche) e per tale motivo assumono rilevanza strategica gli accordi di libero scambio volti a “ridurre” tali barriere all’ingresso. Particolare attenzione merita quindi il TTIP (accordo USA-UE), alla luce del ruolo di primo piano detenuto dal mercato statunitense per l’export agroalimentare italiano e dei prodotti DOP/IGP. Paolo De Castro Nota Il testo è tratto dalla relazione svolta dall’on. PAOLO DE CASTRO nel corso della giornata di studio su: “Prodotti a denominazione di origine. Fattore di competitività e qualità: i formaggi”, che si è svolta a Firenze, presso la storica Accademia dei Georgofili, il 2 dicembre 2014 (www.georgofili.it); photo © www.conipiediperterra.com

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Interviste

Cina: rischi ed opportunità del più grande mercato al mondo di Sebastiano Corona

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isale al 10 gennaio 2014 la notizia dell’agenzia TMNews secondo cui la Cina avrebbe superato gli Stati Uniti sul valore degli scambi commerciali con l’estero, posando così una pietra miliare nella sua inarrestabile ascesa economica. Secondo i dati diffusi dal governo cinese, la somma del valore dei beni importati ed esportati dalla Cina nell’anno 2013 avrebbe infatti raggiunto i 4.160 miliardi di dollari, il 7,6% in più rispetto al 2012. In realtà, non vi è unanimità sull’attendibilità e veridicità di queste cifre e sul reale primato del Dragone, ma se anche gli scettici avessero ragione, rimarrebbe il dato oggettivo di un Paese che non

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conosce freni alla sua crescita e che, pur essendo un grande problema per i suoi competitor, rappresenta anche un mercato unico dove le occasioni sono infinite. Esportare in Cina non è però semplice. In un luogo così vasto e

così diverso dal punto di vista culturale, politico ed amministrativo, non solo non si può dare nulla per scontato, ma ogni azione va ponderata e calibrata. I rischi non sono, infatti, meno delle opportunità. E se bisogna usare prudenza nel presentarsi in un

“Il responsabile di un’importante piattaforma di importazione di prodotti alimentari ci svela i segreti di un’economia e di una cultura completamente diverse dalla nostra, con occasioni preziose di business, ma anche pericoli nascosti. E con nostra grande sorpresa, apprendiamo che non tutti conoscono il nostro enorme patrimonio enogastronomico, anzi” Premiata Salumeria Italiana, 1/15


Paese straniero, nel caso della Cina l’attenzione deve essere massima, pena perdita di tempo, di energie e di risorse preziose. Poiché in ambito alimentare le componenti di cui tener conto si moltiplicano: oltre alla normativa prevista per le altre tipologie di prodotto, interferisce infatti anche l’aspetto igienico-sanitario. Abbiamo intervistato un esperto della materia, la cui attività è proprio quella di supportare le imprese che intendono affrontare questo vastissimo mercato. AMEDEO MANGILI è il vicepresidente della Chengdu Two Lions Trading Co Ltd (tulansi.com), società che, oltre a fornire consulenza e servizi in materia di internazionalizzazione, gestisce una piattaforma di importazione di prodotti agroalimentari in Cina, e che ci ha raccontato vizi e virtù di un mercato di cui sappiamo poco o niente. Dott Mangili, cosa implica, dal punto di vista pratico, esportare prodotti alimentari in Cina? «Qui ogni processo è rigorosamente sorvegliato e fortemente burocratizzato; pertanto, qualunque operazione richiede tempi lunghi e protocolli macchinosi. Non solo la documentazione richiesta per l’ingresso di merci è ridondante in qualità e quantità, ma anche le norme a cui adeguarsi sono molteplici e mutano in continuazione. Ogni 20 giorni circa viene emanata una nuova disposizione in ragione di protocolli internazionali, esigenze igienico-sanitarie, o semplicemente per ragioni di politica economica. Inoltre, tutte le imprese estere si devono obbligatoriamente appoggiare ad un importatore che abbia sede in loco». C’è poi un altro aspetto ugualmente importante: quello di una strategia per entrare nel mercato. Qual è il modo migliore per approcciarlo? «Quello cinese è un mercato infinito ed è tutto sommato ancora vergine. Ma è tanto sconfinato quanto complesso e non può essere affrontato con superficialità perché si rischia un terribile buco nell’acqua. Potrà sembrare strano a noi Italiani, ma i nostri prodotti alimentari sono pressoché sconosciuti. L’Italia

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qui è nota per la moda, ma non per il cibo, e se in città come Hong Kong, Shanghai o Pechino abbiamo forse un minimo di visibilità, nel resto della Cina, un territorio sconfinato in cui abitano più di un miliardo di persone, c’è ancora un grandissimo lavoro da fare per comunicare chi siamo. Negli ultimi decenni Francesi e Tedeschi si sono spesi pesantemente per introdursi e questo sforzo è oggi pienamente ripagato. Qui il miele è tedesco, l’olio è spagnolo, il latte e i latticini sono francesi o tedeschi, il vino è francese e i succhi di frutta sono sudafricani. Dell’Italia c’è poco o niente e i Cinesi, anche quelli che vantano un alto livello culturale e una buona disponibilità economica, non sanno che l’Italia detiene un patrimonio enogastronomico unico al mondo». Ci sta dicendo che il binomio Italia uguale pasta, che noi crediamo essere scontato per tutto il pianeta, in realtà è solo una nostra illusione? «Voglio raccontare un aneddoto. Qualche giorno fa ho avuto a che fare con una persona di Chengdu, un giovane laureato che, nonostante le sue competenze, non sapeva che la pizza fosse un prodotto italiano, che fosse nata in Italia. Questo dimostra, semmai ce ne fosse bisogno, quale lavoro di comunicazione ci attende. Le imprese che vogliono affrontare questo mercato, oltre ad essere aziende solide, devono fare un piano di investimento e di intervento di almeno tre anni. I Cinesi non conoscono i nostri prodotti, non sanno che peculiarità hanno, come e quando vanno preparati e consumati, ma anche cosa li caratterizza e li distingue. Su questo bisogna quindi lavorare e bisogna farlo con grande pazienza perché i risultati, così come accade in tutte le operazioni di relazione e di comunicazione, richiedono tempo». Ma allora, ha un senso la partecipazione alle fiere in loco? «La presenza ad un evento fieristico internazionale, tanto più se in Cina, ha una logica solo se non è un intervento spot, ma fa parte di un programma più ampio di penetrazione di quel mercato; quindi, se c’è

Amedeo Mangili, vicepresidente di Chengdu Two Lions Trading Co Ltd. un lavoro a monte e uno a valle e se questa partecipazione è solo uno dei passaggi di una strategia fatta di azioni di diversa natura. Qui si deve operare con costanza, senza sosta e con una presenza permanente. I Cinesi, infatti, vogliono vedere e toccare con mano il prodotto e, per apprezzarlo, lo devono conoscere e capire». Di cosa hanno bisogno i Cinesi? «I Cinesi non hanno bisogno di nulla. Importano poco e quel poco che importano non lo importano per necessità. Non bisogna dimenticare che la Cina, nonostante l’apertura degli ultimi decenni, è un regime e come tale il protezionismo è altissimo. La bilancia commerciale è fortemente squilibrata sull’export e c’è da aspettarsi che nei prossimi anni si trovi un altro assetto da questo punto di vista, affinché la Cina, anche in ragione di nuovi accordi internazionali, pur continuando ad essere principalmente un esportatore, si riposizioni nel contesto globale divenendo anche un soggetto che importa». Quali imprese, a suo parere, possono affrontare un mercato del genere? «Lo spazio è soprattutto per le grandi aziende più che per le mediopiccole. Queste ultime, infatti, oltre

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a non riuscire sempre a sopportare i costi della penetrazione nel mercato, non riescono, nella maggior parte dei casi, a fare sufficiente massa critica per soddisfare la domanda. Ma sia per le prime, sia per le altre, è preferibile presentarsi sotto l’egida delle istituzioni, cioè enti pubblici o privati o associazioni d’impresa dove l’impegno sia comunque costante e duraturo, altrimenti si rischia di vanificare ogni sforzo». Quali sono i canali di vendita? «La distribuzione in Cina ha uno schema molto diverso da quello che conosciamo. L’Italia è assente anche da questo punto di vista. La GDO è infatti in mano a Francesi, Tedeschi e Giapponesi, ma il prodotto si veicola soprattutto nella media distribuzione, gestita dagli stessi Cinesi, ben più diffusa e capillare. Rimane una certa fascia di negozi di merce esclusivamente importata e preferibilmente occidentale, ma anche qui l’Italia è pressoché sconosciuta». Quali sono i prodotti alimentari che potrebbero incontrare gusti ed esigenze del mercato cinese? «Il biologico ha importanti potenzialità, di qualunque prodotto si tratti. Sebbene le nostre certificazioni bio non siano considerate valide in Cina, e dovrebbero teoricamente essere sottoposte ad un nuovo processo di certificazione, quando sono presenti attribuiscono al prodotto una certo appeal commerciale. Le nuove generazioni non hanno ancora del tutto superato il dramma degli scandali alimentari degli ultimi anni. Quello del latte, che ha creato gravi danni e ucciso decine di bambini, è solo il più noto, ma sono accadute anche altre gravi vicende in termini di frodi o sofisticazioni che hanno lasciato il segno. La risposta è quella della ricerca di un’alimentazione quanto

Con la nota del Ministero della Salute dello scorso marzo, si è concluso il lungo iter di negoziazioni per l’apertura del mercato cinese ai prodotti cotti della salumeria italiana avviatosi nel 2004 tra il Governo Italiano e quello di Pechino, con l’abilitazione di un primo gruppo di aziende che potranno esportare i salumi cotti, come la mortadella e il cotechino, ottenuti da carne di suini nati, allevati e macellati in Italia. più possibile sana e preferibilmente non locale. I giovani, che in generale hanno una particolare sensibilità e che mostrano un livello culturale medio-alto, propendono per prodotti la cui origine fornisca delle garanzie su salubrità e qualità del prodotto. Vino, succhi di frutta, olio d’oliva, biscotti e prodotti da forno, pasta secca e conserve, sia vegetali, sia animali, soprattutto se biologici, sono cibi che possono incontrare il favore del mercato e su cui bisognerebbe costruire, tanto più che in queste produzioni l’Italia eccelle in qualità e varietà. Lo sbocco per i prodotti freschi è molto più faticoso per ciò che comporta la spedizione, lo sdoganamento e la distribuzione. I costi di invio in aereo sono infatti molto alti, quindi si propende per la nave

“Negli ultimi decenni Francesi e Tedeschi si sono spesi pesantemente per introdursi e questo sforzo è oggi pienamente ripagato. Qui il miele è tedesco, il latte e i latticini sono francesi o tedeschi, il vino è francese. Dell’Italia c’è poco o niente” 58

e ovviamente i termini si dilatano. Quando finalmente la merce giunge a destinazione, la burocrazia che sovrintende allo sdoganamento e al disbrigo delle pratiche porta via altri giorni preziosi. Segue lo scoglio della distribuzione che genera ulteriori lungaggini ed è così che volano quasi due mesi. Morale: per un prodotto che ha una shelf-life ridotta, è davvero difficile arrivare allo scaffale, se non a qualche giorno dalla scadenza». Da dove possiamo iniziare allora? «Intanto chiedendo supporti a chi opera in quel contesto specifico, poi programmando a lungo termine e senza avere fretta, prevedendo azioni continue e costanti e bandendo qualunque evento spot che, da solo, non ha ragion d’essere. In seconda battuta, è necessario armarsi di pazienza perché questo è un luogo in cui le soddisfazioni arrivano, ma con il tempo». Sebastiano Corona Nota A pagina 56 un dragone, creatura simbolo di forza, armonia e fortuna della mitologia e dello zodiaco cinese.

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Prodotti tipici Specialità piemontese, diffusa anche nel Canton Ticino

Cotta o cruda è sempre mortadella di fegato di maiale di Nunzia Manicardi

L

a mortadella di fegato di maiale è una specialità tipicamente piemontese riconosciuta come Prodotto Agroalimentare Tradizionale (PAT) italiano in due diverse tipologie: quella da consumare cotta, indicata nell’elenco dei PAT come “48 – Mortadella di fegato cotta (mortadella d’Orta)”, così chiamata dal principale luogo di produzione, e quella da consumare cruda, indicata come “49 – Mortadella di fegato cruda (in piemontese “fidighin” o fideghina)”. Dal Piemonte alla Svizzera È un salume a base di carni di suino a cui viene aggiunto fegato di maiale.

Non ha quindi niente a che vedere con la più famosa Mortadella Bologna IGP, benché condivida con essa il nome che deriva dal latino myrtatum che significa “condito con mirto”, come probabilmente avveniva — soprattutto ai fini della conservazione — prima dell’introduzione del pepe. La mortadella di fegato è tipica del Piemonte, in particolare delle province di Novara (dove si trova il lago d’Orta, da cui prende il nome la varietà cotta più famosa) e di Vercelli, ma viene prodotta anche in altre zone dell’Italia settentrionale (Bassa Lodigiana, Milanese, Comasco, Pavese) e nella Svizzera italiana (Canton

Ticino). Si producono mortadelle di fegato anche in Toscana, a Prato e dintorni. I norcini piemontesi la chiamano, come già ricordato, fidighin o fideghina (dal nome dialettale del fegato), quelli lombardi mortadela de fidig e gli svizzeri fidighela, a riprova di una sostanziale unità, perfino nel nome, di usi e gusti, che non tiene conto delle artificiose barriere create dalla storia politica. La mortadella di fegato di maiale è entrata da qualche anno nel presidio territoriale di Slow Food Varese, che cerca di valorizzarla con iniziative varie per aiutare i produttori, tutti a filiera corta. Questo progetto prevede

Fidighin, mortadella di fegato, servita come antipasto (photo © armadillobar.blogspot.it).

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una stretta collaborazione con i norcini del Canton Ticino, perché solo in questo modo si possono contenere i costi del presidio, che non sono indifferenti, soprattutto se rapportati alla limitata produzione e diffusione del prodotto. Gli ingredienti di base sono carni di suino miste e morbide come i ritagli e carni grasse e tenere provenienti dalla rifilatura del prosciutto, nonché il grasso del sottogola del suino e la pancetta. Una parte è costituita da carni di vitello. A questi ingredienti si aggiunge il fegato, le cui proporzioni variano a seconda del produttore (tra il 2 e il 5%, ma anche fino al 15%). Il fegato rende la mortadella leggermente piccante. La carne e il grasso vengono macinati grossolanamente, invece il fegato viene tritato a parte, molto fine, sino a trasformarlo in poltiglia. Alcuni aggiungono anche la milza per dare all’insaccato un bel colore rosso. Al momento della tritatura si aggiungono, a seconda dei casi, sale nitritato o salnitro e pepe. Le carni vengono poi conciate con spezie e aromi. Generalmente si tratta di cannella, chiodi di garofano bolliti nel vino rosso, noce moscata e talvolta anche succo di limone per attenuare il gusto amaro del fegato. Si bagna il tutto con il vin brulè, spesso di Barbera, ma ognuno usa i propri prodotti: sempre in Piemonte, per esempio, c’è anche chi utilizza bottiglie pregiate di Barolo e Barbaresco e c’è pure chi insaporisce con l’Amaretto di Saronno secondo la ricetta dei vecchi norcini. Nel sito di Slow Food, a tale proposito, è riportata la testimonianza del norcino DESIDERIO CARRARO, titolare di Pian du Lares: «Il tocco d’amaretto viene da una vecchia ricetta di cui sentivo parlare quand’ero bambino. Lo aggiungo al posto del Marsala quando faccio l’impasto. Anche la legatura è particolare, concentrica a forma di rosa, con la muletta di maiale. È la stessa tecnica che usano i norcini del Canton Ticino. Ognuno ci mette qualcosa di personale. Ma la cultura e le tradizioni sono le stesse». Per completare la lavorazione, l’impasto viene poi insaccato nel budello del maiale o di manzo, oppure nella muletta del maiale, a seconda

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Paniscia (photo © lechategoiste.blogspot.it). del tipo di mortadella che si vuole produrre, cruda o cotta. Mortadella di fegato cruda (“fideghin” o “fideghina”) Nella preparazione della mortadella destinata ad essere consumata cruda gli ingredienti sono insaccati in un budello di maiale adatto a una buona conservazione ma troppo delicato per sopportare una cottura. Seguendo la tradizione, la mortadella viene piegata a forma di cavallo e poi asciugata e stagionata per alcune settimane oppure per alcuni mesi (anche 4 o 5), a seconda della grandezza del prodotto. Il rischio è che, essendo molto umido il budello, le mosche possano deporvi le uova, specialmente negli anfratti costituiti dalla forma semicircolare. Per questo motivo i produttori, che

comunque desiderano conservare questa forma tipica, inseriscono pepe nelle pieghe per tenere lontani gli insetti e controllano spesso il prodotto. In passato le fideghine venivano fatte stagionare in cantina con i bracieri accesi per asciugarle; attualmente vengono poste in celle di stagionatura. Spesso erano conservate nelle duje (recipienti tradizionali) con lo strutto di maiale. La pezzatura del prodotto finito varia in genere dai due etti al mezzo chilogrammo. Il colore può essere diverso in base alla quantità di fegato utilizzata, ma tende in genere al rosso mattone chiaro. La consistenza deve risultare morbida, con tendenza a sfaldarsi. Quella appena descritta è una produzione artigianale che prevede diverse varianti

Non poteva mancare l’Ode alla fidighina, una poesia scritta da MAESTRO FRANCIONE (Da Celestino – Baraggia) che abbiamo trovato nel sito del comune novarese di Suno (www.comune.suno.novara.it). Cum t’è buna o fidighina: di salam t’è la rigina! Pa piös cocia, ta piös crüua, specialment al temp a dl’üua; par al véri buchi buoni ti ta piös tüti sctagiuni! Jà i nôsct vec, al cèr dla lüm,

it mangiöva pina ad füm, it mangiöva a grôn ganàsa sia sôca che suta grasa e incó dès t’è un canon specialment cum al pôn rulon, cumpagnà fin a la fin da un coi bon bicer ad vin.

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allo schema generale, tra le quali la conservazione dell’insaccato sotto grasso (fidighin d’la duja), come si faceva in passato. La zona di produzione comprende Novara e la provincia omonima con il lago d’Orta, fulcro della zona tradizionale, Vercelli e la sua provincia e, in particolare, le zone collinari della Bassa Valsesia. Si consuma cruda dopo la stagionatura o la conservazione sotto grasso, eventualmente anche affumicata. La mortadella di fegato cruda è l’ingrediente principe della panissa o paniscia, piatto tipico del Vercellese e del Novarese. Non ci sono molte certezze sull’origine di questo piatto; sembra che il suo nome derivi dal fatto che originariamente, al posto del riso, si utilizzava il panìco (una varietà povera di miglio, che a sua volta era considerato un cereale minore) o comunque un cereale di poco pregio. Il termine latino paniculum, migliaccio, fatto con il miglio, sembrerebbe la radice etimologica del nome. In ogni caso è un piatto unico e molto semplice, che si completa con fagioli, ortaggi e vino rosso, a cui la mortadella di fegato — insieme con un po’ di lardo e cotica di maiale — conferisce sapore e sostanza. La mortadella di fegato ha origini molto antiche. Sappiamo che in Italia esisteva già nel XVII secolo, grazie alle ricette lasciate da VINCENZO TANARA

nel suo libro L’economia del cittadino in villa, pubblicato a Bologna nel 1644, in cui si legge: “con fegato non molto minutamente posto, misticati pezzetti d’assugna fresca, coriandolo, poco sale e pepe, se ne fa salame assai buono da mangiarsi in primavera”. Si abbina benissimo anche con la polenta, a cui va aggiunta a fine cottura. Mortadella di fegato cotta (“mortadella d’Orta”) La zona di produzione dell’insaccato comprende anche in questo caso Novara e la provincia omonima con il lago d’Orta, da cui la mortadella cotta prende il nome, Vercelli e la sua provincia e, in particolare, le zone collinari della Bassa Valsesia. Per la preparazione della mortadella cotta si utilizzano rifilature magre, residui di altre lavorazioni (45-65%), grasso del sottogola del maiale e fegato in quantità compresa tra il 5-10% e il 20-25%. La carne viene tritata assai finemente. La concia avviene con vin brulè, cioè vino rosso bollito (generalmente Barbera), anice stellato, chiodi di garofano, cannella e altre spezie. Il tutto viene insaccato in un budello diritto di manzo, che ha un diametro maggiore rispetto al budello di maiale utilizzato per la versione cruda, oppure nella muletta di maiale (cieco). Quest’ultimo è un tipo di budello che sopporta meglio la cottura in acqua,

Mortadella di fegato stagionata (photo © wikipedia.org).

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Una delle rare edizioni originali del più importante e più diffuso libro italiano di agronomia del Seicento ad opera di Vincenzo Tanara, “L’economia del cittadino in villa” (1644). quindi senza il rischio di rompersi o di far fuoriuscire da qualche parte il composto. L’insaccato viene asciugato per un periodo variabile da un paio di giorni fino ad alcune settimane e poi è cotto completamente al vapore o in acqua calda. Una volta la cottura avveniva in pentoloni con acqua bollente; attualmente i salumifici effettuano la cottura a vapore. La stagionatura dura circa 60 giorni. Viene confezionata sottovuoto, intera o tagliata a fette, sempre piuttosto spesse, perché altrimenti si sfaldano. Il Salumificio Colombo di Crosio della Valle ha messo in commercio anche una versione aromatizzata, oltre che al vin brulè, alla grappa d’Angera. Il “sacc” Il sacc è una mortadella più grande, del peso di circa 2 chilogrammi, insaccata nell’intestino cieco del maiale, detto sacco. Viene prodotta quasi esclusivamente da privati, che macellano i suini per uso domestico, e consumata in settembre, nel periodo della vendemmia. Per la preparazione si seguono le stesse indicazioni usate per la mortadella cotta. Analogo è anche il sistema di cottura, stagionatura e confezionamento. La pezzatura è solitamente compresa tra i 2 e i 3 chili. Nunzia Manicardi

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Dalla formula “ora et labora“ alla goletta piacentina di Josette Baverez Blanco

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o voluto di recente far ammirare ad amici stranieri di passaggio in Italia la splendida abbazia cistercense fondata da San Bernardo di Chiaravalle nel 1136 ad Alseno, in provincia di Piacenza. Ne raccomando vivamente la visita a chi non si è mai fermato ad ammirare questo grande complesso che ben si nota dall’autostrada del sole, sito proprio nella frazione detta Chiaravalle della Colomba, in una zona allora disagiata che fu bonificata e coltivata dai monaci. La leggenda vuole che questo appellativo sia legato al fatto che i monaci videro una colomba volteggiare sopra di loro e

delineare con pagliuzze il perimetro del complesso. In realtà si riferisce probabilmente alla discesa dello Spirito Santo nel grembo di Maria durante l’Annunciazione. I monaci erano grandi lavoratori e iniziarono, come in tante altre abbazie, ad allevare maiali come fonte di sostentamento dato che, come ben si sa, del maiale non si perde nulla. La celebra formula “ora et labora” di San Benedetto da Norcia è stata ripresa e vissuta con amore proprio da San Bernardo, che ha sempre valorizzato la parola e la preghiera e le capacità manuali (quindi le lavorazioni di tutti i tipi).

Poco distante dal convento, abbiamo scoperto casualmente una prelibatezza con minor notorietà dei salumi piacentini classici, come la coppa o la pancetta, ma con un sapore e un gusto tipico risultato della qualità dell’animale e dalla particolare lavorazione. Si tratta della “goletta”, prodotto antico e tipico della norcineria piacentina, che non si trova nelle vicine province di Parma, Reggio Emilia e Modena. Il maiale da cui si ricava la goletta è un suino pesante, dalla struttura compatta, con cosce e natiche ben sviluppate, lombi larghi e muscolosi. L’animale deve raggiungere un peso di almeno

Goletta piacentina. Piacenza è da secoli un importante centro di produzione di salumi di eccellenza, alcuni dei quali oggi sono protetti dalle denominazioni comunitaria di qualità (photo © www.salumificiopevericarlo.com).

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Fu nelle case rurali della Pianura padana che vennero messe a punto le tecniche della salagione e della stagionatura, radicatesi in seguito in Italia ed in Francia. Da allora in poi la delicata pratica della salagione delle carni suine divenne un vero e proprio comandamento (in alto, la bottega di un macellaio del XIV secolo).

180-200 chili nell’arco di 10-11 mesi perché dalla sua macellazione si possa ricavare questo taglio sotto il grugno alto almeno 4-5 centimetri, lo spessore giusto della gola. La goletta è quindi un prodotto certamente non magro, caratterizzato da leggere venature rosate su tutta la lunghezza. La sua lavorazione è molto simile a quella di altri salumi. Una volta rifilata la carne e cosparsa di sale in modo che perda la sua acqua, resta un mese in cella frigorifera. Le golette sono poi ricoperte di spezie e messe a stagionare in locali freschi ma non umidi. La loro maturazione, appese ad una cordicella, dura dai 3 ai 5 mesi, conferendogli consistenza e sapore. È proprio in questa fase, infatti, che la goletta si differenzia da altri salumi simili come il guanciale, la pancetta o il lardo. Tagliata molto sottile, emana un particolare profumo speziato. Molto versatile, può essere servita sul tagliere dei salumi come gustoso antipasto, scaldata su di una bruschetta o come ripieno di un panino; in cucina, prende tranquillamente il posto della pancetta per avvolgere verdure o carni, per lardellare la selvaggina, le carni rosse o per arricchire vari intingoli. Josette Baverez Blanco

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Fabriano e il salame di Garibaldi Tutelato da un Disciplinare di produzione dal 2003, oggi presso l’Università di Camerino si cerca il miglior incrocio di razze suine da cui ottenere carni di qualità adatte alla sua lavorazione di Riccardo Lagorio

È

assolutamente irrealistico stabilire quale sia il salame più buono che viene prodotto in Italia. Al contrario, si può stendere una classifica dei salami più curiosi. O, se vogliamo, più caratteristici. In questa particolare graduatoria il salame di Fabriano è senz’altro quello che, per storia e modalità di presentazione, può vantare delle credenziali tali da comparire tra le prime posizioni. La sua origine risale ad un periodo precedente il 1877. È infatti in quell’anno che ORESTE MARCOALDI cita nel suo manualetto intorno alle usanze, i pregiudizi, i giuochi ed i

vocaboli più genuini del vernacolo marchigiano il termine “salame”, dandone patria potestà a Fabriano, al pari della mortadella per Bologna e dello zampone per Modena. Passeranno pochi anni e il 1881 è un altro caposaldo nella ricostruzione storica sul salame di Fabriano. Ad interessarsene, questa volta, è un personaggio del tutto speciale. Fabriano diede un apprezzabile contributo all’Unità d’Italia ed i patrioti fabrianesi si organizzarono nel Comitato Nazionale che prese il nome di “Ferruccio”. Tra coloro che vi parteciparono figurava Benigno Bi-

gonzetti, che diventerà stretto amico di Giuseppe Garibaldi. Anche all’epoca il regalo gastronomico fungeva da biglietto da visita per il territorio e l’Eroe dei due mondi ringraziò con una missiva il Bigonzetti per i “tanto buoni salami ricevuti”. Il riferimento era a “salami confezionati con carne suina interamente magra, tolto cioè grasso e nervi, pesta sottilissimamente, aggiuntovi centoventi lardelli, ventiquattro a forma di dadi, condita con sale e pepe nero” secondo la descrizione che li accompagnava. La data del 22 aprile rivela anche la stagionalità del prodotto, ancora oggi

Salami di Fabriano (photo © Elena Benedetti).

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essendo la primavera il periodo ideale per il suo consumo. Tradizionalmente il salame di Fabriano veniva consumato il giorno di Pasqua, a colazione, ed il periodo di produzione era di conseguenza quello più freddo dell’anno (anche oggi è prevista la produzione da fine settembre a inizio maggio). Serve però arrivare al 2003 per leggere un Disciplinare di produzione messo a punto di concerto da parte dell’amministrazione comunale e da una decina tra produttori e allevatori. L’areale di produzione coinvolge, oltre il territorio di Fabriano; i comuni di Pergola, Frontone e Serra Sant’Abbondio in provincia di Pesaro e Urbino; Pioraco, Matelica, Esanatoglia, Pioraco e Fiuminata in provincia di Macerata e Sassoferrato, Serra San Quirico, Genga, Cerreto d’Esi, Arcevia nell’Anconetano. I capi destinati a diventare salame di Fabriano devono provenire da allevamenti situati negli stessi territori e, solo in casi di necessità accertata, il consiglio di amministrazione del Consorzio può derogare a fare ricorso da aree della dorsale appenninica confinati con il comune di Fabriano. I suini devono inoltre pesare almeno 200 kg e avere almeno 12 mesi di età (suino sopranno). «Presso l’Università di Camerino è in fase sperimentale uno studio per stabilire quale possa essere il migliore incrocio che consente di ottenere carni adatte alla lavorazione del salame di Fabriano. Attualmente scrofe Large White vengono incrociate con verri di Cinta senese e le scrofe ottenute per verri di Duroc. Ciò garantisce carni sode e sapide benché nessuno degli animali sia attualmente soggetto a pascolamento». Questo ce lo racconta MASSIMILIANO CARSETTI, esperto macellaio, facente parte del consiglio di amministrazione. L’accrescimento avviene alimentando i soggetti con orzo, avena, crusca di frumento, mais e soia non OGM prodotti nel territorio umbro e marchigiano ma anche ghiande, zucche e patate, e sfalcio di prato stabile anche affienato. La prima fase di lavorazione prevede il taglio del lardo dorsale in cubetti dalla dimensione tra 0,5 a 1 cm e nella selezione delle carni di

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Fabrizio Barbarossa e Massimiliano Carsetti, allevatori produttori del Consorzio per la Produzione e la Tutela del Salame di Fabriano. spalla e coscia prive di nervatura. Le carni subiscono un primo taglio con trafile grosse (da 10 mm) e due altri passaggi da 6 e 2 mm, ovvero tali da arrivare alla giusta grana. L’impasto è condito con sale (da 26 a 29 g per kg), pepe nero in polvere e in grani per un massimo di 5 g e vino bianco. Il lardo cubettato, che viene salato e mescolato all’impasto appena prima dell’insaccatura, rappresenta al massimo il 12% del totale dell’impasto, un altro 3% al massimo di grasso sodo è rappresentato da quello connesso alle carni ed è vietato aggiungere grasso all’impasto. Il tutto viene inserito in budello gentile, la sezione dell’intestino più adatta alle lunghe stagionature, in grado di conferire aromi particolari all’insaccato. I salami vengono appesi accoppiati, senza avere contatti e lasciati riposare per un periodo di 72 ore in appositi locali riscaldati da fuoco lento per consentire la fuoriuscita dell’umidità che il budello può avere assunto durante la fase di lavaggio e la prima asciugatura. Quindi il salame passa in locali di maturazione dove la temperatura sarà di circa 14°C e l’umidità dell’80%. Si tratta in questo caso di cantine o solai aerati poiché le celle di stagionatura sono considerate inidonee a garantire le caratteristiche organolettiche del prodotto finito. La stagionatura si protrae per 60 giorni. A questo punto l’aspetto esteriore

si presenta caratterizzato da muffa nocciola, dura e ruvida al tatto. Il peso è variabile tra i 400 e i 700 g, la lunghezza variabile tra i 30 e i 35 cm con diametro tra i 6 e gli 8 cm. Al taglio la carne è compatta, di colore rosso, con lardelli bianchi regolari e grana fine, dove si possono avvertire chiaramente i grani di pepe intero e la polvere di pepe. L’aroma è intenso, il gusto è prezioso e delicato. Ciascun esemplare è inoltre munito di sigillo per garantire la corrispondenza al Disciplinare di produzione ed una certificazione stampata su carta filigranata realizzata a cura del Museo della Carta e della Filigrana di Fabriano. Due sono i vini locali che sposano a meraviglia l’autentico salame di Fabriano: il Verdicchio di Matelica Gagliardi, di colore tenue, olfatto di frutta fresca, sapido al gusto e piacevole retrogusto amarognolo, e il Castellare spumante, ottenuto con metodo Scacchi da uve Chardonnay, dell’Azienda Agricola Sbaffi che esalta la fragranza e l’intensità dell’aroma varietale. Vi parrà meno irrealistico scovare il salame più buono d’Italia. Riccardo Lagorio Nota Il Consorzio per la Produzione e la Tutela del Salame di Fabriano ha sede in piazzale 26 Settembre 1997, telefono: 0732 709221; info@salamedifabriano. it; www.salamedifabriano.it

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Nasce il Consorzio della Culatta di Busseto La culatta, prestigioso salume tipico di Parma, gioiello della nostra tradizione e anello di congiunzione tra il culatello e il prosciutto crudo di Parma, ha ora un suo Disciplinare di produzione garantito esclusivamente dal Consorzio della Culatta di Busseto. Il Consorzio è presieduto da GIORGIO PEDRAZZI, presidente di Italia Alimentari, e ha la missione di vigilare sull’applicazione del Disciplinare di produzione che contiene indicazioni particolarmente stringenti sulla zona di produzione (esclusivamente i comuni di Busseto e Soragna), sulla materia prima, sulle modalità di lavorazione e sulla stagionatura, che non può essere inferiore a 12 mesi. «Siamo particolarmente orgogliosi di poter valorizzare questo prodotto della nostra tradizione» spiega Giorgio Pedrazzi. «La culatta è tipica di una zona ristretta delle Terre verdiane e con la creazione del Consorzio di tutela vogliamo preservare tutti i valori del prodotto, ma anche offrire l’opportunità di farlo conoscere a un pubblico più ampio, che ben può apprezzarne le caratteristiche eccellenti». Per la produzione della culatta di Busseto si utilizzano solo cosce suine pesanti nazionali selezionate. Dalla coscia si ricava la parte migliore, la più pregiata e nobile, senza osso, senza gambo e senza fiocco. Viene lasciato solamente un piccolo ossicino, detto anchetta, per evitare il rischio di infiltrazioni in fase di stagionatura, che in tal modo può essere prolungata nel tempo. La lavorazione è estremamente naturale; non viene insaccata poiché un lato è coperto dalla cotenna, mentre la parte magra viene ricoperta di sugna per mantenere il prodotto morbido durante la stagionatura. La culatta viene poi messa in rete e stagionata nelle cantine naturali. Ha poco scarto e la sua forma tonda consente di avere fette uguali dall’inizio alla fine. Si presenta di un colore rosso intenso, con presenza di grasso nella parte esterna e tra i fasci muscolari. Il profumo è intenso di stagionatura di cantina, il gusto morbido e dolce come il prosciutto, pastoso e sofisticato come il culatello.

Italia Alimentari Spa è una società del Gruppo Cremonini specializzata nella produzione, commercializzazione e distribuzione di salumi e snack. I prodotti di Italia Alimentari sono commercializzati con i marchi Ibis Salumi, Corte Buona, Montana e Spanino. La struttura industriale dell’azienda è costituita da stabilimenti specializzati per tipo di produzione: Gazoldo degli Ippoliti (MN), sede centrale e piattaforma distributiva di tutto il comparto, dove si producono preaffettati e snack; Busseto (PR), sede della produzione di culatelli, mortadelle, salami e salumi tipici; Postalesio (SO), dedicato alla bresaola e carpaccio.

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Pendola, tradizione veneta verso l’oblio Alimento tipico del Longaronese, la pendola veniva appesa al “fogher” di casa, il cui fumo essiccava la carne, donandole un aroma particolare. Affumicatura, salagione e aromatizzazione consentivano la conservazione del prodotto per lunghi periodi di Giorgio Montanari

L

ongarone è un paese in provincia di Belluno, sconvolto all’inizio degli anni ‘60 dalla tragedia del Vajont. Proprio a Longarone oggi sopravvive localmente, nel panorama delle produzioni a base di carne, la tradizione della pendola. Si tratta di un prodotto decisamente povero, nato per conservare le carni e, quindi, potersi sfamare anche nei periodi cosiddetti “difficili”. Le persone appartenenti ai ceti più umili la usavano come fonte di proteine per ritemprarsi dopo un’intensa giornata lavorativa; ad esempio, tradizionalmente le mogli preparavano una porzione di pendola ai mariti che, di mestiere, erano costretti a trascorrere

lunghi periodi lontano da casa (come ad esempio i boscaioli). La carne secca a lunga conservazione di nonno Bepi Col nome “pendola di Longarone” si identificano degli straccetti di carne affumicata ed aromatizzata con erbe. Si tratta di un prodotto le cui origini si perdono nella notte dei tempi: le tracce più frequenti sono ritrovate nella zona del Longaronese, con un’estensione di una quindicina di chilometri ad est in Val Cellina (Erto, Cimolais, Claut) e ad ovest (Igne e Val Zoldana). Nel ricercare informazioni in merito a questa interessante nicchia alimentare, chi scrive ha cono-

sciuto un gentilissimo signore la cui testimonianza è stata preziosa per la stesura di questo articolo. Il signore in questione è Giuseppe Vazza, oggi in pensione, ma a partire dagli anni ‘50 titolare di una macelleria e di un piccolo salumificio nel suo paese, Codissago. Vazza ereditò la ricetta delle pendole da nonno “Bepi” (classe 1875), allevatore e (stagionalmente) macellatore ad uso famigliare. Ai tempi di nonno Bepi si era soliti preparare le pendole impiegando carni di capra o di pecora. I vantaggi erano prevalentemente di natura pratica: non esistendo i frigoriferi, l’utilizzo di animali di piccola stazza era proporzionato alle esigenze

Pendola di Longarone (photo © www.lebon.it).

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Bacche di ginepro. Insieme ad aglio, alloro, rosmarino e ad altre spezie, il ginepro è utilizzato nella concia della pendola (photo © bricioledisapori.blogspot.it). alimentari di una famiglia media di sei/sette persone. Con la quantità di carne conservata grazie alla salatura e all’affumicatura ci si sfamava anche nel periodo estivo, nonostante il caldo ed la minaccia delle mosche. Le fasi produttive, del tutto artigianali, erano piuttosto delicate. Immaginiamo di osservare Bepi in azione: le parti nobili dell’animale (coscia, spalla, lombo ed altro magro: circa il 40% della carcassa) venivano private di muscoli e nervature, poi tagliate a listarelle spesse tre/quattro centimetri. L’attenzione dell’operatore era riposta sull’andamento del taglio: veniva praticato “contro vena” e “contro nervatura” per donare al prodotto fi nito la giusta tenerezza, conservata anche dopo il periodo di essiccatura. Il passaggio successivo riguardava la salatura. Ai tempi di nonno Bepi, sia per ragioni di gusto sia per proprietà antibatteriche, si impiegavano aromi come aglio, ginepro, alloro e rosmarino, nonché spezie quali pepe, cannella, chiodi di garofano, pimento e coriandolo; si aggiungeva un po’ di zucchero e, nella preparazione della concia, si preferiva vino rosso di buona qualità. Il periodo di “macero”, che avveniva in due recipienti separati, durava almeno 30 ore (periodo variabile a seconda della temperatura e dell’umidità esistente nelle giornate di lavorazione: se, per esempio, il

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freddo era elevato e l’umidità scarsa, allora era necessario aumentare le ore di macerazione). La fase seguente era quella dell’affumicatura: le strisce di carne venivano fatte giacere, grazie allo spago, su chiodini di acciaio oppure su una matrice di piccoli legni. L’ambiente era quello del camino domestico, il fogher, piccole stanze in muratura munite di focolare con relativi “registri” per regolare l’uscita dei fumi. L’operazione era molto importante per il corretto risultato fi nale: il fumo è infatti una sorta di “ingrediente”, che dovrebbe risultare come un piacevole aroma che affiora al palato ed al naso del consumatore. Tradizionalmente si era soliti calcolare una tempistica di almeno trenta ore, alternando a sessioni di 7 ore di fumo “freddo” 4 ore di aria pura: in questo modo il semilavorato, ancora umido, era in grado di assorbire le esalazioni, scongiurando il formarsi di un velo esterno (“pattina” o “calide”, nel dialetto locale). Il fumo può essere generato direttamente sotto il prodotto (nel caso delle pendole o dei würstel artigianali) oppure tramite fornelli esterni che lo immettono, freddo, all’interno dell’ambiente. La procedura tradizionale prevede che la combustione sia originata da segatura o legni molto stagionati e privi di umidità (questi, inoltre, non

devono contenere vernici, tannini, resine naturali o sintetiche): i più utilizzati sono sicuramente il faggio o il nocciolo. Terminata l’affumicatura si procede con l’essiccazione della pendola. In primis è necessario accertarsi che dal braciere non provengano altre esalazioni; secondariamente, con della legna molto stagionata e secca (possibilmente tagliata nel calare lunare) si crea un rapido fuoco portando l’ambiente a 80°C per circa cinquanta minuti. Questo calore secco sulla carne ancora molto umida provoca una specie di “stufatura”: è necessario quindi non scottare il prodotto al fi ne di donargli una colorazione marrone/castana. Terminato quest’ultimo processo, e conclusa la conseguente fase di raffreddamento, la pendola è pronta per essere gustata. Pane e pendola Il panorama odierno registra solo pochissimi operatori industriali, che vendono la specialità in sacchetti sottovuoto da 110/150 grammi, oltre a qualche macelleria specializzata. La tradizione sopravvive grazie alla produzione famigliare di chi, magari proprio come il signor Vazza, è cresciuto a “pane e pendola”. A proposito: le vecchie ricette, tramandate di nonna in mamma, vedono questa specialità protagonista del “brodo di polenta”, dove dei piccoli pezzi di pendola soffritta sono mixati ad un liquido a base di acqua e farina gialla. Forte dell’uso di erbe aromatiche e legni profumati, un altro impiego classico del salume è in un’insalatona longaronese: le pendole, non ancora essiccate, sono tagliate a strisce sottili come fiammiferi e servono per impreziosire una ciotola con rucola (meglio se selvatica) e scaglie di formaggio grana, il tutto condito da un’emulsione di olio e limone. Vista l’origine povera del prodotto, per coerenza se ne riutilizzano anche gli scarti di lavorazione. Questi possono essere frullati e ridotti in “polvere” (più facile da conservare in frigo o sottovuoto) oppure possono servire come integrazione in un’infinità di ricette: dai primi (pasta alla carbonara, spaghetti aglio e olio) fi no ad insaporire le bistecche ai ferri o in padella. Giorgio Montanari

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La Maialata di Sant’Antonio: celebriamo il divin porcello «La Bottega del macellaio esiste dal 1898. E a noi piace conservare le tradizioni». Così ci racconta Guido Mongiorgi, titolare di questa storica macelleria a Savigno, un paesino nell’Appennino emiliano tra Bologna e Modena noto per la fiera novembrina dedicata al pregiato tartufo bianco. All’avvicinarsi delle celebrazioni del 17 gennaio dedicate a Sant’Antonio Abate, considerato il protettore degli animali domestici, tanto da essere solitamente raffigurato con accanto un maiale che reca al collo una campanella, da oltre 15 anni il signor Mongiorgi riunisce conoscenti ed amici per dare vita alla Maialata. Si tratta della tradizionale macellazione del maiale (pcarìa) e della sua trasformazione in insaccati, un rituale antico, presente in molte zone d’Italia, che si svolge da sempre tra la fine di novembre e l’inizio di gennaio. «Quest’anno ci siamo ritrovati presso l’Azienda agricola vitivinicola La Torricella, sempre a Savigno. I maiali macellati erano tre, con un peso finale di circa sette quintali». Come ci insegna la saggezza popolare, melius abundare quam deficere… (in basso: a sinistra, Guido Mongiorgi fotografato insieme a Matteo e Giorgio Mongiorgi e Giuseppe Balugani; a destra, Mongiorgi con il figlio Amedeo).

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Vecchia Latteria di Codemondo, qui piacere è un sostantivo Dopo una vita spesa tra le mura di quello che fu un caseificio, Dino Miselli ha ceduto il timone della Vecchia Latteria ad Angelo Gatti e Rosalba Chierici. Siamo in quel di Reggio Emilia, all’interno dei locali rinomati per il Parmigiano Reggiano e la salumeria a firma esclusiva di artigiani del territorio di Fabio Butturi

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hi pensava che caput mundi fosse epiteto esclusivo della città eterna si deve ricredere. Codemondo non significa altro che questo, capitale dell’orbe terracqueo, eppure qui non c’è traccia

di fontane felliniane, lasciti consolari e candidi colonnati in odore di santità. Più prosaicamente ci troviamo a un pugno di chilometri da Reggio, proiettati sulla Via Emilia in direzione dei declivi pedemontani; in questi

paraggi rivendicano sia i natali che la quintessenza del grana, nella sublime codifica reggiana-parmigiana. Ci troviamo in via Carlo Teggi, al limitare dell’ingresso della Vecchia Latteria, sulla strada che da

Angelo Gatti e Rosalba Chierici, titolari de La Vecchia Latteria.

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Codemondo procede verso Cavriago, località che ha dato i natali al fuoriclasse della pallavolo Luca “Bazooka” Cantagalli. Ad accoglierci è lo sguardo severo, corrucciato e bonario al tempo stesso, di Dino Miselli, che con la moglie Soave Zurlini ha aperto la Vecchia Latteria nel 1979 e l’ha condotta fino alla pensione. Latteria che vecchia non lo è per nulla, anche se sorge sull’originaria pianta ottagonale di un caseificio, e fin dagli esordi si è caratterizzata per il precoce intuito vintage del signor Dino, fregiandosi di un repertorio di torni, paioli di rame per la cagliatura, cesti di vimini e un corredo di vestigia dell’anima rurale di questa fetta d’Emilia, che segnano gli spazi e scandiscono le sequenze alimentari. Natura intimamente eretica, quella di una boutique gastronomica nel cuore pulsante delle cantine e delle latterie sociali, nella provincia dove la cooperazione rivendica il primato europeo in termini di densità pro capite, ad un tiro di schioppo dal celeberrimo busto di Lenin. Eppure quella scelta si è rivelata strategica e tuttora fidelizza un target di consumatori benestanti, professionisti del capoluogo e artigiani educati al tornio e convertiti alla meccatronica, notabili di paese e possidenti mobili e immobili, coltivatori diretti e agiati commercianti. E cosa ci fa Dino Miselli, a tempo scaduto, nella bottega che gli ha attraversato e riempito oltre tre decenni di vita vissuta? Segue con occhio professionale e devozione quasi paterna Angelo Gatti e Rosalba Chierici muoversi tra credenze, vetrine frigo e scaffali. Sono infatti questi due, uniti nella parabola professionale come nel registro civile, ad avere rilevato l’attività. «In realtà noi stavamo cercando un ristorante» confessa candidamente Angelo, che a tavola porta anche il cuore, oltre ai sensi, e ad un certo punto ha sentito il bisogno di mettersi alle spalle la rappresentanza di serramenti, attività che aveva monopolizzato il curriculum fino alla matura età. I coniugi Gatti, parmigiani dal domicilio altalenante tra le sponde del fiume Enza, che da queste parti segna il confine naturale tra le province di

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Le forme di Parmigiano Reggiano, i vini e i salumi della Vecchia Latteria. Reggio e Parma, hanno messo piede qui dentro un po’ per caso e se ne sono subito innamorati. Vuoi per l’atmosfera e l’estetica evocative, vuoi per la selezione rigorosa dei prodotti a banco, vuoi per la fama a “cinque stelle” della bottega. Oppure, altra risorsa strategica del fu caseificio, per il magazzino adiacente, riconvertito a laboratorio. Ed è qui che mettiamo subito piede, fermandoci in contemplazione del forno Five Senses come faremmo davanti al colonnato del Bernini, se ci trovassimo nella caput mundi più gettonata dai tour operator e non in quella di estrazione matildica. Non è Roma ma Codemondo e il forno non è un’opera d’arte ma un brevetto dalla pratica funzionalità teutonica: scelta sul display la pietanza, il dispositivo “multisensoriale” identifica la massa e imposta di conseguenza i tempi di cottura. Una specie di computer iperolfattivo, che vanta 11 chilowatt di spunto, e cucina qualsiasi tipo di piatto, dopo aver selezionato i parametri dal selettore digitale. L’abbattitore consente di “ridurre alla ragione” i cibi al termine della cottura per poterli raffreddare e riproporre nella loro intonsa fragranza. La Vecchia Latteria ha così permesso ai coniugi di Traversetolo, il comune parmense dove attualmente risiedono Angelo e Rosalba, di fare

l’en plein: un emporio alimentare per palati esigenti e un’alcova gastronomica che sublima il lutto del ristorante mancato, all’interno della quale Angelo si dedica alla vocazione marinara e Rosalba alla cucina della tradizione: mare e territorialità, moscardini e scaglie di parmigiano al balsamico, spiedoni di gamberi e coniglio in salmì, branzini marinati e cappelletti. Se l’obiettivo è by-passare la laboriosa propedeutica allo spadellamento senza rinunciare al privilegio del gusto e ci si adegua a malapena all’atto di infornare il microonde o spadellare per pochi minuti, la Vecchia Latteria fa al caso dei buongustai più pigri. Il catering è allo stadio progettuale, e non è escluso che le consegne a domicilio in grande stile possano materializzarsi, prima o poi. Permessi, attrezzature e prospettiva imprenditoriale non mancano. La gastronomia parla la lingua dei discendenti del console Marco Emilio Lepido, la norcineria pure. Il prosciuttificio prediletto dalla Latteria è la creatura di Egidio Bedogni. Da Langhirano le cosce “rifinite, massaggiate e salate a mano”, come recita un passaggio della sinossi del sito web, sono pure state censite — e premiate — addirittura da quelli del Gambero Rosso. Le motivazioni stanno tutte

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Semplicità e attenzione, oltre alla cura nella selezione delle materie prime, delle tecniche di allevamento e delle prassi igienico-sanitarie, sono tra gli ingredienti più saporiti del côté culinario della Vecchia Latteria. Un esempio? Lo spallotto di maialino da latte al forno. Non ci sono solamente la Sardegna e il celeberrimo porceddu a celebrare le virtù gastronomiche dei piccoli del maiale. Anche a latitudini più padane la tenerezza di questa carne incontra proseliti. Oltre allo spallotto servono olio extra vergine, aromi (salvia, rosmarino e aglio tritati), una manciata di sale, una spruzzata di vino bianco e del brodo di carne. E che farne? Semplice. Disossare lo spallotto, metterlo in concia con il trito di erbe aromatiche, olio e sale, legare con lo spago e lasciarlo marinare per qualche ora. Dopo la marinatura arriva il momento di infornare per diverse ore a bassa temperatura, inumidendo la carne prima con il vino e poi con il brodo.

nel perimetro della millenaria dedizione: dalla salatura e dalla sugnatura, propedeutiche alla stagionatura, che richiede una sensibilissima alchimia atmosferica, alla esperienziale maestria della spillatura. Bedogni non si ferma qui e compila il florilegio della norcineria autoctona, dal cotto al culatello, dallo strolghino alla coppa di Parma, dalla bresaola di toro alle pancette e alla culaccia. A proposito di quest’ultima, a Codemondo non può mancare, ovviamente con la cotenna, alternativa alla vescica che certifica il culatello nella espressione più pregiata e cristallina. Il codice binario cotenna-vescica si ripropone anche per il fiocco, estrapolato dalla sezione più delicata e magra della coscia del maiale. Bedogni confeziona pure i salami, che alla Latteria sono invece griffati col marchio domestico, tutti col budello gentile, una pezzatura media di 5/600 grammi e smerciati nella misura settimanale approssimativa di una decina di chili. Top secret i confezionatori, che rispettano le indicazioni della Latteria e confezionano il salame in base alla longitudine sul fiume Enza; un tipo di insaccato è reggiano, diventano due sull’altra sponda del fiume: c’è il Felino, aromatizzato da spruzzate di vino bianco nell’impasto, e c’è il salame della Bassa, dove la macinatura è diversa e l’aglio assolutamente assente. Tra la salumeria “strillata” nei post-it e negli “strilli” appiccicati qua e là sui muri con proposte gastronomiche e norcinerie, il “cotecone” attira

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subito l’attenzione. Immaginate un rettangolo di cotica sul quale viene spalmato il medesimo impasto del cotechino, arrotolato a mo’ di girella. Un consanguineo del più ortodosso cotechino triveneto-lombardo-emiliano che richiede un’oretta aggiuntiva di bollitura (siamo sulle quattro ore). Enciclopedici gli elenchi di complementi, sottoli e giardiniere, porcini essiccati in loco e ragù e condimenti, tra cui il pesto genovese di Rossi, proprio quello originale, di Zèna. Al bancone la fanno da padrone i cappelletti, e non poteva essere diversamente, che vengono preparati secondo la vulgata reggiana, ossequiosi delle robuste spolverate di Parmigiano Reggiano, le dovute razioni di stracotto di manzo e maiale, le minimali spennellate di pangrattato e noce moscata, plasmati con la classica traiettoria balistica dei pollici della rezdora, la massaia di queste parti, conforme al paradigma dell’originale tortellino a cavallo del Panaro, il fiume che separa il modenese dal bolognese. I tortelli verdi e di zucca, altro must che attraversa la Bassa Padana nel setaccio in comune con la Lombardia del Grande Padre, completano la pole position dei blockbuster gastronomici. In chiusura, per conferire ulteriore enfasi, quella prodigiosa ellissi smussata che risponde al pluri-evocato Parmigiano Reggiano, l’oro bianco che si gode a scaglie o grattugiato. Questo è rimasto il core business e il marchio di fabbrica della Vecchia Latteria, la provenienza è la stessa

da quel lontano 1979, un caseificio abbarbicato a circa 600 metri a non troppi chilometri da Codemondo, che fornisce esclusivamente la prima scelta. Ed è il lustro del locale, viene tagliato solamente a mano e concupito dalla clientela in varie taglie, tra le quali prevale la pezzatura da un chilo. La stagionatura si iscrive nella forbice tra i 24 e i 27 mesi e si concilia sia con il pasteggio sotto forma di schegge sia con il riverbero dolciastro della grattugiatura sulla pasta. Le forme sono leggermente superiori al “capitolato” del Consorzio, e pesano fino 44 chili. Nel periodo prenatalizio i polsi vengono messi a dura prova: nell’arco di una giornata si arrivano a smembrare e confezionare fino a una decina di forme. Come dire, un esercizio muscolare che metterebbe alla prova i legamenti radiali del carpo dei più incalliti culturisti. Ma qui la cultura non si fa con i muscoli, si fa con il palato. Fabio Butturi

La Vecchia Latteria Srl Via Carlo Teggi 29/A 42123 Codemondo (RE) Telefono: 0522 308877 E-mail: info@lavecchialatteria.eu Web: www.lavecchialatteria.eu

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PROTETT

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Tradizione di grande Nobiltà

Un grande aceto che viene dalle tradizioni della nobiltà modenese

L’aceto balsamico ha avuto origine dall’antichissima usanza dei Romani di cuocere il mosto dell’uva, grazie alle caratteristiche delle uve del territorio modenese. Oltre alla produzione dell’Aceto Balsamico di Modena IGP, ottimo per l’uso quotidiano, nelle acetaie delle famiglie più ricche e nobili si è nei secoli sviluppato un processo lentissimo e laborioso che produce un aceto senza eguali, raro e prezioso. Arrivato ai nostri giorni è chiamato “Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP (Denominazione di Origine Protetta); in passato veniva citato nei lasciti testamentari ed era dote prestigiosa per le giovani spose di aristocratiche origini. Era gelosamente conservato nei sottotetto e amorevolmente curato in famiglia, di generazione in generazione. Era considerato una sorta di Panacea dai principi medicamentosi in grado di curare tutti i mali e, nell’occasione, era considerato un regalo degno di “Re e Principi”.

LIA I A G I T R BOTI G ATiOi L utt ati O B B per t ertific i uttor d o r p

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O

N I G RI

E L A Questa bottiglia da 100 ml

è garanzia di

originalità e qualità per l’ aceto della antica tradizione delle nobili famiglie modenesi.

con incarico di “Tutela” dal Ministero Politiche Agricole e Forestali per DM 16/10/2009, Gazz.Uff. 4/11/09

Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP La tradizione produttiva è certamente antichissima, ma... che l’aceto invecchi è un dire tutto modenese. In realtà chi invecchia è il padrone, mentre l’Aceto Balsamico Tradizionale DOP matura nelle botticelle e sublima a pura essenza attraverso un lunghissimo processo produttivo. Si tratta di un processo “in continuo” che segue la famiglia e unisce le generazioni, e che solo dopo almeno 12 anni di attività, inizia a dare una piccola

aliquota annuale di prodotto finito. Si dovranno poi attendere almeno 25 anni per ottenere la qualità ”Extra Vecchio”. Solo dopo aver superato l’esame degli assaggiatori esperti, il prodotto viene imbottigliato presso il centro di imbottigliamento autorizzato, naturalmente nella famosa bottiglietta da 100 ml detta “di Giugiaro”, il famoso designer che la realizzò nel 1987 perchè fosse il simbolo di questo aceto unico nel mondo.

Consorzio Tutela Aceto Balsamico Tradizionale di Modena Viale Virgilio 55, 41123 Modena tel. 059 208604 fax 059 208606 consorzio.tradizionale@mo.camcom.it www.balsamico.tradizionale.it


Sapori mediterranei

Sacro alloro di Clara Scaglioni

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L’

alloro, pianta sempreverde chiamata anche lauro (dal latino laurus), ha foglie aromatiche non molto grandi, di consistenza coriacea, una piccola infiorescenza di colore giallo e frutti a bacca nera. È la tipica pianta robusta delle zone a clima mediterraneo e non risente né dell’alternarsi delle stagioni, né dei cambi di temperatura. Diffusa in tutta Italia, cresce spontaneamente soprattutto lungo le nostre coste e le sue profumate foglie, che si possono staccare in qualunque stagione dell’anno, hanno svariati impieghi in profumeria e in liquoreria. Il loro utilizzo principale, però, si evidenzia in cucina, dove sia secche che fresche entrano come ingrediente necessario e fondamentale nelle marinate, nelle terrine specie a base di fegato, nel mazzetto guarnito, nel court bouillon e in molte zuppe di pesce tipiche della nostra cucina regionale. La loro presenza è fondamentale nella preparazione dell’anguilla in umido e in quella ai ferri, necessaria e insostituibile nei fegatelli e negli spiedini dove, inseriti tra pezzetti di carne e verdure di vario tipo, trasmettono quel sapore e quel profumo inconfondibili capaci di esaltare, amalgamandoli, i differenti sapori. Dove non può mai mancare qualche foglia di alloro è nell’acqua di cottura delle castagne che si possono lessare sia con che senza la prima buccia, per preparare il famoso Monte Bianco. Le castagne acquisiscono, grazie all’aroma che si sprigiona dalle foglie in cottura, una delicatezza di sapore ed una bontà eccezionali. L’alloro è usato in tutto il mondo per insaporire stufati, brodi, marinate, minestre, piatti di carne e di pesce, per profumare intingoli anche di selvaggina, per aromatizzare alcuni salumi ed anche bevande e dolci. Se trattato con alcol se ne può ricavare un ottimo liquore dalle proprietà digestive, proprio perché l’alloro possiede virtù aromatiche, stimolanti, antisettiche che lo rendono indicato in caso di digestione difficile, inappetenza, coliche e aerofagia. Con le foglie si può ottenere un infuso che, bevuto caldo prima di coricarsi, farà sudare riuscendo a bloccare l’evolversi di un raffreddo-

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L’alloro è uno degli aromi utilizzati per lo speck (photo © Giancarlo Polacchini). re o di una eccipiente influenza. Le bacche dell’alloro, poi, sono ancora più attive delle foglie in quanto contengono un olio ricco di sostanze medicamentose. Nell’antichità l’albero dell’alloro era sacro ad Apollo, il dio greco protettore delle arti, della medicina e della musica, e per questo motivo era ritenuto, dai Greci prima e dai Romani poi, simbolo di sapienza e di gloria. Con corone intrecciate delle sue fronde si cingevano la fronte sommi poeti, eroici comandanti, atleti vincitori, personaggi illustri che, coram populo, raggiungevano popolarità e immortalità per grandi meriti personali. L’usanza è continuata immutata nel tempo. Non dimentichiamo i Dante e Petrarca, da sempre rappresentati con in testa una corona d’alloro, che ancora oggi è rimasta il simbolo delle feste di laurea, traguardo raggiunto alla fine di un lungo e faticoso percorso di studio. Ripercorriamo allora la storia di come questa pianta è diventata il simbolo della cultura rileggendo quanto ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi. Apollo, arciere imbattibile, canzona Eros, dio dell’amore, alle prese con un arco molto più grande di lui. Eros non gradisce tanta ilarità per cui, tornato sul Parnaso, pensa al modo più crudele di vendicarsi. Con uno dei suoi strali d’oro colpisce Apollo e con uno di piombo raggiunge la bella Dafne. Apollo se ne innamora a prima vista

mentre la ninfa, presa dai piaceri della caccia, non lo degna neppure di uno sguardo e lo sfugge. Apollo non si dà per vinto e la rincorre, ma Dafne, quando si rende conto che il dio la sta ormai raggiungendo, consapevole di mettersi su una via senza ritorno, chiede aiuto al padre Peneo che dolorosamente la accontenta tramutandola nel bellissimo albero di alloro da tutti conosciuto. Questo amore non corrisposto viene superbamente rappresentato da GIAN LORENZO BERNINI in una scultura, oggi nella Galleria Borghese di Roma, che riesce a commuoverci e a suscitare tutta la nostra ammirazione. Bernini scolpisce con una maestria incredibile il momento in cui Apollo raggiunge e tocca Dafne, la quale, nel tentativo di fuga, sente la pelle indurirsi pian piano e trasformarsi in corteccia, avverte l’impigrirsi dei piedi diventati ormai radici e, mentre alza le braccia al cielo in segno di aiuto, comprende che queste si sono ormai trasformate in rami ricoperti di foglie di alloro. L’opera del Bernini è di una bellezza indicibile e nella lettura del suo percorso mitologico è raccontata anche la versatilità di una pianta le cui foglie sono uno dei più preziosi ingredienti della nostra cucina italiana. Clara Scaglioni Nota A pagina 78, Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini.

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Rassegne

Il più grande Superzampone di sempre di Elena Benedetti

S

arà anche tempo di crisi e di “vacche magre”, ma le carni suine selezionate e lavorate con arte e passione dall’Ordine dei Maestri Salumieri Modenesi quest’anno non sono certo mancate per la realizzazione del Superzampone di tutti i record. Domenica 7 dicembre, in una giornata dalle temperature miti in questo inverno che ci risparmia freddo e neve, il più grande Superzampone

di sempre è stato celebrato e offerto a migliaia di buongustai che, come d’abitudine, hanno invaso il centro di Castelnuovo Rangone, in provincia di Modena. Già nei giorni precedenti giravano le prime indiscrezioni: la nostra Redazione è a pochi chilometri dal paese e le notizie che arrivavano erano molto positive. I Maestri Salumieri Modenesi avevano preparato tutto il necessario per insaccare un Super-

zampone che per questa 26a edizione poteva sfiorare i mille chilogrammi. E così è stato! Alla prova della bilancia c’è stata la conferma: la tonnellata era superata con un peso precottura di 1.038 chilogrammi, quasi un quintale oltre il record del 2007. La grande festa del Superzampone 2014 sarebbe piaciuta a Sante Bortolamasi, il maestro salumiere ideatore di questa manifestazione, la cui eredità è stata raccolta dal figlio Stefano che

Il super insaccato 2014 ha battuto tutti i record raggiunti nelle 25 edizioni precedenti con il peso di 1.038 kg. Un nuovo primato da consegnare ufficialmente al Guinness, dunque. A dare il via ufficialmente alla festa col taglio della prima fetta quest’anno è stata scelta una modenese d’eccellenza, la cantante lirica Mirella Freni.

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L’Ordine dei Maestri Salumieri Modenesi è costituito ai sensi ed è agli effetti degli artt. 36, 37, 38 del codice civile; ha sede presso la Residenza Municipale del Comune di Castelnuovo Rangone (MO), e si definisce una libera associazione apolitica, che non ha fini di lucro e persegue i seguenti scopi: • promuovere la valorizzazione dei salumi, divulgando la conoscenza delle loro caratteristiche organolettiche, di tipicità nonché dei metodi di produzione; • apprezzare ed esaltare le esperienze qualificanti degli operatori interessati al settore, nonché confermare i valori morali e culturali che hanno alimentato tanta tradizione; • organizzare occasioni di degustazione e momenti conviviali per sviluppare e consolidare i rapporti fra gli aderenti; • patrocinare manifestazioni e/o convegni, in Italia e all’estero, eventualmente in collaborazione con organismi affini; • studiare ed approfondire problematiche inerenti il settore, eventualmente curando anche la redazione di pubblicazioni su specifici argomenti; • favorire, promuovere ed organizzare ogni altra iniziativa rivolta ad accrescere la rinomanza dei vari salumi in Italia ed all’estero, aderendo eventualmente ad organizzazioni aventi scopi analoghi e complementari, nonché svolgere ogni altra azione ritenuta utile al conseguimento delle finalità perseguite dall’Ordine.

Festa dello Zampone e del Cotechino Modena Igp, 4a edizione Gusto, passione, tradizione, creatività. Ma anche divertimento, territorio, gioco, teatro. Tanti gli elementi che hanno caratterizzato la quarta edizione della festa promossa dal Consorzio Zampone Modena Cotechino Modena per celebrare il Cotechino e lo Zampone Modena Igp. Nella giornata di sabato in Piazza Grande a Modena c’è stata la finale del primo concorso nazionale di cucina “Lo Zampone e il Cotechino Modena Igp nei micro-territori della gastronomia italiana” condotta dal presentatore televisivo Andrea Barbi, durante la quale si sono “scontrate” a suon di padelle 11 scuole alberghiere di tutta Italia, da nord a sud, isole comprese. Giudice indiscusso della gara Massimo Bottura, lo chef stellato dell’Osteria Francescana di Modena. Tra gli applausi, lo chef ha premiato i primi quattro piatti classificati: 1. Zampastiera dell’ISIS Elena di Savoia di Napoli; 2. Cous cous di Cotechino Modena Igp dell’ISIS Enrico Medi di Randazzo (CT); 3. Fagottino croccante di pasta “bastila” con Cotechino Modena Igp e ortaggi romani dell’ISIS Gioberti di Roma; 4. Paccheri di Gragnano Igp con Cotechino di Modena Igp dell’IPSAR Axel Munthe di Capri (NA). Nel pomeriggio lo chef Luca Marchini del ristorante stellato modenese L’Erba del Re si è esibito in uno show cooking per la gioia dei presenti che hanno poi potuto anche degustare le prelibatezze cucinate, come il “Croccante di Lambrusco con crema al Parmigiano Reggiano, Cotechino Modena Igp e noce moscata”.

A sinistra: Bottura con alcuni allievi delle scuole alberghiere (photo © Modena Today). A destra: i primi classificati del concorso di cucina, Stefano Peluso e Gennaro Ciuffi, dell’ISIS Elena di Savoia di Napoli, premiati da Massimo Bottura con queste motivazioni: “sono stati gli unici che hanno pensato ad un dessert e hanno addirittura osato utilizzando il dolce napoletano per eccellenza, la pastiera. In questo piatto c’è un bilanciamento perfetto tra sapidità, dolcezza e parte amara oltre ad una ottima tecnica. Questo è l’esempio di vera contaminazione: una perfetta pastiera napoletana in pieno territorio emiliano”.

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I rappresentanti dell’Ordine dei Maestri Salumieri di Modena e le personalità politiche intervenute alla grande festa organizzata come di consueto nella piazza di Castelnuovo Rangone.

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Cotechino o zampone avanzato? Ecco sessanta ricette dal Consorzio Zampone e Cotechino Modena per portarlo in tavola in modo creativo Quanti hanno ancora cotechini o zamponi pronti da cuocere in dispensa? Non si sa mai quando farli, come cucinarli, se non con purè o lenticchie, e, si sa, l’idea di prolungare le “abbuffate” delle feste non è proprio ciò che va di moda. Ma se trovaste modi nuovi di portarli in tavola? Leggeri, freschi e creativi? Un aiutino ve lo dà il Consorzio Zampone Modena Cotechino Modena grazie alla realizzazione di un ricettario, scaricabile gratuitamente dal sito www.modenaigp.it, dove sono raccolte 60 ricette ideate e realizzate dalle scuole alberghiere di tutta Italia. Ricette che sono state in gara per il primo Concorso nazionale di cucina promosso dal Consorzio e che ha visto al primo posto del podio la Zampastiera della Scuola alberghiera ISIS Elena di Savoia di Napoli. «Attraverso la pubblicazione del ricettario, il Consorzio ha l’ambizione di voler incentivare il consumo di zampone e di cotechino lungo tutto il corso dell’anno» ha dichiarato Paolo Ferrari, presidente del Consorzio Zampone Modena Cotechino Modena. «Siamo certi che queste due eccellenze del nostro patrimonio alimentare — e alla fine di questo volume ne sarete convinti — abbiano la vocazione per esaltarsi in cucina in cento modi diversi». È una sfida difficile ma non irrealizzabile quella del Consorzio, se si hanno per compagni i giovani cuochi di domani, capaci di coniugare zampone e cotechino con i prodotti tipici dei propri territori. Nelle pagine del ricettario sono infatti diverse le proposte, dai primi ai secondi, fino al dolce. Qualche esempio? Il couscous di cotechino, lo zampone Modena con verza, pinoli e uva passa o le pere di patata ripiene di Zampone Modena. Ricette originali, in un cammino creativo che porterà ad inattese scoperte gastronomiche.

quest’anno, insieme all’intrattenitore televisivo Andrea Barbi, ha voluto vicino a sé a dare il via alla festa Mirella Freni, una delle più grandi cantanti liriche di tutti i tempi. Modenese di nascita, salita alla ribalta della scena mondiale con la Mimì innamorata del Rodolfo interpretato da Luciano Pavarotti, nella pucciniana La Bohème diretta da Herbert von Karajan, Mirella Freni è stata una perfetta madrina della cultura gastronomica del nostro territorio. Quella cultura fondata sulla convivialità, sulla tradizione salumiera e sulla lavorazione delle carni che

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in questa regione danno benessere e lavoro a tanti. L’onore del taglio della prima fetta è toccato proprio alla Signora Freni, a Luisa Falchi Vecchi, alla presidenza dell’Ordine dei Maestri Salumieri Modenesi e a Santino Levoni di Alcar Uno. Per le autorità politiche erano presenti il neo-eletto presidente della Regione, Stefano Bonaccini, il sindaco di Modena e presidente della Provincia, Giancarlo Muzzarelli, e il sindaco di Castelvetro, Fabio Franceschini. Schierati in alta uniforme tutti gli organizzatori della manifestazione, ovvero i componenti dell’Ordine dei

Maestri Salumieri modenesi e Stefano Bortolamasi. «Il Superzampone è buonissimo — ha dichiarato una sorridente Mirella Freni — e già anni fa me ne aveva parlato Pavarotti. Devo proprio dire che aveva ragione». Lo zampone gigante è stato tagliato e distribuito in circa tremila fette accompagnate da cinque quintali di fagioli ai presenti che hanno affollato felici la piazza e le strade centrali del paese. Tra il monumento al maiale, chioschi di birra e lambrusco e con parecchia voglia di trascorrere una giornata di festa. Elena Benedetti

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Fiere

Carrù, la Piemontese in festa con il Bue grasso Grande successo dello storico appuntamento nelle Langhe, giunto alla sua 104a edizione. Con il Bue grasso si celebra una delle più importanti razze italiane da carne. Per il governatore del Piemonte è una fiera “meravigliosa”

G

iovedì 11 dicembre Carrù era un paese in festa. Alla 104a edizione della Fiera nazionale del Bue grasso si è presentato anche il sole, oltre a migliaia di visitatori. Fra questi il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino. «Ero già stato a Carrù, ma non alla Fiera: è meravigliosa» ha di chiarato Chiamparino. «Ci fossero cento, mille Carrù in tutta

Italia». Con lui, l’assessore regionale all’Agricoltura Giorgio Ferrero. «Con quella di Carrù, si chiude la settimana delle fiere del Bue grasso, cominciata domenica 7 dicembre a Nizza Monferrato» ha commentato Ferrero. «Nelle quattro fiere che ho visitato (oltre a Nizza e Carrù, Montechiaro d’Acqui e Moncalvo) — ha proseguito Giorgio Ferrero — ho potuto verificare la buona salute in

cui versa la razza Piemontese e il suo re, il Bue grasso. Un’importanza sottolineata anche dalla Casa della Piemontese (ispirata alla Maison du Charolais e inaugurata alla presenza del ministro dell’agricoltura Maurizio Martina il 22 novembre 2014, nella sede dell’ANABORAPI, l’associazione nazionale della razza Piemontese), visitata con un notevole interesse dal presidente Chiamparino».

Uno dei capi in mostra alla Fiera del Bue Grasso edizione 2014.

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1) Natale Manzo, premiato con la targa “BravOm”. 2) Il Foro boario, affollato come di consueto, con l’esposizione degli animali. 3/4) Sergio Chiamparino, con il sindaco di Carrù Stefania Ieriti, in visita alla fiera. Sono 270.000 i capi bovini di razza Piemontese, una realtà che dà lavoro a oltre 4.000 famiglie e partecipa sostanzialmente alla creazione del PIL regionale. «In questi giorni abbiamo potuto apprezzare la qualità dei nostri bovini, a partire da quegli animali eccezionali che sono i buoi grassi, frutto dei sacrifici e della passione di tanti allevatori. Animali in cui si concentra il senso di questo allevamento, l’attenzione per il benessere animale, l’orgoglio per la capacità di far crescere esemplari che quest’anno hanno superato abbondantemente la tonnellata. Una realtà da sostenere e valorizzare non solo perché parte di una cultura e di una tradizione profondamente radicate sui nostri territori, ma anche per l’eccezionalità che rappresenta in prospettiva sul piano gastronomico e dell’immagine per una razza che deve essere sempre più presente al di fuori

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del Piemonte». Alla mostra hanno partecipato 136 capi dei 159 iscritti, 36 dei quali buoi. La gualdrappa del primo premio nella categoria “Buoi grassi della coscia” è andata ad Ugo, bue di circa 1.200 chili allevato nell’azienda di Luigi Carlo Vallino a Marene e venduto alla macelleria Colnaghi di Legnano. Il “Bue più pesante” supera i 1.400 chili ed è stato alle-

1a Cat.: Buoi grassi della coscia 1. Vallino Luigi Carlo, Marene 2. F.lli Delsoglio, Fossano 3. Migliore Andrea, Caraglio 2a Cat.: Buoi grassi migliorati 1. Migliore Andrea, Caraglio 2. Costamagna Lorenzo, Trinità 3. F.lli Dagelle, Vesime

vato da Pierluigi Chiola di Perletto. Il campione dei “Buoi migliorati” è stato allevato da Andrea Migliore di Caraglio ed ha ottenuto il riconoscimento ANABORAPI per il “Bue meglio presentato”. Primo premio per i “Buoi grassi nostrani” a Natale Manzo di Rocca de’ Baldi, veterano della fiera, al quale è stato anche consegnato il premio “BravOm”.

3a Cat.: Buoi grassi nostrani 1. Società Agricola San Quirico, Rocca de’ Baldi 2. Rocca Giovanni, Carrù 3. Lisa Giovanni Battista, Riva presso Chieri Premio speciale al “Bue più pesante” (kg 1.409): Chiola Pierluigi, Perletto

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L’omaggio al Bue grasso firmato Chiapella: musica, salami di Langa e buon vino Il Salumificio Chiapella di Clavesana da diversi anni organizza il giorno della fiera un aperitivo pre-pranzo nel proprio negozio di macelleria-gastronomia che si trova proprio nel centro di Carrù. Un rito che per la famiglia Chiapella rappresenta un momento da trascorrere insieme agli amici e, contemporaneamente, significa dare ai turisti in visita il più caloroso dei benvenuti, offrendo il meglio delle specialità salumiere dell’azienda, tra le quali spiccano il salame di bue, il salame al Barolo, il Baròt di Langa, anche in versione mini, e, ultimo nato, lo strolghino di culatello (in foto, il fondatore della Chiapella, Giovanni Chiapella, ed il fondatore di Slow Food Carlin Petrini; salumi in vetrina il giorno della Fiera; Sergio Chiamparino insieme ai “tre Lilu”, storico gruppo folcloristico piemontese).

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La fiera del Bue Grasso è un appuntamento annuale importante e sempre dolcemente atteso per i carrucesi, caratterizzato dalla preparazione del piatto tipico: il bollito, un monumento della tradizione gastronomica italiana. La sua preparazione semplice, ma lunga e paziente, in tempi di frettolosità culinaria lo ha reso sempre meno frequente sulle tavole familiari, ma è molto amato da chi di cucina se ne intende. C’è chi gli dedica versi, chi fiere e serate gastronomiche, chi promuove gare di assaggio, chi si lascia ingolosire dalle salse che lo accompagnano. E, nelle Langhe, c’è anche chi ci fa colazione… Opulento, profumato, fumante: il bollito italiano è uno dei piatti più monumentali della tradizione gastronomica invernale carrucese. Grande perché ricetta ideale per banchetti di almeno 12 persone. Succulento e nutriente, adatto per ritemprare corpo e appetito dai rigori della stagione fredda. Non ci sono dubbi: a segnare la gastronomia italiana è stato il bollito misto alla piemontese. Nella letteratura il bollito appare nel 1887 in “Cucina borghese semplice ed economica”, edito da Vailardi e di autore ignoto. Per parlare di Gran bollito, piatto preferito da Vittorio Emanuele II, è doveroso riportare la “regola del sette” di Giovanni Goria, Accademico della Cucina. L’Accademia italiana della cucina ha ricostruito la ricetta chiamandola “Grande bollito storico risorgimentale piemontese”. Il Gran bollito misto alla piemontese si compone di sette tagli: tenerone, scaramella, muscolo di coscia, stinco, spalla, fiocco di punta, cappello del prete. In pentole diverse si cuociono invece i sette ornamenti: la testina di vitello completa di musetto, la lingua, lo zampino, la coda, la gallina, il cotechino e la rolata. Il grande piatto unico va completato con almeno tre sui sette bagnetti che la tradizione ci propone. I più classici sono quello verde rustico (bagnet vert), una salsa ottenuta da prezzemolo, acciughe, aglio e mollica di pane raffermo; il bagnetto rosso (bagnet ross), con pomodori, aglio, senape e aceto rosso, cren, una salsa a base di rafano particolarmente agre o una salsa al miele. Si tratta di gustose idee colorate e consistenti, spesso acide o agrodolci, utili per risvegliare il palato. La tradizione dei bolliti in Piemonte ha una lunga storia originata dalla consuetudine dei mercati di bestiame che a Carrù, capitale del bollito, si svolgono dal 1473. >> Link: www.prolococarru.it

Informazioni utili • • • • • • • • • EUROCARNE è anche su:

Padiglioni: 11 – 12 Ingresso espositori: Re Teodorico e San Zeno (corsia preferenziale) Parcheggi espositori: riportato sul tagliando parcheggio in dotazione Ingresso visitatori e biglietteria: San Zeno e Re Teodorico Parcheggio visitatori: P3 - Ex Mercato Ortofrutticolo (300 posti auto) P4 - Multipiano (2.200 posti auto) P7 - Re Teodorico (1.200 posti auto) Date: 10-13 maggio (nuova formula da domenica a mercoledì) Orari: 9:00 – 18:00 Ingresso singolo: € 15,00 in cassa, € 12,00 in prevendita on-line Abbonamento valido per tutti i giorni di manifestazione: € 28,00 in cassa, € 20,00 on-line

>> Link: www.eurocarne.it

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Marca: cresce l’interesse dei grandi retailer nel più importante appuntamento italiano per la MDD

È

la rassegna espositiva che come d’abitudine apre il nuovo anno. L’appuntamento italiano sulla “Marca del Distributore”, ospitato all’interno di BolognaFiere, si è svolto nelle date del 14 e 15 gennaio scorsi, segnando l’undicesima edizione di

MarcabyBolognaFiere – Private Label Conference and Exhibition. Si tratta dell’unica manifestazione italiana interamente dedicata ai prodotti a marchio insegna che per due giornate fitte di relazioni, business, workshop e dibattiti mette a confronto il sistema distributivo italiano e internazionale, sotto il patrocinio di ADM, associazione che riunisce le imprese della distribuzione moderna. Marca ha rafforzato, anno dopo anno, la propria influenza e la capacità di portare innovazione nel settore. Lo acclarano i dati certificati da ISF Cert relativi

all’ultima edizione: 6.600 visite degli operatori professionali, 481 le aziende espositrici e 3 nuove insegne con un crescente interesse dei grandi retailer internazionali. XI “Rapporto sulla Marca del Distributore nel mercato distributivo italiano” È stato uno degli incontri più attesi di Marca: si tratta del XI Rapporto sulla marca privata realizzato da Adem Lab-Università di Parma e illustrato da Guido CRISTINI, coordinatore scientifico dell’Osservatorio sulla MDD.

Si è svolta a gennaio l’undicesima edizione di MarcabyBolognaFiere (photo © www.marca.bolognafiere.it).

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1) Marcello Palmieri del Salumificio Palmieri di San Prospero (MO). 2) CMP, azienda di Saluzzo (CN), produce pallet e contenitori di plastica. 3) Attilio Scarlino del Salumificio Scarlino di Taurisano (LE). 4) Maurizio Ghelli dell’azienda Ghelli Spa di Quarrata (PT) con Lorenzo Levoni di Alcar Uno. Nel 2014 la quota della Marca del Distributore si è stabilizzata intorno al 18%, con un lieve rallentamento nelle vendite a valore (–0,1%) come conseguenza della contrazione generale dei consumi che interessa l’intero Paese. Tuttavia, analizzandone i singoli segmenti, emerge che i prodotti “Premium” e “Bio”, quelli a maggiore valore, registrano una crescita significativa: prendendo in considerazione le vendite a valore, il segmento “Premium” aumenta del 7,1% e quello “Bio” dell’8,5%. Fra i segmenti più performanti si segnalano anche la drogheria alimentare (+2,5% a valore e +0,4% a volume), il fresco (+0,6% a valore), il pet care (+2,0% a valore). Il rallen-

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tamento a valore della MDD appare inferiore sia a quello della marca industriale sia a quello del mercato nel complesso. In riferimento alla tipologia di MDD, la quota maggiore è detenuta dalla marca Insegna: 81% a valore e 82% a volume. Il rapporto mette sotto la lente d’ingrandimento anche le attività di comunicazione svolte dalle insegne a supporto della MDD che appaiono variegate: il packaging, il materiale promozionale, le fiere e i convegni si collocano, a pari merito, al primo posto (90%), mentre le promozioni in punto vendita si posizionano al secondo posto (80%). Per quanto riguarda, invece, l’ammontare degli investimenti a sostegno delle diverse

attività di comunicazione si evince che la comunicazione istituzionale raccoglie il 25%, seguita dal packaging e grafica con il 21%, mentre gli investimenti realizzati sui new media appaiono ancora ridotti (8%). Come emerso anche nell’indagine dell’anno passato, il packaging riveste un’elevata importanza nelle politiche riguardanti la MDD. Le principali azioni sviluppate dalle insegne a supporto della MDD sono innanzitutto l’aumento dello spazio espositivo dei prodotti a marca propria in punto vendita e, secondariamente, la riduzione temporanea del prezzo dei prodotti. Infine, lo sviluppo di attività di comunicazione mirata in punto vendita si posiziona al terzo posto.

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1) Lo stand di Alcar Uno, Castelnuovo Rangone (MO). 2) Nello stand della San Vincenzo di Spezzano Piccolo (CS), Umberto e Concettina Rota con il direttore vendite Salvatore Mesorace. 3) Foto di gruppo nello stand di Bresaole Pini. Al centro, Roberto Pini. 4) Nello stand di Rico Carni, Cavarzere (VE), Marco e Mattia Boscolo con Martina Biasin. 5) La BP Prosciutti del Gruppo Suincom, Castelvetro (MO). A sinistra, Roberto Agnani con due collaboratori. 6) Jeff Martin, rappresentante di INI-Invest Northern Ireland per l’Italia, con Matteo Marchetti, Foyle Food Group. Una kermesse ricca di eventi Anche l’edizione 2015 ha registrato un carnet fitto di eventi che si sono svolti nei tre padiglioni di BolognaFiere. A cominciare dalla convegnistica, che ha offerto occasioni di confronto e approfondimento per tutti gli stakeholder del settore. Con

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il convegno di presentazione organizzato da ADM, ad esempio, si è voluto ribadire il ruolo della distribuzione moderna nella valorizzazione delle filiera agroalimentare italiana quale volano di crescita del sistema Paese: è stato dato particolare riferimento ai prodotti del comparto del fresco e

dell’ortofrutta, nel cui ambito vi sono anche molti prodotti DOP ed IGP, il cui reale valore non sembrerebbe essere ben percepito dal consumatore e che conseguentemente richiede risposte chiare ad alcuni quesiti emergenti. >> Link: www.marca.bolognafiere.it

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A Marca Scarlino, specialista dei würstel, ha presentato le ultime novità «Un’azienda come la nostra, che si dedica in maniera pressoché esclusiva alla produzione del würstel, non può permettersi di restare immobile e, anche se il colore e la forma del prodotto rimangono sostanzialmente quasi sempre gli stessi, ha il dovere di sperimentare e dedicarsi alla ricerca delle novità». Con questo spirito, sempre dinamico ed innovativo, registrato dalle dichiarazioni dell’Amministratore Unico Attilio Scarlino, l’omonimo Salumificio leccese ha partecipato all’ultima edizione di Marca a Bologna lo scorso gennaio. Tanto interesse intorno allo stand di Scarlino, dove — a fianco dei tanti prodotti P.L. (nel 2014 il segmento ha rappresentato per la Scarlino quasi il 30% dei volumi prodotti, con un leggera flessione rispetto all’anno prima) — sono stati presentati ben cinque nuovi prodotti. Quello che ha suscitato maggiore curiosità è stato certamente il Würstel vegetariano che, benché interessi ancora un mercato di nicchia, è innegabile possieda un notevole appeal in continua crescita. Altro piatto forte è rappresentato dalla linea del Bratwurst italiano, presentata nelle sue tre confezioni differenti per formato e peso e, quindi, anche per modalità consigliate per la preparazione: il Rostbrat, 5 pezzi da grammi 40 cadauno, il Minibrat, nel suo formato da 10 pezzi per 250 grammi, ed il più conosciuto, il Grillbrat, nella grammatura standard di 83 grammi per tre pezzi. Ancora più di prospettiva è invece il Würstel avicolo, prodotto senza carne separata meccanicamente ma esclusivamente con il 100% di coscia di pollo. «Se, come sembra — ha dichiarato Attilio Scarlino — l’Unione Europea arriverà prima o poi a vietare l’utilizzo di questo tipo di materia prima, dobbiamo essere pronti a cogliere al volo l’opportunità, magari dopo aver contribuito a far migliorare anche le conoscenze dei consumatori intorno al prodotto würstel». >> Link: www.scarlino.it

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Vino

Bollicine al… Bacio di Elena Benedetti

A

lzi la mano chi non arriva a fine giornata stremato da incombenze lavorative e famigliari, desiderando che giunga presto quel momento di pausa che può essere un aperitivo con le amiche del cuore o con il collega simpatico. Si corre, incalzati dalla necessità di fare tutto, oppressi dalla tecnologia che attraverso messaggi testuali di varia natura ci ricorda faccende da sbrigare, auguri da fare, risate da condividere. Ma poi arriva

un intermezzo che è solo per noi. In quella pausa il protagonista oggi è spesso il Prosecco DOCG, un vino dalla moderata gradazione alcolica che incontra il gusto anche dei consumatori più giovani. Re indiscusso dell’aperitivo, questo vino è piacevole e moderno. Lo sa bene Adriano Annovi, responsabile commerciale di Bacio della Luna, l’azienda di Schenk Italia che seleziona le uve migliori per la produzione di questo spumante tutto italiano. «Il nostro Prosecco, prodotto

in tre linee (Superiore DOCG Millesimato, Doc Spumante Extra Dry e Brut), oltre a un Pinot Spumante Rosé Extra Dry, accompagna i nostri clienti nei momenti di festa o nelle pause di relax» ci conferma Annovi. Bacio della Luna si trova a Vidor, in provincia di Treviso, una zona di alte colline ricoperte da fitti vigneti, vocata alla produzione del Prosecco Superiore Conegliano Valdobbiadene DOCG. Le uve sono tutte rigorosamente provenienti dal territorio locale e

Nel cuore della rinomata zona del Prosecco Superiore Conegliano Valdobbiadene Docg, Bacio della Luna produce i preziosi spumanti della sua collezione.

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Condividere e informare, l’attività sui social Bacio della Luna è molto attivo nella comunicazione sui social, organizzata sui canali Facebook (facebook.com/BaciodellaLuna), Instagram (instagram.com/baciodellaluna) e YouTube (goo.gl/ElXauM). L’interazione con i clienti o potenziali consumatori è forte e stimolante. Il tutto va a vantaggio della fidelizzazione al brand e ad una condivisione di esperienze e informazioni su eventi. Nelle foto, l’homepage della pagina web accessibile al link baciodellaluna.it e la pagina Facebook.

la lavorazione parte dal mosto e prosegue secondo il disciplinare previsto per il Prosecco DOC e DOCG. Il Conegliano Valdobbiadene, riconosciuto DOCG nel 2009, rappresenta il top di gamma. Il Prosecco Doc è ora prodotto solo nel Nord-Est d’Italia, in Veneto e Friuli Venezia Giulia. «C’è certezza a livello legislativo e rigore qualitativo — sottolinea Annovi — e impegno dei produttori di Prosecco nel mantenere alta la qualità del prodotto e questo tema è molto importante nel mondo del vino». I numeri gli danno ragione e sono di tutto rispetto, dato che il Consorzio del Prosecco DOCG dichiara oltre 70 milioni di bottiglie all’anno. Acquisita nel 2011 da Schenk Italia, in soli tre anni Bacio della Luna di strada ne ha fatta parecchia. Dalla prima bottiglia DOC uscita nel novembre 2011 e dalla prima DOCG di inizio 2012, oggi l’azienda spumantistica produce oltre 8 milioni di bottiglie di bollicine italiane. Un risultato reso possibile grazie alle strategie vincenti tracciate dal Gruppo che in questi anni ha lavorato sulla struttura commerciale, rivalorizzando il marchio Bacio della Luna e strutturandosi

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con una cantina di spumantizzazione all’avanguardia. «Schenk Italia ha dotato Bacio della Luna di moderne linee di imbottigliamento e di stoccaggio dei mosti» ha aggiunto Annovi, ricordando che nella produzione di vini spumanti il freddo è un aspetto

qualitativo fondamentale. «Sono stati fatti investimenti in autoclavi e frigorie che consentono di tenere il prodotto a mosto, garantendo una resa qualitativa più alta». Considerando poi che Bacio della Luna produce per l’80% Prosecco, la

Il mondo è cambiato. Il vino è diventato come una bottiglia di profumo. Si è persa la quotidianità del bicchiere di vino a pasto. Il vino si consuma nei momenti di relax, con gli amici, all’aperitivo, in pausa o a cena fuori, o in casa, ma comunque in momenti importanti e piacevoli.

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Lo stabilimento aziendale si trova a Vidor, in provincia di Treviso. struttura è all’avanguardia per garantire un livello di prodotto elevato, con innovazioni nel packaging e una produzione giornaliera che raggiunge i 50.000 pezzi, per un totale di oltre 8 milioni di bottiglie annue. Il canale commerciale di riferimento, da New York a Tokyo, è l’Horeca. «Diamo grande attenzione al mercato do-

mestico senza tralasciare Asia, Stati Uniti e tutte le altre aree del mondo all’interno delle quali il vino italiano ha un potenziale di crescita ancora poco sfruttato» precisa Annovi. Le fiere restano così una presenza d’obbligo per confrontarsi col mercato e relazionarsi con potenziali nuovi clienti. Gli appuntamenti del 2015

vedono Bacio della Luna presenta a ProWien, dal 15 al 17 marzo a Düsseldorf, un salone di riferimento per il mercato tedesco e mondiale. Seguirà Vinitaly, a Verona dal 22 al 25 marzo, la prima fiera al mondo per il settore del vino mentre a giugno, dal 14 al 18, sarà la volta di Bordeaux con Vinexpo. Elena Benedetti

Un territorio candidato a essere patrimonio di tutti! L’area di produzione del Prosecco Doc e Docg si estende tra Conegliano e Valdobbiadene, e dista solo una cinquantina di chilometri da Venezia. La zona di produzione del Valdobbiadene comprende 15 comuni e si estende per circa 20.000 ettari. Grazie alla posizione centrale tra le Dolomiti e l’Adriatico è un territorio dal clima mite che ha tanto da offrire al turista a caccia di bellezze architettoniche e culturali e sensibile al richiamo del buon bere e mangiare. Queste sono state le premesse che nel 2008 hanno spinto il Consorzio di Tutela Conegliano Valdobbiadene a farsi capofila del progetto di candidatura del territorio a Patrimonio UNESCO come testimonianza unica sulla tradizione culturale vitivinicola di questa zona d’eccellenza. Il loro obiettivo è “valorizzare un paesaggio viticolo straordinario, dove le colline nel corso dei secoli sono state ricamate di vigneti dall’uomo, che ha preservato così l’ambiente creando un vero e proprio paesaggio culturale. Qui, ancora oggi, il vino viene fatto a mano. La viticoltura in questo territorio ha saputo perfettamente integrarsi e svilupparsi in accordo con le particolarità geografiche, fisiche e climatiche del paesaggio, portando ad una sorta di co-evoluzione tra attività dell’uomo e territorio”. Su questo fronte, il Consorzio di Tutela Conegliano Valdobbiadene ha sottolineato tre elementi del territorio che rispondono in pieno ai requisiti richiesti per l’inserimento nella lista propositiva UNESCO: la presenza di una civiltà e cultura materiale ancora vitale, legata alla coltivazione della vite, attività che risale a più di 1.000 anni fa; la forte interazione tra l’uomo e l’ambiente particolarmente fragile che ha consentito di preservare un sistema paesaggistico unico e particolarmente integro; il legame tra queste colline e le opere di artisti di indiscutibile valore, quali Bellini e Cima da Conegliano, i principali maestri del Rinascimento italiano.

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La “Rivoluzione Rosèâ€? in anteprima a Lazise l’8 marzo 2015 Per gli appassionati dei grandi vini rosati italiani l’appuntamento di domenica 8 marzo a Lazise, sulla sponda veronese del lago di Garda, è imperdibile: è infatti di scena una doppia, inedita, anteprima in rosa. Nello storico salone della Dogana Veneta, il Consorzio di tutela del Bardolino presenta al pubblico il Chiaretto dell’annata 2014, ďŹ glio di quella “Rivoluzione Rosèâ€? che ha condotto i produttori del classico vino rosato gardesano a scegliere un colore molto piĂš tenue rispetto al passato e una gamma di profumi e di aromi che spaziano dai ďŹ ori bianchi agli agrumi alle erbe ofďŹ cinali. Nella vicina sala civica del municipio è in anteprima (con apertura giĂ sabato 7 marzo) anche un’altra tipica interpretazione in rosa del vino italiano: il Rosato del Salento dell’annata 2014. Accanto alle due espressioni della grande tradizione del rosato italiano ďŹ glio di uve autoctone (la Corvina veronese per il Chiaretto e il Negroamaro per il Salento), viene proposta in anteprima anche l’annata 2014 del Bardolino, il vino rosso delle colline del Garda orientale. L’iniziativa nasce dalla collaborazione fra il Consorzio di tutela del Bardolino, che nel 2015 è alla sua settima anteprima annuale, e l’associazione DeGusto Salento, che riunisce alcune tra le piĂš prestigiose ďŹ rme enologiche della Puglia, col contributo del Comune di Lazise. Saranno presenti circa ottanta aziende (una settantina quelle del Bardolino e dodici quelle del Salento) per un totale di duecento vini presentati direttamente dai produttori ai loro stand, con libera degustazione dalle ore 10:00 alle 18:00. Nell’area del porticciolo, com’è consuetudine dell’anteprima del Bardolino, sarĂ allestito un mercatino di produzioni agricole della zona, dal formaggio Monte Veronese al miele, dai salumi all’olio extravergine di oliva. >> Link: www.ilbardolino.com

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I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione con salame di Laura

L’

Italia, un paese d’eccellenze gastronomiche. Occorre ricordarlo con pedanteria, soprattutto ora, ad un soffio dall’Expo 2015. Tra le tante eccellenze la norcineria, l’arte di fare i salumi, è certamente uno dei fiori all’occhiello del panorama

gastronomico nazionale. Il salame Felino è una di queste eccellenze, amatissima nel mondo. La denominazione di questo straordinario prodotto tipico è riferita all’area geografica della Provincia di Parma in cui è ubicato, a pochi chilometri dalla città ducale, il paese di Felino, da cui trae

Colli Trevigiani IGT Zanotto Col Fondo 2013 Zanotto Vigneti in Tarzo

Maria Beatrice d’Este 2009 Casaboni

Emilia IGT Malvasia Frizzante Donati Camillo

Uve Glera, ma non chiamatelo Prosecco. Non che a Zanotto dispiaccia, ma questo è un prodotto che vuole una sua riconoscibilità precisa, che ha radici nella tradizione locale. Non filtrato — da qui “col fondo” — questo vino può mantenersi anche per anni, grazie proprio alla presenza dei lieviti che si depositano sul fondo della bottiglia. Si consiglia di decantarlo e di non farsi spaventare dall’aspetto torbido, garanzia di lavorazione e gusto. Spiccata la nota minerale e sapida del calice, in assoluta armonia, con fragrantissime note olfattive, circondate da abbondante frutta bianca, mele verdi e ricordi agrumati. Bella tessitura e complessità, tutt’altro che scontato. Un calice che va servito freddo, ma non freddissimo, intorno agli 8/10 gradi. Un vino che si presta ottimamente agli abbinamenti con i salumi, soprattutto se caratterizzati da una buona sapidità. Il salame Felino ben affinato e ben affettato, non troppo sottile, troverà in questo calice un compagno di merende perfetto.

Sulle colline modenesi, più esattamente a Pazzano di Serramazzoni, c’è un pazzo (ovviamente in senso buono, un pazzo di passione per il vino…) di nome Luigi Boni che si dedica ad una produzione vinicola a dir poco straordinaria. Nel Metodo Classico, in particolare, Boni sembra aver trovato una dimensione ideale e risultati eccellenti. Questo calice, assemblaggio di Pinot nero e Chardonnay, con una piccola percentuale di Pinot bianco è di grande levatura, spessore e armonia. Una bolla gradevolissima, dal bouquet articolato e suadente, in cui spiccano note fruttate e fiorite, con toni esotici, morbida e setosa la sorsata. Un tutto pasto facilissimo ed un aperitivo brillante, questo calice si presta a piatti di crostacei come al gnocco fritto emiliano. Vino trasversale quanto eccellente. Non fatevi mancare una tigella calda, magari semi-integrale, per potenziarne le note croccanti di lieviti e farine, con due fette di salame Felino. Un abbinamento potente, che resterà nella memoria.

Camillo Donati è un contadino o almeno così lui si definisce. Una persona che trasmette serenità, semplicità ed un gran rispetto per la terra e i suoi prodotti. Prodotti riconoscibili e molto amati, tipici. I vini di Donati sono così: rispettosi della tradizione, schietti, sinceri. Questa Malvasia non fa eccezione e nasce nello stesso luogo del salame a cui è dedicata la degustazione: Felino. Un calice copioso, ricco di note fruttate e di sentori intensi, tipici e riconoscibili nella naturalità della produzione di Donati. Albicocca e pesca, ortica e ruta, con contorni minerali, abbracciano una sorsata piena, rotonda, intensa, lunga. Un vino deciso, che non si dimentica. Ottimo in abbinamento con tortelli di ricotta e spinaci conditi con burro e salvia o con un risotto d’ortica. Certamente ottimo con un panino al salame, magari una bella stria ben salata, piena di fette di salame Felino.

Zanotto Vigneti in Tarzo Piazza Enzo Ferrari 16 31044 Montebelluna (TV) Telefono: 0423 21890 info@zanottocolfondo.com

Boni Luigi Srl Az. acetovinicola Via San Rocco 1195 41028 Pazzano di Serramazzoni (MO) Telefono: 0536 952338 info@boniluigisrl.it

Az. Agr. Camillo Donati Via Costa 3 43035 Barbiano di Felino (PR) Telefono: 0521 637204 camillo@camillodonati.it

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Felino: quale vino? Franchini

storicamente origine. L’impasto con il quale si realizza il salume è il trito da banco, composto da un 70% di magro e un 30% di parti grasse scelte. La macinazione avviene con trafile medie, dopodiché vengono aggiunti aglio e pepe pestati e sciolti in vino bianco secco. La stagiona-

tura ideale per il Felino è di almeno 60 giorni, propiziata dal particolare microclima del territorio. La tradizione vuole che il vino in abbinamento sia delle medesime zone produttive. Tradizione che abbiamo rispettato, con qualche distinguo.

Franciacorta DOCG Rosè Brut La Fiorita

Colli Piacentini DOC Bonarda Frizzante 2013 Badenchini

Lambrusco Salamino di Santa Croce DOC Secco Cantina Santa Croce

Un calice composto da uve di Pinot nero e Chardonnay in ugual misura, gran bella espressione delle migliori produzioni franciacortine. Una sorsata limpida, scorrevole e beverina, che porge note molto raffinate di frutta, ricordi di fragole mature e lieviti di biscotti e pasticceria. Una degustazione non scontata, lontanissima dalla banalità, ma non per questo meno armonica ed equilibrata. Una bollicina piena e lunga, avvincente e adatta a molteplici interpretazioni d’abbinamento. Certamente valida come aperitivo, si presta anche a piatti di pesce, anche strutturati e cenoni natalizi. Ben freddo, il vino sarà adattissimo a tutta la grande salumeria, prosciutti crudi e salami in particolare. Se ne consiglia vivamente l’abbinamento con una bella e fragrante michetta lombarda, imbottita per bene di salame Felino.

Siamo ad Albareto, nel piacentino, con questa cantina che presenta vini di grande tipicità, onesti e limpidi. La scelta della Bonarda è stata determinata da una degustazione piena, nel solco della tradizione e del gusto. Una sorsata intensa e rotonda, anche grazie ad un’effervescenza brillante ma non scontrosa, in piena armonia. Copiose, ricche e pulite le note fruttate, frutta rossa e ricordi di bosco, con note pepate intriganti. Equilibrato tra parti morbide e dure al palato, non può che adattarsi magnificamente a tutti i salumi piacentini e ai piatti della zona, anolini in brodo come arrosti morbidi. Viene subito in mente la coppa piacentina, non poteva essere altrimenti. Ma non sfigurerà assolutamente con il salame Felino, grazie anche alle note pepate che vanno a braccetto col salume.

Siamo a Santa Croce di Carpi, in provincia di Modena, nel cuore del vitigno e della denominazione “Lambrusco Salamino di Santa Croce”. Un vino di grande tradizione, localmente amatissimo e particolarmente adatto all’abbinamento con la pregiata salumeria regionale. Si presenta di un bel rosso rubino con riflessi porpora, limpido e subito al naso regala note croccanti, piene e riconoscibili del vitigno. È la frutta rossa ad emergere, con ricordi intensi di pepe nero, tipicissimo, fragole, more e lamponi. Un naso dolce e molto affascinante, tipico, che abbraccia una sorsata morbida, piena, circolare. La schiuma è altrettanto setosa, presente senza eccessi. Un calice gioviale, brioso e armonico, facilissima la beva, piena e dissetante. Gnocco e tigelle saranno ben felici di essere copiosamente bagnate da questo nettare, che accompagnerà perfettamente anche un bel salame Felino, affettato altrettanto copiosamente.

Cantine La Fiorita Via Maglio 10 25050 Ome (BS) Telefono: 030 652279 info@lafioritafranciacorta.com

Azienda Vitivinicola Badenchini Loc. Albareto 89/A 29010 Ziano Piacentino (PC) Telefono: 0523 860256 info@badenchini.it

Cantina di Santa Croce Strada Statale 468 di Correggio 35 41012 S. Croce di Carpi (MO) Telefono: 059 664007 info@cantinasantacroce.it

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Formaggio

Israele e l’antica arte di fare il formaggio di Raffaele Bertolini

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ell’antica città di Gerusalemme, ben addentro il dedalo del quartiere musulmano, un via vai di gente mercanteggia spezie, souvenir, abiti. Pigiandosi, urlando, scontrandosi con i pellegrini che, ordinati, calcano i lastricati color sabbia lungo il percorso del sacro. Non lontano si trovano la Chiesa del Santo Sepolcro e Via Dolorosa, luoghi sacri per i cristiani, e la Moschea Al-Aqsa, luogo di culto per i musulmani. Nel frattempo, un flusso di clienti entra ed esce dalla leggendaria pasticceria Jafar, alle prese con un vastissimo repertorio di dolci tradizionali arabi. Tra questi primeggia la knafeh, di origine palestinese, lucente sotto una crosta croccante, aranciata, in cui si nasconde un cuore di formaggio di capra immerso in un letto zuccherino di sciroppo di acqua di rose. Preparata tradizionalmente in una padella larga e bassa su fiamma viva, la knafeh viene tagliata a quadri e servita calda. Al suo interno un prezioso quanto antico cuore mellifluo di grasso e proteine animali: il nabulsi, simile alla ricotta ma prodotto con il latte delle capre della zona di Nablus, città risalente al 72 a.C., fondata durante il regno di

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Tito. MOHAMMAD JAFAR, proprietario dell’omonimo locale dal 1951, si è conquistato una reputazione proprio grazie a questa perla di dolcezza. Essendo una specialità consumata durante le festività sia dai Cristiani che dai Musulmani, la knafeh riempie le pareti di Jafar, soprattutto durante il Ramadan e il Natale, attraendo locali e turisti insieme. Una base comune di formaggio, oltre la politica e la religione Ancor più di ogni altra arte culinaria presente in Israele, la produzione di formaggio — ingrediente principe di moltissime ricette — è rivelatrice di quanto la società sia mutata nel tempo allontanandosi o rimanendo fedele alla tradizione. Ricercatori come PAUL KINDSTEDT sono convinti che la caseificazione abbia trovato la propria origine in questi luoghi assolati. Il latte era considerato una bevanda sacra tra i Sumeri. I popoli nomadi ebbero un ruolo cruciale nell’investire la caseificazione di un ruolo di primaria importanza economica nelle società del tempo, facendo arrivare sino a noi i risultati strabilianti in termini di qualità e varietà di prodotti lattiero-caseari. E

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La knafeh, dolce di origine palestinese (photo © arabiczeal.com). nel mondo mediorientale di oggi, un filo di caseina lega le varie comunità, non trovando ostacolo né religioso né politico. Il cosiddetto labneh, fatto ancora secondo ricette antichissime, è un esempio di questa condivisione di saperi e sapori. Sebbene questo formaggio morbidissimo prodotto da yogurt condensato sia rinvenibile quasi in tutto il mondo, è solamente la comunità dei Drusi che ci mostra un modo alquanto speciale di consumarlo. I membri della minoranza religiosa (soltanto il 2% della popolazione israeliana) hanno la consuetudine di spalmare il labneh su un pane tipo pita, sottilissimo, e cospargerlo di spezie. Viene poi arrotolato come una crêpe e servito. Per produrlo si utilizza uno yogurt di latte intero, avvolto in un canovaccio da cui possa gocciolare una volta appeso, per una notte intera, a volte anche per due giorni. Nella comunità questa occupazione è prettamente femminile. «Gli uomini mangiano, ma sono sempre le donne che preparano il formaggio», racconta AHMADEYA

HALABI, una donna drusa, proprietaria di un negozietto a Daliyat al-Karmel da oltre vent’anni. Il suo villaggio si trova a circa venti chilometri da Haifa e il mercato che ivi si tiene il sabato fa strabuzzare gli occhi per i colori sgargianti di magliette, tappeti e sciarpe che fluttuano sbattute dal vento caldo. I negozi sono gremiti di ciondoli e narghilè e le strade riempiono i polmoni del profumo di pita appena sfornato e sommacco. La gente di Daliyat al-Karmel si insediò all’inizio del VII secolo, condotta colà dal signore della guerra druso Fakhr al-Din. Ad oggi vi sono circa un milione di Drusi in tutto il mondo, di cui 87.000 in Israele e sulle alture del Golan. Praticanti di un sincretismo religioso di derivazione islamica, credono, contrariamente ai Musulmani, nella reincarnazione. La tradizione orale è molto viva in questa comunità e la caseificazione viene trasmessa da madre a figlia con la pratica. La famiglia di Ahmadeya non fa eccezione. «Ho imparato da mia madre, che vendeva cibo al mercato, come si cucina», ricorda. Sugli scaffali

“Più di ogni altra arte culinaria presente in Israele, la produzione di formaggio è rivelatrice di quanto la società sia mutata nel tempo, allontanandosi o rimanendo fedele alla tradizione. Ricercatori come Paul Kindstedt sono convinti che la caseificazione abbia trovato origine in questi luoghi assolati” 100

della sua dispensa di casa troviamo conserve di verdure in salamoia e bottiglie di olio provenienti dagli oliveti di famiglia. Prepara il pane per tutta la famiglia agli albori di ogni giorno. «I Drusi mangiano il pane pita con il labneh a colazione. È così leggero eppure saporito che lo puoi addentare in qualsiasi parte della giornata». A una ora e mezza di macchina da Daliyat al-Karmel, nella parte nord-occidentale del paese, si trova il caseificio Hameiri Tsfat (www. hameiri-cheese.co.il), rinomato per un’altra tipologia di formaggio: lo tsfat kosher, dalla pasta densa, di latte ovino e piuttosto sapido. Sono passati 170 anni da quando la famiglia Hameiri, ebrei persiani, si stabilì nella città santa di Tsfat, conosciuta anche come Safed, arroccata sulle alte colline oltre il mare di Galilea. Secondo Shai Seltzer, un attivista del mondo del food nonché produttore di formaggio (www.goat-cheese.co.il), fu la stessa famiglia Hameiri a dare origine a questo formaggio, il primo propriamente ebraico del moderno Levante. «Ha un sapore tra un Feta e un formaggio di produzione bulgara». I locali di produzione si trovano nello stesso edificio che quasi 200 anni fa il patriarca Meir Hameiri utilizzò per produrre i suoi primi caci. Al di sotto dell’edificio sgorga una sorgente naturale che viene convogliata all’interno dei locali di produzione; qui scorre tra le fascere metalliche al cui interno riposa la cagliata ancora calda raffreddandole lentamente. Il latte utilizzato proviene da greggi locali (2.000 litri ogni settimana). Insieme allo tsfat, la famiglia Hameiri produce anche formaggio misto ovino-caprino sullo stile del Feta. Seguendo i dettami kosher si utilizza solamente caglio vegetale. La cagliata viene adagiata all’interno di cesti in vimini e salata a secco. La stagionatura si protrae anche per un anno, giusto il tempo per arrivare sulle tavole durante la festa dello Shavu’òt, durante la quale si celebra la ricchezza della terra e i suoi doni: il formaggio e il miele. Israele importa formaggio industriale da tutto il mondo, in special modo dall’Europa. Ciò nonostante la produzione locale trova spiragli

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Lo tsfat kosher. di mercato via via più generosi. SHIR HALPERN, proprietario e fondatore del farmers market di Tel Aviv, ricorda di come molti casari del nord del paese abbiano attraversato mezzo mondo per raffinare le loro tecniche di caseificazione. Tra questi AVINOAM BRAKIN, del caseificio Barkanit (www. zimmeril.com) di Kfar Yehezkel, è stato a lungo in Francia. TAL TZON EL del caseificio Tzon El (zippori.com) di Zippori ha invece visitato 16 Paesi diversi. Oggi entrambi allevano pecore e capre nelle lussureggianti pianure del nord, vendendo i loro prodotti al mercato locale. «Una produzione a scala ridotta come questa — rimarca Halpern — non solo preserva la tradizione ma consente anche di realizzare dei formaggi meravigliosi direttamente legati al pascolo, che cambia ogni stagione». Seltzer, vincitore tra l’altro di svariati premi con i propri formaggi di capra, imparò il mestiere da un monaco che trascorse la giovinezza in Francia facendo il pastore. Quest’anno la sua passione lo porterà in India, dove insegnerà come si fa del buon formaggio a pastori locali. Ancora una volta, dopo migliaia di anni, il cibo di una comunità torna ad essere la chiave d’accesso alla condivisione. Raffaele Bertolini Nota A pagina 98, il labneh (photo © highgatehillkitchen.com; kelliesfoodtoglow.com).

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Piacentinu ennese, il pecorino con lo zafferano di Nunzia Manicardi

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ella provincia siciliana di Enna, in particolare nella zona compresa tra i monti Erei e la valle del Dittaino, si produce un formaggio pecorino pregiato, unico al mondo: è il Piacentinu ennese. La sua unicità è data dal fatto che al latte con il quale viene realizzato si aggiunge il profumatissimo zafferano, anch’esso presente in loco come pianta sia spontanea che coltivata. Si ottiene così un formaggio di un bel colore giallo e dal gusto talmente buono e

gradevole — proprio perché addolcito dalla presenza della spezia — da aver meritato fin dai tempi più antichi il nome di piacentinu, dal siciliano piacenti, termine derivato a sua volta dal latino, che significa “che piace”. Proprio l’origine latina del nome induce a supporre che la produzione abbia avuto inizio ben prima dell’859, anno in cui gli Arabi si impadronirono della città mutando il nome di Henna in Castrum Hennae, avvalorando di conseguenza la tesi che quel fantasioso primo pastore che un giorno colorò

di giallo la cagliata con una manciata di zafferano potesse essere un sicano, un siculo, un greco o forse un romano che abitava l’Henna, il più antico dei cosiddetti Monti della lana. Del resto sappiamo, anche da altre testimonianze, che in provincia di Enna l’attività casearia ha origini antichissime. La tipicità di tale formaggio non deriva però soltanto dallo zafferano ma anche dal latte utilizzato. Esso è prodotto da pecore di razze autoctone allevate tra queste colline quali Comisana, Pinzirita e Valle del Belice (nome

Piacentinu ennese (photo © www.cucinaevini.it).

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rimasto tristemente famoso per il terremoto del 1968) e loro meticci. Essendoci primavere molto piovose ed estati umide, cresce una ricca vegetazione caratterizzata da veccia, rosmarino e finocchio selvatico, oltre a numerose altre piante della macchia mediterranea presenti tra i 400 e gli 800 metri sul livello del mare e che ne fanno una delle province siciliane con il maggior numero di allevamenti ovini. Anche il caglio in pasta di agnello o capretto proviene da animali allevati nella zona di produzione. Nacque per curare la depressione di Adelasia Molte sono le storie sulle origini del Piacentinu ennese. Una leggenda vuole che Ruggero il Normanno, intorno al 1090, preoccupato per la consorte Adelasia prostrata da un’invincibile depressione, invitasse i casari del luogo a preparare un formaggio che avesse doti taumaturgiche. Da qui sarebbe nata l’idea di aggiungere al latte di pecora una manciata di Crocus sativus (nome scientifico dello zafferano), spezia nota nell’antichità per le sue qualità antidepressive ed energizzanti. Altre testimonianze provengono da testi antichi come “Le venti giornate dell’agricoltura e dei piaceri della villa” di AGOSTINO GALLO del ‘500, in cui si fa riferimento ai sistema di salatura ed aggiunta di zafferano per dare più colore al formaggio, o “La Sicilia passeggiata” di Francesco Ambrogio Maja del ‘600. La produzione di questo formaggio è continuata attraverso i secoli fino ai giorni nostri, costituendo un indiscusso ed esclusivo patrimonio storico-culturale e produttivo della sola provincia di Enna (per la precisione di nove comuni). Il Consorzio Tutela del Formaggio Piacentinu ennese Il Piacentinu ennese è un formaggio a pasta compatta e, oltre ad essere aromatizzato con lo zafferano, riceve altro profumo dal pepe nero in grani che viene posto in ammollo in acqua calda la sera precedente la produzione. La tecnica di lavorazione, che prevede l’aggiunta di acqua calda alla cagliata (con temperatura superiore a 80°C), e

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l’uso attento del sale (che deve essere a grani grossi e perfettamente bianco), ne fanno uno dei formaggi meno aggressivi della Sicilia e per questo molto adatto anche all’esportazione. Infatti, dopo una maturazione di circa 60 giorni, presenta un odore delicato e un sapore aromatico e dolciastro (e le già citate proprietà stimolanti) per la presenza dello zafferano. Il Piacentinu ennese è un prodotto DOP. Ottenuto ancora in maniera tradizionale, deve essere lavorato e confezionato come da disciplinare del Consorzio di Tutela. L’etichetta reca obbligatoriamente tutti requisiti di legge, il logo del “Consorzio Tutela del Formaggio Piacentinu ennese” a forma ovale, dove all’interno è raffigurata una forma di Piacentinu Ennese DOP da cui si distacca una fetta a forma di Sicilia, il nome, la ragione sociale dell’azienda produttrice e/o confezionatrice e il bollo CE del produttore. Le caratteristiche All’atto della sua immissione al consumo il Piacentinu ennese deve avere forma cilindrica con scalzo leggermente convesso o quasi diritto (min. cm 14 e max. cm 15) e piatto piano o leggermente concavo (min. cm 20 e max. cm 21), ottenibili mediante l’uso del canestro in giunco. Il peso oscilla tra kg 3,5 e 4,5. All’esterno presenta una crosta di colore giallo più o meno intenso e di spessore non superiore ai 5 mm che reca impressi i segni del canestro e può essere cappata con olio o morchia d’olio. L’interno rivela una pasta di colore giallo omogeneo più o meno intenso, liscia, non granulosa. È ammessa una leggera occhiatura. La trasudazione è assente o molto scarsa. Dell’odore dolciastro con delicato aroma di zafferano abbiamo già parlato; il salato è appena percettibile, mentre il piccante è lieve nei primi mesi di stagionatura e poi tende ad intensificarsi. La zona di produzione del latte, di caseificazione e di stagionatura del Piacentinu Ennese comprende l’intero territorio dei Comuni di Enna, Aidone, Assoro, Barrafranca, Calascibetta, Piazza Armerina, Pietraperzia, Valguarnera, Villarosa della provincia amministrativa di Enna.

Zafferano. Nel Piacentinu è aggiunto prima del caglio e dà al formaggio una nota aromatica e dolciastra (photo © www.siciliafan.it). Terra di foraggi pregiati La provincia di Enna, data la scarsità di insediamenti industriali, rappresenta nel contesto isolano un’oasi verde incontaminata in grado di esaltare il valore ecologico collegato all’attività agricola e zootecnica. Il sistema produttivo ovinicolo, compresa la trasformazione del latte ovino, costituisce uno dei settori a più basso impatto ambientale. Tutto ciò è evidente a partire dal tipo di alimentazione degli ovini, anch’esso regolato dal disciplinare di produzione. L’area di produzione del Piacentinu ennese, per le sue condizioni orografiche, per le caratteristiche climatiche di tipo subcontinentali (sebbene inserite in un contesto climatico mediterraneo) determinate dalla distanza dal mare, concorrono alla realizzazione di una produzione foraggera con peculiari caratteristiche quanti-qualitative. La produzione del Piacentinu ennese si realizza, infatti, in un’area caratterizzata da suoli bruni, a spiccata vocazione foraggera, che presentano pendici più o meno dolci. I terreni, collocati ad un’altitudine tra 400 e 800 metri s.l.m., manifestano una composizione variabile poiché coesistono terreni argillosi, sabbiosi e di medio impasto su cui si sviluppano prevalentemente essenze foraggere quali le già citate sulla e veccia.

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Gli ecotipi locali di queste foraggere hanno assunto nel tempo caratteristiche legate al territorio. Nell’ultimo decennio è stato ampiamente dimostrato che ogni essenza foraggera ha uno specifico profilo aromatico determinato da sostanze naturalmente presenti nel mondo vegetale quali i “terpeni”. Tali composti passano inalterati dalle essenze foraggere nel latte e nei formaggi di ruminanti allevati al pascolo fungendo da biomarcatori. Riguardo al Piacentinu ennese è stata appurata nel formaggio la presenza di un particolare terpene, l’α-terpineolo, che proviene dalle essenze foraggere tipicamente presenti nel territorio ennese ed impiegate nell’alimentazione degli ovini da latte. Le condizioni ambientali tipiche del territorio ennese favoriscono anche la produzione di uno “zafferano di qualità” come attestano gli alti contenuti di crocina e pirocrocina. Sulla base di questi parametri è stato possibile inserire lo zafferano ennese nella I e nella II categoria di qualità; le sue specifiche componenti aromatiche rendono il bouquet del prodotto finale più intenso e caratteristico. Il disciplinare di produzione del Piacentinu ennese, a cui ci rifacciamo di seguito integralmente, prescrive che gli ovini vengano alimentati al pascolo naturale e/o coltivato con foraggi freschi, fieni e paglia ottenuti nella zona di produzione individuata all’art. 3, con le stoppie di grano e i sottoprodotti vegetativi (cladodi di fico d’India, frasche di ulivo della potatura invernale). Le greggi sono portate abitualmente al pascolo per gran parte dell’anno. Limitazioni al pascolamento sono consentite quando le condizioni ambientali, climatiche e sanitarie sono tali da influenzare negativamente la qualità dei foraggi freschi e/o del latte. È consentita l’integrazione con granella di cereali, con leguminose e concentrati semplici o complessi no OGM. Tali apporti complementari vengono somministrati alle greggi solo in quelle giornate invernali in cui gli animali non possono andare al pascolo. Il procedimento di produzione Il latte refrigerato proveniente da una o due mungiture successive entro le

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Il Piacentinu ennese DOP (photo © www.formaggio.it). 24 ore, previo riscaldamento ad una temperatura massima di 38°C, viene messo nella “tina” in legno in cui avviene la coagulazione. Per eliminare eventuali particelle estranee viene filtrato nel momento in cui dai secchi è versato nella tina, mediante teli o setacci. Prima dell’aggiunta del caglio è arricchito di zafferano (max. 5 grammi ogni 100 litri di latte) che, per facilitarne la perfetta omogeneizzazione con il latte, viene prima disciolto in acqua tiepida. Il latte a questo punto assume un bel colore giallo intenso. Ad esso viene poi aggiunto il caglio (max. 100 grammi ogni 100 litri di latte). La quantità di caglio, in funzione della sua forza, determina un tempo di coagulazione, presa e indurimento di 45 minuti. La giusta consistenza del coagulo viene valutata saggiandola al tatto e osservando il siero che deve essere limpido. Si procede poi alla rottura della cagliata aggiungendo, per favorire lo spurgo dei granuli di cagliata, acqua calda alla temperatura di 75°C in quantità pari a 20 litri/100 litri di latte. La rottura procede fino a quando i granuli di cagliata hanno raggiunto una dimensione paragonabile a chicchi di riso. Con movimenti rotatori, aiutandosi con il bastone in legno (“rotula”) con il quale è stata rotta la cagliata, si agglutinano i granuli

ottenendo una massa che si deposita sul fondo della tina. Una volta separato il siero la massa caseosa ottenuta, sommariamente spurgata, viene estratta, posta su un ripiano, in legno (“tavoliere”) o acciaio, e tagliata in pezzi grossolani. Segue la fase di messa nei canestri di giunco; in questa fase viene aggiunto, con modalità che ne permette una distribuzione omogenea, il pepe nero in grani. Ad ogni aggiunta la pasta viene fortemente pressata per favorire al massimo lo spurgo. La pasta, contenuta nei canestri, viene poi posta in una tina e ricoperta di scotta calda per un periodo che va dalle 3 alle 4 ore. Dopo quattro ore la pasta è messa ad asciugare a temperatura ambiente, sempre all’interno del caseificio, per un tempo di 24 ore. Segue la salatura a secco: la forma viene cosparsa uniformemente con sale, ripetendo l’operazione per 2 volte a distanza di 10 giorni l’una dall’altra. La stagionatura minima è di giorni 60 dalla data di produzione. Deve avvenire all’interno della zona di produzione stessa, in locali freschi con piccole aperture affinché ci sia una moderata ventilazione o in magazzini aventi temperature comprese fra i 8/10°C e un’umidità relativa compresa fra 70/80%. Nunzia Manicardi

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Dolci

Fritti e colorati, sono i dolci di Carnevale di Josette Baverez Blanco

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ra le feste di Natale e di Pasqua, caratterizzate dalla tradizione di gustare tantissime ghiottonerie culinarie, il mese di febbraio è tempo di esuberanza e di gioia. Si sentono nell’aria le premesse della primavera, le giornate si sono già allungate e, soprattutto, arriva il Carnevale, la sua vivacità e i suoi dolci, tripudio di allegria per grandi e piccini. È una ricorrenza riconosciuta praticamente in tutto il mondo, festeggiata da tempi antichissimi, con stravaganze, follie e sregolatezze che oggi, tranne casi eccezionali, si sono un po’ perse; è comunque rimasto l’obbligo di divertirsi facendo baldoria in assoluta spensieratezza.

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Le origini del Carnevale sono abbastanza incerte, ma sembrano risalire ai Saturnali romani, lunghi cicli di feste pagane dedicate al dio Saturno, a carattere orgiastico, durante i quali tutto era ammesso e veniva sovvertito l’ordine sociale: gli schiavi liberi potevano infatti banchettare e fare regolari sacrifici agli dei. In seguito, la ricorrenza è stata collegata al Cristianesimo e si è identificata col periodo che precede la Quaresima, raggiungendo il culmine nel giorno di martedì grasso, vigilia del mercoledì delle Ceneri, che segna l’inizio del periodo di penitenza in preparazione della Pasqua. Nella liturgia cattolica si prevede il digiuno e, soprattutto, l’astinenza dalle carni (dal latino

carnem levare, da cui “carnevale”). Oggi il Carnevale è innanzitutto la festa dei bambini, con la pioggia dei coriandoli e delle stelle filanti, i suoni delle trombette, i rumori e la profusione dei colori delle maschere più strane e originali. Ed è soprattutto il trionfo dei dolci, il cui profumo regolarmente invade le strade, facendo venire l’acquolina in bocca e brillare gli occhi! La tradizione dei dolci di questo periodo risale alla notte dei tempi: in ogni località, grande o piccola, in città o in campagna, nelle famiglie abbienti o in quelle più umili, si friggono nelle grandi padelle — una volta nere — tortelli, frittelle, chicche di ogni tipo, cosparsi di zucchero o intrisi di miele.

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Se vogliamo fare una panoramica delle usanze italiane, possiamo affermare che ogni regione vanta le sua specialità e, anche se il dolce è simile, la sua denominazione cambia, oppure è soltanto qualche ingrediente o particolare della lavorazione ad essere leggermente differente. È il caso, ad esempio, delle lattughe o chiacchiere, così chiamate in Lombardia, che diventano crostoli in Friuli e in Trentino, galani nel Veneto, cenci in Toscana e sfrappole in Emilia-Romagna. Ma l’emblema del Carnevale è certamente la frittella. Tutto può diventare frittella ed è proprio per questo che viene nominata e menzionata già nei testi antichi. Frittelle di riso, semolino, mele, patate, ricche di uvetta, pinoli, mandorle, profumate al limone, all’arancia… Vengono immerse nello strutto o nell’olio così che si gonfino, sino a divenire dorate e croccanti, pronte a vestirsi di zucchero a velo appena tolte dal grasso bollente. In Tirolo si usa far lievitare la pastella a lungo, il che rende molto voluminosa la delizia appena cotta. È così che si ottengono i krapfen, specialità dalla forma tondeggiante ripiena di crema o marmellata, che ha ormai varcato la frontiera da molti anni e incanta i palati italiani da Nord a Sud. In Umbria si predilige un dolce ricco di miele, mandorle e frutta candita: la cicerchiata, specialità che si

ritrova anche più a sud, in Abruzzo e in Molise, regioni che ne rivendicano la paternità. In Puglia e in Campania, appaiono nelle case e nelle pasticcerie le famose zeppole, con la morbida crema all’interno. Molto affini sono le zippulas sarde. In Calabria si possono gustare i panzerotti, ravioli ripieni di ricotta, cioccolato e canditi, ricoperti di zucchero vanigliato. In Basilicata vengono fritti gli strangolapreti, una specie di gnocchetti modellati con le dita contro la parete di un piccolo canestro. In Sicilia sarebbero due i dolci di carnevale, i cannoli e i frivioli (ravioli dolci), anche se dei primi si parla ormai tutto l’anno. Oltretutto, in questo periodo i pasticceri siculi si dilettano a modellare paste di mandorle, a friggere sfinci e sfinciuni di riso, a preparare pizzicate e pignolate. Si potrebbero suddividere i dolci carnevaleschi a seconda della loro fattura: nei fritti ci sono le pallottole, talora ripiene, le castagnole, i tortelli dolci dell’Italia centrale, le fritole del Veneto, le frittelle del mantovano, i caragnoli e le rosacatarre del Molise. Speciali sono le tagliatelle dolci dell’Emilia-Romagna; nei lievitati, il famoso krapfen già citato, la schiacciata alla fiorentina toscana e il berlingozzo, una ciambella rustica, specialità pistoiese che risale dal tempo dei Medici e il cui nome deriva da “belingaccio”, ossia giovedì santo. Le zeppole e altre ciambelle fanno

Le ciambelle di Carnevale (photo © romagnaviniesapori.com).

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La cicerchiata (photo © gikitchen. wordpress.com). parte delle paste lievitate ad anello, mentre è comunissima la pasta tagliata a nastri e fritta. Si tratta appunto delle già citate e famose chiacchiere, che in Italia prendono 40 appellativi diversi (bugie, frappe, manzole, galani, intrigoni, meraviglie, fiocchi, fiocchetti, cioffe...). Come spiegare la parola “chiacchiera” per questo dolce tipico? Si allude senz’altro all’estrema facilità con cui si prepara, il che permette di chiacchierare in santa pace, ma probabilmente si sottolinea che, alla pari delle chiacchiere, con pochi ingredienti se ne fanno tante! Abbiamo già accennato ai fritti ricoperti di miele come la cicerchiata, ma segnaliamo anche gli arancini di Carnevale tipici delle Marche. Infine, ricordiamo il sanguinaccio dolce, antica tradizione napoletana realizzata con il sangue di maiale, trasformatosi oggi in una crema al cacao e cioccolato fondente servita calda o fredda (accompagnamento ideale delle chiacchiere). Come si può dedurre dal numero delle squisitezze elencate, la cucina italiana, regione per regione, non manca certo di spunti adatti a rallegrare il periodo prequaresimale, a fare “il pieno” in tutti i sensi prima di entrare nella fase di mestizia che precede Pasqua, con la quale, per i credenti, tornerà la gioia della resurrezione e della vita. Josette Baverez Blanco

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Tecnologie

Innovazione tecnologica al servizio di qualità e tradizione: così nasce la collaborazione tra G. Pfitscher e CSB-System La software-house veronese da oltre 35 anni si dedica a soddisfare le più complesse esigenze di gestione delle aziende alimentari di piccole, medie o grandi dimensioni

L

a G. PFITSCHER SRL è nata nel 1980 con l’apertura di un piccolo negozio nel cuore di Merano, a cui si è immediatamente aggiunta la produzione di speck, caratterizzato da una preziosa ricetta familiare. La ditta è cresciuta velocemente finché nel 2000 è di-

ventato necessario spostarsi a Postal (BZ), un piccolo paese dalle antiche tradizioni culinarie confinante con Merano. Investimenti per più di 5 milioni di euro sono riusciti a portare lo stabilimento ad un livello altamente concorrenziale, con la produzione che è raddoppiata. Nel 2007, anno di

fondamentale importanza nella storia aziendale, grazie ad un investimento di ben 8 milioni di euro si sono completati i lavori di ampliamento della sede di Postal nel tempo record di soli dodici mesi! La G. Pfitscher Srl è oggi, con più di 40 dipendenti, gli oltre 8.000 m2 coperti di stabilimento ed

Con più di 40 dipendenti, gli oltre m2 8.000 coperti di stabilimento ed € 15 milioni di fatturato, la G. Pfitscher Srl è oggi una forte realtà del mercato del Trentino Alto Adige, presente in tutta Italia e in altri Paesi dell’UE e del mondo.

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i 15 milioni di euro di fatturato, una forte realtà del mercato del Trentino Alto Adige, presente, oltre che sull’intero territorio nazionale, anche in altri Paesi dell’Unione Europea e del mondo. Nonostante questa crescita esponenziale, la ditta era e rimane a conduzione familiare e viene diretta da LUKAS PFITSCHER, figlio del fondatore GOTTFRIED PFITSCHER. «L’azienda — ci dice Pfitscher — anno dopo anno si è evoluta ed ingrandita, ma la crescita non ci ha fatto perdere di vista i nostri principi guida: produrre con coscienza e massima disponibilità verso i nostri clienti. Perché abbiamo implementato il CSB-System? Semplice. Malgrado la nostra capacità produttiva si fosse triplicata e avesse raggiunto le 150 tonnellate circa a settimana, era necessario per noi conservare la flessibilità tipica di un’azienda a conduzione familiare e mantenere costante l’alta qualità dei nostri prodotti, soprattutto del ben noto Speck Pfitscher. L’innovazione tecnologica, o meglio l’implementazione del gestionale CSB-System con l’utilizzo delle postazioni industriali per ambienti umidi CSB-Rack, ci è servita proprio a questo: a combinare perfettamente i molteplici aspetti della nostra realtà aziendale». La CSB-System è la softwarehouse veronese che da oltre 35 anni si dedica a soddisfare anche le più complesse esigenze di gestione delle aziende alimentari, siano esse di piccole, medie o grandi dimensioni. La collaborazione con la G. Pfitscher Srl è cominciata nel 2005 ed è andata avanti nel corso degli anni fino ad arrivare alla recente implementazione di una linea di peso-prezzatura, la quale si è aggiunta ai moduli Acquisti, Magazzino, Vendite, Gestione SSCC, Rintracciabilità e Contabilità Generale e Cespiti, già precedentemente implementati. Descrizione del progetto Il signor Pfitscher è convinto che l’efficace servizio al cliente inizi dal processo di acquisto e dalla sua pianificazione. Il software gestionale CSB-System serve proprio a questo: in base allo storico di vendita, agli stock di magazzino, agli ordini dei

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clienti, il sistema propone la giusta quantità di approvvigionamento. Al momento del ricevimento merci il CSB-System esegue un controllo completo su quantità e qualità. Il CSB-Rack rileva i dati sul peso in maniera completamente automatica on-line e in tempo reale grazie al collegamento delle bilance. Per il fornitore viene compilato un documento di consegna ed il magazzino, integrato nel gestionale merci, viene conseguentemente aggiornato delle materie prime in entrata. È evidente che la rintracciabilità venga gestita in maniera puntuale e garantita sull’intera filiera per mezzo di un Sistema Informativo Lotti tramite creazione automatizzata di etichette con codificazione EAN 128 che assicura la rintracciabilità di tutti i dati di provenienza e produzione secondo gli standard europei. La gestione del magazzino consente di ottimizzare le giacenze in base alla rotazione della merce, e di gestire con più unità di misura (ad esempio, pezzi, chilogrammi, cartoni, pallet, ecc…) le quantità presenti. La gestione del magazzino si completa, inoltre, di inventari e statistiche per lotti, date di scadenza, e così via, per una migliore pianificazione e conseguente puntualità di consegna nelle vendite. I vantaggi della peso-prezzatura e del CSB-Rack Attraverso il collegamento tra linea di peso-prezzatura e modulo delle Vendite, ed anche per la presenza di un CSB-Rack multifunzione all’uscita merci, l’azienda di Postal ha ulteriormente velocizzato la fase di preparazione ordini. Questo perché in un unico passaggio sono possibili molteplici funzioni: dalla pesatura alla prezzatura, dalla stampa di etichette di somma del cartone con indicazione del punto vendita, allo scarico dinamico del magazzino delle materie prime fino all’inserimento dei dati direttamente in bolla e la stampa di etichette per il pallet (SSCC) specifiche per cliente. Va precisato che la G. Pfitscher Srl può rispondere in maniera puntuale alle singole esigenze di ogni cliente, dalla tipologia di confezione al tipo di etichetta, con gestione di etichette

personalizzate e multilingua. La zona consegne, infatti, si estende ormai non solo al territorio nazionale ma anche a tutta l’Europa centrale fino alla Russia. Lo scambio dati tra GDO e l’azienda altoatesina, nello specifico il ricevimento ordini e la trasmissione di fatture elettroniche e riepilogative, avviene secondo tracciati definiti dal partner commerciale attraverso EDI, anch’esso gestito e integrato nel CSBSystem. I vantaggi sono evidenti: gli errori e, quindi, le contestazioni dei clienti si riducono, l’intero processo si velocizza, si eliminano i doppi inserimenti. Oltre alla Contabilità generale, la CSB-System fornisce alla G. Pfitscher Srl anche la Contabilità Cespiti. Una sfida anche per il futuro In virtù degli ingenti investimenti effettuati, della qualità dei suoi prodotti e della sempre maggiore attenzione alle esigenze della clientela, Lukas Pfitscher confida molto nelle ulteriori potenzialità di crescita della sua azienda: «Il passato racconta il futuro — afferma — ed è proprio questa la storia che giorno dopo giorno noi vogliamo far rivivere e tramandare attraverso i nostri prodotti. E giacché l’utilizzo di un gestionale completo come il CSB-System si è dimostrato funzionale al raggiungimento dei nostri obiettivi, vogliamo che la collaborazione con la software-house veronese prosegua anche nei prossimi anni».

Referente: • Dott. A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (Verona) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb-system.it

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Arte e mestieri Visti Io Personalmente

Antonio Romano, identità e design made in Italy di Angelo Valentini

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n tempo, non lontano dai miei ricordi, era molto più difficile produrre che vendere; il mercato era circoscritto nell’ambito territoriale e tutto era impostato sulla reciproca fiducia dei contraenti. Poche erano le aziende che reclamizzavano il proprio marchio di fabbrica, che il più delle volte rimaneva statico nel tempo. Oggi la situazione si è capovolta e la vendita è strettamente collegata ad una serie di fattori che fanno capo alla comunicazione. La nostra epoca è condizionata dalla globalizzazione delle merci e necessita pertanto

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di strategie studiate a tavolino da esperti del settore, il cui obiettivo è colpire e sensibilizzare la psicologia dei potenziali acquirenti, sottoposta a bombardamenti mediatici di ogni genere. Abbiamo scoperto una nuova terminologia importata per lo più dal mondo anglosassone: marketing, merchandising, buyer, brand… Tutti termini che fanno parte del mondo commerciale, in cui per cui un brand o un marchio determinano il valore di un complesso produttivo e la relativa notorietà della merce. Questa premessa mi serve per presentare un personaggio che conosco

bene e che desidero annoverare tra i VIP della mia rubrica. Si tratta di ANTONIO ROMANO, presidente dello studio Inarea, noto designer, una mente effervescente, creativa, sintetica ed essenziale. Pugliese di nascita, Antonio si è laureato in architettura a Roma. La sua carriera è iniziata disegnando tessuti per l’alta moda, ma il suo estro lo ha portato a spaziare in molti campi della produzione, dalla calligrafia all’architettura. Antonio è l’immagine delle sue creazioni, un uomo pacato, dalla conversazione piacevole e suadente, che racconta le sue iniziative con

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Food Year, perché sia un anno “buono” in tutti i sensi “Quest’anno — si legge nel sito di Inarea, inarea.com — complice l’Expo, abbiamo pensato a quanto il cibo sia importante per noi. Ne abbiamo bisogno per avere energia; siamo capaci di trasformarlo in qualcosa di stiloso e alla moda; lodiamo i sapori; diventiamo creativi con gli ingredienti. E, con l’esplosione dei social network, siamo diventati tutti appassionati, tanto da coniare una nuova espressione: foodie. Per questo, per il calendario 2015 abbiamo deciso di cucinare qualcosa con la classica ricetta Inarea: ingredienti diversi che, messi insieme, creano ogni volta un piatto speciale. Il risultato è cibo per la mente, servito in dodici deliziose portate, nel nostro tipico stile italiano e con il nostro tocco di design. Ovviamente, è da consumarsi preferibilmente prima del 2016!”.

Nata nel 1980 come Studio Romano (dal nome del suo fondatore), Inarea Identity and Design Network è oggi una rete internazionale ed indipendente di designer, architetti, strategist e consultant, specializzata nella creazione e gestione di sistemi di identità. Il suo obiettivo è quello di dare valore aggiunto alla performance dei clienti, definendo la loro identità e cercando, nel contempo, di leggere i fenomeni nella loro complessità e rappresentarli con semplicità: • identità delle organizzazioni (imprese, gruppi e anche comunità e istituzioni); • identità dei luoghi (città, regioni o, in tutt’altra scala, luoghi di lavoro, per il tempo libero, spazi pubblici e commerciali); • identità delle cose, materiali e immateriali: prodotti, servizi e loro confezioni. Il network è coordinato da ventidue partner con uno staff di oltre cento persone, in otto paesi con dieci uffici. In Italia è presente con due società: Inarea Strategic Design Srl, a Roma, e Inarea Identity Architecture Srl, a Milano. Riportiamo dal sito ufficiale: “il senso del nostro lavoro è racchiuso nel dare rappresentazione, segno, alle aspirazioni e ai programmi di sviluppo dei nostri clienti. Il design è il mezzo per valorizzare l’insieme dei tratti caratteristici di una qualsiasi realtà, l’identità è il fine per determinarne l’unicità. (...) Qualunque sia l’ambito di intervento, l’approccio e il metodo rimangono inalterati: leggere la complessità dei fenomeni e rappresentarla con semplicità. È un punto di vista che nasce dalla capacità di integrare idee e esperienze diverse in un unico sistema. Il metodo di progetto — così come la stessa cifra stilistica — si basa sulla ricerca della sintesi, espressa attraverso rigore formale, immediatezza e riconoscibilità. Il nostro approccio combina tutti questi elementi, descrivendoli e raccontandoli. Costruiamo l’identità dalle aspirazioni, rendendole visibili e riconoscibili. Perseguiamo un’idea di unicità che, quando autentica, non è né globale né locale: è universale”.

Antonio Romano.

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la naturalezza e l’ingenuità di un bambino. È un uomo d’altri tempi, ma con il suo segno precorre i tempi. Nell’anno 2010 ha allestito una mostra all’Ara Pacis di Roma comprendente 30 anni di disegno creativo (“Trentannidisegno”), riscuotendo un notevole successo, sia di critica che di pubblico. Ha al suo attivo la creazione di oltre 400 marchi, tra cui quello della CGIL, CISL e CES (Confederazione Europea dei Sindacati), la famosa farfalla della RAI, oltre alla rivisitazione del cane a sei zampe dell’Agip ora Eni. Ho la fortuna di essergli amico e come tale vengo anche io omaggiato del famoso calendario che ogni anno stampa come cadeau per i suoi clienti,

frutto di un anno di lavoro creativo unico al mondo. Il 2015 ha visto la tiratura di ben 14.000 copie ed è dedicato al food. Le immagini sono suggestive, create con alimenti di uso quotidiano, che fanno parte della nostra spesa. Conservo gelosamente le copie degli anni passati, considerati a parer mio veri capolavori d’arte. L’importanza del marchio oggi è un valore aggiunto, tanto che nelle cronache dei giornali di settore spesso viene evidenziata la vendita di un brand anziché di uno stabilimento. Conoscendolo, sono sicuro che la sua matita e il suo estro ci riserveranno segni fantastici, proiettati in questo teatro globale del merchandising. Angelo Valentini

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Storia e cultura

Storia, preistoria e leggende della pizza Molte sono le leggende che si associano alle storie della cucina: quella della “Margherita” è tra le più tenaci e affascinanti di Giovanni Ballarini

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gni storia ha la sua protostoria, se non una preistoria, che risale a tempi antichi o remotissimi. Dato per scontato che la pizza è un disco di pasta di farina di frumento o altra graminacea con sopra ingredienti diversi, il tutto cotto al forno con preferibile presenza di brace, essa come si colloca nelle storie alimentari dell’uomo? Senza entrare in troppi dettagli, per questa preparazione bisogna risalire alle origini dell’agricoltura. Nonostante le diverse ipotesi,

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a tutt’oggi non conosciamo i motivi per i quali la nostra specie, dopo circa centosessantamila o centottantamila anni che si trovava sulla Terra, decise di “inventare” l’agricoltura. Quel che è certo è che dieci-quindicimila anni fa la cultura agricola si diffuse sul pianeta, assumendo aspetti diversi secondo le condizioni locali, ma con la costante presenza di un “pacchetto” di cereali e leguminose: miglio e fagiolo dell’occhio in Africa, riso e soia in Asia orientale, mais, fagiolo e arachide in America, frumento e

lenticchia, cece e fava in Europa e nel vicino Oriente. I cibi ottenuti con queste nuove coltivazioni necessitavano di conservazione e non erano sempre adatti alla nutrizione umana. La nostra specie non è granivora ma frugivora, e alcune granaglie si rivelarono, sia pur limitatamente, tossiche o con caratteristiche antinutrizionali; di conseguenza fu necessario trovare trattamenti di conservazione, modificazione e combinazione degli alimenti; in altri termini si dovette “inventare” la cucina.

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Oltre al fuoco, peraltro noto da almeno cinquecentomila anni, come trattamenti di base si scoprirono la macinatura, l’impastatura, la cottura a secco e umida, la fermentazione e via dicendo. Un alimento antico Nelle aree geografiche della Mesopotamia, Anatolia e del Mediterraneo il cereale dominante era il frumento con le sue diverse varietà, dal farro ai grani duri, senza dimenticare altri cereali minori (orzo, segale, spelta, panico) e farine non cereali di poligonacee. Tramite sistemi di macinatura, tostatura, fermentazione, impasto, cottura a secco o umida, si cominciò a trasformare i cereali in cibi, singoli ma più spesso combinati con altri alimenti o additivi. Fu così che con la fermentazione liquida nacque la birra; con la macinatura, la fermentazione solida e la cottura a secco il pane (senza fermentazione il pane azimo); con la cottura umida le pultes; con la macinatura, l’impasto e la cottura umida le paste; con la macinatura, l’impasto e la cottura a liquido secco (grasso) le fritture. In questo quadro si inserisce anche l’impasto solitamente non fermentato, cotto a secco per contatto (pietra rovente) o per calore radiante (presenza di brace), con aggiunta di altri alimenti d’origine vegetale o animale, che gustiamo ancora oggi e chiamiamo “pizza”. Nell’area americana, dove domina il mais, questo è trattato con calce e trasformato in tortillas. La pizza nasce insieme al pane, soprattutto come suo sostituto di qualità o come base per un pasto intero. Già nella Bibbia si parla di farina impastata e cotta come cibo di pregio in condizioni di rapido utilizzo. Nelle popolazioni nomadi la cottura poteva avvenire avvolgendo la pasta attorno a un sasso molto caldo o ponendola tra due pietre arroventate (dette anche tigelle, da teg = tegola). Nelle popolazioni stanziali, invece, la cottura si faceva di solito nel forno ed era doppia: per calore trasmesso alla pasta e per irradiazione degli altri alimenti che venivano messi sopra. Questo tipo di preparazione in una grande se non infinita varietà è presente in tutta l’area mediterranea.

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E ci si mangiava pure il piatto L’usanza di collocare gli alimenti sopra un disco di pasta da usare come fosse un piatto è antichissima, diffusa ovunque in tutte le epoche. Come descrive Virgilio nell’Eneide, quando non c’era abbastanza cibo, si mangiava pure il piatto: “Enea, i capi supremi e Iulo si distendono / sotto i rami d’un albero altissimo: preparano / i cibi, mettendo sull’erba larghe focacce di farro / come fossero tavole (consigliati da Giove), / e riempiono di frutta i deschi cereali. / Allora, consumati quei poveri cibi, / la fame li spinse a addentare le sottili focacce / spezzandone l’orlo. Ahimè — fece Iulo / scherzando — noi mangiamo anche le nostre mense”. Storia di una parola La prima volta che compare la parola “pizza” è nel 997, in un contratto di locazione di un mulino sul fiume Garigliano. Il documento, conservato nell’archivio del duomo di Gaeta, afferma che, oltre all’affitto, ogni anno erano dovute ai proprietari nel giorno di Natale duodecim pizze, assieme ad altri beni alimentari. E dodici pizze erano la regalia prevista pure per Pasqua. Non sappiamo cosa quelle pizze fossero, probabilmente erano focacce. Secoli dopo, nel 1570 è BARTOLOMEO SCAPPI, cuoco personale di papa Pio V, a usare, nella sua Opera, per la seconda volta la parola pizza, ma si tratta di un dolce, ottenuto pestando in un mortaio mandorle, pinoli, datteri, fichi freschi, uva passa, e unendo acqua di rose in modo da ottenere una pasta che potesse essere mescolata con rossi d’uovo, zucchero, cannella e mosto d’uva. Il tutto tirato in una sfoglia da infornare alta circa tre centimetri. Scappi è il primo a legare la pizza a Napoli e questa preparazione, per quanto complicata, è pur sempre una base su cui mettere sopra qualcos’altro. “In essa pizza si può mettere d’ogni sorte condite”, precisa il cuoco del Papa. La pizza ricorda un’altra preparazione simile, che sopravvive in Veneto e Friuli, la pinza; l’etimologia della parola è la stessa e deriva dal greco pita. Si tratta di un dolce di spessore sottile, fatto con farina e frutta secca, cotto in una teglia da forno.

A Napoli, con il passare dei secoli, la base si trasformerà in una focaccia impastata con farina, acqua e lievito, cosparsa di mozzarella e quel cibo esotico che è il pomodoro, eventualmente con l’aggiunta di acciughe e origano, cotta rapidamente in forno, divenendo una specialità nota in tutto il mondo. Ma questa è un’altra storia. Pizza napoletana con mozzarella e pomodoro, ma anche calzone Anticamente la pizza napoletana era un cibo gustoso ma povero, tanto povero da non meritare una storia. Bisogna però fare una premessa, anzi due. La prima riguarda le bufale dal cui latte si ottiene la mozzarella. Questi animali arrivarono in Italia — almeno così pare — con le invasioni barbariche, in particolare quelle collegate ai Longobardi che, intorno all’anno mille, raggiunsero i territori del napoletano. La seconda riguarda il pomodoro che fu portato in Europa dopo la scoperta delle Americhe, ma non fu subito ben accolto come alimento. Nel libro Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti del napoletano di origine svizzera FRANCESCO DE BOURCARD, pubblicato nel 1858, al termine del Regno delle Due Sicilie, è descritta una pizza con la mozzarella e il basilico: “Altre [pizze] sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e vi si pone disopra qualche foglia di basilico. Si aggiunge delle sottili fette di mozzarella”. Il pomodoro è un ingrediente opzionale: “talora si fa uso”. Dai ricettari di quell’epoca si apprendono altre cose interessanti. Il pomodoro è messo sopra gli ingredienti, a coprirli e avvolgerli, e non steso sulla pasta con il resto della guarnitura collocato successivamente, come avviene oggi. De Bourcard descrive anche la pizza piegata in due: “Talora ripiegando la pasta su se stessa se ne forma quel che chiamasi calzone”. Una preparazione, quindi, tradizionale almeno quanto quella della pizza aperta. La prima edizione della Guida gastronomica d’Italia, edita dal Touring Club Italiano nel 1931, riporta che “il calzone si serve cosparso di una abbondante salsa bollente, fatta di

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Pizze variamente e riccamente condite (photo © spaccanapolipizzeria.com). pomodoro fresco a pezzi, olio, aglio, sale, pepe e origano”. Questo per evitare che il raviolone di pasta si sgonfi miseramente non appena a contatto con la salsa di pomodoro fredda, come spesso accade purtroppo oggi… La Margherita Storia e leggende si mescolano e si sommano, soprattutto a Napoli, e non può avvenire diversamente per la pizza, in particolare per la Margherita. La regina delle pizze napoletane è la “pizza della regina”: la Margherita si chiama in questo modo, infatti, in onore di Margherita di Savoia. O almeno così narra una leggenda che per molti, ma soprattutto per i napoletani, è un’inoppugnabile e sacra verità. Anche se la storia dimostra che una pizza tricolore, bianca rossa e verde, con mozzarella, pomodoro e basilico, esisteva già prima e non è stata inventata per la delizia dell’augusto palato. Il colpo di genio di RAFFAELE ESPOSITO, il pizzaiolo che la leggenda incarica dell’invenzione, non sarebbe stato quello di aver creato una pizza

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nuova, ma di aver risposto “margherita” — ovvero lo stesso nome della regina — alla domanda su come si chiamasse quella i cui tre colori (verde del basilico, bianco della mozzarella, rosso del pomodoro) richiamavano la bandiera italiana. Pizza a corte La leggenda narra che Raffaele Esposito, che lavorava in una pizzeria fondata nel 1780, esistente poi con il nome di Pizzeria Brandi, nel giugno del 1889 venne chiamato da un funzionario della Real Casa nella reggia di Capodimonte, dove si trovavano in visita il re d’Italia Umberto I e sua moglie Margherita di Savoia. Esposito preparò per l’occasione tre pizze diverse e la regina dichiarò di apprezzarne in particolar modo una, cioè quella che sarebbe diventata la “Margherita”. Ad incoronare Raffaele Esposito re dei pizzaioli ci sarebbe stata poi una lettera, datata 11 giugno 1889, firmata da certo CAMILLO GALLI, capo dei servizi di tavola della Real Casa: “Le confermo che le tre qualità

di pizze da Lei confezionate per Sua Maestà la Regina furono trovate buonissime”. La lettera è esposta alle pareti della pizzeria Brandi, di Salita Sant’Anna di Palazzo. Da quel 1889 pare che la sovrana, quando tornava a Napoli, invitasse sempre a palazzo Esposito, che di buon grado pigliava gli attrezzi del mestiere e si avviava, assieme alla moglie, con un biroccino verso la reggia, dove preparava per lei la pizza tanto apprezzata. Probabilmente tutto questo è vero. Raffaele Esposito può certamente essere stato il miglior pizzaiolo di fine Ottocento e può senza dubbio aver cucinato una pizza talmente buona che la regina se ne innamorò. Ma è altrettanto certo che quel modo particolare di preparare la pizza non l’ha inventato lui. Il bravo Raffaele, quindi, si sarebbe limitato a proporre alla regina tre pizze già diffuse in città e il suo merito sarebbe quello di averne battezzata una con il nome dell’augusta sovrana. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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Libri

Ristoranti & Delicatessen Emilia Romagna, sempre più interattiva e social

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itorna in libreria “Ristoranti & Delicatessen” e con la sesta edizione della guida ci sono anche parecchie novità. Per la prima volta la creazione di Smarti Editrice unisce infatti l’Emilia alla Romagna, per un viaggio nel mondo della ristorazione di questa fantastica regione. Un viaggio dal mare alla montagna, passando per la dolce pianura e risalendo il Po, un viaggio che ha un filo conduttore: l’eccellenza. Quella eccellenza espressa da inimitabili materie prime, da produttori che sono veri artigiani del gusto e da appassionati ristoratori che sanno trasformare questi ingredienti in piatti d’autore. “Ristoranti & Delicatessen” è una bussola che aiuta ad orientarsi nel mondo della ristorazione, ma dà anche preziosi consigli per gli acquisti con un’apposita sezione dedicata ai fornitori. «I ristoratori sono i veri depositari della qualità, coloro che conoscono la materia prima meglio di ogni altro — spiega CHIARA RUSSOTTO, direttore

editoriale di Smarti Editrice — per questo abbiamo chiesto loro un consiglio qualificato su dove trovare ingredienti eccellenti. È un giusto tributo ai produttori artigianali che lavorano per la qualità. Qualità che va conosciuta e capita». Selezione, conoscenza e approfondimento sono le linee guida seguite nella redazione della guida, un valido strumento dall’impostazione intuitiva, chiara e ricca di informazioni. Come sempre c’è una ricca sezione dedicata alle ricette e poi i locali sono suddivisi per province e per categorie. Con l’utilizzo dei “tag” si colgono a colpo d’occhio le peculiarità di ogni ristorante. Dalla carta al web il passo è breve, con il QRcode che porta alla pagina dei ristoranti in cui, tra le altre cose, ci sarà la mappa per arrivare a destinazione. «Ristoranti & Delicatessen è sempre più interattiva e social» aggiunge la Russotto. «Oltre al portale ristorantiedelicatessen.it e al blog inaugurato a gennaio 2015, è possibile seguirci su Facebook, dove

Il “Capriolo nel bosco” della chef Aurora Mazzucchelli, Ristorante Marconi a Sasso Marconi (BO). La ricetta è riportata nella guida 2015-2016.

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Ristoranti & Delicatessen Emilia Romagna Smarti Editrice, 2015 322 pp. – € 16,00 di giorno in giorno verranno postate le ricette di tutti i ristoratori R&D, e poi ancora su Instagram, Twitter, Pinterest, Foodspotting e Foursquare. Tanti canali a disposizione per restare sempre in contatto con la redazione di Ristoranti & Delicatessen e compiere insieme questo viaggio in EmiliaRomagna. Sui social da gennaio cambiamo volto e qui incontreremo produttori e ristoratori con l’obiettivo di trasmettere la passione per il loro lavoro e l’instancabile ricerca della qualità e dell’eccellenza». La guida diventa così un punto di riferimento per personalizzare i propri itinerari ed avere precisi riferimenti per gli acquisti. La guida si può trovare nelle edicole e nelle librerie dell’EmiliaRomagna, nelle più importanti librerie d’Italia ed è anche distribuita nei ristoranti recensiti. >>Link: ristorantiedelicatessen.it

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Il racconto dei locali di gusto dell’Emilia e della Romagna, appetitoso anche nell’impaginato grafico dall’essenziale eleganza, si snoda per brevi ed esaustive tappe anagrafiche: storia e descrizione del ristorante, Cosa si Beve, Cosa si mangia, qual è il Fiore all’Occhiello. Indirizzo, Tag e produttori e luogo segnalati completano il tour cartaceo.

Amerigo 1934, ottant’anni straordinari

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Savigno, quando si parla di Amerigo Vespucci raramente ci si riferisce all’esploratore e cartografo del XV secolo. Di solito ci si riferisce a mio nonno”. Inizia così il suo libro Alberto Bettini, patron di Amerigo 1934, storica trattoria (fa parte dell’associazione “Premiate Trattorie Italiane”), dispensa e locanda, con tanto di stella Michelin, che quest’anno festeggia gli ottant’anni di vita. Un libro di memorie, racconti,, incontri, storie, concetti, pensieri e passioni “espressi a ruota libera”, come sottolinea Marina Malavasi nell’Introduzione. “80 anni sono un periodo lungo per una trattoria” scrive Alberto nella Prefazione al volume, “racchiudono fatti e sentimenti, entusiasmi e sco-

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ramenti di più generazioni. 80 anni di vita sono stati il tempo necessario per passare dalla stufa a legna alla piastra a induzione, e per comprendere che si può usare l’una o l’altra in funzione del risultato che si vuole ottenere. (…) Questo libro ha un po’ del selvatico carattere che hanno i tartufi dei nostri boschi. Alimenti che sprigionano aromi straordinari, ma che non si lasciano controllare e addomesticare. Ho lasciato che i ricordi di fatti e persone venissero alla luce per occupare uno spazio nelle pagine. Sono loro i protagonisti che hanno guidato la mia mano nella stesura di questo libro. Io ho solo raspato e raccolto, come un tartufaio. Più che togliere la terra non ho fatto. (…) Con l’orgoglio di chi ha radici robuste nella terra, e nel territorio, andiamo incontro al futuro”.

ALBERTO BETTINI Amerigo 1934 – Ottant’anni straordinariamente normali Odoya (BO), 2014, 160 pp. – € 15,00

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In Italia con Massimo Bottura di Clara Scaglioni

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BOTTURA, patron dell’Osteria Francescana di Modena, considerato coram populi uno dei migliori cuochi del mondo, è apprezzato per le sue doti in cucina e per le sue qualità intellettuali. Vieni in Italia con me, dato alle stampe da pochi mesi, è il libro che lo chef sta presentando con grande successo di pubblico in ogni parte del mondo. È lo stesso autore a farci sapere che tale titolo, in italiano, prende lo spunto da un volume del 1937 di UMBERTO NOTARI, scrittore futurista ed editore, fondatore tra le altre cose della rivista La cucina italiana. Un libro trovato per puro caso su di una bancarella durante una fiera dell’antiquariato in città. Nella versione in lingua inglese (pubblicata da Phaidon), il libro di Bottura porta invece la scherzosa intitolazione Never trust a skinny Italian chef (“Mai fidarsi di un cuoco italiano magro”), a voler sottolineare con ironia che si deve avere fiducia in un cuoco italiano anche se le sue fattezze sono molto distanti dallo stereotipo grassottello e paffuto. In questo libro Bottura racchiude, con grande umiltà, chiarezza e leggerezza, la filosofia insita nella sua cucina, certamente non facile da capire, perché a volte, a chi non ne conosce lo studio e la ricerca fatti a monte e durati anni, dà la stessa sensazione che si prova davanti a un quadro di arte moderna, quando non se ne comprende a pieno il valore e il significato. Le pagine scritte insieme alla moglie Lara sono in grado di chiarire, a chi ancora non conosce Massimo, il pensiero insito nei suoi piatti e l’evoluzione interiore che lo ha spinto a sviluppare il suo personalissimo percorso tra i fornelli. Vieni in Italia con me si legge con vero piacere in quanto è la storia — forse è meglio dire una lunga confessione raccontata in prima persona — del grande amore che Bottura ha sempre avuto per la cucina. Una passione che ha iniziato a manifestarsi quando da bambino vedeva la nonna Ancella compiere, con la gestualità tipica della rezdora (in dialetto modenese è la donna che guida e regge la casa), il sacro rito della preparazione dei tortellini che lui, nascosto sotto il ASSIMO

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tavolo, rubava ancora crudi. Per realizzare il suo sogno di cuoco, a volte visionario, racconta di come abbia percorso strade impervie, in modo da riuscire a contattare i cuochi più famosi e bravi del momento, sapendo che, avvicinandoli, ne avrebbe potuto comprendere la cucina e carpirne i segreti. Il racconto della sua vita e della sua professione si sviluppa pagina dopo pagina con l’ausilio, o è meglio dire il supporto, di immagini stupende. Due grandi maestri della fotografia del calibro di CARLO BENVENUTO e STEFANO GRAZIANI accompagnano e completano le parole di Massimo quando spiega come si svolge e si concretizza il lavoro con i fidati collaboratori dello staff di cucina. Sono immagini capaci di immortalare l’attimo in cui tutti sono alle prese con un ingrediente particolare, o stanno studiando il piatto da realizzare, lo stesso che, a lavoro compiuto, fa bella mostra di sé ed è pronto per essere portato al tavolo. Guardando le fotografie, si ha quasi l’impressione di percepire il brusio dei ragazzi, di coglierne le emozioni, sentire il profumo di quanto verrà servito… Ho conosciuto Massimo in una sera di ottobre del 1991, di quelle con una nebbia fittissima come spesso capita di trovare nella campagna della bassa modenese, quando con ANNA TOFFOLETTO — in quel periodo affermata giornalista della rivista A tavola — avevo deciso di andare a cena alla trattoria del Campazzo, località non lontana da Modena, dove lui, giovane cuoco, si stava facendo conoscere e apprezzare. Ricordo un Massimo emozionato e onorato di avere ospite me, delegata del Fornello di Modena, ed Anna, che conosceva per gli articoli letti. Propose di farci gustare una delle sue specialità: il cappuccino in tazza. Era un piatto nuovo e originale, nato mettendo insieme ingredienti semplici e di uso comune nella cucina di ogni giorno. Cuoceva patata e cipolla in un buon brodo di cappone, le frullava per presentarle sotto forma di crema densa e le serviva in una tazza da caffellatte. L’illusione continuava quando, al posto dell’usuale spolverata di cacao in polvere che completa il cappuccino, veniva

MASSIMO BOTTURA Vieni in Italia con me 2014, L’Ippocampo Edizioni 296 pp. – € 39,90 invece aggiunto uno spruzzo di aceto balsamico tradizionale di Modena. Il tutto era servito accompagnato da una brioche salata con all’interno i ciccioli frolli di maiale. Questa maniera di inserire e proporre nella cucina stimoli ed interpretazioni originali era sembrata interessante sia ad Anna che a me. Era evidentemente in nuce il manifesto di quella che sarebbe stata la concezione di cucina sulla quale Bottura, nel prosieguo del suo percorso professionale, avrebbe costruito la sua personale filosofia. Voleva infatti dimostrare come davanti ad un cuoco si potessero aprire strade mai percorse fino a quel momento e come una costante e continua ricerca potesse portare a sdrammatizzare il cibo, reinterpretandolo con occhio nuovo. Come lui stesso dice, «con la visione che si ha della realtà quando la si osserva da sotto il tavolo». Spinto dal desiderio di migliorare e di affermare le proprie capacità, Bottura trascorreva le ore libere accanto a GEORGES COGNY, il grande cuoco francese de L’Antica Osteria del Teatro di Piacenza e della Locanda Cantoniera, in Val Nure. Prendendolo per mano, Cogny lo introdusse nel mondo delle raffinatezze e della tecnica della cucina francese fino a quel momento sconosciuta a Massimo. Standogli accanto, Cogny riuscì a captare le grandi potenzialità

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Massimo Bottura e Clara Scaglioni. dell’allievo, tanto che quando le sue lezioni terminarono lo salutò dicendogli con affetto e lungimiranza: «Massimo, ascolta il tuo palato, ti porterà lontano». Parole che sono state per questo giovane cuoco la molla per continuare a migliorare, a studiare le basi di nuove tecniche e a trovare nella continua ricerca il suo personale modo di intendere la cucina. A fine 1992 Massimo si recò a New York per perfezionarsi e qui incontrò LARA GILMORE, appassionata ed esperta conoscitrice di arte moderna che, diventata sua moglie, lo portò passo passo a comprendere, apprezzare e amare sempre più la pittura. Bottura approfondì talmente la materia da farne anche la musa ispiratrice di alcuni suoi piatti e quando, nel 1995, dopo aver frequentato la cucina di maestri del calibro di ALAIN DUCASSE e FERRAN ADRIÀ, aprì nel centro storico di Modena l’Osteria Francescana, decise di mettere alle pareti solo quadri di autori moderni, «scelti — come lui dice — non come riempimento di spazio, ma per il messaggio e le metafore che si portano dentro», aggiungendo però «che per captarle occorre avere un’anima». Gli inizi della sua carriera non furono facili: i suoi piatti erano di difficile comprensione da parte di un pubblico, specie quello modenese, radicalmente attaccato alla

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cucina della tradizione. Riusciva ad esempio difficile a molti accettare di vedersi servita una compressione di pasta e fagioli: un bicchierino il cui contenuto è un capolavoro di sapori portati all’ennesima potenza, dove il profumo e il gusto classico della pasta e fagioli sono concentrati e sublimati in un piccolo contenitore… Oppure vedere l’amatissima zuppa inglese servita in maniera destrutturata. Quando finalmente alcuni critici capirono il valore dei suoi piatti, nel 2001, Massimo ottenne la prima stella Michelin. Nel 2006, chiamato a parlare ad Identità Golose a Milano, presentò con enorme successo di pubblico una delle sue preparazioni più innovative, le Cinque stagionature del Parmigiano Reggiano in diverse consistenze e temperature. A quel punto arrivò anche la seconda stella. Da allora la carriera di Bottura non si è più fermata e l’accoglienza del pubblico e della critica è sempre stata favorevole. Un successo che lo porta ad essere protagonista anche delle tante manifestazioni organizzate a Modena, la sua città, e alle quali aderisce sempre con entusiasmo. Eventi durante i quali può illustrare e parlare dei suoi piatti a quel pubblico desideroso di vederlo al lavoro mentre realizza qualche sua specialità e ne spiega i passaggi. Tutto questo per fare comprendere la sua cucina: più corretto si dovrebbe dire la sua “arte”, perché tale è. I piatti di Massimo sono una reinterpretazione personalissima di quelli legati intimamente ai prodotti del nostro territorio: vi trovano posto il cotechino, il lambrusco, il parmigiano, l’aceto balsamico. Anche il geniale croccantino di foie gras, realizzato con fegato d’oca e un cuore di aceto balsamico tradizionale avvolto nella granella di nocciola, di francese ha solo il nome perché è confezionato con prodotti italianissimi. Massimo utilizza infatti le lenticchie di Colfiorito o quelle di Castelluccio, i pomodori del Piennolo del Vesuvio, le nocciole del Piemonte, i pistacchi di Bronte e tanto buon olio d’oliva. L’Osteria in via Stella La Francescana rappresenta il porto sicuro dove, dopo i lunghi e

ininterrotti viaggi di lavoro sulle strade del mondo, Massimo arriva per sperimentare le proprie idee, le sensazioni. Va ricordato l’anno 2011, luminoso e pieno di momenti magici che premiano il suo impegno: in gennaio l’Accademia Internazionale della Cucina lo elegge vincitore del Grand Prix de L’Art de la Cuisine; in aprile il sindaco di Modena, con una cerimonia ufficiale, «consegna all’Osteria Francescana una medaglia d’oro per l’operato nel preservare e promuovere la cultura italiana attraverso la gastronomia»; in novembre arriva la terza stella Michelin (io ero presente ai festeggiamenti di questi due momenti e non ho mai ho visto Massimo così felice). Quanto ho raccontato, evidenzia come questo libro mi sia piaciuto e come ne abbia tratto dalla lettura un vero piacere. Ne ho ammirato le foto e ho guardato le ricette raggruppate nelle ultime pagine (sottolineo solo guardato, perché sono difficilissime da realizzare anche per una persona come me che ha frequentato per tanti anni le più prestigiose scuole di cucina).Va però precisato che le ricette sono quasi un corollario al racconto fatto da Massimo, che non voleva dare alle stampe un libro di cucina, anche se le ricette sono, in senso lato, gli attori principali del racconto e di ognuna fa sapere come è nata e quale emozione lo ha ispirato. Quella che, pagina dopo pagina, si sviluppa nel libro, è la storia, raccontata in prima persona, di un grande cuoco capace di dare lustro ad alimenti semplici, che si possono tranquillamente mangiare ogni giorno dell’anno. Mi auguro che Vieni In Italia con me sia il volano capace di incuriosire i tanti stranieri attesi per l’Expo 2015, portandoli anche nei luoghi più sperduti della nostra penisola, alla ricerca di quei meravigliosi prodotti tipici che Massimo ha nobilitato con la sua cucina, ma che sono comunque eccezionali anche se cucinati, in modo semplice, nel nostro quotidiano. Clara Scaglioni Nota A pagina 118, lo staff dell’Osteria Francescana, www.osteriafrancescana.it (photo © Paolo Terzi).

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Il profumo della tradizione, il gusto della qualitĂ .

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