Premiata Salumeria Italiana 1-2017

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Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXIX N. 1 Gennaio-Febbraio 2017

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PECORINO PASCOLI DI MAREMMA Il Pecorino Pascoli di Maremma è un formaggio a media stagionatura. La pasta si presenta bianca e gessata, mentre la crosta è trattata con olio extravergine di oliva, concentrato di pomodoro e pepe nero macinato, che gli conferiscono il caratteristico colore rosso scuro. Viene prodotto esclusivamente con latte ovino selezionato da Aziende Agricole ubicate all’interno del territorio della Maremma Toscana. CASEIFICIO BUSTI Via Marconi 13 A/B - Loc. Acciaiolo - Fauglia (Pisa) - Tel. 050.650565

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N. 1 Anno XXIX Gennaio-Febbraio 2017

€ 6,70 Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia Stampa

Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Renato Bergonzini – Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni 1732 1st Ave #27220 – New York, NY 10128 Tel. 001 212 956-8566 E-mail: Stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Carlo Cantoni (Milano) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia) Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CS5.5. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CS5.1.

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N. 1

In questo numero: Immagini

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Tendenze

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Legislazione

Nutrizionali: chi è dentro, chi è fuori

Sebastiano Corona

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Il food in rete

Social food

Elena Benedetti

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Aziende

Il Salumificio Scarlino avvia la produzione di cotti nello stabilimento di Taurisano

Mercati

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Soave come il prosciutto

Massimiliano Rella

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Salumificio Molinari, custodi di cultura locale e artigiani di bontà

Riccardo Lagorio

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Associazione Agraria Aziende Cafra, l’avanguardia della salumeria senza conservanti

Riccardo Lagorio

34

Stati Generali della Piadina romagnola: buona la prima

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Marcundela, alla riscoperta delle radici friulane

Giorgio Montanari

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Luca, Davide e Andrea Morandi: pastori 2.0

Gian Omar Bison

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Street food

Carni di strada

Giovanni Ballarini

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Turismo enogastronomico

Tartufi d’Abruzzo

Massimiliano Rella

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Prodotti tipici

Sapori dal mondo

Locali di gusto

Il “miracoloso” tè verde

Giorgia Fieni

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Le uova dei cent’anni

Nunzia Manicardi

64

Gaia Borghi

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Albufera, storia d’amore e di tapas a Milano L’allegra brigata del Tabarro e la bellezza delle osterie

Assemblee

Comunicare, la strategia di Nicola Levoni e di ASS.I.CA.

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Rassegne

840 chili di Superzampone

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Fiere

MARCA 2017: private label in crescita

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A Tuttofood il business si fa internazionale

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Formaggio

Il segreto del sorriso di Monna Lisa è racchiuso in un formaggio

Olio

Olio d’oliva, questo sconosciuto: i miti da sfatare

Gaia Borghi

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Olio di lentisco, i segreti di un prodotto millenario

Sebastiano Corona

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Dolci

Cioccolato. Basta la parola?

Riccardo Lagorio

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I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione: vino e cassoeula

Laura Franchini

110

Bevande

Professione distillatore

Riccardo Lagorio

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Seychelles, rum in paradiso

Massimiliano Rella

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Storia e cultura

Il norcino

Andrea Laganga

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Libri

Vinibuoni d’Italia 2017

Nunzia Manicardi

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La qualità si fa strada

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Il crepuscolo degli chef

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Carne e foie gras

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In copertina: toast destrutturato con prosciutto cotto (photo © Massimiliano Rella).

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BEVI RESPONSABILMENTE

www.lambrusco.net

www.enzopancaldi.it - ph: Carlo Guttadauro, Archivio www.lambrusco.net


IMMAGINI

All’ombra delle antiche e possenti mura del castello di Soave, in provincia di Verona, non ci sono soltanto i grandi vini bianchi dell’omonima denominazione a deliziarci con i loro profumi e sapori. Il borgo veronese ci riserva infatti anche un’altra produzione locale, altrettanto interessante: il prosciutto. Massimiliano Rella ha visitato il Prosciuttificio di Soave di Marco Masconale, che continua una produzione familiare nata un secolo fa. Il servizio è a pagina 28 (photo © Massimiliano Rella).

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E

V SA

H T E

TE A D


Il tè verde viene usato nei paesi asiatici anche per cucinare. I benefici del suo uso sono così raddoppiati. Ci dà qualche spunto in proposito Giorgia Fieni nel bell’articolo a pagina 62 (madeleine al tè matcha; photo © panelibrienuvole.com).

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Tradizione e genuinità dal 1910

Prosciutto di Modena Dop un capolavoro del gusto italiano

Prosciuttificio Nini Gianfranco Srl Via Sicilia, 61 - 41056 Savignano sul Panaro (MO), Italy - Tel.: 059 730103 - Fax: 059 731599 E-mail: info@prosciuttificionini.it - Web: www.prosciuttificionini.it


TENDENZE Piadina Romagnola Igp: lo street food che piace di più

Da cibo povero a star del web: con più di un milione di visualizzazioni su Facebook la Piadina romagnola si conferma il cibo di strada più amato dal “pubblico”. Farina di grano tenero, acqua, sale, strutto o olio di oliva, senza aggiunta di conservanti o aromi additivi: ingredienti semplici per un prodotto conosciuto e celebrato in tutto il mondo. La prima testimonianza scritta su questa preparazione si trova in un trattato di Costanzo Felici del 1572, ma tra i primi a citarla c’è anche Virgilio nel VII libro dell’Eneide, quando scrive di una exiguam orbem (un disco sottile) che, una volta abbrustolito, veniva diviso in larghi quadretti. Oggi il “pane della Romagna” è uno dei capisaldi dell’economia regionale, tanto da fatturare 30 milioni di euro con un valore dell’indotto di circa 100 milioni. A pagina 38 un approfondimento.

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LEGISLAZIONE

Nutrizionali: chi è dentro, chi è fuori È entrato da poco in vigore l’obbligo della tabella nutrizionale nei prodotti alimentari confezionati. Ma le deroghe sono diverse e relative soprattutto alle piccole imprese. Una circolare interministeriale chiarisce chi è soggetto e chi no di Sebastiano Corona

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a diversi anni eravamo a conoscenza del fatto che il 13 dicembre 2016 sarebbe entrato in vigore l’obbligo della tabella nutrizionale nell’etichetta dei prodotti alimentari. Con quest’ultima disposizione il Regolamento UE 1169/2011 si può considerare ope-

rativo per la stragrande maggioranza dei suoi contenuti. Tuttavia, ad un primo sguardo, girando tra gli scaffali dei supermercati e i tavoli dei ristoranti, si nota come in realtà ci sia ancora molto da fare. Non è infatti difficile imbattersi in etichette con informazioni parziali o fuorvianti. Indicazioni spesso riportate

in maniera errata, pur senza intento fraudolento alcuno, ma che potrebbero comunque essere oggetto di pesanti sanzioni o di contestazioni da parte dei consumatori. La sensazione è che vi sia ancora una scarsa conoscenza delle ultime disposizioni, sebbene non si possano più considerare una novità.

Dal 13 dicembre 2016 è entrato definitivamente in vigore il Reg. CE 1169/2011, che rende obbligatorio l’inserimento delle informazioni nutrizionali nelle etichette dei prodotti alimentari. Con le dovute distinzioni (photo © Iakov Filimonov).

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L’indicazione in etichetta della dichiarazione nutrizionale non è obbligatoria, ad esempio, per gli alimenti, anche confezionati in maniera artigianale, forniti direttamente dal fabbricante di piccole quantità di prodotti al consumatore finale o a strutture locali di vendita al dettaglio che forniscono direttamente al consumatore finale. La normativa nazionale in effetti non aiuta poiché è tuttora in fase di evoluzione, contribuendo a rallentare l’adeguamento alle nuove regole. L’ultimo esempio è quello dei chiarimenti sulle imprese esonerate dall’obbligo della tabella nutrizionale. Chiarimenti che sono giunti solo a qualche giorno dall’entrata in vigore della norma e che tuttora non si possono considerare esaustivi, pur essendo fondamentali per comprendere quando l’obbligo vige e quando no. L’articolo 30 del Regolamento stabilisce che la dichiarazione nutrizionale obbligatoria debba riportare le indicazioni relative al valore energetico e alla quantità di grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale. La dicitura che indica che il sale è dovuto esclusivamente al sodio naturalmente presente nell’alimento, può essere posizionata, immediatamente accanto alla dichiarazione nutrizionale. Ulteriori indicazioni ancorché non obbligatorie possono essere fornite in merito ai seguenti elementi: acidi grassi monoinsaturi, acidi grassi polinsaturi,

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polioli, amido, fibre, sali minerali e vitamine elencati nell’allegato XIII, presenti in quantità significativa. I valori sono espressi per 100 g o 100 ml. Nel caso in cui vengano indicate anche le sostanze non obbligatorie, queste devono essere espresse per 100 g o 100 ml e in prossimità deve figurare la dicitura supplementare: “assunzioni di riferimento di un adulto medio (8400 Kj/2000 Kcal)”. In determinati casi, i valori nutrizionali possono essere riferiti per porzione o unità di consumo, quando però siano quantificate in maniera chiara sull’etichetta le porzioni contenute nell’imballaggio. Tutti i valori si riferiscono all’alimento così come è venduto. Se del caso, le informazioni suddette possono riguardare il prodotto dopo la sua preparazione, ma solo a condizione che le modalità di consumo o cottura siano descritte in modo sufficientemente particolareggiato e le informazioni riguardino l’alimento pronto per il consumo. Chi invece volesse comunicare i valori nutrizionali anche per un prodotto

sfuso o preincartato —che quindi per sua natura sarebbe esonerato dall’obbligo — lo può fare semplicemente riportando una dichiarazione nutrizionale limitata al valore energetico, la quantità di grassi, grassi saturi, zuccheri e sale, in quest’ordine. Quando invece l’etichettatura dovesse riguardare una bevanda con tasso alcolico in volume superiore a 1,2%, l’eventuale dichiarazione nutrizionale — anche in questo caso non obbligatoria per la categoria di prodotto — deve limitarsi al valore energetico. L’indicazione in etichetta della dichiarazione nutrizionale non è obbligatoria, ai sensi dell’articolo 16 del Regolamento, per gli alimenti elencati all’allegato V e quindi per: • i prodotti non trasformati che comprendono un solo ingrediente o una sola categoria di ingredienti; • i prodotti trasformati che sono stati sottoposti unicamente a maturazione e che comprendono un solo ingrediente o una sola categoria di ingredienti; • le acque destinate al consumo uma-

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no, comprese quelle che contengono come soli ingredienti aggiunti anidride carbonica e/o aromi; • le piante aromatiche, le spezie o le loro miscele; • il sale e i succedanei del sale; • gli edulcoranti da tavola; • i prodotti quali: estratti di caffè ed estratti di cicoria (…); • le infusioni a base di erbe e di frutta, i tè, o estratti senza altri ingredienti; • gli aceti di fermentazione e i loro succedanei; • gli aromi; • gli additivi alimentari; • i coadiuvanti tecnologici; • gli enzimi alimentari; • la gelatina; • i composti di gelificazione per marmellate; • i lieviti; • le gomme da masticare; • gli alimenti confezionati in imballaggi o contenitori la cui superficie maggiore misura meno di 25 cm2. Ma soprattutto sono esenti dall’obbligo gli alimenti, anche confezionati in maniera artigianale, forniti direttamente dal fabbricante di piccole quantità di prodotti al consumatore finale o a strutture locali di vendita al dettaglio che forniscono direttamente al consumatore finale. Questo passaggio è dirimente per comprendere quali attività si possono considerare dentro o fuori dalla regola ed è tanto più importante se si considera il numero ingente di microimprese, nel nostro Paese. Tutte piccole e piccolissime aziende che di fatto si potrebbero considerare esenti dall’obbligo, salvo non sussistano altri elementi di valutazione. La norma ripercorre la linea già indicata dai Regolamenti UE 852 e 853/2004 che avevano introdotto

una analoga deroga alla propria applicazione. Deroga che sancisce la non applicabilità “alla fornitura diretta di piccoli quantitativi di prodotti primari dal produttore al consumatore finale o a dettaglianti locali (o ai laboratori annessi agli esercizi di commercio al dettaglio o di somministrazione a livello locale) che forniscono direttamente il consumatore finale”. Quest’ultima indicazione esclude pertanto quelle aziende che, essendo poco strutturate, hanno difficoltà ad adeguarsi ad un precetto come quello descritto. Tuttavia, poiché questo passaggio del Regolamento non si poteva considerare esaustivo, è stata necessaria una circolare interministeriale (Mistero dello Sviluppo economico e Ministero della Salute del 16 novembre 2016) che chiarisse quali soggetti si possono considerare a tutti gli effetti esenti e quali no. Il primo elemento da prendere in considerazione è la deroga dei prodotti artigianali, intesi come confezionati artigianalmente e prodotti da piccole imprese e — aggiungiamo noi — quand’anche non fossero iscritte all’albo delle imprese artigiane. Il secondo è l’esenzione per i fabbricanti di piccole quantità di prodotti, tra i quali rientrano produttori e fornitori, comprese le imprese artigiane ed agricole, con i requisiti di “microimpresa” e cioè di aziende con un fatturato sino a 2 ml di euro e con massimo 10 dipendenti. Oltre ai soggetti appena citati, la Circolare stabilisce che la deroga all’obbligo si applica anche agli alimenti venduti direttamente ai consumatori, negli spacci aziendali. È quindi evidente che per le piccole imprese, gran parte delle aziende artigiane ed agricole, l’obbligo non sussista. A maggior conforto specifichiamo che per fornitura diretta — un altro elemento che permette l’esenzione, appunto — si

I regimi dietetici sono oggi tra i più disparati e avere informazioni sulle caratteristiche di un cibo è certamente un elemento in più in fase di vendita. La tabella nutrizionale diventa pertanto una carta da giocare sul piano commerciale e può fare la differenza in sede di acquisto

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intende la cessione di alimenti, senza intermediari, “per piccole quantità di prodotti”, direttamente al consumatore o “strutture locali di vendita al dettaglio”. Con questo termine ci si riferisce ad un legame diretto tra l’azienda di origine e il consumatore. Può essere identificato dunque, “nel territorio della provincia in cui opera l’azienda e/o nel territorio delle province confinanti”. È escluso che la deroga si possa estendere alle forniture che implicano il trasporto sulle lunghe distanze, come l’ambito nazionale, i prodotti preimballati venduti all’ingrosso, alla Grande Distribuzione Organizzata o a intermediari, come le centrali d’acquisto. Salvo questi ultimi casi, quindi, gli alimenti artigianali sono esclusi, ancorché si presentino preimballati (cioè confezionati con un involucro non predisposto al momento della vendita e che non può essere aperto senza danneggiare la confezione). È da qui infatti che nasce la distinzione tra prodotto sfuso, che viene proposto preincartato e prodotto confezionato, che si presenta preimballato. Cosa si intenda invece per “vendita al dettaglio”, è scritto in maniera chiara nell’art. 4 del Decreto Legislativo n. 114/1998: “attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, al consumatore finale”. Le imprese che sono soggette all’obbligo e che sino a questo momento non si sono premunite, dovranno invece fare un importante lavoro per adeguarsi alla norma, tanto più che l’etichetta nutrizionale va prodotta per ciascuna referenza commercializzata e diretta al consumatore finale. Laddove ci fosse una produzione vasta, con un numero importante di ingredienti, la faccenda, quindi, si complica. Il regolamento corre però fortunatamente in aiuto di quelle aziende che, per motivi economici e magari per il numero ampio di referenze, non sarebbero in grado di sostenere i costi delle analisi di laboratorio. È stabilito infatti che i valori dichiarati devono essere valori medi stabiliti sulla base dell’analisi dell’alimento da parte del fabbricante, ma che possono altresì provenire dal calcolo effettuato a partire dai valori medi noti o effettivi relativi agli ingredienti utilizzati, oppure del calcolo

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Produzione di salumi artigianali (photo © Lidia Pachetti, Fotolia). effettuato a partire da dati generalmente stabiliti ed accettati. Le possibilità sono pertanto tre ed è il produttore a scegliere quella a lui più confacente. Il suggerimento — per maggior tutela dell’impresa — è sempre quello di effettuare le analisi chimiche del prodotto, per ogni referenza in vendita. Tuttavia, è possibile utilizzare le informazioni delle numerose banche dati a disposizione, molte delle quali autorevoli e completamente gratuite, accessibili anche via web. Queste informazioni, debitamente elaborate con l’ausilio di un foglio di calcolo o con uno dei numerosi software presenti oggi sul mercato, rappresentano una soluzione valida anche per il loro costo. In questo caso, per i prodotti compositi — e in particolare per quelli di seconda trasformazione, per loro natura più complessi — occorre conoscere la percentuale dei singoli ingredienti che compongono la miscela e calcolare il dato nutrizionale per ciascuno di essi, per giungere poi al valore complessivo, sommando i singoli elementi. Per i prodotti alimentari artigianali, spesso realizzati senza una ricetta precisa o modificando la lista degli

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ingredienti, a seconda delle stagioni o delle disponibilità del momento, il calcolo potrebbe diventare problematico. Non bastasse, possono registrarsi, nel tempo, differenze rilevanti anche sullo stesso prodotto, così come la stessa tipologia di materia prima, può differire notevolmente a seconda della stagione o della provenienza. Per sopperire a tutti questi casi, sono ammessi degli scostamenti. Il Regolamento fa infatti riferimento a valori medi e non al prodotto specifico in termini assoluti. Rimane però il fatto che anche le variazioni dal dato dichiarato, non possono superare determinate soglie percentuali. Soglie opportunamente specificate in un documento sempre di matrice europea, risalente al dicembre 2012 (Guidance document for competent authorities for the control of compliance with EU Legislation on Reg. EU 1169/2011 […]) emanato a favore di chi ha la competenza relativa ai controlli. Questo ed altri fattori dovrebbero far propendere ulteriormente per le analisi di ogni singolo prodotto, ma per le imprese più piccole, che hanno comunque l’obbligo e che magari van-

tano decine di referenze, potrebbero non esserci soluzioni economicamente sostenibili, diverse da quelle dell’utilizzo delle banche dati. L’imposizione della tabella nutrizionale è di fatto un onere gravoso, sia in termini economici, sia per le risorse che vi vengono di volta in volta dedicate. Devono inoltre essere riviste e ristampate le etichette da parte di chi, in questi ultimi due anni, non si è portato avanti con il lavoro. È però un dato oggettivo la recente attenzione del consumatore verso i valori nutritivi del prodotto alimentare. I regimi dietetici sono oggi tra i più disparati e avere informazioni sulle caratteristiche di un cibo è certamente un elemento in più in fase di vendita. La tabella nutrizionale diventa pertanto una carta da giocare sul piano commerciale e può fare la differenza in sede di acquisto. Chi non è tenuto al rispetto della norma dovrebbe quindi riflettere sulle prospettive che questa strada offre. In questo caso anche le risorse dedicate alla causa non sarebbero un mero costo, ma un investimento di medio e lungo termine. Sebastiano Corona

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Apertura del mercato filippino alle carni suine, ai prodotti a base di carne suina e agli involucri naturali dall Italia

ADV GONNELLI&ASSOCIATI

Dopo una lunga e complessa negoziazione iniziata nel 2015 e condotta dal nostro Ministero della Salute, è stata finalmente ufficializzata l apertura del mercato filippino alle carni suine, ai prodotti a base di carne suina (stagionati e cotti) e agli involucri naturali esportati dall Italia. L iter che ha portato al raggiungimento di questo obiettivo, che ha coinvolto da vicino anche ASS.I.CA. ‒ Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi, ha incluso anche una missione delle autorità sanitarie delle Filippine nel nostro Paese, che hanno così potuto verificare direttamente i sistemi produttivi e gli standard qualitativi assicurati dal comparto italiano, prima di ufficializzare formalmente la possibilità di esportare salumi e carni suine verso il Paese asiatico. Il Ministero della Salute ha ufficializzato l apertura del mercato filippino inoltrando una nota alle associazioni di produttori interessate, nella quale illustra le condizioni per l avvio in concreto dei prodotti. La comunicazione contiene infatti gli estremi degli accordi siglati con la controparte asiatica, che ha notificato, per salumi e carni trasformate, l approvazione dell intero sistema italiano, pertanto l autorizzazione di tutti gli impianti interessati all export. Le Filippine sono una nazione con circa 100 milioni di abitanti, caratterizzata da un mercato e un economia pienamente immersi nel boom asiatico. I tassi di crescita del PIL (+6%) negli ultimi anni sono stati secondi solo alla Cina nella regione, mentre i costi sono ormai inferiori a quelli cinesi. Si distinguono dal resto dell Asia, avvicinandosi all Europa, per quello che riguarda lingua, religione e mentalità. Caratterizzato da una popolazione giovane, è uno dei Paesi con la propensione al consumo fra le più alte nell area. Dati i floridi fondamentali, il livello dei consumi (circa il 70% del PIL) rimane in costante aumento. Basti pensare che circa 10 milioni di Filippini emigrati nel mondo rappresentano rimesse in denaro ̶ inviato dall estero in patria ̶ dal volume consistente, divenendo acquisti spesso canalizzati nei centri commerciali del Paese, tra i maggiori dell Asia. La classe media, quella con situazione economicamente più stabile, è in ascesa e gli ingenti investimenti in atto nel campo delle infrastrutture, delle attività industriali, del turismo e della filiera agroindustriale, lasciano fare agli analisti ipotesi positive per il futuro. Lo scenario economico, grazie a questa situazione, è in un costante trend positivo e la buona propensione al consumo rende l Italian food estremamente popolare e ricercato. Il mercato filippino vanta ormai una vasta gamma di prodotti italiani, sia di base che di gastronomia (fonte: ASS.I.CA.).

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IL FOOD IN RETE

Social di Elena

2. Capitelli e Cibosano per l’alta qualità

1. Ingredienti gourmet e ricette in un box ARCHITETTURA DEL GUSTO (www.architetturadelgusto.com) è l’innovativo progetto di e-commerce che regala una serata da chef, proponendo confezioni dotate di tutto il necessario per realizzare piatti stellati a casa. Ogni box comprende prodotti selezionati, una video ricetta, informazioni sullo chef, suggerimenti per impiattare e per scegliere il vino ideale da abbinare. L’obiettivo della start up è far conoscere le eccellenze della gastronomia italiana e renderle accessibili a tutti. Ogni box è pensato come un viaggio all’insegna del gusto, in cui ingredienti sublimi si sposano con la creatività dei grandi chef Italiani.

Interessante l’attività sviluppata da CAPITELLI F.LLI, l’azienda di Borgonovo Val Tidone specializzata in salumi di alta gamma. Attraverso capitelli.cibosano.pro, Capitelli vuole valorizzare le produzioni alimentari di alta qualità talvolta sconosciute al grande pubblico. Come funziona Cibosano? Si tratta di uno strumento di promozione “rivolto a tutti gli operatori del settore che credono fermamente nelle produzioni alimentari di alta qualità. A fronte della condivisione di un programma comune, Capitelli offre la possibilità di creare, gratuitamente, un sito web dotato di tutte le più recenti potenzialità di comunicazione, per consentire la promozione ottimale dei propri prodotti attraverso internet” (in foto, prosciutto cotto San Giovanni di Capitelli; photo © today.eataly.net).

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food Benedetti

4. FICO, è iniziato il conto alla rovescia 3. Valtellina da visitare e da mangiare Bello ed efficace nei risultati il progetto web realizzato per promuove il DISTRETTO AGROALIMENTARE DI QUALITÀ DELLA VALTELLINA, un territorio nel cuore delle Alpi che offre prodotti unici per varietà e qualità. Attraverso il sito www.valtellinachegusto.eu si scoprono formaggi, vini, salumi e altre delizie della regione, tra cui la Bresaola della Valtellina IGP e il Bitto DOP.

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Farà parlare di sé parecchio nei prossimi mesi il lancio di FICO, la Fabbrica Italiana Contadina, “struttura di riferimento per la divulgazione e la conoscenza dell’agroalimentare, il luogo di incontro per tutti coloro che amano il cibo e che vogliono conoscerne i segreti e la tradizione, alla ricerca di informazioni ed esperienze uniche”, così come scrive Eataly World sul proprio sito, eatalyworld.it. Saranno 80.000 m2 di parco tematico con 4.000 m2 di stalle, botteghe, ristoranti, ambienti dedicati alla didattica e alla formazione. Per raccontare (e gustare) “l’eccellenza italiana dal campo alla forchetta”.

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Le Cesarine tra i migliori progetti di FutureFood Le Cesarine sono una rete di signore presenti su tutto il territorio nazionale e selezionate da Home Food, un associazione fondata nel 2004, con il patrocinio del Ministero delle Politiche Agricole e con la collaborazione dell Università di Bologna. Ad oggi sono oltre 200 le Cesarine ̶ che un tempo era il nome comune dato alle massaie romagnole ̶ che organizzano nelle loro case, in più di 90 città italiane, piccoli e grandi eventi culinari per deliziare il palato di coloro che sono alla ricerca di tradizioni culinarie spesso dimenticate. Vere e proprie custodi di un patrimonio enogastronomico sommerso, le Cesarine mettono la loro esperienza a disposizione degli ospiti per regalare un esperienza autentica, all insegna della qualità e del gusto. Le Cesarine è stato selezionato tra i migliori progetti italiani legati al segmento del food nella fase conclusiva di FutureFood, una Call4Innovation rivolta a tutte le start-up che sviluppano prodotti e servizi originali e modelli di business innovativi nei settori del food e dell agroalimentare. La call ̶ organizzata da Digital Magics in collaborazione con Intesa San Paolo ̶ è nata con l obiettivo di creare innovazione in uno dei segmenti più tradizionali che contribuiscono a portare in alto il made in Italy nel mondo. Nella fase fi nale dell iniziativa, Le Cesarine hanno presentato il loro modello di network ̶ coordinato a livello nazionale da uno staff dedicato ̶ di cuoche casalinghe esperte, animate da un autentica passione per la cucina tradizionale e selezionate per ospitare nelle loro case eventi gastronomici a base di ricette locali. Un progetto che trascende il concetto di home restaurant per farsi percorso di promozione e scoperta culinaria e culturale, esteso su tutto il territorio nazionale, capace di salvaguardare il cibo tradizionale e il concetto di ospitalità più autentico. Ma come funziona www.cesarine.it? Se la vera cucina tradizionale è scritta nei ricettari di famiglia , così come riportano le cesarine sul loro portale, per entrare nel loro mondo basta scorrere le proposte culinarie on-line, quindi scegliere o richiedere una data per prenotare il proprio evento o la propria esperienza, pagare e incontrare la Cesarina, scoprendo così scopri le ricette regionali e le tradizioni del territorio (photo © casanisa ‒ Fotolia).

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AZIENDE L’azienda leccese apre il 2017 con un’importante novità nel mercato dei salumi

Il Salumificio Scarlino avvia la produzione di cotti nello stabilimento di Taurisano

I

l Salumificio Scarlino inizia il nuovo anno con un’importante novità, decidendo di entrare nel mercato dei prosciutti cotti. Per questo, come avevamo anticipato sulla nostra Rivista in un servizio di qualche mese fa, torna a produrre nello storico stabilimento leccese di Taurisano con un nuovo impianto, ad alta tecnologia, che andrà ad affiancare quello dei würstel ritornato di recente in attività. Obiettivo, non nascosto, quello di arrivare, nell’anno in corso a produrre oltre 3.000 pezzi di prosciutto al giorno per continuare a recitare anche in questo comparto, come successo producendo per 45 anni esclusivamente würstel, un ruolo da protagonista. La flessibilità e le

competenze raggiunte gli consentono di conoscere le esigenze del mercato e di presentarsi con una gamma completa, in grado di soddisfarle ampiamente. L’alta capacità produttiva, l’utilizzo esclusivo di cosce intere di suino fresche, solo di primissima qualità, lavorate in stampo tradizionale e cotte in forni a vapore, insieme al mix di ingredienti naturali utilizzati per l’aromatizzazione, rendono semplice ed inequivocabile la mission di Scarlino: dare vita ad una linea di prosciutti cotti pregiata, dove un gusto unico e delicato si coniuga ad un carattere inconfondibile, ben connotato. Tre al momento i prodotti di punta che costituiscono la gamma de I Cotti di Scarlino:

• Quello Buono, in formato botticello; • Quello Scelto, in formato castagna; • Il Migliore, prosciutto cotto di alta qualità. Forte della sua rete di vendita, capillarmente presente in ogni regione d’Italia e in diversi paesi esteri, il Salumificio Scarlino punta a penetrare in tutti i canali del mercato, visto che a breve sarà avviata anche la linea dei preaffettati in atm che daranno ulteriore profondità alla gamma. La storia continua… «Grazie ad un’esperienza di quasi mezzo secolo, maturata sul campo pro-

Lo stabilimento Scarlino di Taurisano (LE).

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«La flessibilità e le competenze raggiunte producendo würstel, che ci hanno permesso di recitare in questo comparto un ruolo di protagonisti assoluti, ci consentono di conoscere le esigenze del mercato e di presentarci con una gamma in grado di soddisfarle ampiamente»

ducendo würstel, entriamo nel mondo dei prosciutti cotti con un nuovo impianto, ad alta tecnologia, situato nella sede italiana di Taurisano» racconta il direttore marketing dell’azienda CLAUDIO LEUZZI. «Questo non solo ci consente di lanciare la nostra sfida ad un segmento di mercato che continua a registrare momenti di sorprendente attività, ma di cimentarci per la prima volta con un prodotto tipico del made in Italy che, a differenza del würstel, rientra nelle abitudini alimentari dei consumatori. Per questo siamo consci delle difficoltà che presenta un mercato che può apparire inflazionato, ma altrettanto motivati per affrontarle e superarle».

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Caratteristiche della linea I Cotti Scarlino «Per prepararci al meglio alla sfida — precisa poi l’Amministratore Unico ATTILIO SCARLINO — abbiamo voluto puntare ad una produzione di qualità, rendendoci perfettamente conto che, essendo gli ultimi arrivati in questo comparto, il consumatore può essere conquistato soltanto facendo leva sul livello dei prodotti e sul giusto rapporto qualità/prezzo che è stata negli anni l’arma vincente della nostra azienda. Sono certo che i consumatori sapranno apprezzare il gusto dei nostri prodotti: di consistenza morbida e vellutata, ogni fetta di prosciutto cotto Scarlino

si caratterizza per l’intenso profumo e per il suo tenue colore rosato, bordata da un sottile strato di grasso che ne completa la bontà. Dal gusto davvero particolare, percepito come inconfondibile dal consumatore, abbiamo voluto che il prosciutto cotto Scarlino esprima la giusta sintesi tra sapore e tenerezza, un equilibrato rapporto grasso/magro e, soprattutto, un’ottima resa al taglio. Naturalmente — conclude Scarlino — non ci fermeremo qui, perché abbiamo delle novità assolute per il mondo dei cotti che presenteremo al Tuttofood di Milano nel prossimo maggio».

Salumificio Scarlino Srl S.P. 360 per Casarano 30 73056 Taurisano (LE) Telefono: 0833 62711 Fax: 0833 627250 E-mail: info.scarlino@scarlino.it Web: www.scarlino.it

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Soave come il prosciutto All’ombra del castello di Soave, oltre a grandi vini, anche grandi prosciutti, come quelli prodotti nel Prosciuttificio Soave da Marco Masconale, artigiano norcino di terza generazione di Massimiliano Rella

A

ll’ombra delle antiche e possenti mura del castello di Soave non ci sono soltanto i grandi vini bianchi dell’omonima denominazione a deliziarci con i loro profumi e sapori: il Soave Classico, il Superiore o l’intenso e vellutato Recioto, gioielli di una viticoltura di qualità. Se il nome Soave ci fa pensare subito alla fortezza medievale conservata fino a oggi con le sue torri merlate e ai pregiati vini, il borgo veronese ci riserva anche

un’altra produzione locale, altrettanto interessante: il prosciutto. Il Prosciuttificio di Soave di MARCO MASCONALE continua una produzione familiare nata un secolo fa, oggi alla terza generazione. Il nonno e il padre avevano una macelleria suina in paese e, oltre a vendere la carne, preparavano piccole quantità di salumi, salsicce di salame, cotechini e altre specialità contadine. Se il signor Carmelo, subentrato al nonno Pietro, negli anni ‘70 produceva circa cento pezzi l’anno,

il figlio a capo dell’impresa dal 2000 scelse di lavorare soltanto prosciutti crudi e salumi. Nuova impostazione per l’attività di famiglia: via la carne, largo ai prosciutti! «Lavorare in negozio non mi piaceva così una quarantina di anni fa con il passaggio di gestione ho deciso di chiuderlo e dedicarmi esclusivamente alla norcineria, una passione che avevo da bambino», ci dice Masconale. La piccola azienda ha mantenuto una dimensione artigianale e impie-

Marco Masconale, titolare del Prosciuttificio Soave, con sede a Soave (VR).

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Il Prosciuttificio di Soave di Marco Masconale continua una produzione familiare nata un secolo fa, oggi alla terza generazione. Il nonno e il padre avevano una macelleria suina in paese e, oltre a vendere la carne, preparavano piccole quantità di salumi. Oggi il grosso della produzione è rappresentato dai prosciutti crudi, in tutto 25-30.000 pezzi l anno

Prosciutti nella sala di stagionatura del Prosciuttificio Soave. ga due dipendenti. Il lardo, salato e aromatizzato a secco, è preparato secondo la ricetta originale del nonno e ricavato solo dalla spalla dei suini, che presenta uno spessore maggiore e una caratteristica vena di magro. Lo speck con fesa è leggermente affumicato con legno di faggio e insaporito con erbe di montagna per esaltare il gusto della carne. Ma il grosso della produzione è rappresentato dai prosciutti, in tutto 2530.000 pezzi l’anno, in parte per conto terzi, il resto a marchio Prosciuttificio di Soave. In azienda arrivano le cosce, oltre agli altri tagli, di suini nazionali già macellati, prevalentemente dal centronord Italia, Emilia, Lombardia, Veneto. La lavorazione del prosciutto comincia con la selezione delle cosce in base al

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peso, che determina anche la quantità di sale necessaria, cambiato dopo 5 giorni. Dopo la seconda salatura si smuove la muscolatura di ogni coscio si massaggia per una migliore penetrazione dei granuli nella carne. Poi le cosce sono appese ad asciugare in celle di riposo a temperatura di 2-4 gradi per 3 mesi. Con la pulitura a coltello, dopo aver perso un 20% di acqua, assumono la forma definitiva. Lavate con acqua calda per togliere il sale di superficie, sono appese ad asciugare per una settimana. Le parti scoperte sono ricoperte di grasso e incomincia la stagionatura. Il Valtramigna è affinato circa 10 mesi, lo Stagionato minimo 12 mesi, il Riserva non meno di 14 e fino a 18 mesi. Il culatello con cotenna, dal sapore dolce, stagiona

invece fino a 16 mesi. Su richiesta i prosciutti sono disossati, a mano. Una lenta maturazione naturale contribuisce alla qualità e al gusto dei prodotti grazie anche a un clima asciutto e ventilato. I prodotti sono distribuiti per la vendita a grossisti e negozi e per la ristorazione a ristoranti e alberghi. Massimiliano Rella Prosciuttificio Soave di Masconale Marco & C. Snc Via Cà del Bosco 36 37038 – Soave (VR) Telefono: 0457 681559 E-mail: info@prosciuttificiosoave.com Web: www.prosciuttificiosoave.com Nota Photo © Massimiliano Rella.

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Salumificio Molinari, custodi di cultura locale e artigiani di bontà Suini friulani alimentati con cereali non fermentati, lavorazione a caldo delle carni, speziatura naturale e un pizzico di sale, quello di Cervia. Nascono così i salumi della famiglia Molinari a Zuglio di Riccardo Lagorio

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na macelleria artigianale dove si possono trovare autentiche rarità gastronomiche dal 1952 grazie all’estro di MARIO MOLINARI, ma che le cronache ci raccontano svolgesse un ruolo di riferimento per le tavole della Carnia già nel Settecento. Nell’impianto inaugurato

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quattro anni fa si affumica come allora, con legna di faggio e rami di ginepro in un ambiente ventilato, con la massima cura per ogni singolo pezzo. Guidati dall’amore per l’ambiente. «Utilizziamo solo suini friulani allevati per noi in Spilimbergo dall’azienda agricola Avoledo. I suini vengono alimentati con cereali

non fermentati prodotti nei terreni della medesima società», racconta il nipote ALAN GORTANI, terza generazione a gestire questa distintiva realtà. «Si tratta di un genotipo selezionato dall’Università di Udine. Ma soprattutto sappiamo che quanto più breve è il tragitto compiuto dagli animali, meno inquinamento si

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In alto: i vari tipi di salame prodotti dal Salumificio Molinari sono caratterizzati da una differente macinatura delle carni. A sinistra: lo speck. A pagina 30: la salatura.

trova sulle strade e inferiore è lo stato di affaticamento al quale sono sottoposti. Anche l’età deve essere congrua con la nostra tradizione: due lune d’agosto, con carni ben mature. La macellazione e la lavorazione avviene nel nostro stabilimento a Zuglio». I 15 esemplari che settimanalmente salgono la valle del

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But vengono accuratamente selezionati prima di entrare nel macello, «che è un investimento difficile da giustificare da un punto di vista di mero calcolo economico», spiega. Infatti il macello è anche l’orgoglio della famiglia Molinari, che mantiene in vita la cultura locale della lavorazione a caldo delle carni

(ovvero lavorazione delle carni entro la giornata). Gli animali si fermano un giorno nelle stalle di sosta, dove si somministrano pasti molto leggeri. Poi si comincia l’indomani alle 4:00 del mattino e alle 11:00 i salami sono già appesi. Subito le carni vengono raffreddate fino a 10 gradi. In tal modo alcuni

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Alan Gortani nella cella di stagionatura. elementi, come il fosforo, sono più attivi e favoriscono una buona fermentazione e coesione dell’impasto. Dopo la cernita, avviene la macinatura e l’insacco. Sono sostanzialmente tre le tipologie di salame che nascono all’interno del laboratorio. Per produrre quello che ricalca meglio la tradizione le carni vengono macinate con la piastra da 8 mm mentre la percentuale di grasso non raggiunge il 20%. Si ottiene perciò un salame dall’aspetto molto magro. Anche la versione di salame tagliato a coltello garantisce queste caratteristiche. Da qualche anno ha particolare fortuna il salamut. È un salame per le famiglie di oggi, dalle piccole dimensioni, le cui carni sono macinate con piastra da 5 mm. «Per venire incontro a chi soffre di allergie, abbiamo eliminato nel salamut anche la presenza di salnitro». La speziatura è naturale e classica carnica: sale, pepe, vino nel quale la sera prima viene fatto macerare l’aglio. Non si utilizzano starter per l’avvio dei processi di maturazione. Ma ciò che più conta è che lo stile del salumificio non prevede la possibilità di ricavare salami e prosciutti con lo stesso animale. «I nostri salami sono fatti con la coscia e il carré: o prosciutti o salami», specifica con orgoglio Alan. L’affumicatura è leggera; dura una sola notte e

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viene effettuata con frasche di ginepro e pino mugo, oppure da legno di faggio, se si desidera assai modesta. Del resto l’affumicatura è propria di queste terre. Accade per il guanciale e la pancetta nella versione stesa e arrotolata. Ma anche per lo speck, che in verità assomiglia più a un prosciutto crudo affumicato. Si utilizzano anche in questo caso le cosce dei suini allevati a Spilimbergo che pesano circa 10 kg. La stagionatura si protrae per almeno 7 mesi. Ai prosciutti crudi veri e propri viene lasciato lo zampetto, che funge da segnale per la perfetta stagionatura: se vi è traccia di umidità, bisogna attendere ancora prima di poterlo immettere sul mercato. I prosciutti derivano da cosce che hanno un peso variabile tra 17 e 19 kg. Saranno pronti essendo trascorsi almeno 24 mesi dal momento dell’inizio della preparazione. Per la loro concia, come per addizionare agli altri salumi, si utilizza sale di Cervia. Eccolo nell’impasto del salame e per aspersione sulla pancetta, sull’ossocollo e sulla lonza. Poi usato per le pendole, minuscole strisce di carne di coscia e fesa che vengono marinate, affumicate e asciugate. Si affettano sottili come aperitivo o merenda. Ma anche würstel e principalmente un singolare

prosciutto cotto che ha pacificamente invaso le salumerie della zona. Per la preparazione si mette a punto un decotto con una decina di spezie al quale si aggiungono sale di Cervia, salnitro e miele. Il risultato servirà per essere siringato a mano nelle vene del prosciutto. Per un giorno intero la coscia viene poi lavorata nella zangola. A seguire si possono ottenere un prosciutto cotto (a vapore) tradizionale, inserendo la parte anatomica nell’apposito stampo; oppure un prosciutto cotto affumicato, che viene innanzitutto legato a mano, poi affumicato e infine cotto a vapore. Lo spaccio nella casetta con gerani sempre fioriti alle finestre e gli interni tutto-legno-e-vetro serve anche come sala degustazione. Iulius Carnicus sta a pochi passi: c’è chi approfitta del laboratorio anche per addentrarsi nella storia e conoscere questa appendice del Norico, con qualche probabilità primigenia porta d’ingresso dell’arte norcina nella penisola italica dalla lontana Pannonia. Riccardo Lagorio Salumificio Molinari Via Giulio Cesare 19 33020 Zuglio (UD) Telefono: 043 392054

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Associazione Agraria Aziende Cafra, l’avanguardia della salumeria senza conservanti Nata negli anni Ottanta da un’idea dei fratelli Catalano, l’associazione produce salumi privi di coloranti, conservanti e additivi. Specialità indiscusse, soppressata, salsiccia e capocollo di Riccardo Lagorio

C

ome nel mondo del vino, una delle frontiere della salumeria contemporanea è quella che evita l’utilizzo di conservanti. I consumatori che reputano dannosa per il proprio organismo la presenza di solfiti aggiunti (nel vino) o di nitrati (nei salumi)

sono in continua crescita. Antesignana della apparizione di questo mercato è l’Associazione Agraria Cafra, nata negli anni Ottanta da un’idea dei tre fratelli Catalano in agro di San Chirico Raparo, in Basilicata. «All’inizio ci occupavamo prevalentemente di agricoltura, ingrasso

dei suini e vendita», rivela Antonio Catalano, amministratore unico. «Poi abbiamo adottato scelte considerate da molti coraggiose, diversificando l’azienda con l’introduzione delle fattrici e della fecondazione artificiale tramite l’adesione al piano di selezione genetica

La soppressata prodotta dall’azienda Cafra è prodotta con i tagli di coscia e lombo. Equilibrata e gustosa, il salume si presenta magro con i lardelli distribuiti uniformemente nella fetta (photo © www.aziendecafra.com).

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Passione per la carne per tradizione.


Capocollo (photo © www.aziendecafra.com). dell’Associazione Nazionale Allevatori Suini (ANAS). Questo — continua — ci ha fatto diventare oggi un’azienda di riferimento nella distribuzione di seme a livello nazionale». I suinetti trascorrono le prime settimane di vita accanto alle madri in gabbie di legno su letti di paglia e riscaldati da enormi lampade. È stata costruita un’apposita struttura che rende accoglienti e appartati gli spazi. Altrettanto centrale nel raggiungimento dell’obiettivo iniziale è stata la scelta di produrre il mangime in azienda: mais,

La salsiccia si riconosce per sapore e profumo intensi. Per mantenerla a lungo nel tempo viene anche inserita nella sugna. Bisogna però attendere che sia al giusto grado di maturazione

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soia, orzo e frumento vengono coltivati nei terreni di proprietà. Anche grazie alle acque del torrente Racanello, ciò consente di utilizzare suolo per ragioni agricole di un’area, quella della Val d’Agri, che ha dovuto fare i conti con decenni di emigrazione. Il tutto è stato corredato allestendo anche un piccolo mangimificio dove legumi e cereali sono triturati e mescolati nel modo richiesto dall’operatore. «Agli animali garantiamo così un alimento sempre fresco, libero dalla chimica e soprattutto formulato a seconda dell’età e del peso delle diverse categorie di suini». Sono 5 le torrette al cui interno viene immagazzinato il cibo. L’acqua proviene da una sorgente che ha la falda sotto il monte Raparo. Si trova all’interno della proprietà ed entra nel circuito produttivo dopo la filtrazione di qualsiasi corpo estraneo dalla dimensione superiore a un decimo di micron. Inoltre l’attenzione all’ambiente si è concretizzata nella realizzazione di un depuratore con annesso un impianto di produzione di biogas per l’autoproduzione di energia elettrica e acqua calda a basso impatto ambientale. «Dall’inizio degli anni Duemila ingrassiamo i suini

allo stato semibrado per garantire anche carni più gradite al mercato e adatte alla trasformazione in salumi tradizionali». Si deve aggiungere che il macello interno alla struttura permette che gli animali non subiscano alcuno stress da spostamento. Forte di una materia prima controllata sin dalla sua genesi e la scelta di adottare precisi accorgimenti consentono di elaborare prodotti privi di coloranti, conservanti e additivi. I suini avviati alla macellazione hanno un peso minimo di 160 kg, valore che si è raggiunto per mezzo di ricerche genetiche svolte in azienda all’età di 10 mesi. Consente di contare su carni sode e mature. Sostano in un box dove ottengono una razione di cibo, attraversano un corridoio e passano sotto una doccia prima di essere tramortiti. Trascorrono circa 24 ore prima che la lavorazione inizi. La selezione della carne avviene a punta di coltello e in questa fase vengono mondati con cura tessuti connettivi, grasso e nervetti in un ambiente perfetto sotto l’aspetto igienico. Il prodotto di punta è la soppressata, prodotta con i tagli di coscia e lombo selezionati macinati con piastra

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da mm 8. I lardelli sono aggiunti a cubetti. Sale e pepe in grani sono gli unici altri ingredienti. Si produce anche una versione con polvere di peperone dolce, aggiunto nell’impasto in ragione di g 200 ogni kg 50. L’insacco avviene in budello suino ed è pronta trascorso un mese dalla produzione. Equilibrata e gustosa, la soppressata si presenta magra con i lardelli distribuiti uniformemente nella fetta. La tradizione locale premia sempre invece la salsiccia, che proviene da carni di spalla e dalla rifilatura delle cosce. Tritate le carni con piastra da mm 6, vengono salate speziate con pepe o semi di finocchio con l’aggiunta di g 400 di polvere di peperone ogni kg 50. In questo caso il peperone può essere dolce o piccante. Il budello è di suino dal diametro di circa mm 35. «La stufatura avviene solitamente dal venerdì al lunedì mattina» spiega ANGELA DI MAURO, responsabile della produzione. «Durante l’asciugatura l’umidità è portata all’inizio al 78%, poi diminuisce mentre la temperatura rimane a 13 °C. L’aria fresca viene captata dall’esterno attraverso una serie di imbuti ed esce quella calda. Questo vale per tutte le sale di stagionatura», racconta. La salsiccia si riconosce per sapore e profumo intensi. Per mantenerla a lungo nel tempo viene anche inserita nella sugna. Bisogna però attendere che sia al giusto grado di maturazione. Una sorta di sottovuoto ante litteram. Tra i prodotti ha un ruolo centrale anche il capocollo, preparato con la parte muscolare del collo del suino. Il muscolo subisce un delicato massaggio, viene salato e condito con pepe in grani e polvere di peperone prima di passare ad una stagionatura molto lenta. Ottimo per la preparazione di ragù è il guanciale: si ottiene con la gola del suino condita con sale e polvere di peperone. Salumi tutto gusto e salutari, come un tempo. Proprio per questo ideali ieri, oggi e domani. Riccardo Lagorio Associazione Agraria Aziende Cafra Contrade Galdo – Orrio – Madea 85030 San Chirico Raparo (PZ) Telefono: 0973 631473 E-mail: info@aziendecafra.com Web: www.aziendecafra.com

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MERCATI

Stati Generali della Piadina romagnola: buona la prima A Riccione i protagonisti della filiera hanno fatto il punto sul cibo simbolo della Romagna. Trentamila le tonnellate di prodotto Igp. Le sfide del 2017: i mercati esteri

S

e c’è un prodotto che ha rappresentato il riscatto della Romagna nel corso dei decenni è la Piadina romagnola. Un tempo pane povero, oggi ambasciatrice della Romagna nel mondo. A due anni di distanza dall’ottenimento della certificazione IGP (avvenuto nel novembre 2014), il Consorzio di Promozione e

Tutela della Piadina Romagnola per la prima volta ha convocato gli Stati Generali, chiamando a raccolta, lo scorso 13 dicembre, a Riccione, produttori, autorità, esperti di politiche agroalimentari, associazioni e testimonial, per un momento di incontro e confronto su presente e futuro su uno dei prodotti più apprezzati nelle tavole degli Italiani

per gusto e versatilità, caposaldo anche dell’economia del territorio, tanto da registrare un fatturato di 30 milioni di euro. E se la Piadina romagnola è un elemento di forte identità in Romagna, tanto deve essere fatto per farla conoscere anche fuori dai confini dell’Italia. E proprio verso l’estero si concentrano le attività per il 2017.

Per gustarne il vero sapore deve essere tirata col matterello, cotta su una teglia di terracotta, mangiata subito dopo. Questa è la piadina romagnola tradizionale come la insegnano a Forlimpopoli le Mariette di Casa Artusi, ovvero le cuoche non professioniste che portano il nome della fida compagna di fornelli di Pellegrino Artusi, padre della cucina italiana.

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Sincera nella lavorazione e negli ingredienti, Sincer che sono 1 0 0% naturali. Sin Sincera nella qualitĂ dei tagli pregiati car di carne italiana e nel gusto inconfondibile. La Sincera, Sin come tut te le nostre mor tadelle, nasc da una ricet ta semplice e genuina. nasce

Ve lo dico Sinceramente... sono 100% Naturale! w w w . f e l s i n e o . co m


Piadina romagnola fai da te Sono quattro gli ingredienti base della Piadina romagnola: farina di grano tenero; acqua (quanto basta per ottenere un impasto omogeneo); sale (pari o inferiore a 25 grammi); grassi (strutto, e/o olio di oliva e/o olio di oliva extravergine fino a 250 grammi). Il disciplinare di produzione contempla anche materie prime opzionali come gli agenti lievitanti (carbonato acido di sodio, difosfato disodico, amido di mais o frumento, fino a 20 grammi), con il divieto di aggiungere conservanti, aromi e/o altri additivi. Dopo l impasto e la porzionatura in pani o palline, il passo successivo è la laminatura attraverso matterello manuale oppure laminatrice meccanica. Infine, la cottura su un piano cottura che varia da 200 a 250 ºC con un massimo di 4 minuti. Per potersi fregiare dell IGP, la Piadina romagnola deve essere confezionata nelle sole zone di produzione stabilite. Il disciplinare presenta la Piadina romagnola al consumo in due tipologie: quella con un diametro minore (15-25 cm) ma più spessa (4-8 mm) e la Riminese, con un diametro maggiore (23-30 cm) e più sottile (fino a 3 mm). Per il prodotto realizzato manualmente si potrà utilizzare la denominazione lavorazione manuale tradizionale (fonte: Consorzio di Promozione e Tutela della Piadina Romagnola; www.instagram.com/piadina_romagnola_igp).

È una piadina dei primati quella romagnola Primo prodotto street food ricercato su Facebook con ben 1.100.000 visualizzazioni (secondo posto per l arancino, con 480.000 visualizzazioni) e primo prodotto agroalimentare ricercato nel principale motore di ricerca di Google due anni fa. A dirlo è Mauro Rosati, consigliere del ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, che ̶ in occasione degli Stati Generali di Riccione ̶ ha presentato uno studio sul valore aggiunto delle Dop e Igp nei prodotti agroalimentari. Secondo Rosati si sta verificando uno spostamento dei consumi dai prodotti generici a quelli con una forte caratterizzazione territoriale e identitaria. Un dato che va in questa direzione: nei primi 9 mesi del 2016 l incremento dei consumi dei prodotti DOP-IGP è stato infatti del +7,2%, quello dei generici del +1,2%. Una crescita che si fa ancora più marcata nei prodotti cosiddetti street food, piadina compresa, che registrano un +15%. Sulla stessa lunghezza d onda è stato l intervento dell assessore regionale alle Politiche Agricole Simona Caselli, che ha sottolineato il valore aggiunto delle DOP e IGP nei prodotti agroalimentari di cui l Emilia-Romagna è leader in Europa. «Valgono 2 miliardi e mezzo dell agroalimentare, un patrimonio che va tutelato e promosso» (ARGA).

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>> Link: www.consorziopiadinaromagnola.it

SA

La Piadina romagnola Igp in cifre Ma qual è il peso della Piadina romagnola certificata IGP sul tessuto economico e sociale della Romagna? Decisamente alto, soprattutto per la crescita esponenziale della certificazione. Secondo i dati del Consorzio di Promozione e Tutela ad oggi circa 1 piadina su 3 ha la certificazione di Indicazione Geografica Protetta, con il Riminese a rappresentare la parte più consistente, ben il 77%. I produttori iscritti ai controlli di certificazione sono 22, di cui 6 chioschi e un ristorante. Il numero di addetti di produttori di piadina certificata è di 452, su un indotto generale stimato di 2.000 addetti nel “settore” piadina. Il fatturato della Piadina romagnola IGP è di 30 milioni di euro, su un valore dell’indotto di circa 100 milioni di euro. Sul fronte della produzione, la Piadina IGP ha toccato quota 30.000 tonnellate, con un incremento del 20% rispetto all’anno precedente (dal 2013 anno di protezione transitoria al 2016).

OL O

La sfida dei mercati esteri Un primo assaggio lo si è avuto in occasione della Settimana della Cucina Italiana nel mondo, che a novembre, a New York, ha visto la Piadina romagnola protagonista in una serie di degustazioni guidate, incontri con la stampa internazionale, presentazioni del prodotto, insieme, tra gli altri, al cuoco numero uno al mondo MASSIMO BOTTURA e JOÃO VALE DE ALMEIDA ambasciatore dell’Unione Europea presso l’ONU. Nel 2017, invece, l’attività del Consorzio di concentrerà sue due mercati internazionali: Francia e Germania. L’attività di promozione della Piadina romagnola si svilupperà attraverso incontri con i buyer, presentazioni alla stampa internazionale, degustazioni guidate, abbinamenti e tanto altro ancora all’insegna del prodotto simbolo della Romagna. A supporto di questo progetto di promozione, il Consorzio ha ottenuto un finanziamento (primo progetto in graduatoria) sul bando PSR 2014-2020 – Misura 3 “Attività di promozione e informazione da gruppi di produttori sui mercati interni”, promosso dall’Assessorato alle Politiche Agricole della Regione Emilia-Romagna.

E A L BA R


PRODOTTI TIPICI

Marcundela, alla riscoperta delle radici friulane di Giorgio Montanari

U

n tempo, dopo l’uccisione del maiale, si preparavano i salumi assecondando il ciclo naturale delle stagioni: i primi ad essere pronti erano i salami (maturi nel giro di poche settimane), poi ci si concentrava sui prosciutti, che invece abbisognavano di parecchi mesi

di cantina. Lavorazione dopo lavorazione si esaurivano tutti i tagli del suino. Restavano però inutilizzate le interiora ed altre parti di scarto. Per recuperare queste carni, che consentivano alla famiglia di battere la fame, i contadini friulani inventarono una ricetta tutt’ora diffusa in alcune zone della regione: la

marcundela. Questa preparazione vede come protagonisti parti suine quali fegato, milza, reni, polmoni, grassi teneri del ventre e carni sanguinolente. Un tempo la materia prima veniva tagliata a dadi servendosi di un coltello, oggi invece la si macina a grana grossa. Il mix ottenuto viene conciato con aglio,

La marcundela o crafùt, crafùs, come il muset, il saùc e il linguale è uno di quei salumi nati per impiegare le parti meno nobili del maiale (photo © www.gustosamente.it).

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Il crafùt o crafùs, marcundela o saùc, ovvero la polpetta friulana Crafùt o crafùs, muset, marcundela, saùc e linguale: questi insaccati preparati con frattaglie di suino deperiscono facilmente e devono essere consumati cotti a vapore, bolliti o rosolati nel burro o nell olio, secondo i gusti. Secondo la tradizione friulana il crafùt va consumato cotto nello strutto e entro 10 giorni dal momento in cui le interiora vengono impastate con pane grattugiato secco, uva sultanina, scorze di limone, mele a cubetti, scorze di arancia, sale e spezie. Spesso la tipologia di pane grattugiato impiegato è il pan di sorc, a base di cinquantino, una varietà di mais caratterizzato da un ciclo vegetativo breve, che affonda le sue radici nella storia del Friuli Venezia Giulia e che viene tutelato dall Ecomuseo delle Acque di Gemona. Visto il legame fra pan di sorc e crafùt, l Ecomuseo e l Associazione dei produttori del pan di sorc ne hanno sposato la causa e ne sostengono la memoria organizzando serate di degustazione. La polpetta nasce nelle zone di Udine intorno agli anni Quaranta ad opera dei norcini di Buja e Artegna, luogo dove ancora ogni anno a fine novembre durante il Purcit in Staraje si celebra il maiale in tutte le sue forme . Al momento non è ancora presidio Slow Food ma è riconosciuta come PAT ‒ Prodotto Agroalimentare Tradizionale, dal Ministero delle Politiche Agricole. Sono pochissimi oramai i norcini in grado di preparare la ricetta originale del crafùt. Uno di questi è il titolare dell azienda agricola Felice & Collini di Buja (spaccio aziendale in via Meries 16. Aperto dal martedì alla domenica dalle 8.30 alle 12.30, è consigliata la prenotazione telefonando ai numeri: 0432 96391 ‒ 347 4859845). (Ecomuseo delle Acque di Gemona ̶ www.ecomuseodelleacque.it)

Fagagna, il paese delle cicogne Siamo in collina, a Fagagna, un comune di origini antiche, custode di vecchie tradizioni e mestieri, annoverato tra i borghi più belli d Italia; è denominato il paese delle cicogne, grazie alla presenza di questi simpatici uccelli migratori che nella zona nidificano e danno alla luce oltre venti piccoli all anno. Per gli amanti della buona tavola, in questa località si possono trovare anche delle ottime produzioni di formaggio, di prosciutto d oca, la marcundela e molto altro ancora (photo © dulcisterrae.com).

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Il pan di sorc è un pane realizzato con la miscela di tre farine: mais (“sorc” in lingua friulana) a ciclo vegetativo breve (cinquantino), frumento e segale. Il pan di sorc secco è utilizzato anche come ingrediente del crafùt. Per info: www.pandisorc.it (photo © rtvslo.si).

È bene consumare la marcundela, previa cottura, quando ancora è fresca. Anticamente si conservava in vasi pieni di strutto, oggi invece si ricorre alle moderne celle frigorifere. Una nota di colore: un tempo i ceti poveri della popolazione friulana, coloro che dovevano resistere un intera giornata nei campi, erano soliti sfamarsi a colazione proprio con polenta e marcundela, piatto saziante ed energico

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sale, pepe; alcune ricette prevedono l’uso di spezie selezionate (chiodi di garofano, cannella, noce moscata) e di vino. Dall’impasto l’operatore plasma piccole sfere del peso unitario di circa un etto e mezzo/due etti, le avvolge nella membrana naturale del medesimo suino (omento), lasciandole poi riposare per alcune ore su vassoi cosparsi di farina gialla. La farina, di solito utilizzata per la preparazione della polenta, evita che il prodotto si attacchi alla superficie. In assenza dell’omento si può ricorrere all’impiego del budello torto. Da un maiale si ricavano una ventina di preparazioni: di consistenza tenera, dalla forma tonda irregolare, il prodotto ha un profumo forte e riconoscibile; dal budello si intravede il mix di carni che presenta un colore rosso scuro. È bene consumare la marcundela, previa cottura, quando ancora è fresca: o appena fatta o al massimo entro una settimana dalla preparazione. Anticamente si conservava in vasi pieni di strutto, oggi invece si ricorre alle moderne celle frigorifere. Una nota di colore: un tempo i ceti poveri della popolazione friulana,

coloro che dovevano resistere un’intera giornata nei campi, erano soliti sfamarsi a colazione proprio con polenta e marcundela: questo piatto, saziante ed energetico, donava loro le energie per le successive estenuanti ore di lavoro. Oggi, per fortuna, non si è obbligati all’esigenza del consumo a colazione; il prodotto quindi si può preparare o immergendolo in una pentola con del vino rosso, oppure si può friggere in padella spruzzandolo di vino. Idealmente si può anche cuocere in un sugo di pomodoro a mo’ di “gulasch friulano”. Dal gusto deciso ed intenso (per via di parti amarognole come il fegato), alcuni cuochi raccomandano la marcundela come condimento per la pasta. Gli stomaci più resistenti, invece, possono provare a friggerla nel burro, azzardando un accostamento con frittata di uova. Restando in regione, si consiglia un abbinamento col Picolit, un vino bianco DOCG, fine e gradevole, di colore giallo paglierino. Il vitigno autoctono cresce solo in alcune zone della provincia udinese. Giorgio Montanari

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Visita all’Allevamento Veneto Ovini di Anguillara Veneta (PD)

Luca, Davide e Andrea Morandi: pastori 2.0 di Gian Omar Bison

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astore il bisnonno, pastore il nonno Erardo, pastore il padre Ottaviano e pastori loro: Luca, Davide ed Andrea, ultima generazione dei MORANDI alla guida dell’azienda “Allevamento Veneto Ovini” di Anguillara Veneta (PD). Certo, pastori 2.0 subentrati in azienda sul volgere degli anni Novanta adattandone la produzione, la comunicazione ed il marketing. «Sempre di pecora parliamo — affermano i fratelli Morandi — ma mentre un tempo il prodotto principale erano il latte e derivati, oggi ci occupiamo quasi esclusivamente

di carne (agnello pasquale, castrato, costolette, arrosticini, ecc…) e della sua trasformazione. Resta il formaggio, in particolare il pecorino prodotto fresco e stagionato durante il periodo di alpeggio presso la malga Faverghera nel Nevegal (BL), la vendita di bestiame da riproduzione selezionato o della pelle lavorata e conciata, ma sono comunque residuali». Salumi, soprattutto, insaccati nei salumifici autorizzati del territorio acquistabili presso lo spaccio aziendale, anche tramite e-commerce e nei negozi della clientela. Prelibatezze consumabili da qualche anno presso l’agriturismo

Prosciutto, salamella, sopressa, lonzino, sella, fiocco e bresaola, vincitrice del Premio Agrifood Golosario 2016. L invenzione di famiglia? Il salame di pecora e pancetta di maiale

Salame di pecora. Composto al 70% con carne di pecora e per un 30% da pancetta di maiale, è acquistabile allo spaccio aziendale dell’Allevamento Veneto Ovini di Anguillara Veneta (PD).

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Salumi¿cio Ferrari Erio & C. S.p.a. – Via Canaletto Nord, 565/A – 41122 MODENA – ITALY Tel. +39 059 310015 – Fax +39 059 450251 – E-mail: info@salumiferrari.it


Lonzino di pecora.

La bresaola di pecora dell Allevamento Veneto Ovini che all ultimo Vinitaly ha vinto il Premio Agrifood Golosario 2016. Dopo la selezione delle cosce, la bresaola viene salata ed insaporita con erbe aromatiche. La salatura avviene per 20 giorni. Successivamente viene messa in cella di stagionatura per 2 mesi. Il peso finale del prodotto va da 1,5 a 2 chili. Si tratta di un prodotto delicato al naso e in bocca dove la nota ovina si percepisce ma senza essere invasiva. Per le dimensioni, è anche facilmente porzionabile in salumeria.

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di famiglia “Corte Bonicella”. Le razze trattate sono da sempre le autoctone Biellese e Bergamasca, allevate a pascolo semibrado, in parte all’aperto, dove pascolano nelle campagne limitrofe al fiume Adige e in parte confinato e protetto nelle stalle. Si allevano agnelli, agnelloni, pecore e castrati per aziende selezionate. «Razze — sottolineano — che possono garantire uno sviluppo di carne significativo e vantaggioso. Perché un agnello sia pronto da macellare (8-10 kg) bastano due mesi. Per l’agnella al primo parto ci vuole un anno almeno e comunque si processa entro i due anni. La pecora invece deve raggiungere dai quattro anni in su». I capi in azienda sono 2.500 circa. Di questi trecento vengono abbattuti e lavorati annualmente. E a questi se ne aggiungono duemila acquistati pronti da macellare e trasformare direttamente da colleghi pastori che hanno l’azienda agricola. «I nostri prodotti comprendono il prosciutto, la salamella, la sopressa, il lonzino (lombo), la sella (spalla), il fiocco (tipo il culatello del maiale) e poi la bresaola che all’ultimo Vinitaly ha vinto il Premio Agrifood Golosario

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L agriturismo Corte Bonicella è il fiore all occhiello dell azienda. Si mangia, si pernotta e a disposizione ci sono le biciclette per escursioni in mezzo alla natura. Nel menu del ristorante si va dal carpaccio di lonzino di pecora alla salsiccia passita, dalle pappardelle con ragù di agnello alla grigliata mista di castrato

2016. Si tratta della parte centrale della coscia disossata, salata e pepata, pressata per un mese e poi insaccata». E poi c’è lui, l’invenzione di famiglia che già Erardo produceva per consumo familiare nelle stesse proporzioni: il salame composto al 70% con carne di pecora e 30% pancetta di maiale. «I progetti futuri sono tanti», sostengono. «Tutti perseguibili e tutti impegnativi sia in termini di lavoro che di esborso. Parliamo di un macello aziendale di cui vorremo dotarci e anche di un laboratorio attrezzato per insaccare e lavorare la carne in house con l’obiettivo di aumentare la produzione. Un giorno ci arriveremo. In fin dei conti anche un agriturismo nostro era un sogno. E tre anni fa circa abbiamo inaugurato “Corte Bonicella”; abbiamo aperto punti vendita e ci siamo organizzati come fattoria sociale per far vedere, ai bambini in particolare, cosa significhi allevare ovini». L’agriturismo, si diceva, è il loro fiore all’occhiello. Si trova a Cona (VE),

vicino alla littorina chiamata da queste parti “Vaca Mora”, linea ferroviaria monorotaia che unisce Adria a Venezia, ed è tra i primi possedimenti strappati tra fine ottocento ed i primi del novecento, alle paludi per coltivare i cereali. I caseggiati nati come fienile e scuderie ospitano una fattoria didattica per bambini e un punto vendita dei prodotti tipici dell’Allevamento Veneto Ovini. Vecchia aia per l’essiccazione dei cereali recuperata a spazio per feste ed eventi, la ristrutturazione ha valorizzato le peculiarità tipiche delle cascine. «Si mangia, si pernotta e si hanno a disposizione stanze dedicate a meeting aziendali e seminari, biciclette per escursioni in mezzo alla natura, vicino alle bellezze dell’Oasi Ca’ di Mezzo, del Delta del Po e delle spiagge». Il menu spazia dagli antipasti di carpaccio di lonzino di pecora, lardo profumato alle erbette con pane grigliato, cornetto di formaggio farcito

di ricotta fresca, salsiccia passita di pecora, soppressa di pecora, fiocco e prosciutti; primi come il risotto di zucca, gli gnocchi radicchio e pancetta e le pappardelle al ragù di agnello. Per secondi, tra gli altri, arrosticini di pecora con peperoni in agrodolce, grigliata mista di castrato con patate in padella o gran fritto misto di agnello, agnello al forno con patate arrosto. E poi i loro formaggi, accompagnati da mieli e marmellate. Parlando di vino, il vitigno autoctono Friularo DOCG rappresenta l’eccellenza enologica locale. Dotato di particolare acidità conferisce all’uva grande versatilità in vinificazione e permette di ottenere vini rossi di corpo e strutturati, vini passiti e spumanti. «E per noi — puntualizza Davide, tecnologo agroalimentare — resta il punto di riferimento di una proposta enogastronomica ricercata, di considerazione e promozione del nostro territorio attraverso le sue eccellenze». Gian Omar Bison Allevamento Veneto Ovini Via Porcaro 1 35022 Anguillara Veneta (PD) Telefono: 347 0326458 E-mail: info@veneto-ovini.com Web: www.veneto-ovini.com Agriturismo Corte Bonicella Via Cavarzere 28 30010 Cona (VE) Telefono: 0426 59298 E-mail: info@cortebonicella.it Web: www.cortebonicella.it


Officina Salumi Campani in difesa dei prodotti a chilometro zero I Salumi della Campania oggi rivendicano il loro posto sul podio nel panorama alimentare italiano. Passione e arte della lavorazione, per conferire alle materie prime esclusive l inconfondibile carica di gusto che li rende indimenticabili. Un escalation di sensazioni che hanno consentito loro di raggiungere una forte notorietà che va ben oltre i confini nazionali. Ecco perché è arrivato il momento di aiutarli rendendoli riconoscibili nella selva di salumi che arriva sugli scaffali di piccola e grande distribuzione. Nasce con questo intento l associazione Officina Salumi Campani , che con l acronimo di S.O.C. ha lo scopo di tutelare, promuovere, divulgare e valorizzare la produzione regionale. Di sostenere la diffusione della cultura tipica dei salumi legati per storicità e tradizione al territorio. «È arrivato il momento ̶ spiega il presidente Giuseppe Di Bernardo ̶ di certificare e valorizzare oltre alla indiscutibile qualità anche il gusto e il processo di lavorazione». Prima iniziativa, il bollino di tutela che identifica in maniera inequivocabile la zona di provenienza, garantita dalla stessa associazione. Previsti percorsi per la creazione di marchi aziendali collettivi e l ottenimento di denominazioni europee. L associazione Officina Salumi Campani consente l ingresso volontario a tutti gli esponenti delle categoria che hanno a cuore gli interessi di carattere culturale, commerciale e scientifico nel settore della produzione e trasformazione dei salumi tipici legati all area geografica della Campania. Un rapporto antico fra la regina del Mezzogiorno ed il maiale. Ancora oggi la consuetudine è di utilizzare tutte le parti degli animali macellati. Continuano a vivere così prodotti dal nome storico come: Salame di Napoli, le Salsicce di maiale, il Salame di Mugnano del Cardinale, il Prosciutto di Pietraroja, il Mozzariello e nuovi prodotti che arrivano nel piatto come la carne di bufalo campano.

Asiago Dop, Speck Alto Adige Igp e Pecorino Romano Dop: importante programma di promozione in USA e Canada Tre Consorzi e tre territori diversi saranno al centro del nuovo progetto di promozione del consumo dei prodotti patrimonio della cultura e della tradizione europea che ha ottenuto il riconoscimento dell Unione e si svilupperà in USA e Canada nel triennio 2017-2019 con un co-fi nanziamento di 2,5 milioni di euro. «Siamo lieti di intraprendere insieme questo percorso in due mercati così importanti e competitivi» affermano Fiorenzo Rigoni, Andreas Moser e Salvatore Palitta, rispettivamente presidenti del Consorzio di Tutela Formaggio Asiago, Speck Alto Adige e Pecorino Romano. «Il nostro scopo è diffondere sempre più la conoscenza dei nostri prodotti, espressione di una storia e tradizione unica. Ora, forti del riconoscimento del valore anche istituzionale della nostra progettualità, contiamo di impegnarci nel far apprezzare le nostre produzioni e le loro peculiarità, anche contrastando la diffusione di prodotti evocativi che in USA e Canada nulla hanno a che fare con l eccellenza agroalimentare italiana ed europea». «I prodotti agroalimentari europei sono i migliori al mondo », ha confermato il Commissario UE per l Agricoltura e lo sviluppo rurale Phil Hogan. «Con un mercato di esportazione di 110 miliardi di euro, il settore crea crescita e posti di lavoro nelle zone rurali in tutta l UE. È importante continuare a dare impulso a queste esportazioni». In Canada, in particolare, l Italia è il primo fornitore agroalimentare europeo del paese. Allo stesso tempo, l export agroalimentare negli Stati Uniti d America ha raggiunto, nel 2015, i 3,5 miliardi di euro con un +19,5% rispetto al 2014; una tendenza che prosegue anche nei primi otto mesi del 2016, con un +3% di crescita.

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Senza glutine Senza derivati del latte

SalumiďŹ cio Galli Remo s.r.l. Via Milano, 187 - 46019 Cogozzo di Viadana (MN) Tel. 0375 88249 - Fax 0375 790042 Sede produttiva: Via San Vitale 2 - 43038 Sala Baganza (PR) galli@galliremo.it

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STREET FOOD

Carni di strada di Giovanni Ballarini

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econdo la FAO, il cibo da strada è composto da alimenti pronti per il consumo, venduti, ma spesso anche preparati, in monoporzioni in strada o in luoghi pubblici come mercatini e fiere, anche da commercianti ambulanti, a volte su un banchetto provvisorio, furgoni o carretti ambulanti. In molti Paesi, come pure in Italia, la preparazione e la vendita avvengono anche in piccoli locali specializzati, quali pizzerie, paninoteche, bar e ora kebaberie. Il consumo di cibo per strada consente un’alimentazione informale, rapida e meno costosa rispetto ad esempio ad un ristorante e per questo motivo lo si preferisce. La FAO indica in ben due miliardi e mezzo il numero di persone che ogni giorno si nutrono in questo modo. Alcuni cibi da strada rientrano tra i finger food e il fast food,

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mentre in altri casi riguardano alimenti che, per lo scarso valore alimentare e culturale, sono classificati come junk food (letteralmente, cibo spazzatura). Il cibo di strada è legato al cibo da asporto (take away/take-out) e ad altri fenomeni di consumo informale di cibo come gli snack, gli spuntini e il pranzo al sacco. Per la dimensione economica e culturale del fenomeno, il cibo da strada ha e continua a suscitare un notevole interesse da parte di studiosi di alimentazione e di antropologia culturale, oltre che di organizzazioni nazionali e internazionali che si occupano di alimentazione e salute. Molti sono gli ingredienti che entrano nei cibi da strada: cereali, verdure e taluni tipi di carne. Di queste, soprattutto alcuni tagli vengono utilizzati in preparazioni con rilevanti aspetti culturali, legati anche al

territorio. In altri casi, invece, i cibi da strada con prodotti di carne non hanno un particolare legame culturale o con il territorio in cui vengono offerti, o, pur avendone posseduto uno in passato, non lo hanno conservato, perché andato oramai perduto a seguito della loro diffusione al di fuori delle zone di origine. Quest’ultimo è il caso dell’hamburger, del kebab e ora anche del pastrami. In alcuni casi, tuttavia, la diffusione al di fuori dei confini culturali originari, anche ampia, non ne ha cancellato la connotazione etnica e identitaria. Cibi di strada in un’Italia importatrice di carni L’Italia per il 30 o 50% secondo le specie è deficitaria di carne: buona parte del bovino, suino, ovino ed equino è infatti di importazione. Fanno eccezione le

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carni di pollo e di tacchino che sono prodotte in quantità sufficienti. La carne di maggior consumo è quella bovina e parte dei tagli che sono in commercio sono direttamente importati. In Italia si contano circa un milione e ottocentomila vacche da latte e circa cinquecentomila ogni anno a fine carriera lattifera sono inviate al macello. Questa carne, che era adatta a lunghe cotture di lessi e stracotti, oggi è in prevalenza trasformata in triti con diverse destinazioni, ma soprattutto hamburger. La carne suina fresca proviene in gran parte da allevamenti ubicati nel Nord Italia, ma la produzione è insufficiente per coprire le richieste. Nel nostro Paese esiste un importante allevamento ovino finalizzato prevalentemente alla produzione del latte e la carne è destinata soprattutto a consumi locali, per cui la maggior parte di questa carne è di importazione. Anche se il consumo di carne equina a livello nazionale è modesto, il 60% è di animali da macello di importazione. L’insufficiente produzione nazionale di carni, meno quelle avicole di cui siamo autosufficienti, impone di consumare ogni taglio e di ricuperare il loro uso e/o riuso anche secondo antiche pratiche. Di tutte le culture del passato, quando le carni non erano abbondanti, è proprio infatti l’uso o il riuso di carni che, pur sane e nutrienti, hanno un limitato valore gastronomico. Da qui una cucina degli avanzi e, soprattutto, lo sviluppo di preparazioni identitarie come cibi da strada o street food, che oggi vedono un successo nella globalizzazione alimentare. Su quest’ultima linea si pone anche l’uso nei cibi di strada di talune frattaglie, come il lampredotto (quarto stomaco di ruminanti) fiorentino o la milza equina palermitana (pani câ mèusa). Una cucina per ogni taglio In tutte le specie animali vi sono tagli carnei di pregio, come il filetto, ma anche altri tagli che hanno bisogno di essere usati in modo particolare, per esempio nelle cotture multiple che ne permettono anche una più o meno lunga conservazione e medievale è la sequenza della loro bollitura, poi arrostitura e infine frittura. Oggi per questi tagli di carne prevalgono i trattamenti di più o meno fine triturazione eseguita con diversi

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Il döner kebap, carne arrostita su uno spiedo verticale. La ricetta originale prevede carne di agnello. metodi e associata a diversi metodi di cottura, accettando anche tecniche elaborate da culture diverse dalla nostra. Alle nostrane e tradizionali polpette, in tempi relativamente recenti si sono affiancati gli hamburger americani, poi di recente dall’oriente è arrivato il kebap e ora timidamente inizia a comparire il pastrami d’origine europea orientale, ma di grande successo americano. Preparazioni adatte a un rapido uso fuori dalla tavola, soprattutto come panino e come cibo da strada. Vecchi e nuovi cibi da strada: polpette, hamburger, kebab e pastrami L’italianissima polpetta deriva il suo nome da polpa e cioè dalla parte miglior della carne che vuole imitare. Anti-

chissima è la sua storia e già ne parla MASTRO MARTINO DA COMO (seconda metà del 1400) e innumerevoli sono le sue varianti, e tra queste anche quelle che considerano l’uso di avanzi, soprattutto dei lessi usati per fare il brodo. Sulle polpette si sono esercitate le capacità inventive di intere generazioni di madri e nonne che hanno costruito una quasi infinita varietà differente per aromatizzazioni, condimenti e usi. Gli hamburger sembrano trarre il loro nome dalle preparazioni di carne tritata e congelata, poi cotta sulla griglia, che era il cibo destinato agli emigranti che, in terza classe, si imbarcavano sulle navi che partendo da Amburgo in Europa si dirigevano verso l’America. Una preparazione che si diffonde in tutto il continente americano perché di

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Il pastramă rumeno si presenta come carpaccio o come prosciutto e cioè in fettine molto sottili. Si abbina a varie salse e a verdure come cavolo e crauti.

Molti sono gli ingredienti che entrano nei cibi di strada: cereali, verdure e taluni tipi di carne. Alcuni tagli, poi, vengono utilizzati in preparazioni con rilevanti aspetti legati al territorio

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facile uso tra due fette di pane e che permette di usare parti di carni con limitato pregio e che, ben tritate, divengono adatte alla cottura della griglia. Per queste caratteristiche e dopo qualche diffidenza, inarrestabile è stato il loro successo in ogni parte del mondo, Italia compresa. Maggiori perplessità hanno prodotto e continuano a suscitare in Italia i kebab, che sono comparsi relativamente da poco e ora sono spesso presentati anche dalle pizzerie. Il kebab è tipico della cucina mediorientale, turca in particolare, ha un’alta qualità organolettica

e è di basso costo. La ricetta originale prevede l’utilizzo di carne di agnello arrostita su uno spiedo fatto ruotare vicino a una fonte di calore. La preparazione si è sviluppata usando anche altre carni e nella versione osservante musulmana non è presente la carne di maiale. La carne è affettata o macinata facendo dei coni tronchi che sono infilati nello spiedo per essere cotti; se lo spiedo è verticale si ha la variante oggi più diffusa denominata döner. Nel kebab sono impiegati i tagli di carne meno pregiata a livello gastronomico e per migliorarne l’appetibilità

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trale, soprattutto in Romania, anche se esistono versioni simili in Turchia, Israele e Siria. Di grande successo in America dove a metĂ dell’Ottocento sono emigrate le comunitĂ ebraiche europee, negli Stati Uniti e in Canada (dove è noto come viande fumĂŠe) il pastrami è carne di manzo, montone o tacchino (e anche di maiale) posta in salamoia, poi essiccata, condita con diverse spezie (aglio, coriandolo, pepe nero, paprica, chiodi di garofano) infine affumicata e cotta a vapore. Tagliata in fette sottili, la carne può essere associata a salse o verdure come cavolo o crauti e velocemente mangiata tra due fette di pane, spesso di segale.

si utilizzano diverse tecniche quali la marinatura e l’aggiunta di sale, spezie e additivi. Generalmente la parte superiore del cono è ricca di grasso in modo che durante la cottura scenda lungo le pareti impregnandole e mantenendo la carne piĂš gustosa. Man mano che la cottura procede, la parte esterna è tagliata con un coltello e utilizzata per farne dei panini. Complessa è l’origine del pastrami, che nasce per la necessitĂ di conservare la carne con salamoia, essiccazione e affumicatura, un metodo sviluppato dalle comunitĂ ebree dell’Europa cen-

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Futuro per la carne di strada Nel passato tutta l’Italia e poi il mondo intero hanno accolto con favore un cibo locale e quasi etnico come la pizza. In modo analogo il nostro Paese ha accettato l’hamburger, gratificandolo anche della denominazione di “svizzeraâ€? per il suo buon rapporto tra qualitĂ e prezzo. Il buon successo che sta iniziando ad avere il kebab fa presagire che lo stesso possa accadere per il pastrami, analogamente a quanto avvenuto in America, con un miglioramento nell’uso dei tagli carnei e quindi anche con un possibile miglioramento della nostra bilancia commerciale d’importazione delle carni. Non bisogna tuttavia dimenticare la sicurezza alimentare dei cibi da strada, uno degli aspetti sui quali l’Organizzazione Mondiale della SanitĂ (OMS) ha individuato i seguenti punti critici, indicando quanto segue: 1. i processi di preparazione devono essere adeguati a eliminare i rischi alimentari o a ridurli a livelli considerati accettabili; 2. i modi di preparazione devono prevenire la proliferazione di patogeni, lo sviluppo di tossine e non comportare rischi sul lavoro; 3. le condizioni di preparazione e confezionamento devono garantire che i cibi non siano suscettibili di contaminazioni successive. Prof. Em. Giovanni Ballarini UniversitĂ degli Studi di Parma Nota A pagina 52, dĂźrĂźm kebap con verdure.

Da sinistra: Carlo, Antonio, Giuseppe e Arturo Falcone nello stand aziendale durante il Cibus 2016.

Una storia aziendale importante nel cuore della Sila Da anni fornitore delle migliori catene della distribuzione moderna, il Centro Carni Sila dei Fratelli Falcone, propone una vasta gamma di prodotti suddivisi in quattro linee: r Sila&Sila r 5CNWOK FK %CNCDTKC &12 ( NNK (CNEQPG r /CEGNNGTKC (CNEQPG .KPGC 0CVWTC r 575 5WKPQ 0GTQ FGNNC 5KNC Gusto, bontà , genuinità sono il denominatore comune di prosciutti e salumi che soddisfano le esigenze alimentari di ogni consumatore. Dalla tradizione salumiera calabrese, da un territorio - quello silano - con l’aria piÚ pulita d’Europa, la naturale eccellenza per vivere il gusto con leggerezza.

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TURISMO ENOGASTRONOMICO Alla scoperta del Medio Sangro-Agnonese con l’azienda Rio Verde

Tartufi d Abruzzo di Massimiliano Rella

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iccolo tesoro nascosto da cercare e portare alla luce, e quindi in tavola, il tartufo è uno dei più misteriosi prodotti della terra, poco piacevole alla vista, ma apprezzato fin dall’olfatto. Ci sono luoghi, e in Italia non mancano, che sono ricchi di tartufi. Oltre alle regioni più conosciute come il Piemonte, le Marche, la Toscana e l’Umbria, altre

zone italiane presentano un ambiente naturale adatto a questo tubero. «Il Medio Sangro è il territorio con la più alta concentrazione di tartufi in Abruzzo» assicura VITTORIA MOSCA, titolare dell’azienda Rio Verde Tartufi di Borrello, in provincia di Chieti. «Qui troviamo il bianco pregiato Tuber magnatum pico tra ottobre e dicembre e il nero scorzone tra maggio e settem-

bre. Il nero cresce, ad esempio, sotto i cespugli di ginestre, il bianco pregiato nei pioppeti e nelle faggete». La signora Vittoria raccoglie tartufi insieme al marito per rivenderli freschi o conservati. Sono tutti prodotti naturali perché in questa zona non ci sono tartufaie in campi micorizzati, cioè coltivati con quella particolare tecnica che serve ad indurre la formazione di

Tartufo nero scorzone, azienda Rio Verde Tartufi di Borrello, Chieti.

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L’affettatura del tartufo nero scorzone.

I tartufi del Medio Sangro-Agnonese crescono spontaneamente in un territorio salubre e incontaminato, in terreni ricoperti di boschi. La ricerca si svolge nei campi liberi con l ausilio di lagotti romagnoli

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tartufi vicino alle radici delle piante e ad incrementarne la quantità. I tartufi del Medio Sangro-Agnonese crescono spontaneamente in un territorio salubre e incontaminato, in terreni ricoperti di boschi, vicino a una riserva naturalistica. E la mancanza d’inquinamento ambientale favorisce un’ottima qualità. La ricerca si svolge nei campi liberi con l’ausilio di cani lagotti romagnoli, indispensabili collaboratori per il loro speciale fiuto. Di piccola taglia e con la pelliccia riccia come i barboncini, sono considerati eccellenti cercatori dall’odorato infallibile per i tuberi ipogei. I tuberi freschi si puliscono mettendoli qualche

minuto in ammollo, spazzolandoli delicatamente sotto l’acqua corrente e asciugandoli con carta assorbente. In frigorifero dentro contenitori chiusi si mantengono solidi e profumati fino ad una decina di giorni. L’attività di raccolta e trasformazione di tartufi dell’azienda Rio Verde va avanti con successo dal 1992, oggi con ben 35 referenze presenti nelle gastronomie di tutta Italia e in ristoranti rinomati. Una parte dei tartufi è venduta a commercianti umbri, marchigiani e piemontesi. La produzione comprende diversi tipi di salse e creme di tartufo, come il tartufo lamellato all’extravergine d’oliva (€ 10,00 un barattoletto di 80 grammi), la crema di porcini con bianco pregiato e quella di zucca gialla e nero scorzone, ma anche le salse con funghi e con asparagi (€ 5,00 il barattoletto), ideali per condire primi piatti oppure da spalmare su tartine. Sono specialità con un’alta percentuale di materia prima, senza conservanti né addensanti, ottenuti con una produzione artigianale e il più naturale possibile. Con il tartufo fresco, così come con salse e condimenti si possono creare innumerevoli ricette. Qualche goloso suggerimento? Che ne dite del risotto con crema di asparagi e tartufo, oppure delle tagliatelle con salsa di tartufo bianco, salsiccia frantumata e scaglie di tartufo fresco? Ma anche una semplice frittata può trasformarsi in un piatto ricercato. Rio Verde produce anche miele, burro e formaggi al tartufo, polenta e riso aromatizzati. Artigianale anche la produzione di confetture di ciliegie selvatiche, mele cotogne, prugne selvatiche raccolte nelle campagne incolte intorno a Borrello, un borgo di appena 350 abitanti, a circa 800 m di altezza sul livello del mare, che include la Riserva naturale Cascate del rio Verde, un’area protetta con le cascate più alte dell’Appennino. Massimiliano Rella Rio Verde Tartufi Via Dante 57 – 66040 Borrello (CH) Telefono: 0872 945558 E-mail: info@rioverdetartufi.it Web: www.rioverdetartufi.it Nota Photo © Massimiliano Rella.

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Langhe, Monferrato e Roero: i paesaggi vitivinicoli UNESCO più stellati del mondo Distese collinari a perdita d occhio, antichi borghi e castelli arroccati, un susseguirsi di dolci pendii coltivati a vite i cui filari disegnano rigorose geometrie e, da oggi, nuove stelle che brillano nel firmamento gastronomico delle colline di Langhe, Monferrato e Roero. I ristoranti stellati della GUIDA MICHELIN lungo i paesaggi vitivinicoli UNESCO di questo territorio piemontese sono infatti diventati ventuno, con ventiquattro stelle complessive, rappresentando un grande valore per il territorio, in quanto essi stessi attrattiva e motivo di viaggio per visitatori e appassionati di enogastronomia da ogni parte del mondo. Complimenti a Fabrizio Ventura, titolare del Ristorante Relais La Madernassa di Guarene, e allo chef Michelangelo Mammoliti, giovane e determinato, la cui filosofia culinaria è incentrata sulla semplicità e sull equilibrio tra i sapori. A Flavio Costa, del Ristorante 21.9, giunto dalla ligure Albissola alla Tenuta Carretta, una delle più suggestive aziende vitivinicole alla sinistra del Tanaro, con annesso hotel di charme e ristorante. La tenuta, che si affaccia sulle colline e sui vigneti del Roero, è di proprietà della famiglia Miroglio, la cui scelta è stata quella di collaborare con uno chef ligure per creare una cucina ricca di contaminazioni terra‒mare, atta a valorizzare al meglio la produzione vinicola dei bianchi del Roero. Cherasco poi si illumina con la stella del ristorante Da Francesco che, in un nobile palazzo dall ambiente affascinante e ricco di storia, propone una cucina attenta alla ricerca di equilibrio tra tradizione e nuovi sapori, ideale per gli amanti della gastronomia piemontese così come per chi ricerchi piatti originali e rivisitati. Anche la Locanda del Pilone di Alba si riconferma astro del territorio con il nuovo chef Federico Gallo che, combinando prodotti tradizionali piemontesi e mediterranei, crea piatti straordinariamente ricchi di sapori e profumi. Lavorare bene, con umiltà e attenzione alla qualità, ambendo ad alti obiettivi, salvaguardando la bellezza delle colline e la cura degli ambienti e dell ospitalità, porta a grandi soddisfazioni: la più alta concentrazione di stelle in un paesaggio vitivinicolo UNESCO, unico al mondo, piccolo, ed estremamente luminoso!

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SAPORI DAL MONDO

Il “miracoloso” tè verde di Giorgia Fieni

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hissà perché, io me lo aspettavo proprio verde brillante, come lo stelo di un fiore… e invece, una volta comprato, era uguale all’altro. L’ho preso perché mi sono fatta convincere dagli studi che, fra il 2008 e il 2011, lo esaltavano come la panacea di tutti i mali: “diminuisce il rischio di cancro”, “combatte la depressione”, “tiene a bada i batteri responsabili della carie”, “contrasta le malattie auto-immuni”, scrivevano i ricercatori giapponesi, a cui si sono aggiunti quelli serbi e canadesi con “un cracker a base di farina di canapa e foglie di tè verde è adatto ai celiaci e diminuisce tutti i livelli di colesterolo”… E chi poteva resistere a un elisir tanto decantato? Nessuno, ovviamente, tant’è che è diventato anche l’ingrediente di parecchie ricette. In crema col cioccolato bianco per farcire biscotti al fondente 65%. Nei muffin con l’uvetta. Nel sugo

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dei fusilli con miele millefiori, lemongrass, limone, ricotta fresca di mucca, parmigiano. Nell’impasto dei gnocchi di patate. Per sfumare la cottura del coniglio, precedentemente marinato con yogurt, zafferano e succo di zenzero. Per insaporire una passatina di fagiolini. Nella panatura dell’orata al forno, servita con carota e porri glassati. Da versare nella ciotola ripiena di riso e salmone (è il chazuke giapponese) completando con alga nori, wasabi, salsa di soia. Nella marinatura (con amido di mais, sakè, sale, pepe bianco) e cottura dei gamberetti, presentati poi avvolti in foglie di porro sbollentate con teste di pesce (per ottenere una concentrazione dei sapori sottili, come l’ha definita FIAMMETTA FADDA). Per la cottura a vapore delle quaglie. La difficoltà, a questo punto, stava quindi nel decidere quale varietà scegliere, visto che la grande distribuzione ci offre un generico “tè verde” in cui

sta una miscellanea tra tutte quelle disponibili sul mercato. Io di solito faccio così: se è solo un ingrediente fra tanti mi accontento, se invece voglio che il suo sapore possa contraddistinguere e differenziare la mia ricetta mi faccio consigliare dagli esperti… Ed ecco che, comportandomi in tal modo, ottengo memorabili gelato, zabaione, plumcake, biscotti, yogurt, gelatina, crumble, granita e budino, che posso servire da soli o in abbinamento ad altre preparazioni. La mousse al tè verde per esempio all’interno di un millefoglie con lamine di cioccolato fondente o come farcitura di una torta paradiso, mentre lo zabaione nei bicchieri, su uno strato di biscotti secchi, completando con fragole fresche. In quanto a fantasia, però, nessuno batte chef ed esperti di settore. WICKY PRIYAN cucina un pagello fragolino scottato con consommé di olive di Gaeta, olio siciliano, tè verde giapponese e serve

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Petto d’anatra affumicato al tè verde, specialità della cucina vietnamita. Il tè verde si utilizza in cucina per molte preparazioni, sia dolci che salate (photo © Paul Brighton – Fotolia).

Molti anni fa, in Cina, il tè non era utilizzato solamente come bevanda, ma anche come alimento: le sue foglie intere, una volta infuse, venivano mangiate. Il gusto occidentale forse non apprezzerebbe questo tipo di utilizzo del tè in cucina: è per questo che la cosa migliore è utilizzarlo come complemento nelle preparazioni sia dolci che salate

Uno dei modi più semplici per utilizzarlo è inserire nelle preparazioni il tè già infuso: il liquido può essere usato per macerare gli alimenti, sfumare le pietanze, sciogliere ingredienti di una ricetta e, trasformato in sciroppo dolce, accompagna torte e gelati

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con tagliolini di zucchine e confit di pomodoro. LUCIANO MONOSILIO assembla tè verde, polvere di radici di liquirizia, crumble di pane di segale aromatizzato alla cannella, topinambur, crema di guanciale, zest di limone candito, germogli di daikon e completa con spray di alcol e grasso di guanciale. FRANCESCA GONZALES prepara un concentrato di tè verde zuccherato: in parte lo mescola a una crema di mascarpone e nel resto vi immerge i savoiardi, poi compone il tiramisù e lo completa con granella di pistacchi. CORRADO ASSENZA marina i gamberi nel miele allo zafferano e li serve su tartellette al tè verde con una pallina di gelato. Anche GIANFRANCO VISSANi crea una marinata: tè verde freddo, sale, pepe e rosmarino per l’orata, che cuoce poi in padella e serve con zuppa di lenticchie. TATIANA SHKONDINA, infine, non cucina ma fotografa: fettine di salmone, tè verde e riso a ricreare il monte Fuji di

Hokusai nella sua opera “Fine wind, clear morning”. Impariamo però innanzitutto ad apprezzare queste foglioline in tutta la loro semplicità: come infuso. All’orientale, versato sopra foglioline di menta fresca. Shakerato con gin, vodka, pompelmo rosa, confettura di petali di rosa. Con lime, zucchero liquido, fragole, ghiaccio, basilico. Nella sangria con uva rossa, pesche, chiodi di garofano, menta. Nel punch con scorza di limone, vino bianco secco, rum della Giamaica. Chissà se l’effetto positivo del tè è minimizzato o rafforzato dall’alcol… Giorgia Fieni Nota A pagina 62 foglie di tè verde. Per secoli il tè verde è stato consumato soprattutto in Asia, dal Giappone al Medio Oriente. Solo di recente ha trovato la sua diffusione in Occidente, dove per tradizione si consuma per lo più tè nero (photo © uckyo – Fotolia).

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Le uova dei cent anni È la calce il segreto per la preparazione di questo prodotto tradizionale cinese, che lascia un po’ perplessi per quanto riguarda il risultato estetico e olfattivo… Ma anche nelle nostre campagne un tempo si impiegava l’acqua di calce con ottimi risultati di Nunzia Manicardi

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engono dette uova dei cent’anni — o anche “uova centenarie” o “uova millenarie” — non a causa della loro età effettiva perché, anche in Cina, cent’anni sarebbero davvero troppi per mantenere un uovo commestibile. Il motivo va invece ricercato nel particolare tipo di fermentazione che permette di conservarle tanto a lungo che si adotta appunto questa definizione. In cinese si scrive 皮蛋 e pídàn in pinyin (il pinyin è un sistema di romanizzazione, cioè una trascrizione in caratteri latini che include una notazione fonetica).

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L’uovo centenario fu, secondo la leggenda, scoperto per caso in Cina nella regione dell’Hunan circa 600 anni fa, sotto la dinastia Ming, dal proprietario di un’abitazione che aveva trovato delle uova di anatra rimaste a bagno in una vasca di calce utilizzata durante la costruzione della sua casa due mesi prima. Provò ad assaggiarle e, trovando il sapore molto piacevole, cominciò a produrle e a commercializzarle. Questo dice la leggenda. In ogni caso il pídàn è certamente un piatto antico ed è oggi ampiamente diffuso in Cina e nel Sud Est asiatico (Taiwan, Laos, Tailandia, ecc…).

Albume marrone scuro, tuorlo grigio-verde tendente al nero… Questo tradizionale metodo di mantenimento delle uova, che permette di conservarle per mesi, è una specialità, e anche molto rinomata, della cucina cinese. Diciamo subito che il risultato estetico per noi occidentali è invece quasi ripugnante, perché l’albume si trasforma in una massa gelatinosa marrone scuro, mentre il tuorlo assume una consistenza cremosa di color grigioverde scuro tendente al nero. Insomma, non è proprio quello che si dice un bel vedere, soprattutto se poi si pensa di mangiarle.

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Considerate una prelibatezza in Cina, queste uova possono essere d’anatra, quaglia o gallina (photo © www.mariespastiche.com). L’effetto complessivo è, se possibile, reso peggiore dal pungente odore di zolfo e ammoniaca che emana da questa singolare preparazione culinaria. In realtà non dovremmo meravigliarci più di tanto perché il metodo di conservazione dei cibi tramite fermentazione è antichissimo, almeno tanto quanto la salamoia e l’essiccazione, non esistendo un tempo i frigoriferi. Ma, ripetiamo, qui è il risultato estetico e olfattivo che può lasciarci sconcertati… Basta guardare qualche fotografia per convincersene facilmente. Tuttavia, il prodotto ha i suoi estimatori anche fra gli occidentali e, come vedremo, a livello di gusto riserva apprezzabili sorprese. Calce, sale marino, tè e cenere di quercia Le uova utilizzate sono preferibilmente di anatra, ma possono essere anche di gallina o di quaglia. La ricetta tradizionale prevede l’aggiunta di calce viva, creta, cenere e sale a un’infusione di tè bollente. Le dosi sono: 1 chilo e mezzo di tè, 3 chili di ossido di calcio, 9 chili di sale marino e 7 chili di cenere di quercia. Il tutto è mescolato fino ad ottenere una pasta liscia che viene

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spalmata sulle uova, le quali sono poi fatte rotolare in un contenitore pieno di foglie e di semi di riso per non farle attaccare l’una all’altra. Successivamente le uova vengono sistemate all’interno di ceste strettamente intrecciate o di vasi ricoperti di stoffa o di barili anch’essi coperti dove sono lasciate a fermentare per un periodo che va da dieci giorni circa a qualche mese. Il fango si asciuga lentamente e si indurisce in una crosta e, al momento giusto, le uova sono pronte per il consumo. L’agente che consente il processo chimico che le fa fermentare è un sale alcalino che aumenta progressivamente il loro pH durante il processo di polimerizzazione. Il guscio, nel frattempo, viene dissolto dalla soluzione salina. Talvolta sulla superficie dell’uovo si formano dei piccoli e innocui funghi che assomigliano ai fiocchi di neve o agli aghi delle conifere e che conferiscono un aspetto prezioso, artistico, tanto che l’uovo, in ambiente cinese, viene allora definito “uovo dai disegni di pino”. Emanano un cattivo odore, ma… non è urina di cavallo! L’odore del prodotto finito, così forte e pungente (di zolfo e ammoniaca), deriva

dalla presenza di solfuro di idrogeno e ammoniaca. Poiché è simile a quello dell’urina si era sparsa la diceria, oggi smentita, che le uova venissero conservate nell’urina di cavallo. Ma ciò è impossibile perché il pH dell’urina di cavallo non consentirebbe di ottenere il risultato voluto. In lingua thai e lao, comunque, la parola comune per designare l’uovo centenario rimane quella, antichissima, che significa “cavallo urina uovo”. L’importanza della calce Informazioni più precise le abbiamo sorprendentemente trovate nel sito www.forumcalce.it, perché è proprio grazie alla calce che l’uovo può diventare “centenario”. Nel corso dei mesi di riposo, infatti, quando la calce si rapprende e forma una dura crosta, si formano dei “bozzoli” entro i quali avviene la trasformazione: la calce (alcalina) utilizzata comincia ad innalzare il pH dell’uovo, spezzando così alcune catene di grassi e proteine. Il bianco dell’uovo diviene trasparente e gelatinoso, mentre il tuorlo assume il caratteristico colorito grigioverde molto scuro. Recentemente è stata fatta un’importante scoperta scientifica grazie a studi

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compiuti presso l’Università di Cambridge. Questi studi hanno avuto come oggetto l’effetto della calce (ambiente alcalino) sulle proteine negli albumi, che si modificano durante questo processo di conservazione. È stato dimostrato che questa trasformazione è causata da cambiamenti nel modo in cui le proteine, precisamente l’ovoalbumina, sono tenute insieme. «Se abbiamo capito il meccanismo che spinge l’aggregazione proteica, allora si potrebbe rallentarla o impedirla», sostengono i ricercatori, e ciò potrebbe essere importante nella prevenzione delle malattie causate da innaturale aggregazione di proteine, come ad esempio l’Alzheimer. L’impiego nella cucina tradizionale Se l’odore non è di ostacolo, ci si può accostare a questa che è considerata una prelibatezza della cucina cinese con curiosità e rispetto. L’albume gelatinoso non ha un sapore preciso, ma il tuorlo verde scuro — cremoso e dal gusto pungente — ricorda quello di alcuni formaggi stagionati o del gorgonzola. Servito da solo o come antipasto singolo o come contorno, condito in vari modi, questo piatto esotico garantisce un’esperienza unica anche per i palati più esigenti. Come antipasto le uova centenarie possono essere avvolte in fette di radice di zenzero in salamoia (uso cantonese) e così talvolta vengono offerte, infilate su un bastone, anche come cibo di strada. Una ricetta di Shanghai mescola uova tritate con tofu fresco. A Taiwan è popolare mangiare uova affettate adagiate su tofu freddo con katsuobushi (un insaporitore ottenuto grattugiando in piccoli fiocchi filetti di

L uovo centenario è una prelibatezza assolutamente unica. Il tuorlo verde è la vera delizia: cremoso e dal gusto pungente, ricorda alcuni formaggi stagionati o il gorgonzola

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Le uova centenarie si conservano a lungo anche in modo naturale (photo © www.bbc.com). tonnetto striato essiccato, fermentato e affumicato), salsa di soia e olio di sesamo, in uno stile simile all’Hiyayakko giapponese. Una variante di questa ricetta comune nel nord della Cina è quella di unire alle uova affettate tofu e zenzero e cipollotti tritati, il tutto ricoperto da salsa leggera di soia e olio di sesamo. Le uova centenarie sono anche protagoniste di una frittata tipica in cui vengono mescolate alle uova fresche. Possono inoltre essere tagliate a pezzi e fritte con verdure, come è uso nella cucina taiwanese. Alcune famiglie cinesi le tagliano in piccoli pezzi e le cuociono con riso e carne magra di maiale. Sofisticazione e adulterazione I tempi moderni, caratterizzati dalla fretta nell’ottenere il risultato e dalla ricerca del maggior profitto a tutti i costi, hanno portato a molte semplificazioni della ricetta e, purtroppo, anche all’adozione di numerose tecniche di sofisticazione e adulterazione. Se il metodo tradizionale è ancora largamente praticato, la chimica moderna avrebbe insegnato che, immergendo uova crude in una soluzione di sale da cucina, idrossido di calcio e carbonato di sodio per 10 giorni, seguiti da diverse settimane di invecchiamento tenendole avvolte nella plastica, darebbe lo stesso risultato.

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Questo perché la reazione necessaria per produrre le uova centenarie viene realizzata introducendo nell’uovo ioni di idrossido e sodio, e questo indipendentemente dal metodo utilizzato. Le tecniche di sofisticazione e adulterazione, invece, hanno comportato gravi rischi per la salute umana in quanto per accelerare il processo di fermentazione e migliorare (apparentemente) la qualità del prodotto (maggiore trasparenza, consistenza più liscia, riduzione dell’odore) alcune piccole fabbriche hanno utilizzato perfino piombo, arsenico, cadmio… È stata una pratica senza scrupoli dilagante in Cina che ha costretto molti produttori locali, e anche di Taiwan e di Hong Kong, a etichettare le loro scatole dopo lo scandalo che ha portato alla luce queste frodi e che ha raggiunto il culmine nel 2013. Il governo cinese successivamente ha cercato di regolamentare gli additivi alimentari e di concedere il diritto di licenza soltanto agli stabilimenti rispettosi delle pratiche corrette. Uova e calce nella cultura tradizionale italiana Le uova centenarie si conservano a lungo anche in modo naturale. L’uovo fresco di pollaio, se posto subito in frigorifero, può essere bevuto crudo pure dopo un mese. In ogni caso nel frigorifero

le uova si conservano per parecchio tempo. Vanno sistemate negli appositi contenitori, avendo l’avvertenza di metterle in posizione verticale e con la parte più piccola rivolta verso il basso per non comprimere la camera d’aria situata nella parte più grossa del guscio. Quando invece non esistevano ancora i frigoriferi venivano conservate deponendole nella sabbia, nella crusca, nella paglia, nella segatura, nel grano, nel riso, nella cenere della legna. In questo modo si conservavano però al massimo per qualche settimana. Se invece si voleva conservarle più a lungo, fino anche a 9 mesi, ecco allora che — pure in Italia — bisognava ricorrere alla calce. Si preparava l’acqua di calce (quattro parti di acqua e una parte di calce viva), la si lasciava riposare per 24 ore e poi si immergevano le uova avendo cura che fossero sempre ricoperte. Una volta estratte dovevano essere lavate con acqua, ma senza strofinarle. In cucina gli utilizzi successivi erano però limitati poiché l’albume non poteva essere montato a neve né poteva l’uovo essere immerso nell’acqua bollente perché si frantumava. Nunzia Manicardi Nota A pagina 64 uova dei cent’anni aperte.

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


LOCALI DI GUSTO

Albufera, storia d amore e di tapas a Milano

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I

n arabo albufera vuol dire “piccolo mare” e in spagnolo “laguna”. La Albufera è il lago più grande di Spagna e una delle zone umide più importanti della penisola iberica. Si tratta di un luogo di grande interesse ecologico, in cui svernano specie uniche di uccelli acquatici. Le sue ricche acque salmastre sono servite tradizionalmente da sostentamento ai pescatori e ai coltivatori di riso, dando origine al piatto tradizionale, la paella. Qui viene prodotto un riso unico al mondo, l’albufera, che è l’ingrediente segreto per la paella perfetta. Ed è proprio qui che Alice ha chiesto a Mateus di seguirla in Italia. Sì perché Albufera, nuovo ristorante

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spagnolo di Milano, è sì un luogo, ma anche una storia d’amore, non solo per il cibo. ALICE PAGLIA e MATEUS ÁVILA LOBO COELHO sono una coppia nella vita e nel lavoro, entusiasta e appassionata, che ha deciso di scommettere su un progetto e su un sogno. Varcando la soglia del loro locale non si può che essere contagiati dalla loro passione: in sala Alice guida gli ospiti alla scoperta dei sapori spagnoli e Mateus li sorprende con i suoi piatti. Un connubio perfetto tra sala e cucina. Lo chef Mateus è di origine brasiliana, ha vissuto a Valencia qualche anno, dove ha prima studiato alla scuola alberghiera e del turismo e poi ha avuto

modo di imparare i segreti della cucina spagnola, ricevendo preziosi insegnamenti dalle signore anziane del luogo. Il menù è stagionale ma ogni giorno ci sono delle tapas del dia in base all’offerta del mercato: dai peperoni pimientos de padrón, piccoli peperoni verdi fritti che a sorpresa sono piccanti o dolci, ai salumi o formaggi. Tutto è rigorosamente preparato al momento ed è questo che contraddistingue il locale dalle tipiche “taperie”. Si possono trovare molte tapas, dalle più classiche e conosciute (gazpacho, patanegra, tortilla de patatas e acciughe del Cantabrico) a quelle più particolari (morcilla y pistacho, garbanzos con pisto, picanha e

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Albufera è… un ambiente accogliente dove sentirsi a casa, un menu stagionale in cui tutto è rigorosamente preparato al momento, una ricca proposta di tapas e paellas, una proposta giovane e creativa. Da provare!

vinagret). Una ricca proposta di paellas: dalla tradizionale paella valenciana alle paellas de mariscos (con i frutti di mare), a quella con il baccalà e alla vegetariana. Per finire un selezione di dolci tra cui le bombas de churros al dulce de leche. La proposta dei vini è incentrata su etichette spagnole; naturalmente, non mancano una selezione di birre spagnole e la sangria. Albufera tapas y paellas Via Lecco 15 20124 Milano Telefono: 02 366 86 993 E-mail: info@albufera.it Web: www.albufera.it

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A Parma un’enoteca-osteria dove rifugiarsi, bere e trovare ristoro

L’allegra brigata del Tabarro e la bellezza delle osterie di Gaia Borghi

«P

iuttosto che parlare di me preferisco far parlare le bottiglie» mi dice DIEGO SORBA quando lo incontro a Parma nel suo locale, il Tabarro, “posto di ristoro con mescita e dispensa” nella centralissima Strada Farini. Trentasei metri quadrati in cui si muove una brigata compatta e appassionata formata da cinque persone, capitano compreso. Diego lo ha aperto nel 2005 — quindi ha da poco festeggiato i 10 anni —, curando ogni dettaglio, fino al più piccolo adesivo o cartolina appoggiata sui ripiani stracolmi di libri, oggetti, sculture, vini, e scegliendo appositamente un nome ottocentesco, evocativo, “di cose vissute e sognate”, col desiderio di far rivivere le osterie di un tempo. Le osterie cantate da Guccini, quelle che oggi è diventato così difficile trovare, ma non impossibile. «Io per primo vado a caccia di osti» racconta. «Per me l’osteria è quel luogo anarchico dove possono stare persone di tutte le età, dove convivono tutti gli strati sociali, dove torna a risuonare la “parola”. Come la strada». In questo luogo quasi mitico l’oste è colui che conferisce la personalità al locale, che gestisce la sala, restituendo ai suoi clienti un senso di casa, di ospitalità vera e profonda, uno spirito che sembra essersi perduto nella memoria. «Hai presente l’oste del presepe? Ecco, quella statuina lì incarna un mestiere che insieme a tanti altri sta via via scomparendo. Con l’apertura del Tabarro volevo saldare il mio debito con gli osti che ho conosciuto e con le loro osterie che ho avuto la fortuna di vedere, frequentare e vivere, arricchendone l’identità con quella tipica atmosfera che si può trovare in un pub irlandese».

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Un’atmosfera che Diego conosce molto bene, avendo vissuto — al termine degli studi universitari in lingue — per qualche anno nella città di Galway, «dove mi sono ritrovato a lavorare in una formaggeria». Ma l’amore per il cibo e il vino, il buon bere e il buon mangiare era già presente in lui, nelle radici famigliari emiliane, parmigiane nello specifico, le stesse che danno agli abitanti di queste zone la consapevolezza che il bancone e i tavoli di un’osteria rappresentano qualcosa di più di un locale, che qui si parla di cultura millenaria, di identità territoriale, di passione. E proprio sulla spinta delle passioni Diego, in qualità di oste, viaggia in Italia e all’estero alla ricerca di produttori con i quali condivide filosofia e principi del fare, selezionando personalmente i vini così come i salumi, i formaggi e tutto quanto si legge in menu al Tabarro. Se il vino ha certamente il ruolo da protagonista, l’osteria, che non ha una cucina vera e propria, offre infatti comunque «qualcosa da sgranocchiare». Quel “qualcosa” sono le classiche tartine con il caval pist, i formaggi a latte crudo, le specialità affumicate dell’Atlantico con i burri aromatizzati di Normandia, la carne di razza Piemontese e i taglieri con i salumi artigianali del Parmense: strolghino, lardo, salame Felino, prosciutto cotto, cicciolata e, naturalmente, prosciutto crudo. Stagionatura minima 32 mesi, tagliato rigorosamente a coltello. «Il taglio a mano per me è IL taglio» dice Diego. «La sola alternativa potrebbe essere una Berkel a volano, perfetta per questa operazione». Un vino del territorio rifermentato in bottiglia completerà questo assaggio, a soddisfare sensi, spirito e genius loci.

Diego Sorba dietro al banco del Tabarro.

Ma com è bello il vino, bianco, bianco, bianco, rosso è il mattino, sento male a un fianco. Vita, vita, vita, sera dopo sera, fuggi tra le dita, spera, Mira, spera. Piero Ciampi Il Vino (1971)

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ASSEMBLEE

Le abitudini alimentari dei giovani nati tra gli anni ‘80 e gli anni 2000 evidenziano come il rapporto con il cibo stia vivendo l’ennesimo cambiamento. Il dato più significativo è forse nella riduzione del consumo di carne e l’aumentata sensibilità nella scelta di che cosa portare in tavola (photo © www.foodandwine.com).

Minacce e opportunità del settore secondo Nielsen e Rabobank

Comunicare, la strategia di Nicola Levoni e di ASS.I.CA.

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i è tenuta lo scorso 22 novembre, presso Rho Fiera Milano, l’assemblea straordinaria di ASS.I.CA. Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi aderente a CONFINDUSTRIA, che rappresenta

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circa 180 aziende del settore della salumeria italiana. Straordinaria perché solitamente l’associazione si riunisce a giugno, momento in cui presenta i dati del settore. Ma l’esigenza di nominare — come richiesto dal nuovo statuto di

Confindustria — i componenti dei nuovi organi associativi, il Consiglio generale e gli organi di controllo, ha richiesto un incontro “supplementare”. È stato comunque un momento importante e di confronto. Il presidente di ASS.I.CA.,

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«Dobbiamo comunicare a tutto tondo i valori delle nostre aziende e dei nostri prodotti a tutti i consumatori, che oggi più che mai sono attenti al mondo dell alimentazione» ha dichiarato Nicola Levoni. «In particolare dobbiamo riuscire ad arrivare a un dialogo costruttivo con i Millennials, che oggi hanno un ruolo chiave nel guidare il mercato e che verso il consumo dei prodotti carnei sono i più critici»

NICOLA LEVONI, alla luce di un anno difficile che si è contraddistinto da continui attacchi al settore, soprattutto sul fronte mediatico, ha illustrato gli obiettivi di comunicazione del comparto. «Dobbiamo comunicare a tutto tondo i valori delle nostre aziende e dei nostri prodotti a tutti i consumatori, che oggi più che mai sono attenti al mondo dell’alimentazione. In particolare dobbiamo riuscire ad arrivare a un dialogo costruttivo con i Millennials, che oggi hanno un ruolo chiave nel guidare il mercato e che verso il consumo dei prodotti carnei sono i più critici. Nati tra il 1980 e il 2000, i Millennials sono la generazione globale con la passione per il locale, hanno un ruolo attivo nell’acquisto dei prodotti, sono poco influenzati dalla pubblicità e utilizzano molto internet (tramite mobile) anche per informarsi», ha affermato Levoni. «Abbiamo bisogno di farci conoscere di più e meglio. Rappresentiamo un settore apprezzato e imitato in tutto il mondo. Non lo diciamo noi ma i dati export, che ogni anno ci regalano soddisfazioni. I primi sei mesi del 2016, infatti, hanno segnato un +7,6% in quantità e un +5,2% in valore», ha concluso il presidente Levoni. I consumi delle carni in Italia e nel mondo All’assemblea hanno trovato spazio le analisi di due autorevoli istituti, Rabobank International e Nielsen. Come sono cambiate le abitudini alimentari a livello globale JUSTIN SHERRARD, global strategist animal protein di Rabobank International, nel suo intervento, oltre a presentare lo scenario economico internazionale, ha analizzato il consumatore mondiale. Sherrard ha evidenziato che il mercato

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è cambiato: il consumo pro capite della carne e dei salumi è sotto pressione e nel prossimo futuro dovremmo aspettarci ancora un ulteriore cambiamento. Il consumo di proteine in Europa è rimasto pressoché stabile dal 2005 al 2016, anche se approfondendo l’analisi sul consumo pro capite (2011-2016), in alcuni Paesi europei si notano differenze evidenti, come ad esempio la Spagna, la Danimarca e la Germania, che consumano di più della media europea, mentre l’Italia e la Francia stanno appena sotto la media. Le abitudini alimentari sono cambiate anche per il consumatore americano, che per tradizione consuma molta più carne: in otto anni (20092016) è diminuito l’inserimento della carne nell’alimentazione settimanale da 4,1 cene a 3,7 cene a settimana. Ma come affrontare questa evidente diminuzione di consumo di carne? Rabobank International ha identificato per il settore delle opportunità che si possono distinguere in quattro opportunità. Prima, comprendere come è cambiata la domanda di acquisto. Seconda, coinvolgere i consumatori in tutti gli anelli della produzione. Terza, migliorare i processi produttivi dell’intera filiera in modo da assicurarsi di averne il controllo. Quarta opportunità, proseguire con successo nell’export cercando di aumentare i Paesi di destinazione. Consumi di carni e salumi in Italia GIOVANNI FANTASIA, AD di Nielsen Italia, ha esposto un quadro relativo allo stato dei consumi di carni e salumi in Italia e l’identikit del consumatore italiano. Dalla relazione di Nielsen si è evinto come i consumatori oggi cerchino prodotti sani (34%), green (28%) e con elevato contenuto di servizio (34%).

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L’assemblea straordinaria di ASS.I.CA. si è tenuta lo scorso 22 novembre, presso Rho Fiera Milano: un momento importante e di confronto, per i protagonisti di un settore cruciale per l’economia del nostro Paese. Caratteristiche che poi vengono premiate all’acquisto dove, per esempio, i secondi piatti pronti hanno +43% o i salumi +8%. Più in generale, ha spiegato Fantasia, «se dovessimo fare un identikit del consumatore si potrebbe affermare che è più consapevole e attento a stili alimentari salutari, desideroso di conoscere il “dietro le quinte” dei prodotti, compresi i sistemi di allevamento e il benessere animale. Per informarsi privilegia le fonti ufficiali, come il parere del nutrizionista o del

medico specializzato. Verso di lui gioca un ruolo chiave la comunicazione». Il Piano di comunicazione carni e salumi del MiPAAF LUCA BIANCHI, capo Dipartimento delle politiche competitive e della qualità del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, ha illustrato i contenuti del Piano di comunicazione istituzionale per il comparto carni e salumi del MiPAAF. Bianchi ha sottolineato che l’obiettivo primario del Piano di co-

municazione istituzionale è il recupero della fiducia del consumatore verso il consumo dei prodotti carnei. Anticipazioni su Tuttofood CORRADO PERABONI, AD di Fiera Milano, ha poi fornito qualche anticipazione su Tuttofood, la fiera dedicata all’alimentazione in programma a maggio, della quale ASS.I.CA. è partner da tre edizioni. In particolare ha annunciato che ci saranno una serie di eventi in città durante l’evento il cui nome è ancora top secret.

ASS.I.CA.Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi è l organizzazione nazionale di categoria che, nell ambito della CONFINDUSTRIA, rappresenta le imprese di macellazione e trasformazione delle carni suine. Nel quadro delle proprie finalità istituzionali, l attività di ASS.I.CA. copre diversi ambiti, tra cui la definizione di una politica economica settoriale, l informazione e il servizio di assistenza ai circa 180 associati in campo economico-commerciale, sanitario, tecnico-normativo, legale e sindacale. Competenza, attitudine collaborativa e affidabilità professionale sono garantite da collaboratori specializzati e supportate dalla partecipazione a diverse organizzazioni associative, a livello sia nazionale che comunitario. Infatti, sin dalla sua costituzione, nel 1946, ASS.I.CA. si è sempre contraddistinta per il forte spirito associativo, come testimonia la sua qualità di socio di CONFINDUSTRIA, a cui ha voluto aderire sin dalla nascita, di FEDERALIMENTARE, Federazione italiana delle Industrie Alimentari, di cui è socio fondatore, del CLITRAVI, Federazione europea che raggruppa le associazioni nazionali delle industrie di trasformazione della carne, che ha contribuito a fondare nel 1957. >> Link: www.assica.it

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RASSEGNE Tutti in piazza a Castelnuovo per lo zampone più grande del mondo

840 chili di Superzampone

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d è stata di nuovo grande festa. Per la 28a edizione del Superzampone, migliaia di persone hanno infatti invaso il centro di Castelnuovo Rangone, la cittadina in provincia di Modena che il “maiale” lo ha messo in piazza, con una scultura che celebra questo animale fin dal passato al centro dell’economia del territorio, oltre che protagonista indiscusso della sua ricca cucina. Quest’anno il maxi insaccato, preparato

come sempre con grande professionalità e passione dai rappresentanti dell’Ordine dei Maestri Salumieri Modenesi, ha raggiunto il considerevole peso di 840 chili. Ospite d’onore GIANFRANCO VISSANI, mentre madrina della giornata è stata l’attrice SANDRA MILO. L’onore del taglio della prima fetta di questo gigante buono — allo scoccare del mezzogiorno come da protocollo ufficiale — è spettato a LUISA FALCHI VECCHI, imprenditrice nonché presidente dell’Ordine dei

Maestri Salumieri, e allo chef umbro, investito anche da quello del primo assaggio. «Semplicemente squisito» è stato il verdetto. Il Superzampone è stato distribuito gratuitamente grazie al lavoro di numerosi volontari che ogni anno rendono unica questa bellissima festa insieme a 150 chili di pane e 8 quintali di fagioloni. Uno speciale zampone mignon L’edizione 2016 del Superzampone

1) Stefano Bortolamasi con i rappresentanti dell’Ordine dei Maestri Salumieri Modenesi, il sindaco di Castelnuovo Rangone Carlo Bruzzi e altre autorità e rappresentanti di istituzioni del territorio. 2) Paolo Ferrari, presidente Consorzio Zampone Modena Cotechino Modena. 3) Il taglio del Superzampone da parte di Luisa Falchi Vecchi e Gianfranco Vissani. Erano migliaia le persone radunatesi nella piazza di Castelnuovo per la tradizionale sagra che celebra lo zampone. Ogni anno si fa a gara per cucinarne uno talmente grande da richiedere una piccola gru per sollevarlo e cucinarlo: quest’anno pesava 840 chili. 4) Gianfranco Vissani con Vincenzo Franceschini e il figlio.

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1) Andrea Barbi, Gianfranco Vissani, Santino Levoni, Silvio Larossa e Luisa Falchi Vecchi. 2) L’attrice Sandra Milo con Tiziano e Marcello Parmeggiani. ha presentato infine alcune piacevoli novità, come l’anteprima speciale dedicata ai “Maestri Salumieri di domani”, con il taglio del Minizampone da parte dei bambini di alcune classi elementari della zona che hanno partecipato al

progetto didattico “Per mangiarti meglio”. «Il senso della nostra iniziativa — ha rimarcato dal palco il sindaco di Castelnuovo Rangone, CARLO BRUZZI — è proprio questo: raccontare, attraverso un prodotto e un’industria che hanno

creato un tessuto economico ricco e significativo, i valori della nostra terra. E provare a trasmettere questi valori alle generazioni più giovani». >> Link: zampone.com

Nel nome di Gino Luciana Sandoni coi figli Vincenzo e Adele, la nuora e il nipote: erano tutti insieme a Castelnuovo Rangone per ricordare il marito-padre-nonno Gino Franceschini, scomparso lo scorso giugno al termine di una lunga malattia e sempre presente alla grande festa dedicata al Superzampone. L imprenditore spilambertese, fondatore e titolare dell omonimo salumificio Gino Franceschini & C., fonte di lavoro per tante famiglie di tutto il comprensorio, era infatti uno storico membro dell Ordine dei Maestri Salumieri Modenesi, creatori dell evento. «Restiamo uniti e portiamo avanti l attività di nostro padre Gino mantenendoci ben saldi ai valori che ci ha trasmesso, nel lavoro come nella vita» ci dicono Vincenzo e Adele. «Per quello che concerne la nostra professione questo significa innanzitutto il rispetto delle tradizioni nella preparazione degli insaccati e dei salumi tipici modenesi che proponiamo e l utilizzo di carne proveniente da suini pesanti nati, allevati e macellati in Italia». Nessun ingrediente che rientri nella lista degli allergeni viene adoperato e tutte le fasi di produzione vengono scrupolosamente controllate per evitare eventuali contaminazioni. I salami sono insaccati principalmente in budelli naturali o comunque edibili. Le legature, se necessarie, vengono tutte eseguite a mano e la stagionatura avviene con metodo tradizionale. «Il nostro obiettivo, come ci ha insegnato e voleva Gino, è quello di tener vivi gli antichi sapori anche per le nuove generazioni».

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Forma e sostanza: il cotechino Modena Igp vince con la mela dei Sibillini «Vince un piatto straordinario contenuto in una forma meravigliosa: una mela. Basta questa mela a raccontare tutto il territorio. La presenza dei germogli delle lenticchie di Castelluccio poi mi ha colpito il cuore. Quei germogli rappresentano la speranza di rinascita di un territorio colpito gravemente dal terremoto». Queste le parole di Massimo Bottura nel decretare la ricetta vincitrice dell edizione 2016 del Concorso promosso dal Consorzio Zampone Modena Cotechino Modena e riservato ai ragazzi delle scuole e degli istituti alberghieri in occasione del- I vincitori Arianna Olivieri e Leonardo Piunti dell’IPSSAR Buscemi la sesta edizione della Festa del Consorzio di San Benedetto del Tronto con Massimo Bottura, Andrea Barbi, Zampone Modena Cotechino Modena. La mela Davide Di Fabio e Paolo Ferrari. rozza dei Sibillini con cotechino Modena Igp in porchetta e anice verde di Castignano dell IPSSAR Buscemi di San Benedetto del Tronto ha trionfato sulle dieci ricette finaliste, colpendo fin dal primo assaggio la giuria, composta, tra gli altri, dallo chef modenese, dal suo sous chef Davide Di Fabio e da Paolo Ferrari, presidente del Consorzio. Il secondo posto è stato conquistato dall IPSSART G. De Carolis di Spoleto con il Cotechino Modena Igp ai sapori della Valnerina mentre al terzo si è piazzata la Scuola alberghiera di Serramazzoni di Modena, con il Cheesecake allo Zampone Modena Igp con composta di cipolla rossa e Cotechino Modena . Una menzione speciale è andata alla Scuola Luigi Einaudi di Canosa di Puglia, con lo Zamburger . «La nostra ricetta è stata pensata con tutti prodotti delle zone terremotate, dalla mela rozza dei monti Sibillini all anice verde di Castignano fino alle lenticchie di Castelluccio» hanno dichiarato emozionati i vincitori Arianna Olivieri e Leonardo Piunti, accompagnati a Modena dalla professoressa Tiziana Ficcadenti. «Quando abbiamo creato la ricetta era primavera, prima del terremoto. Ora per esempio delle lenticchie abbiamo potuto rappresentare solo il germoglio perché Castelluccio è distrutta. Che il nostro primo posto sia per queste zone un messaggio positivo di speranza». Le scuole che hanno partecipato a questa terza edizione del Concorso si sono cimentate in una sfida davvero originale: creare ricette a base di Zampone Modena Igp e Cotechino Modena Igp ispirate alle quattro stagioni. Ricette con prodotti stagionali per un ritorno alla tradizione e ai costumi di una volta, di quando in tavola si portavano solo piatti di stagione e si rispettavano i cicli naturali con i suoi frutti e le sue condizioni climatiche. Il Cotechino Modena sfreccia ad alta velocità Protagonista indiscusso delle tavole festive degli Italiani, dall 8 dicembre al 6 gennaio anche tutti i treni Frecciarossa di Trenitalia hanno ospitato a bordo il Cotechino Modena Igp, proposto all interno di ricette ideate ad hoc per i passeggeri Executive, i clienti del Ristorante e del Bistrò dei Frecciarossa. Un esempio? La Torta salata di patate con Cotechino Modena Igp , un piatto tradizionale rivisitato in chiave moderna. Tutti i clienti che hanno scelto un piatto a base di cotechino a bordo treno hanno ricevuto come omaggio un ricettario del Consorzio tascabile con ricette e curiosità sul prodotto. «Con questa iniziativa il Consorzio intende migliorare la qualità dei pasti fuori casa, spesso consumati in maniera frenetica. Inoltre, il nostro obiettivo è dimostrare la versatilità del Cotechino Modena Igp, spesso vissuto come prodotto di difficile e limitata fruizione, ma che invece hanno tante diverse possibilità di consumo, ad esempio come ingrediente pregiato di preparati molto comuni» ha dichiarato Paolo Ferrari, presidente Consorzio Zampone Modena Cotechino Modena. Il Consorzio Zampone Modena Cotechino Modena si è costituito nel 2001 a Milanofiori, dopo un articolato percorso iniziato nel 1999, anno in cui i due prodotti hanno ottenuto l ambito riconoscimento europeo dell Indicazione Geografica Protetta con il regolamento della Commissione europea n. 509/1999. Il Consorzio, che ha come scopo la tutela e la valorizzazione dello Zampone Modena e del Cotechino Modena Igp, conta oggi 15 aziende, che rappresentano i principali produttori dei due prodotti Igp. >> Link: www.modenaigp.it

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FIERE

MARCA 2017: private label in crescita

Lo stand del Gruppo Beretta a Marca 2017.

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ilancio positivo per MARCA 2017, il Salone internazionale sui prodotti a Marca del Distributore (MDD) svoltosi lo scorso gennaio presso il quartiere fieristico di Bologna. Giunta alla tredicesima edizione, con l’organizzazione di BolognaFiere in collaborazione con ADM, la manifestazione ha fatto registrare importanti segnali di crescita rispetto allo scorso anno. Sempre affollati di operatori professionali italiani ed esteri i tre nuovi padiglioni e la grande sala convegni, segno più anche per la presenza di espositori copacker provenienti da tutta Italia (615 aziende, +16% rispetto al 2016) e per la superficie espositiva totale (29.000 m2, +12%). Presenti alla fiera con i loro stand anche le 20 maggiori insegne della Grande Distribuzione Moderna, coordinate da ADM. In crescita pure la presenza internazionale, con un gran numero buyer e delegazioni ufficiali provenienti da più di 30 Paesi di tutto il mondo, che sono stati impegnati in incontri b2b con le

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aziende italiane interessate ad esportare i propri prodotti food e non-food nei mercati esteri. «MARCA apre il calendario degli eventi del nostro quartiere fieristico e, anche quest’anno, lo ha aperto alla grande», ha dichiarato ANTONIO BRUZZONE, direttore generale di BolognaFiere. «Ciò dimostra il successo di questa manifestazione sulle private label, seconda in Europa in questo settore e tra le prime nel mondo, oltre alla bontà della proposta espositiva di BolognaFiere». «MARCA si conferma un appuntamento imperdibile per tutto il mondo delle imprese, produttive e distributive, che ruotano intorno alla Marca del Distributore» ha sottolineato il presidente di ADM GIORGIO SANTAMBROGIO. «È un evento che invita a riflettere sui fattori di successo che hanno portato la Marca del Distributore ad assumere un ruolo di vera e propria brand e ad essere così apprezzata dai consumatori. Un’evoluzione che può essere sintetizzata nel passaggio da Private Label a Marca del Distributore: se prima la marca commer-

ciale esprimeva solo un’opportunità di convenienza, ora identifica un mondo di valori, di diversificazione d’offerta, di innovazione che le hanno fatto conquistare un nuovo spazio e un ruolo guida nel panorama del largo consumo». In occasione di “MARCA 2017”, è stato presentato il “13º Rapporto MARCA sull’evoluzione dei prodotti a MDD in Italia”, elaborato da ADEM LAB – UNIVERSITÀ DI PARMA sulla base di una ricerca commissionata a IRI. Nel rapporto viene evidenziato un aumento del fatturato della MDD nel 2016 del +1,5% a valore e del +1% a volume rispetto allo stesso periodo del 2015, toccando una quota di mercato del 18,6%. A novembre scorso, il fatturato nei canali ipermercati, supermercati e libero servizio ha raggiunto così i 9,78 miliardi di euro. La ricerca ha anche messo in luce che i consumatori acquistano sempre più prodotti MDD del segmento premium di alta qualità: la crescita del fatturato di questo segmento, che nei primi 11 mesi del 2016

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1) Nello stand della Negrini Salumi di Renazzo (FE), Pierluigi Pozzi, Dino Negrini, Angelo Vighi e Carlo Negrini. 2) L’imolese Clai. 3) Lo stand di BP Prosciutti, del Gruppo Suincom. 3) Christian Galli del Salumificio Galli Remo di Cogozzo di Viadana (MN). 4) Nello stand del Salumificio Scarlino di Taurisano (LE), Claudio Leuzzi, Maciej Piechowicz, Attilio, Tommaso e Stefano Scarlino. 5) Marcello Palmieri del Salumificio Mec Palmieri di San Prospero (MO).

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1) Felsineo, l’azienda di Zola Predosa, leader nella produzione e nella commercializzazione della mortadella. 2) Ibis Salumi di Busseto (PR), azienda e marchio del Gruppo Cremonini. 3) Parmigiano Reggiano Dop. 4) Nello stand del caseificio La Gioia Bella di Gioia del Colle (BA), Fabrizio Dominici, Pasquale Cinieri e Andrea Devona. ha toccato gli 1,35 miliardi di euro, è stata spinta infatti dai prodotti bio e da quelli premium (+15,3% a valore in media sui due segmenti). Biologico, un mercato sicuro Dai 411 milioni di vendite di prodotti confezionati in iper e supermercati italiani nel 2008, la categoria degli alimenti biologici è arrivata a superare il miliardo di euro nel 2016, con un peso del 3% sul totale delle vendite food, inanellando incrementi annui regolarmente a doppia cifra dal 2010, con picchi del 19% in 2015 e 2016: il trend in questi due ultimi anni è raddoppiato rispetto alla crescita media del periodo 20102014. Circa il 45% delle vendite in valore è generato dalla marca privata. Nel 2016 le prime 10 categorie per vendite in valore (rappresentano poco meno di metà del totale) hanno avuto incrementi dal 5 al 22%. Sono biologici il 54% della pasta integrale, il 32% delle bevande sostitutive del latte e il 20% dei legumi secchi e cereali che

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ogni giorno passano agli scanner, ma anche il 30% delle confetture, il 14% delle uova, il 10% dello yogurt magro, il 9% delle farine. Nel 2016 ha acquistato qualche prodotto biologico il 74% delle famiglie italiane (+1,2 milioni rispetto al 2015), con Millennials e fascia dai 30 ai 44 anni sopra la media nazionale. Di queste, il 68% è frequent user. Le motivazioni d’acquisto? Per il 27% degli acquirenti i prodotti biologici sono più sicuri per la salute, per il 20% sono più rispettosi dell’ambiente, per il 14% sono più controllati. Il 13% li acquista perché sono più buoni, ma il 10% perché non si fida più dei prodotti convenzionali. Sono dati di cui il retail non può non tener conto e che impongono strategie per cogliere una gran-de opportunità e intercettare la domanda crescente. Ma non basta ampliare l’assortimento: oltre a una visione di category, un’offerta coerente e una comunicazione adeguata, è necessaria la massima cura nel garantire l’integrità e la fiducia

del consumatore, il patrimonio più significativo del mercato biologico. Nel corso del convegno organizzato all’interno di MARCA da ADM (Associazione Distribuzione Moderna) e AssoBio (l’associazione nazionale delle imprese di trasformazione e distribuzione dei prodotti biologici), sono stati presentati i dati dettagliati sul mercato 2016 e sul consumatore, e affrontato anche il tema cruciale delle garanzie, passando in rassegna le migliori pratiche di alcuni tra i leader del retail e alcuni protagonisti della supply chain, che hanno messo in campo strumenti di trasparenza che l’European Technology Platform for organic food and farming ha premiato nel 2016 come Organic Innovation dell’anno, a disposizione di tutte le imprese coinvolte nel mercato biologico. La prossima edizione Già decise le prossime date: l’edizione 2018 di MARCA si svolgerà il 17 e 18 gennaio a Bologna. >> Link: www.marca.bolognafiere.it

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A Tuttofood il business si fa internazionale

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ono parecchie le novità di Tuttofood, che si svolgerà all’interno di FieraMilano a Rho da lunedì 8 a giovedì 11 maggio prossimi. Novità che stanno già catalizzando l’attenzione degli operatori: con 12 padiglioni a occupare il quartiere, a 8 mesi dal taglio del nastro era già prenotato in media più del 60% delle superfici espositive, con punte oltre il 70% in numerosi settori. Almeno 75.000 i visitatori professionali attesi, dei quali 30.000 esteri da oltre 50 Paesi, e oltre

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2.000 hosted buyer profilati. Impostasi in sole cinque edizioni biennali come la manifestazione leader del settore in Italia e fra le prime tre in Europa, la Milano World Food Exhibition porta così a un nuovo livello l’eredità ormai consolidata di EXPO — che ha fatto della città un riferimento per la community mondiale della nutrizione — anche grazie a una strategia di accordi con autorevoli partner che presidiano le specializzazioni più promettenti. «Il comun denominatore di queste novità

— ha sottolineato CORRADO PERABONI, AD di FieraMilano — è nostra la capacità, unica in Italia, di coniugare il supporto allo sviluppo del business con la condivisione di conoscenze ai massimi livelli. Un concetto vincente nel mondo fortemente esperienziale del food & beverage, dove gli operatori devono anticipare a uno scenario molto internazionalizzato una evoluzione costante per consumatori sempre più cosmopoliti e consapevoli: per essere un vero business partner l’offerta fieristica deve mettere a sistema

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le competenze specifiche, come oggi richiedono anche le istituzioni. Tuttofood è stata un pioniere di questo approccio, i mercati ce lo riconoscono e ci premiano con numeri in costante crescita». Una GDO a misura di futuro Il concetto one-stop shop cambia e cresce. Se agli albori della grande distribuzione l’obiettivo era riunire in un unico punto vendita le referenze principali di molte merceologie diverse, oggi, all’inverso, si va verso una spe-

cializzazione, per cui all’interno delle grandi superfici si differenziano “negozi”, quando non vere e proprie botteghe, con un’offerta super-specializzata forte di numerosissime referenze che spaziano dall’entry level al lusso nella stessa merceologia. Con l’obiettivo di incrementare ulteriormente la presenza di grandi insegne internazionali e di indirizzare l’incontro domanda-offerta verso queste nuove tendenze, Tuttofood ha siglato una partnership con Daymon, leader mondiale nella consulenza

alla GDO. Oltre al coinvolgimento di catene estere in un’agenda di incontri B2B con espositori e insegne italiane, una forte componente formativa — la International Retail Academy — prevede workshop arricchiti da casi studio reali e contributi all’Osservatorio di Tuttofood su temi quali store check, food category, nuove tendenze. Quali dunque i trend che si potranno scoprire e valorizzare in chiave di business a Tuttofood 2017? Sicuramente una tendenza forte è l’incidenza delle nuove abitudini di acquisto dei Millennials che — stima Daymon — entro il 2030 supereranno i baby boomers come generazione più numerosa: maggiore attenzione al benessere, ma anche l’incidenza di condizioni economiche meno sicure e impatto del digitale. Sempre più significativa anche l’incidenza del salutismo mentre, in parallelo a queste tendenze — sottolinea Daymon — la GDO dovrà puntare sempre più sulla fidelizzazione per mantenere e incrementare i margini in questo contesto in continua evoluzione. Un trampolino internazionale verso i mercati islamici In un mondo che diventa sempre più multietnico e in cui culture ed etnie si incontrano anche a tavola, l’attenzione alle diverse prescrizioni alimentari diviene una necessità. Quasi tutte le religioni e le tradizioni prevedono norme alimentari: tra queste assumono un certo rilievo, per il numero di consumatori che ne tengono conto, quelle islamiche. Il mercato dei prodotti certificati halal (termine arabo che significa “lecito”) vanta, secondo le ricerche Dinar Standard — agenzia specializzata sui mercati musulmani —, una crescita del 12% annuo dal 2007 ad oggi. Secondo il rapporto 2016 appena pubblicato da Thomson Reuters sullo stato dell’economia islamica, la spesa globale dei consumatori musulmani in food and beverage è stata, nel 2015,

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Tuttofood 2017 ospiterà Wine Discovery, evento curato da Vinitaly International Academy che presenta la produzione italiana e internazionale e con i contributi di esperti del mondo vitivinicolo e sommelier in eventi di promozione e formazione professionale. di circa 1.170 miliardi di dollari (17% della spesa mondiale totale) ed è destinata a raggiungere, nel 2021, i 1.900 miliardi. Di questi, 415 miliardi si riferiscono a prodotti dotati di certificazione halal. La crescita del segmento è dovuta in parte a nuove normative internazionali che fanno della certificazione religiosa un requisito doganale, in parte all’interesse anche di mercati e consumatori non islamici. Il passaggio dal negozio etnico alla Grande Distribuzione Organizzata e dal mero settore della carne a tutte le categorie di food and beverage (materie prime, semilavorati, pasticceria, conserve, formaggi) ha sdoganato definitivamente il fenomeno rendendolo un trend internazionale. Anche le aziende italiane hanno colto questa opportunità, tanto che nel Belpaese sono già alcune centinaia le aziende regolarmente certificate e altrettante quelle in fase di certificazione. L’area dedicata ai prodotti certificati halal, durante Tuttofood, sarà realizzata con la collaborazione dell’ente di certificazione halal italiano WHAD (World Halal Development), così come i

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workshop e le conferenze, che avranno come moderatrice e organizzatrice ANNAMARIA AISHA TIOZZO, presidente WHAD, recentemente inserita dalla guida Islamica 500, unica italiana, tra le 50 persone più influenti dell’economia islamica. Le aziende saranno identificate da un apposito logo che faciliterà il riconoscimento da parte dei visitatori professionali, un grande appeal per i visitatori provenienti dai 57 Paesi OIC (a maggioranza islamica) e un ulteriore criterio di matching per facilitare gli appuntamenti di business mirati con i top buyer internazionali e italiani interessati. Segnali ancora deboli, ma cresce la spesa di qualità Rientro dalle vacanze all’insegna della stabilità, con un effetto trascinamento che conferma la “ripresina” nei primi nove mesi dell’anno. Questo il sentiment che si ricava dagli ultimi dati di IRI per l’alimentare confezionato nel nostro Paese. A settembre, infatti, le vendite complessive in valore sono rimaste pressoché invariate verso lo stesso mese del 2015 (–0,6%) a quota 4.260 milioni

di euro, mentre nei primi nove mesi crescono dello 0,5% rispetto all’equivalente periodo dello scorso anno, totalizzando 33.196 milioni. L’andamento più dinamico dei prezzi (+1,5% nell’anno progressivo) suggerisce comunque che la GDO creda in una prossima ripresa dei consumi. Il dettaglio dei settori rivela che la relativa stabilità complessiva cela uno spostamento dei consumi da scelte quantitative a più qualitative. Ancora una volta il best performer nelle tabelle dell’analista partner di Tuttofood è infatti il biologico: a settembre, con vendite per 108 milioni di euro, cresce a due cifre con un +14,9%, mentre da inizio anno, con un valore del venduto pari a 945 milioni, il balzo è addirittura del 21,5%. La buona stagione estiva si riflette invece nei numeri del gelato che, sempre a settembre, crescono del 9,9% in valore, sfiorando quota 100 con 98 milioni di euro di venduto. Nel corso dell’anno, invece, il rinfresco cede il passo ai prodotti da ricorrenza (+5,6% a 436 milioni). Bene anche altri “generi di conforto”: gli spalmabili dolci aumentano dell’1,1% nel mese (72 milioni) e del 2,4% nel

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periodo (513 milioni), mentre i fuori pasto dolci, pur arretrando a settembre, da inizio anno segnano un +1,9% con 1.188 milioni. Confermano la maggiore fiducia dei consumatori anche gli incrementi in altri acquisti “pregiati”. A settembre la carne confezionata registra un +3,3% con 64 milioni di euro, e nel periodo fa ancora meglio con un +4,4% a 447 milioni, mentre la pasta fresca cede terreno a settembre ma nel periodo sale del 2,2% a 478 milioni di euro. Il beverage infine — rileva IRI — a settembre porta il valore delle vendite a 345 milioni di euro (+1,1%), mentre nell’anno progressivo resta statico (–0,5%) con 2.136 milioni di venduto. Tuttofood con Veronafiere su fresco e vino Uno dei comparti più interessanti è l’ortofrutta, i cui consumi crescono a ritmi esponenziali. Grazie a un accordo strategico con Veronafiere, a Tuttofood 2017 debutterà Fruit & Veg Innovation: nell’area, che per il suo elevato livello qualitativo ha ottenuto il patrocinio di Confagricoltura, il prodotto finito troverà nuove opportunità di sviluppo nel confronto con le evoluzioni più attuali di tutto il food & beverage, in un contesto internazionale di incontro tra domanda e offerta. L’ortofrutta verrà valorizzata anche nell’ottica “star bene” in sintonia con i nuovi stili di vita, con un ricco programma convegnistico. Sempre a seguito di questo accordo, Tuttofood 2017 ospiterà Wine Discovery, evento curato da Vinitaly International Academy, che presenta la produzione italiana e internazionale, con i contributi di esperti del mondo vitivinicolo e sommelier in eventi di promozione e formazione professionale. Lo spazio si pone l’obiettivo di individuare ed esplorare, a vantaggio degli operatori, le aree di crescita, anche internazionali, di un’eccellenza italiana sempre più riconosciuta nel mondo.

Aceto Balsamico di Modena L’Acetaia Leonardi rappresenta la massima espressione della cultura legata all’Aceto Balsamico di Modena. Una tradizione secolare che ha le sue radici nel cuore della provincia modenese dove genuinità e passione per la tradizione rappresentano ancora valori, cardini dell’economia del territorio.

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Tuttofood 2017 lancia la nuova Food Week Le famose Tre F , Fashion, Furniture & Food, sono notoriamente le punte di diamante del made in Italy a Milano e nel mondo. Se la capitale economica italiana celebra già le prime due con le settimane della moda e quella del design, per la terza eccellenza, quella enogastronomica, mancava ancora un momento clou della stagione, capace di condensare nello spazio di pochi giorni un calendario di appuntamenti senza confronti. A colmare questa lacuna ha pensato Tuttofood, che porterà il suo know-how fuori dai cancelli della fiera per farsi promotore di una grande festa del mangiare sano che dal 4 all 11 maggio coinvolgerà tutta la città, con cui ha un interscambio sempre più stretto quale erede dello spirito di EXPO per i temi della nutrizione. «In un momento in cui le tematiche food appaiono quasi inflazionate e sono abbinate, in maniera a volte poco coerente, a eventi d ogni genere, con risultati non sempre all altezza ̶ ha commentato CORRADO PERABONI, AD di FieraMilano ̶ Tuttofood ha scelto di condividere il suo patrimonio di conoscenze unico in Italia e farsi scintilla di un movimento che coinvolga tutti gli attori, per offrire a Milano quella FoodWeek all altezza della sua reputazione, che ancora le mancava. Coniugando la nostra expertise con quella delle associazioni di categoria e con il supporto delle istituzioni, stiamo preparando un esperienza indimenticabile che per una settimana avvolgerà cittadini e visitatori in un vortice di sapori e aromi, ma anche di idee e contenuti». I dettagli sono ancora da definire, ma le prime indiscrezioni suggeriscono già, anche grazie alla collaborazione con Regione Lombardia, Comune di Milano e Confcommercio, un palinsesto da far venire l acquolina in bocca agli appassionati di tutte le molteplici declinazioni del tema, messe a fattor comune dalla regia di Tuttofood. Di questa nuovissima Food Week saranno testimoni anche gli eventi serali delle Tuttofood Nights nelle piazze più suggestive di Milano. E se il milanesissimo aperitivo è celebre ̶ in italiano ̶ in tutto il mondo, saranno super-trendy quelli organizzati nei più affascinanti hotel 5 stelle lusso dai giovani chef di talento di Jeunes Restaurateurs d Europe Italia, che hanno in serbo anche altre sorprese altrettanto di tendenza. E, per non mancare l incontro con la Food Week, anticiperà il consueto appuntamento di metà maggio anche una bandiera dei gourmand più raffinati come Taste of Milano, l evento dedicato all alta ristorazione, caratterizzato da coinvolgenti show-cooking di cucina italiana e internazionale completati da approfondimenti culturali, dove chef stellati e nuovi talenti saranno protagonisti con le loro realizzazioni più innovative.

B2B e dove si svolgeranno workshop e conferenze. Innovazione tecnologica e social eating al servizio del business saranno i punti chiave del fitto calendario. L’area è la prima di una serie di iniziative sulla digital transformation nell’agroalimentare che Tuttofood realizzerà durante l’anno grazie alla partnership con NETCOMM.

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Un salone sull’agro-ittico sostenibile È indirizzata alle opportunità di un settore agro-ittico sostenibile la collaborazione con Blue Sea Land (www. bluesealand.eu), l’Expo internazionale dei Distretti Agroalimentari del Mediterraneo, del Medioriente e dell’Africa promosso dal Distretto della Pesca e

Crescita Blu. Oltre alla presenza di un’area dedicata, l’accordo prevede una collaborazione per incrementare la presenza di buyer specializzati e la realizzazione di una Seafood Academy con convegni, workshop tematici e show-cooking. >> Link: www.tuttofood.it

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Taste 2017: le date da segnare in agenda Da sabato 11 a lunedì 13 marzo andrà in scena la dodicesima edizione di Pitti Taste, il salone dedicato alle eccellenze del gusto, dell Italian lifestyle e del design della tavola. Forte dell esperienza e dei successi raccolti durante i suoi primi 11 anni, Pitti Taste celebra e consolida il percorso che lo ha portato a diventare il salotto italiano del mangiare e del bere di qualità. Nato dalla collaborazione di Pitti Immagine col gastronauta Davide Paolini, Pitti Taste si svolgerà alla Stazione Leopolda di Firenze e presenterà i prodotti e le novità di circa 350 aziende, selezionate tra le migliori produzioni di nicchia e specializzate provenienti da tutta l Italia. Un viaggio attraverso i sensi e le idee, alla scoperta delle tante e spesso nuove modalità in cui oggi si esprime e si sperimenta il gusto: tra tradizione e innovazione, tendenze e scuole di pensiero, attrezzature e tecniche professionali, food & kitchen design. Con uno spazio speciale al termine del percorso, il Taste Shop, dove acquistare i prodotti in esposizione. Il FuoriDiTaste Oltre agli appuntamenti alla Leopolda, Pitti Taste è anche il ricco calendario di eventi del gusto che coinvolge la città nei giorni del salone. Evento nell evento, il FuoriDiTaste a ogni edizione riesce ad animare Firenze e i suoi luoghi più celebri con cene, degustazioni a tema, installazioni, spettacoli e performance creative, dibattiti… Un programma di circa 150 appuntamenti che registrano un successo e una partecipazione crescenti, e che ogni anno riserva grandi sorprese. I numeri di Taste • 340 espositori da tutta Italia • 15.500 visitatori in totale all ultima edizione • 5.000 buyer e operatori del settore provenienti da oltre 40 paesi • 525 giornalisti italiani ed esteri accreditati • 23.000 circa i prodotti venduti in tre giorni al Taste Shop • 150 eventi nel programma di FuoriDiTaste >> Link: www.pittimmagine.com/corporate/fairs/taste.html

Taste è il salotto italiano del mangiare bene e stare bene, dove si danno appuntamento i migliori operatori internazionali dell’alta gastronomia, ma anche il sempre più vasto e appassionato pubblico dei foodies.

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FORMAGGIO RaritĂ casearie ritrovate: il Montebore

Il segreto del sorriso di Monna Lisa è racchiuso in un formaggio di Gaia Borghi

La produzione del Montebore, cessata dopo la seconda guerra mondiale, è ripresa solamente nel 1999.

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a nostra storia inizia ad un banchetto di nozze. Gli sposi sono celebrità internazionali e il cerimoniere chiamato per l’occasione è un genio che non ha bisogno di presentazioni. Le cronache descrivono la cena con dovizia di particolari, tanto fu fatto e speso perché superasse ogni altra in sfarzo e ricchezza, uno splendido castello scelto come location, le portate servite con l’accompagnamento di attori, mini, cantanti e ballerini… No, non preoccupatevi, non stiamo parlando di qualche chiacchieratissimo matrimonio tra un ricco calciatore e una starlette locale, né Don Antonio Polese, Il Boss, è il famoso maestro di cerimonia protagonista dell’evento. No, qui bisogna fare un passo indietro nel passato ed arrivare più precisamente al 5 febbraio dell’anno 1489. Siamo in Piemonte, a Tortona, nel castello dei Conti Botta, e le nozze sono quelle tra Gian Galeazzo Sforza, nipote di Ludovico il Moro, Duca di Milano, e la nobile Isabella D’Aragona, figlia dell’erede al trono di Napoli Alfonso II e di Ippolita Maria Sforza. A dirigere il fastoso banchetto viene scelto niente po’ po’ di meno che Leonardo da Vinci, il quale, tra i suoi infiniti talenti, vantava anche quello di fine gastronomo. Tra l’altro la bella sposa, secondo alcuni studi, divenne persino la modella del suo quadro più famoso (si veda il box dedicato). Ma non facciamoci distrarre dal gossip e concentriamoci sulla tavola. Unico formaggio invitato da Messer Leonardo a presenziare a cotanto matrimonio fu il Montebore, una rarità casearia dalla forma che ricorda proprio una torta nuziale, una sorte di tempio azteco a cinque strati, la cui produzione sembra risalga addirittura al IX secolo. Furono infatti probabilmente i monaci benedettini dell’abbazia di Santa Maria di Vendersi, sul monte Giarolo, maestri nell’arte casearia, ad iniziare la produzione di questo formaggio a latte crudo, realizzato con un 70% circa di latte delle razze bovine Bruna alpina, Tortonese, Genovese e la rara Cabannina e un 30% di latte ovino. La fama del Montebore si allargò e crebbe rapidamente, tanto che se ne trovano testimonianze nelle opere di diversi scrittori ottocenteschi. Nella prima metà del XX secolo la produzione annua era di circa 1.200 chilogrammi.

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La forma caratteristica del Montebore ricorda il castello diroccato della piccola frazione del comune piemontese di Dernice da cui prende il nome, uno dei tanti che vegliano su questo territorio, oggetto in passato di aspre contese, guerre, conquiste, crocevia di genti, tradizioni, parlate. Alla fine della seconda guerra mondiale, però, complice il progressivo isolamento delle piccole comunità montane di queste zone e l’abbandono delle valli da parte delle giovani generazioni, del Montebore si persero le tracce, insieme ad altre antiche tradizioni gastronomiche di questi luoghi. Solamente nel 1999 un esponente di Slow Food, Maurizio Fava, rintracciò l’ultima depositaria della tecnica casearia di produzione di questo formaggio, Carolina Bracco, recuperandone la produzione. Quello stesso anno 7 forme di Montebore furono presentate al salone Cheese, l’evento di Slow Food dedicato alle “forme del latte”, attirando l’attenzione della stampa internazionale. Oggi l’unico produttore di Montebore accreditato dal Disciplinare Slow Food, che lo ha riconosciuto come presidio da salvaguardare, è la Cooperativa Vallenostra, caseificio, agriturismo, osteria, di Mongiardino

Ligure, in Val Borbera, provincia di Alessandria (www.vallenostra.it). Tra gli espositori presenti a Terra Madre Salone del Gusto di Torino 2016 c’erano anche loro, nelle persone di ROBERTO GRATTONE e AGATA MARCHESOTTI, la quale si è trovata a rispondere persino al presidente della Repubblica SERGIO MATTARELLA, fermatosi al loro stand incuriosito probabilmente dall’originalità della forma del Montebore. «Nel 1999 quello che restava del Montebore era solo qualche favola e il ricordo nella memoria degli abitanti del paese da cui prende il nome, nel comune piemontese di Dernice, dove le massaie lo preparavano in casa» racconta Roberto. «La Cooperativa Vallenostra nasce proprio in quell’anno come una sfida, un tentativo di recuperare un formaggio ormai estinto. Sono 17 anni che lottiamo per far conoscere questo prodotto e nel frattempo la nostra sfida è diventata realtà». Gaia Borghi

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Montebore, tecnica di produzione e modalità di consumo Il Montebore viene prodotto, oggi come cento, cinquecento, novecento anni fa, con latte crudo, cioè solamente scaldato sino ad una temperatura di 36°C circa al quale viene aggiunto caglio naturale. La rottura della cagliata avviene dopo un ora dal rapprendimento: si ottengono grumi grossi come noci che vengono lasciati riposare per circa 30 minuti. Viene quindi eseguita una seconda rottura, ottenendo così dei grumi della dimensione di una nocciola. La pasta viene poi messa a scolare nei ferslin, le tipiche formelle a forma di cilindro, di diametro decrescente. Nel corso della mezz ora seguente il formaggio viene girato quattro o cinque volte, dopodiché si procede alla salatura manuale con sale marino delle forme, che vengono messe a riposare in luogo fresco e asciutto per 10 ore circa. Infine, le formelle vengono sovrapposte nella caratteristica forma a tronco di cono, il cosiddetto castellino. Fresco, cioè a 20 giorni, il Montebore può essere consumato dagli amanti dei formaggi complessi ma delicati, che ne apprezzeranno il sapore dolce, la consistenza morbida e pastosa. Dopo quarantacinque/sessanta giorni il Montebore si considera di media stagionatura, dopo quattro/cinque mesi viene considerato molto stagionato e prende una consistenza maggiore, per diventare piccante e ideale per la grattugia dopo una stagionatura di sei mesi. A tavola Il Montebore è perfetto come eccellenza da tutto pasto: fresco o morbido gode della compagnia dal locale miele di castagno e della melata, delle marmellate di arancia, della cugnà, la tipica marmellata piemontese a base di mosto d uva, cui dona la piacevolezza del proprio gusto fine, delicato ma arguto, ama le noci, i fichi, le ciliegie in agrodolce, l uva rosata, scoprendosi così una vocazione a tutte le stagioni della natura. Stagionato, condisce le paste ripiene, gli gnocchi, il riso con un accesa armonia di sapido, di piccante senza sconsideratezza, elegante, discreto, profumato. Eccellente. Il Montebore non teme accostamenti azzardati, sicuro com è della propria compostezza: con pere caramellate piccanti di zenzero o peperoncino rivela un anima insolitamente ardita; con sbrisolona salata di fave e mandorle si scopre un anima stuzzicante, con il capunet, il tipico involtino della zona a base di carne di maiale e verza, diventa salsa, ama gli sformati di zucca, cui dona robusta sapidità, di carciofi, di zucchine, di cardi (fonte: www.vallenostra.it).

La storia nobile del Montebore fra la Gioconda e Leonardo da Vinci Nel corso dei secoli la donna ritratta da Leonardo Da Vinci nel suo dipinto più celebre, La Gioconda, oggi conservato al Louvre, è stata via via identificata come Monna Lisa del Giocondo, moglie di un mercante fiorentino, come Lisa Gherardini (amante di Giuliano de Medici) e come Bianca Sforza, figlia naturale di Ludovico il Moro. Nel 2010, dopo diciassette anni di studi e la pubblicazione di diversi articoli sull argomento, la nota storica dell arte tedesca Maike Vogt-Luerssen ha infine documentato nel volume Die Sforza III: Isabella von Aragon und ihr Hofmaler Leonardo da Vinci la tesi secondo cui la Gioconda sarebbe invece proprio Isabella d Aragona. L ipotesi si poggia su prove come l analisi delle caratteristiche dell abito, il cui bordo riporta le decorazioni con lo stemma della famiglia degli Sforza e della casata degli Aragona-Sforza, evidente riferimento all unione in matrimonio delle due potenti famiglie. Inoltre, vi è la somiglianza con un altro ritratto d Isabella d Aragona, oltre che con tutte le parenti della stessa casata, di cui la sola Isabella aveva l età giusta all epoca in cui Leonardo realizzò il dipinto. Da queste premesse nasce dunque l idea del Montebore come formaggio de La Gioconda. Ma le cose non finiscono qui. Sempre secondo la ricercatrice, infatti, intervenuta lo scorso anno ad una conferenza tenutasi a Palazzo Medici Riccardi, Isabella d Aragona, dopo la morte del marito, avrebbe sposato in seconde nozze Leonardo da Vinci che, ricordiamo, fu tra i principali pittori di corte degli Sforza tra il 1482 e l alba del 1500. Dal maestro avrebbe avuto addirittura cinque figli, due dei quali riposerebbero accanto alle spoglie della madre nella sagrestia del Convento di San Domenico Maggiore a Napoli. Proprio lì, secondo quanto sostiene Maike Vogt-Lüerssen sulla base delle proprie indagini, si troverebbero anche i resti dello stesso Leonardo, in realtà mai sepolto ad Amboise, in quella tomba che venne successivamente profanata. Insomma, il padre di tutti gli enigmi, lungi dal fare chiarezza sulla vita di uno dei più grandi geni mai esistiti, fa nascere altre domande, altri misteri che aspettano di essere risolti. Ma questa è un altra storia e i segreti, si sa, quando si tratta di Leonardo, non sono mai abbastanza.

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Gorgonzola Dop: produzione in crescita Nel 2016 la produzione di formaggio Gorgonzola cresce dell 1,78% rispetto all anno precedente, confermando un trend in salita dal 2013. Nell anno che si è appena concluso i 37 caseifici, collocati tra Piemonte e Lombardia, che rappresentano la totalità della produzione globale di Gorgonzola, hanno prodotto 4.581.155 forme, 79.918 in più rispetto al 2015, circa 138.000 più del 2014 (+3,10 %) e con un aumento ancora più consistente, di oltre 400.000 forme (+10% circa), rispetto al 2013. La tipologia piccante continua a rappresentare una nicchia, con 516.363 forme prodotte nel 2016 (11,27% sul totale), ma anch essa è in costante crescita. Dal 2013, infatti, quando ha raggiunto il 9% del totale, la produzione di gorgonzola piccante è cresciuta all incirca di un punto percentuale ogni anno. Il presidente del Consorzio Gorgonzola RENATO INVERNIZZI commenta con entusiasmo i dati sulla produzione «siamo in presenza di una tendenza positiva che va consolidandosi. Questo vuol dire che investire nella qualità paga perché consumatori e operatori la richiedono sempre più. Anche l attività di promozione messa in atto con continuità dal Consorzio in questi ultimi anni ha sicuramente contribuito a questo successo: dalla riconferma per altri tre anni del testimonial Antonino Cannavacciuolo, alla costante presenza all estero nelle molteplici attività di valorizzazione (il prossimo appuntamento sarà a Milano per Tuttofood dall 8 all 11 maggio) fino al rafforzamento della nostra presenza sul web in Italia e all estero: tutti questi aspetti concorrono a far conoscere le qualità del Gorgonzola ad un pubblico sempre più numeroso e interessato». Questo trend positivo trova conferma anche dal Rapporto Istat annuale suoi prodotti agroalimentari di qualità (DOP e IGP) che da 10 anni vede aumentare costantemente produttori e trasformatori, segno evidente dell ormai consolidata fiducia che questi ultimi ripongono nel sistema delle denominazioni d origine (fonte: Sole 24ore). >> Link: www.gorgonzola.com

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OLIO Il vademecum dell’Organizzazione Nazionale Assaggiatori Olio di Oliva

Olio d’oliva, questo sconosciuto: i miti da sfatare

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uasi tutti lo utilizzano e lo amano ma solo pochi lo conoscono davvero a fondo. Per questo, nel corso dei decenni, si sono consolidati molti luoghi comuni sull’olio extravergine. Convinzioni errate ma diffuse, sulle quali forse è il caso di fare un po’ di chiarezza. Finché si tratta di vecchi detti popolari, si può soprassedere ma leggere che “se l’olio è amaro è rancido” lascia interdetti. Un mondo vasto, quello dell’olio, spesso ridotto ad un calderone di falsi miti. ONAOO (Organizzazione Nazionale Assaggiatori Olio d’Oliva), la più antica scuola di assaggiatori di olio d’oliva, riconosciuta e certificata a livello mondiale, fornisce un piccolo vademecum. La lista delle “anomalie” legate all’olio è lunga. Di seguito elenchiamo i principali errori. “L’olio più è verde, più è buono”: FALSO Il colore, in generale, non è un indice di qualità. Dipende da vari fattori, tra cui il grado di maturazione delle olive, la varietà, le condizioni di lavorazione in frantoio e la successiva conservazione dell’olio. La colorazione è condizionata dalla presenza di differenti pigmenti presenti nell’olio; pertanto, un olio di elevata qualità può essere di colore verde intenso o giallo colorato. “L’olio invecchiando migliora”: FALSO Se il tempo gioca a favore di alcuni prodotti gastronomici come formaggi, vini e alcolici in generale, non è invece certo un alleato dell’olio. Le proprietà organolettiche di quest’ultimo tendono infatti a peggiorare con l’invecchiamento: le note aromatiche tendono ad attenuarsi e il processo di ossidazione

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ad avanzare. È vero che l’olio evo non ha una vera e propria data di scadenza bensì solo un’indicazione preferibile di consumo, però va sempre considerato che dà il meglio di sé soprattutto quando è fresco. “Se l’evo pizzica in gola vuol dire che è acido”: FALSO In realtà la sensazione piccante non è correlata all’acidità. Il livello “piccante” è condizionato dalla varietà e dalla maturazione del frutto che comunque non è percepibile a livello gustativo. Amaro e piccante sono due sensazioni generate dalla presenza di sostanze polifenoliche particolarmente benefiche per la salute, di cui in generale anche l’olio dolce ne è particolarmente dotato. Maggiore è la quantità di tali sostanze, maggiore è la sensazione di amaro e piccante. Al contempo, se un olio non è amaro e piccante non vuol dire che non sia buono o non abbia proprietà antiossidanti. Il risultato dipende dalla varietà dell’oliva, dalle condizioni agronomiche e dalla lavorazione. “Gli oli dal gusto più intenso sono i più calorici”: FALSO Stesso errore del punto precedente: non c’è alcun legame tra il sapore di un evo e il suo contenuto energetico. Invece è vero che se l’olio è saporito ovviamente ne basta meno per condire, e questo aiuta indirettamente a consumare meno calorie. “L’extravergine non è adatto per friggere”: FALSO Al contrario, può essere considerato ottimo perché resiste molto bene alle alte temperature. Certamente va considerato il gusto (l’evo ha un sapore piuttosto marcato e tende a coprire di più il sapore ori-

ginale dei cibi), quindi consigliamo di utilizzare extravergini più delicati. Quando si frigge uno dei parametri più importanti è il punto di fumo, la temperatura cioè raggiunta la quale l’olio comincia a fumare e a produrre sostanze particolarmente dannose per la salute. “Se d’inverno l’olio congela, è sicuramente un extravergine!”: FALSO Sicuramente anche l’extravergine di oliva congela, ma non per questo un olio che congela è davvero un extravergine di oliva: l’evo è tale solo se rispetta i parametri chimico-fisici e sensoriali previsti dalle normative. Esposto a basse temperature si solidifica perché contiene una parte di acidi grassi saturi, ma è consigliabile evitare che accada. Bisogna fare particolare attenzione alle temperature alte, principali nemiche dell’olio, ed in generale bisogna evitare eccessivi sbalzi di temperatura nella conservazione. “Un olio torbido è sinonimo di buona qualità”: FALSO Un olio torbido, non filtrato, potrebbe essere di buona qualità solo se già buono in partenza ma, con il tempo, va incontro a processi di deterioramento (ossidazione, irrancidimento, fermentazione anaerobica, ecc…) molto più rapidi. “La cottura dell’evo produce radicali liberi”: VERO Ma vale per tutti gli oli vegetali, non solo per quello evo. Per cui si può utilizzare in cottura e frittura. Fonte: Organizzazione Nazionale Assaggiatori Olio d’Oliva >> Link: www.oliveoil.org

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L’olio evo non ha una vera e propria data di scadenza, bensì solo un’indicazione preferibile di consumo; però va sempre considerato che dà il meglio di sé soprattutto quando è fresco (photo © Natasha Breen).

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Olio di lentisco, i segreti di un prodotto millenario Di coniugare tradizione e innovazione nella nostra gastronomia si parla spesso. I tentativi sono altrettanti e non sempre dai risultati felici. Questo è però uno di quei casi in cui, con grande maestria, si è sposato il passato con il futuro, partendo dalla terra per giungere ai mercati internazionali, seguendo processi di lavoro manuali, ma che vedono, nel contempo, l’impiego di macchine all’avanguardia di Sebastiano Corona

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i sono prodotti dalla storia millenaria, che per lunghi periodi di tempo restano come sopiti nella nostra memoria. Di queste specialità, di cui si fa uso discreto e in certi momenti quasi nascosto

tra le mura domestiche, ci si ricorda di tanto in tanto, sino a quando qualcuno o qualcosa non risveglia eroicamente l’interesse generale. Stavolta è toccato a un gruppo di giovani sulcitani e a un master chef, accomunati dal fatto

di vantare i natali a Santadi, ridente paesino tra i più noti del Sud Sardegna. Gli imprenditori che si sono messi a servizio della causa sono i titolari di Key Essence, un’azienda che produce oli alimentari autoctoni. Lo chef è invece

Risotto ai gamberi condito con olio di lentisco.

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SERGIO MEI TOMASI, uomo poco incline alle uscite tra il grande pubblico, ma che per fama e bravura non ha certo bisogno di presentazioni. I primi si sono presi la briga di sperimentare una serie di produzioni, tra cui quella dell’olio di lentisco e di vinacciolo, che, pur non avendo avuto grande diffusione nel passato recente, meriterebbero ampi spazi tra gli scaffali dei negozi e delle dispense domestiche. Il maestro Mei (come si è soliti chiamarlo) si è invece assunto l’onere e l’onore di mostrare l’utilizzo di questi prodotti sia nel quotidiano che nell’alta cucina. Fedele a quel luogo dove è nato e dove ha avviato la sua carriera — inizialmente come panettiere — Sergio Mei ha dimostrato in un libro (Il segreto dell’olio di lentisco, Susil Edizioni, 2016) e in numerosi show cooking che l’olio di lentisco può essere un prezioso alleato in mille ricette. Nessuno più di lui avrebbe potuto rappresentare l’impiego di prodotti così semplici e contemporaneamente così pregiati, capaci con poco di dare un carattere forte a qualunque piatto. La realtà che presentiamo oggi non è però bella solo per il recupero di una specialità scarsamente utilizzata, a dispetto del suo passato millenario. Questa è anche la storia di professionisti di successo che, pur impegnati in altre soddisfacenti imprese, hanno deciso di scommettere sulla Sardegna, partendo dalla terra e dalla natura. È la storia di chi ha lavorato molto tempo oltre Tirreno e ha deciso che quelle preziose

Sergio Mei ha dimostrato in un libro e in vari show cooking che l olio di lentisco può essere un prezioso alleato in mille ricette. Nessuno più di lui avrebbe potuto rappresentare l impiego di prodotti così semplici e così pregiati, capaci con poco di dare un carattere forte a qualunque piatto

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Sergio Mei Tomasi. competenze andassero messe al servizio di un’isola ancora scarsamente convinta delle sue enormi potenzialità. Un’isola che — i soci di Key Essence ne sono convinti — non deve guardare solo e soltanto al mercato interno, ma soprattutto a quello estero. E lo deve fare con gli strumenti più moderni a disposizione, a partire dal web. In questa impresa, come in poche altre così giovani, si guarda al mercato strizzando l’occhio alla ricerca, e lo si fa senza perdere di vista storia e territorio. I processi sono artigianali e in gran parte manuali, ma vedono in contemporanea l’impiego di macchinari all’avanguardia, capaci di trarre il meglio dalla materia prima, senza comprometterne le enormi qualità organolettiche e nutritive. Per l’olio di lentisco sono gli stessi

collaboratori dell’impresa che durante la stagione della raccolta, tra dicembre e gennaio, scelgono le drupe una ad una per poi sottoporle, dopo solo qualche ora, al processo di spremitura. Un passaggio che avviene a strettissimo giro, per preservare le qualità e scongiurare il processo di ossidazione. L’olio di vinaccioli viene invece realizzato durante la vendemmia, con la pressatura dei semi che si scartano dalla pigiatura dell’uva. Nel comune noto per i suoi vitigni di Carignano, Monica, Cannonau, Nuragus, si riesce così a dare nuova vita ad un prodotto che sino a ieri veniva scartato dal processo produttivo. A loro volta i vinaccioli, dopo l’estrazione dell’olio, generano dei residui che possono essere utilizzati per la combustione, in un contesto in cui il 101


“Il segreto dell’olio di lentisco”, Susil Edizioni, 2016. camino e la stufa a legna sono ancora un diffusissimo sistema di riscaldamento delle abitazioni. Il risultato di questo processo rappresenta la perfetta sintesi tra ecologia e industria produttiva e genera un olio

che vanta enormi qualità organolettiche e nutritive. Un condimento pregiato che degli straordinari vini sardi richiama sapore e profumo. Essendo particolarmente delicato, la cottura ne può impoverire le qualità

principali; anche per questo meglio si sposa con piatti semplici e pietanze crude. A Santadi, una delle più note città dell’olio in Sardegna, l’attenzione per questi prodotti non poteva che essere massima. Per questo agli oli puri di lentisco, vinacciolo e amber, si affiancano gli oli aromatizzati al carciofo, al pomodoro secco, al mirto e all’elicriso. Le materie prime sono tutte prodotte nell’isola da aziende agricole biologiche. Alcune essenze, invece, crescono spontaneamente e vengono raccolte manualmente nella macchia mediterranea locale. Li accomuna una spremitura a freddo e un packaging scuro, opportunamente studiato per preservarne le proprietà naturali. Il flacone di vetro è inoltre dotato di un contagocce che permette di dosarne la giusta quantità per ogni piatto. Trattandosi infatti di prodotti dal gusto molto intenso — ma come tutti gli oli anche ricchi di calorie — la dose giusta per ogni pietanza è modestissima. Sebastiano Corona

Le innumerevoli qualità Useremo le parole di ALESSANDRA GUIGONI, nota antropologa culturale, specializzata in storia e cultura dell alimentazione, patrimoni enogastronomici e sviluppo rurale, per meglio conoscere proprietà e tradizione dell olio di lentisco. È la Guigoni a sottolineare un uso alimentare millenario delle coccole del Pistacia lentiscus, le tracce del cui utilizzo in Sardegna risalgono al periodo prenuragico e diventano molto consistenti nelle fonti scritte dal Settecento in poi. […] Nell alimentazione tradizionale, attraverso testimonianze orali degli anziani sardi, sappiamo che l olio di lentisco veniva adoperato come condimento nelle zone di maggiore diffusione delle piante, come nel Sulcis, appunto. Il lentisco veniva altresì impiegato in etnomedicina, utilizzando lo stesso olio ricavato dalle drupe, così come estratti della corteccia e della resina . Le sue proprietà non risiedono però solo nella sua lunga storia. L olio di lentisco arricchisce qualunque piatto ̶ dolce compreso ̶ esaltandone il sapore senza mai coprirne il gusto, ma piuttosto enfatizzandolo. Esalta quindi il sapore di una pietanza, ma sempre come una discreta presenza. Non fosse sufficiente, il biologo MARCO MEREU ne sottolinea le innumerevoli qualità organolettiche che vanno dal ridotto contenuto di acidi grassi saturi (responsabili di diverse e diffuse problematiche di natura cardiovascolare) alla ricchezza di acidi grassi mono e polinsaturi, ottimi elementi per contrastare il cosiddetto colesterolo cattivo . Ma non finisce qui: questo meraviglioso prodotto garantisce un alta concentrazione di Omega-9, Omega-6 e Omega-3, alleati fondamentali per ridurre i livelli di trigliceridi ematici.

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DOLCI

Cioccolato. Basta la parola? di Riccardo Lagorio

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er capire quanto sia importante il cacao per l’economia internazionale è sufficiente ricordare che, tra le materie prime, negli scambi mondiali il cacao occupa il terzo posto dopo lo zucchero e il caffè, per un ammontare di circa 98,4 miliardi di dollari statunitensi. La produzione maggiore di cacao si concentra nell’Africa occidentale e rappresenta il 70% di quella su scala mondiale. Costa d’Avorio (1,5 milioni

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di tonnellate), Ghana (836.000 tonnellate), Indonesia (778.000 tonnellate) e Nigeria (421.000 tonnellate) sono i Paesi che più contribuiscono alla formazione del patrimonio mondiale di cacao, seguiti da Camerun, Brasile, Ecuador, Messico, Perù e Repubblica Dominicana. Tradizionalmente il cacao è venduto per l’esportazione sotto forma di fave mentre la trasformazione del cacao per la fabbricazione di prodotti finiti

o semilavorati (burro di cacao, cacao in polvere, cioccolato ed altro ancora) avviene nei Paesi importatori. Con implicazioni sociali ed economiche molteplici: vendita di beni agricoli sotto forma di commodities e quindi con valore unitario trascurabile da parte dei Paesi produttori e attività di trasformazione con ottenimento di prodotti ad alto valore aggiunto nei Paesi importatori; tendenza alla monocoltura (i due terzi del PIL della Costa d’Avorio derivano

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In alto: cabosse del cacao (photo © Bernard Perrier). A sinistra: cioccolato fondente (photo © fortyforks – Fotolia).

dalla produzione di cacao; in Ghana la coltivazione di cacao incide per un sesto del PIL) e alla perdita di biodiversità nelle aree di produzione; impossibilità da parte del consumatore finale ad avere un rapporto diretto con il produttore e conseguente dissociazione mentale tra materia prima e prodotto finale. Si stima che il consumo mondiale sia di quasi 4 milioni di tonnellate, delle quali circa 1,2 milioni di tonnellate in Europa (con ai primi posti Paesi Bassi,

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Germania e Belgio) e 0,4 milioni di tonnellate negli Stati uniti. L’altezza della pianta, che viene coltivata all’ombra di altre varietà arboricole, varia tra i 6 e i 9 metri: ha bisogno di luce ma non di sole diretto. I fiori, molto abbondanti, crescono direttamente sul tronco e sui rami principali e solo pochissimi si trasformano in frutti. Quando sono maturi hanno forma allungata, di lunghezza tra 10 e 35 cm, con scanalature verticali, e

prendono il nome di cabosse. Il colore è giallo chiaro, ocra o rosso in ragione della varietà. All’interno i semi, circa 50, sono avvolti da una sostanza biancastra, gelatinosa ed altamente zuccherina. Le varietà di cacao sono sostanzialmente tre, capaci di interpretare però il territorio d’origine: Criollo, Trinitario e Forestiero. Il cacao Criollo, cioè creolo, è originario del Messico ed è considerato il migliore in assoluto perché è molto aromatico, delicato, poco amaro, e il

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Claudio Pistocchi durante la preparazione della deliziosa torta al cioccolato che porta il suo nome (www.tortapistocchi.it). meno abbondante. Il cacao Forestiero è originario dell’America del Sud; non è considerato un cacao di grande qualità, ha gusto acido e accentuato. Copre circa l’80% della produzione mondiale. Il cacao Trinitario è un ibrido delle due varietà precedenti e, come tale, possiede le caratteristiche di entrambe le varietà. Il cacao Nacional coltivato in Ecuador è assai aromatico, da alcuni considerato derivante dal Forestiero. Per ottenere il cioccolato che conosciamo, i semi di cacao subiscono un processo di fermentazione e di essiccazione, seguiti dalla tostatura, che conferisce il caratteristico aroma e le specifiche caratteristiche organolettiche. Seguono il processo di macinazione e il riscaldamento con apposita miscelazione, che rendono la materia prima più o meno setosa a seconda del risultato che si vuole ottenere.

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Anche l’Italia ha le sue capitali Nel 1528 il primo carico di cacao arrivò in Europa al seguito dei conquistatori spagnoli e in meno di un secolo invase il palato delle corti. Anche quella del Regno d’Italia. A Torino, infatti, nel Settecento gli artigiani del cioccolato appartenevano già alla classe economicamente benestante, tollerati loro malgrado dall’aristocrazia che li giudicava cittadini culturalmente non adeguati (da qui il termine poco simpatico tuttora utilizzato di cioccolataio). Tra Settecento e Ottocento nacquero le prime industrie di trasformazione, tanto che la capitale del Regno divenne uno dei maggiori centri di riferimento nella lavorazione del cacao e si consolidò l’utilizzo di una signorile bevanda ancora oggi ben nota, il bicerin, a base di caffè, cioccolato e latte.

Anche i maestri svizzeri si precipitarono a Torino per apprendere l’arte della lavorazione del cacao. Nel febbraio 1865, per ovviare alla mancanza di cacao dovuta alle guerre napoleoniche, l’estro italico, impersonato da MICHELE PROCHET, inventò il gianduiotto, utilizzando le nocciole delle Langhe assieme alla pasta di cacao. In questo clima di fermento nacque nel 1946 anche la crema al cioccolato più diffusa al mondo, la famosa Nutella. Solo il caso volle che PIETRO FERRERO, proprietario di un grande negozio di pasticceria a Torino, spostasse la propria attività in quel di Alba, dando vita di fatto ad un’altra capitale del gusto italiano. L’attrazione fatale di Torino per il cioccolato continuò in molte piccole botteghe artigiane come la Domori di None (domori.com) o la Pasticceria Morandin di Saint Vincent (mauromorandin.it).

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Il cioccolato per categorie merceologiche

Nel febbraio 1865, per ovviare alla mancanza di cacao dovuta alle guerre napoleoniche, Michele Prochet inventò il gianduiotto, utilizzando le nocciole delle Langhe assieme alla pasta di cacao. In questo clima di fermento nacque nel 1946 anche la crema al cioccolato più diffusa al mondo, la famosa Nutella

• Fondente. Possiede profumo intenso e persistente di cacao, aspetto lucido e brillante, quando si scioglie in bocca lasciando una venatura piacevolmente amara e acidula. Al tatto si presenta liscio, setoso, vellutato, mai granuloso. Possiede almeno il 35% di cacao; il fondente extra almeno il 43%. • Cioccolato al latte. Viene preparato con cacao (almeno il 25%), zucchero e latte o prodotti derivati dal latte. Può essere definito Cioccolato al latte finissimo se la percentuale di cacao e di latte sono superiori al 25%. Possiede un aspetto lucido ed il profumo deve essere intenso e persistente, dolce. • Cioccolato bianco. Possiede sapore dolce e piacevole, ma non pasta di cacao! È infatti ottenuto da burro di cacao, zucchero, latte o prodotti derivati dal latte. • Cioccolato Gianduia. Si tratta di un cioccolato a cui si aggiungono nocciole finemente macinate, in proporzione variabile tra 20 e 40 grammi ogni 100 di cioccolato. Può essere anche al latte, per soddisfare i palati che ricercano note più dolci.

Preparazione del cioccolato nel retrobottega dell’Antica Dolceria Bonajuto, un’istituzione nel panorama della produzione del cioccolato di Modica (photo © www.bonajuto.it).

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Cioccolato dall Europa L arrivo di cacao in Europa e nei Paesi industrializzati (e la trasformazione in pasta che verrà utilizzata per la produzione di cioccolato) è saldamente nelle mani di poche multinazionali. Dal 2001 l Agenzia per gli Alimenti e i Medicinali degli Stati Uniti (Food & Drug Administration) ha stabilito che a partire dal 2005 le etichette di prodotti al cioccolato avrebbero dovuto riportare la certificazione di assenza di sfruttamento di lavoro minorile. Data che, tra un rinvio e l altro, è stata spostata al 2020. In Austria, a Riegersburg, Zotter (zotter.at) ha realizzato un percorso museale (in foto) e di svago dedicato al cacao e al cioccolato. L azienda utilizza materia prima che proviene dal circuito dei prodotti che evitano lo sfruttamento di lavoro minorile. Al visitatore è concesso di immergersi nel mondo del cioccolato grazie a numerosi pannelli informativi e assaggi che si possono fare lungo un tragitto che porta dalla cabosse alla tavoletta assistendo a documentari, assemblando polveri di cacao in differenti percentuali di purezza, mettendosi alla prova cercando di distinguere le diverse provenienze della materia prima. Le stazioni di assaggio sono sempre prese d assalto. Alla fine del viaggio sensoriale si può scegliere l acquisto tra quasi 400 tipologie di cioccolato (compresi veri e propri cru come il Huallaga peruviano o il Toledo dal Belize a differenti stadi di purezza a quelli curiosi ai funghi e all aringa), tavolette ripiene (dall insolito mirtilli e abete rosso a quello di ribes nero e lavanda), cioccolatini ripieni (dai semi di zucca all uva spina e ai datteri), creme e siringhe ricostituenti imbottite di cioccolato. Un vero paradiso per chi ama il cioccolato. La FAMIGLIA KOCBEK da generazioni produce olio di semi di zucca e girasole spremuti a freddo nella Slovenia nord-orientale (kocbek.si). Gorazd, appassionato di cioccolato, ha sommato alla tradizione familiare un tema esotico come il cacao. Ne è nato un marchio, Passion Strast, apprezzato da chi ama il cioccolato artigianale fondente con olio di semi di zucca alla cipolla fritta, al rosmarino, ai fichi, al Refosco. E, manco a dirlo, con l aggiunta di semi di zucca. Zara, in Croazia, è una delle capitali mediterranee del cioccolato. Forte di una tradizione che vide sino al 1944 al banco di lavoro grandi artigiani come GIOVANNI BATTARA e ANTONIO ZERAUSCHEK (fondatore del cioccolato Ausonia), DUBRAVKO VITLOV vi aprì nel 2012 l omonima cioccolateria. Ha conquistato in pochi anni una ottima reputazione grazie all alto livello delle materie prime utilizzate e alla possibilità di proporre i suoi manicaretti ai capi di stato in visita ufficiale a Zagabria. Cioccolato fondente al sale di Nona e con la ricotta di Pago sono gli ultimi nati di una offerta che ha nel cioccolato al maraschino la sua quintessenza. Vitlov, trasferitosi nella regione quarnerina, a Mattuglie, dice «riempio un cioccolato di valore mondiale con un liquore che si produce a Zara da 500 anni. È il marchio stesso di Zara». Un simbolo nuovo che punta sull antico. Il cioccolato fa anche questo.

Grazie agli influssi dati nel Seicento dalla corte dei Medici, anche i dintorni di Firenze possiedono una certificata storia nell’arte cioccolatiera. Nelle province di Prato, Pisa e Pistoia si sono infatti sviluppate realtà di grande pregio nella lavorazione della materia prima: tavolette, praline, uova di Pasqua e creme spalmabili realizzano una vera e propria via toscana del cacao. Non mancano però vere e proprie tentatrici innovazioni. Come la torta Pistocchi, realizzata dall’omonima pasticceria del capoluogo solo con cioccolato e cacao amaro in polvere, senza utilizzare uova, burro o farine, ma neppure grassi vegetali o conservanti (tortapistocchi.it). Questo distretto è an-

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che noto per l’originalità di alcuni suoi maestri, come CATINARI di Agliana (PT), dalla lunga e folta barba bianca (robertocatinari.it); o CECILIA TESSIERI, maestra cioccolatiera in Pontedera (amedei.it). Ci sono poi alcuni prodotti a base di cioccolato creati in Italia che simboleggiano la creatività e il buon gusto tricolore. Probabilmente il più conosciuto al mondo è il Bacio Perugina, il cioccolatino tondeggiante farcito da gianduia e granella di nocciole che regala al suo interno i cartigli con frasi celebri. La sua storia è ben rappresentata nel Museo storico della fabbrica di Perugia attraverso immagini, curiosità, confezioni e filmati. Fu la celebre stilista LUISA SPAGNOLI a impastare per la prima

volta il Bacio, che ricorda l’immagine della nocca di un pugno chiuso, e da allora non esiste festa degli innamorati (ritratti magicamente da FRANCISCO HAYEZ) dove non svolga il ruolo del protagonista (baciperugina.it). PAUL OBERHÖLLER di Sarentino (BZ) prepara tavolette di cioccolato ricoperte con frammenti di mela o Schüttelbrot, o ancora inserendo nella massa da lavorare l’aroma di resina di pino mugo, combinando con il cacao differenti sapori altoatesini (oberhoeller.com). Esiste un’altra grande capitale del cioccolato, anche questa sviluppatasi grazie agli stretti rapporti esistenti con il Regno di Spagna, attraverso quella che era la Contea di Modica. Il cioccolato

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Grazie agli influssi dati nel Seicento dalla corte dei Medici, anche i dintorni di Firenze possiedono una certificata storia nell arte cioccolatiera. Nelle province di Prato, Pisa e Pistoia si sono infatti sviluppate realtà di grande pregio nella lavorazione della materia prima, realizzando una vera e propria via toscana del cacao

Paul Oberhöller. Nell’omonima azienda altoatesina, in Val Sarentino, Paul impiega uno dei cioccolati più raffinati del mondo, il Valrhona, per realizzare originali creazioni con il pane croccante di segale, il pino mugo o la frutta essiccata, in particolare mele e pere.

di Modica (cioccolatomodica.it) viene creato con pasta di cacao e zucchero assemblati a basse temperature tanto che gli ingredienti sono ben percepibili separatamente. La tavoletta è traslucida per i cristalli di zucchero che si sgranocchiano con la pasta di cacao e, grazie al particolare processo produttivo, non si liquefa alle alte temperature estive. Talvolta vengono aggiunte spezie per caratterizzare ulteriormente il prodotto finale: vaniglia, caffè, cannella, ma anche sicilianissime materie prime come il sale di Trapani, le mandorle d’Avola o le carote di Ispica. Nuove frontiere dell’arte cioccolatiera italiana, che ha alle spalle 400 anni di storia. Riccardo Lagorio

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Buono e bello! Ecco un bell esempio di come l identità visiva e il packaging siano fattori strategici nella valorizzazione di un prodotto. Si tratta della linea Crude ‒ Raw Chocolate prodotta dai maestri cioccolatieri siciliani Sabadì, che per questo cioccolato biologico utilizzano solo due ingredienti, cacao in percentuali diverse (70, 80, 90, 100) e zucchero. Il progetto è stato sviluppato dallo studio veronese Happycentro, che hanno pensato ad un cartone grezzo impreziosito da una stampa metallica a caldo che conferisce valore al packaging (fonte: designplayground.it).

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I VINI DI PREMIATA SALUMERIA ITALIANA

Degustazione: vino e cassoeula di Laura Franchini

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edichiamo questo numero della rubrica ad un piatto regionale della tradizione lombarda, la cassoeula, e ai vini in abbinamento. Anche detta casoeula, cassouela, casoela, cassuola o cazzuola (diminutivo di cazza, tegame), deve quasi certamente il suo nome alla casseruola dentro la quale viene preparata, ma è conosciuta anche con il nome di bottaggio, da botte o più probabilmente dal francese potage (minestra), pot (pignatta) — simili ai termini olla (spagnolo di pignatta, da cui olla podrida) — e potée (pentola) indicanti preparazioni simili. Si ipotizza anche che il nome derivi dal cucchiaio con cui si mescola (casseou) e si narra anche che possa aver preso il nome proprio dalla “cazzuola”, l’attrezzo utilizzato dagli operai dei cantieri edili per mescolare il piatto, preparato una volta che l’edificio in costruzione fosse giunto al tetto. Richiede una lunga preparazione e non è esattamente ipo-calorica. Gli ingredienti sono la verza, che per tradizione deve aver subito la prima gelata invernale, e le parti economiche del maiale: piedini, cotenne, costine, testa e i “verzini”, piccolissimi salamini simili a salsicce. La ricetta più accreditata risale all’inizio del XX secolo ma le varianti più antiche sono di origine incerta.

Due sono le ipotesi: la prima farebbe risalire la cassoeula alle ritualità del culto popolare di Sant’Antonio abate, festeggiato il 17 gennaio, data che segnava la fine del periodo delle macellazioni dei maiali. La seconda, invece, ipotizza che il piatto sia di origine barocca e prevedesse quindi l’utilizzo di diversi tipi di carni, con una successiva riduzione di ingredienti. Esiste anche una versione “leggendaria” che vuole che la cassoeula nasca da una storia d’amore: un soldato spagnolo, invaghitosi di una giovane donna milanese, cuoca di una famiglia nobile, le avrebbe insegnato la ricetta. In seguito la giovane avrebbe proposto con successo il piatto ai suoi datori di lavoro. Come ogni ricetta tradizionale che si rispetti ogni zona della Lombardia ha la sua variante: in provincia di Como non si mettono i piedini ma si usa la testa del maiale, nel Pavese si usano solo le costine, nella zona ad ovest di Milano, dalla Lomellina al Varesotto, si chiama ragò e si prepara con la carne d’oca. Alcuni ingredienti sono d’introduzione recente come l’aggiunta di un bicchiere di vino bianco e/o di spezie. Nella versione più classica è improbabile l’uso della conserva di pomodoro, che pure alcuni aggiungono, seppur in minima misura.

Sgrassatura e cottura al forno possono alleggerire questa gustosa pietanza tipica lombarda, ma anche il vino può essere d aiuto per attenuare l affaticamento del palato e smorzare la sensazione grassa in bocca

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La cassoeula è un piatto tipico lombardo che richiede una lunga preparazione. Gli ingredienti principali sono la verza, che per tradizione deve aver subito la prima gelata invernale, e le parti economiche del maiale: piedini, cotenne, costine, testa e i “verziniâ€?, piccolissimi salamini simili a salsicce.

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Valtellina Superiore Sassella Stella Retica Riserva 2011 Arpepe Isabella e Emanuele Pellizzati Perego hanno raccolto l’importante eredità enologica del papà Arturo, restituendo alla storica cantina valtellinese lo splendore che la caratterizzava e, soprattutto, producendo vini di grande eleganza, in linea con la tradizione importantissima del territorio e rispettosa del vitigno. 100% vitigno Nebbiolo varietà Chiavennasca, questo vino effettua una macerazione di 6 giorni in tini di legno da 50 hl e un affinamento di 2 anni in tini, botti e cemento, per concluderlo in bottiglia. In linea con la straordinaria eleganza del vitigno e della produzione della cantina, questo calice stupisce per persistenza e bevibilità, raffinatezza e impronta, binomio tanto auspicato quanto raro. Sentori speziati e fruttati, su balsamicità e forti richiami di terra e di territorio, per questo calice assolutamente bilanciato, di grandissima armonia conclusiva. Lo sposalizio con la cassoeula, piatto ben conosciuto in Valtellina, sarà corretto sulla carta come al palato, non solo per ragioni geografiche.

Arpepe Via Buon Consiglio 4 23100 Sondrio (SO) Telefono: 0342 214120 E-mail: info@arpepe.com Web: www.arpepe.com

Sforzato di Valtellina DOCG Pergiulio 2011 Cantina Menegola Valtellina dalla viticoltura eroica anche per questo calice, che proviene da viti di circa 30 anni di età nella cantina voluta dai fratelli Menegola e nata nel 2006. Ma è dal 1850 che i Menegola si dedicano alla viticoltura e la sapienza di tanti anni è evidente. Effettua 20 giorni di macerazione a contatto con le bucce ad una temperatura di 25°C e viene poi affinato per 12 mesi in barriques, 12 mesi in botti di rovere e più di 24 mesi in bottiglia. Processo ampio che regala struttura e carattere, persistenza e intensità. Sono incisive le note fruttate mature, in una complessità olfattiva che ricopre spezie e foglie di tabacco, balsamicità e terziari puliti. La sorsata è decisa ed armonica, coerente la retrolfattiva, lunghezza evoluta per un vino che gioca la parte del cannoniere, per tecnica e talento. Adattissimo al rito della meditazione, ovvia l’immagine della baita valtellinese e del camino acceso, sarà adatto ad accompagnare pasti importanti e piatti elaborati, come la cassoeula.

Cantina Menegola Via Ezio Vanoni 16 23012 Castione Andevenno (SO) Tel.: 349 6945516 – 334 3699971 E-mail: info@cantinamenegola.it Web: www.cantinamenegola.it

Sforzato di Valtellina DOCG Corte di Cama 2013 Mamete Prevostini Se passate dalla meravigliosa Valtellina fate visita a Mamete Prevostini: verrete rapiti dalla sua passione. E già che ci siete fate un salto anche al suo più che ottimo ristorante, il Crotasc, a Mese (SO), ne vale davvero la pena. Subiscono il tradizionale appassimento che da il nome al vino le uve 100% Nebbiolo di questo calice. Uve raccolte in cassetta e lasciate appassire in fruttaio fino agli inizi di dicembre, successivamente pigiate e fermentate in acciaio inox per 18 giorni. Passa poi 15 mesi in fusti di rovere e affina per 10 mesi in bottiglia. Alla degustazione risulta pieno e convincente, muscoloso pur con una netta freschezza che rende il tutto equilibrato ed armonico. Lungo di frutta scura e uva passa, con netti ricordi di pot-pourri, mantiene al palato la medesima eleganza strutturale. Il calice è molto adatto alle fredde sere invernali, accompagnato da formaggi stagionati e brasati di carne. La cassoeula amerà la sua calda compagnia, così come il vostro palato.

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Mamete Prevostini Srl Via Don Primo Lucchinetti 63 23020 Mese (SO) Telefono: 0343 41522 E-mail: info@mameteprevostini.com Web: www.mameteprevostini.com

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Oltrepò Pavese DOC Barbera Campo Rivera 2012 Pietro Torti

Azienda agricola Pietro Torti Località Castelrotto 27047 Montecalvo Versiggia (PV) Telefono: 0385 99763 E-mail: info@pietrotorti.it Web: www.pietrotorti.it

La famiglia Torti coltiva da generazioni i vigneti di proprietà sulle colline di Montecalvo Versiggia, nelle vocatissime zone dell’Oltrepò Pavese, dove produce anche questa bella Barbera, decisa e convincente. Uve Barbera in purezza per questo prodotto, che fermentano 14 giorni sulle bucce e subiscono successivamente un affinamento di 12 mesi in barriques di rovere di Allier. Rosso rubino dai riflessi purpurei il calice, sprigiona note intensissime di frutta, fresca e matura, ricordi di vaniglia e cannella, bouquet raffinato e pieno. Come piena è la sorsata, morbida al palato, con la freschezza carica che ci si aspetta, senza essere delusi, da un vino Barbera. Si tratta di un’espressione virile, intensa, che si presta ad abbinamenti anche corposi, per quanto non sfiguri con una bella merenda a base di pane e salame. La cassoeula è un piatto strutturato, ma questo calice si presta all’abbinamento. Da provare.

Bonarda dell’Oltrepò Pavese DOC Staffolo 2015 Anteo

Azienda Agricola Anteo Località Chiesa 27040 Rocca de’ Giorgi (PV) Telefono: 0385 99073 E-mail: info@anteovini.it Web: www.anteovini.it

L’azienda agricola Anteo sorge nella fascia est del comune di Rocca de’ Giorgi, ai confini con la Valle Versa, nel pieno dell’Oltrepò Pavese. Un vino meno strutturato di quelli proposti in questa rubrica, proprio perché grazie alla spuma e alla freschezza può ripulire bene il palato dalla decisa grassezza della cassoeula. Sono uve Croatina in purezza per questo calice che si presenta pimpante di frutta fresca, more e mirtilli, lamponi e speziatura leggerissima, su un bel rosso rubino con riflessi violacei. La sorsata non delude, è equilibrata e intensa, gioviale e rotonda, dall’acidità presente ma non scontrosa, come la trama tutta. Si presta con grande facilità anche a merende gustose, a coppe piacentine e paste ripiene.

Valtellina Superiore DOCG Inferno Riserva Al Carmine 2009 Caven Camuna

Azienda Agricola Caven Camuna Via Stelvio 40/A 23030 Chiuro (SO) Telefono: 0342 482631 E-mail: info@cavencamuna.it Web: www.cavencamuna.it

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L’azienda è stata fondata nel 1982 dai fratelli Stefano e Simone Nera. Il nome deriva dal fatto che in località Caven, dove si trova la sede dell’azienda, risiedeva la civiltà Camuna, della quale sono venuti alla luce reperti archeologici. Ottenuto esclusivamente da uve Nebbiolo, localmente denominate Chiavennasca, scrupolosamente selezionate e proveniente da vigneti storici, deve il suo nome dalla caratteristica chiesa che domina una delle migliori zone viticole valtellinesi: l’Inferno, una delle quattro sotto-zone del Valtellina Superiore DOCG. Vino intenso e avvolgente, caldo e deciso, porta con sé tutte le caratteristiche necessarie a scaldare una fredda sera invernale. Sono note fruttate, frutta matura e ricordi di datteri e uva passa, speziatura intensa e sfaccettata, vaniglia, cannella e tabacco in foglia. Armonico ed e equilibrato, non lascia spazio alle mezze misure. In poltrona con un sigaro o davanti a piatti elaborati farà la sua parte, con virile eleganza. d

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BEVANDE

Professione distillatore di Riccardo Lagorio

I distillati di frutta sono tra i liquori più antichi al mondo. Ogni paese possiede un suo liquore tipico realizzato con i frutti prodotti dalla propria terra. Tra i più noti c’è il Calvados, risultato della fermentazione di mele di Bretagna (photo © chris32m – Fotolia).

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istillati e liquori, due produzioni della cultura alimentare italiana spesso confusi, in verità tanto diversi tra loro. La difformità fondamentale è che liquori sono ottenuti per infusione in alcol di sostanze aromatiche con aggiunta di zucchero, i distillati provengono dal riscaldamento di frutta fermentata e dal raffreddamento del vapore che si riversa sotto forma di alcol. I distillati di frutta si sono ritagliati nei secoli una congrua fetta di mercato di appassionati. Forse il più noto distillato è il Calvados, risultato della fermentazione di mele di Bretagna. Si intuiscono immediatamente le differenze tra distillati e grappa (ottenuta per distillazione, ma di vinacce), tra distillati e brandy (per la distillazione è utilizzato vino), tra distillati e whisky (qui sono i cereali, specie l’orzo, a subire il processo di fermentazione e successiva distillazione), tra distillati di frutta e rum (dove la fermentazione interessa la canna da zucchero). A nord delle Alpi i distillati di frutta sono un fenomeno assai diffuso. In Italia la tradizione dei distillati si concentra in

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In alto: la distilleria Morand (photo © Robert Hofer). In basso: la grappa Zu Plun prodotta da Florian Rabanser (photo © www.zuplun.it). Trentino Alto Adige e Val d’Aosta, ma a macchia di leopardo un po’ tutta la penisola ne è coinvolta. Accade per Albachiara, distillato di albicocca del Vesuvio a Boscotrecase (NA) dall’azienda agricola Sorrentino (sorrentinovini.com). Le albicocche giunte al giusto grado di maturazione vengono pigiate, separando la polpa dalla buccia e dal nocciolo. Particolare attenzione deve essere garantita nella fase di fermentazione, in quanto gli aromi risultano molto sensibili alla temperatura e alla durata del processo

fermentativo. Segue la distillazione che permette di ottenere un liquido incolore e limpido, capace di trasmettere le note dolciastre dell’albicocca, ma con lunga secca vena finale di amaretto. In Sicilia i distillati di frutta hanno trovato in GIOVANNI LA FAUCI (distilleriagiovi.it) non solo un impareggiabile autore, ma soprattutto un appassionato sostenitore. Grazie all’opera dei suoi alambicchi il profumo e il calore delle ciliegie dell’Etna (ma anche di mele e fichidindia) vengono imbalsamati in bottiglie dalla trasparenza cristallina. La

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Lambert Draxl. Il distillatore di Inzing, comune austriaco di 3.754 abitanti nel distretto di Innsbruck-Land, in Tirolo, da vent’anni svetta nei campionati regionali e nazionali con i suoi distillati.

buona gradazione alcolica — almeno 43 gradi — e i lunghi affinamenti in acciaio contraddistinguono i suoi preziosi distillati, ottenuti da frutta coltivata con metodi naturali. Cerveteri nel Lazio non ricade certo nelle aree a maggior vocazione per la produzione di superalcolici. In controtendenza, in piena epoca di facile etilometro, LUCA BRANDOLINI ha intrapreso nell’ottobre del 2015 l’attività di distillatore (casaledigricciano.com). «Nel nostro agriturismo ci sono tante pesche di varietà Spring Lady che non

potevano venire utilizzate. Con l’aiuto di uno dei massimi conoscitori della distillazione in Italia, VITTORIO CAPOVILLA, ho cercato di capire se ci sarebbe stato uno sbocco commerciale se fossero state distillate. Anche grazie a una denocciolatrice che sminuzza la polpa delle pesche, le lascio fermentare per un periodo variabile tra i 7 e i 15 giorni, dipende dalla temperatura esterna e dal grado zuccherino che svolgono. Dopodiché distillo la poltiglia ottenendo la flemma, che viene ripassata in alam-

I distillati di frutta sono ottenuti da mele, pere, prugne, pesche, albicocche…. Una tradizione ben radicata nelle regioni di montagna, soprattutto in Trentino-Alto Adige. Questi elisir nascono infatti dalla proverbiale capacità dei contadini di sfruttare al meglio i prodotti della terra

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bicco. A questo punto tolgo la testa e la coda, mantenendo il cuore del distillato, che va dai 70 ai 90 gradi. Infine viene aggiunta acqua, acquistata da un’azienda autorizzata, per portare il distillato di pesca alla gradazione di 40 gradi». Dove però si concentrano molti distillatori di frutta è nelle province di Trento e Bolzano. Nella frazione San Valentino di Castelrotto FLORIAN RABANSER vantava una lunga storia come ristoratore, poi 14 anni fa si è ritirato nel maso Plunhof (zuplun.it), a quasi 1100 metri di altitudine ai piedi dello Sciliar per coltivare la passione di sempre: la distillazione. «È una sfida perché la massa non beve più superalcolici. Rimane una fascia alta di consumatori che apprezza prodotti esclusivi e io cerco di inserirmi in questa fetta di pubblico». Dobbiamo ammetterlo, riuscendoci. I distillati di Rabanser hanno una marcia in più. Molti di essi vengono prodotti con frutta raccolta sui terrazzamenti intorno al maso: le albicocche, le mele e le pere. Tuttavia, quello che ci ha convinto di più per la ricchezza di aromi, permanenza e densità sensoriale è quello di lamponi selvatici, che richiede un meticoloso lavoro manuale. Partendo dalla considerazione che per 5 litri di distillato serve almeno un ettolitro di lamponi macerati. Il distillato di prugne dell’Alto Adige invecchia invece almeno due anni in botti di rovere dove assimila intriganti note speziate e caramellate. Lasciato lo spazio vendita in stile avanguardista di Rabanser, ci si può calare in quello assai più tipico di MARTIN MAURACHER a Cornaiano (fischerhof-mauracher.it): nel maso che risale al Seicento, praticamente da sempre si producono distillati di frutta. Qui l’artigianalità è di casa e si percepisce soprattutto nella unicità di alcune proposte. Come il distillato di mela Gravensteiner, particolarmente adatta per la distillazione in considerazione del sapore acidulo e fortemente aromatico. La lunga conservabilità (la raccolta avviene in agosto, ma il consumo si protrae anche sino a novembre) non l’ha risparmiata dal declino colturale. Se ne ricava un distillato secco ed equilibrato. Ma la vera squisitezza è il distillato di sorbo, raccolto in Val Sarentino. Sono davvero poche le bottiglie che Mauracher riesce a imbottigliare. «Il sorbo è

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selvatico e necessita di una lavorazione complessa, dovuta al fatto che si tratta di un frutto assai secco e che contiene poco zucchero, necessario alla fermentazione. Così la produzione annua riesce sempre incerta». Ma il risultato finale è un ventaglio di sentori erbacei altrove inimmaginabile, dall’effetto balsamico e con un retrogusto intenso di marzapane e mandorla. Nondimeno è in Tirolo dove i distillati di frutta (Schnaps) sono ampiamente diffusi. Tanto che presso il mercato coperto di Innsbruck uno spazio viene destinato giornalmente ai contadini che propongono frutta, verdura e Schnaps. Tra questi, personaggi come CHRISTOPH KÖSSLER di Stanz (edelbraebdetirol.at) sono diventati popolari e stimati non solo per il recupero di varietà di pere e mele autoctone da destinare alla distillazione o per l’utilizzo di frutta selvatica (more, mirtilli o rosa canina), ma anche per alcuni particolari affinamenti in botti di legno. O come LAMBERT DRAXL (draxl-schnaps.at), di Inzing che da vent’anni svetta nei campionati regionali e nazionali: direttamente dal giardino intorno al maso provengono le Belle di Boskoop (dall’aspetto rustico e profumatissime), le Gravensteiner, poi mirabelle e ciliegie, il cui distillato viene affinato in botticelle di ciliegio. Come curiosità (e bontà) va segnalato il distillato di cachi di ELIGIO BOLDINI di San Vittore, nel cantone dei Grigioni (boldini.ch). Boldini iniziò nel 1988 l’attività di produttore di vino quasi per caso, affiancando anno dopo anno quella di distillatore. Così che anche il suo distillato al lampone vale il viaggio. Tra i nomi commerciali che si sono affermati a tal punto da essere copiati e diventare un’istituzione è il Williamine, il distillato di pera Williams della distilleria Morand di Martigny (morand.ch): per un litro servono 12 kg di frutta. La storica distilleria fondata nel 1889 ha dalla sua anche distillati di ciliegie e prugne esportati un po’ ovunque nel mondo. Naso pronunciato di pera matura, liquido prorompente in bocca. Se non fosse per l’impossibilità di mordere e masticare, alla Morand avrebbero compiuto il prodigio di dare forma all’Idea di Platone. Con i lineamenti di una pera Williams. Riccardo Lagorio

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Grappaterapia, nuovo segreto di bellezza Una caldaietta lavorava lenta e il vapore attraversava pazientemente le bucce delle vinacce per estrarre alcool . Polveri di diamante, caviale, placenta botanica, veleno d ape e di serpente, bava di lumaca e bagni alla birra sono alcune follie di bellezza che promettono una pelle e un fisico in perfetta forma che non sembra temere gli effetti del tempo. A questi segreti scelti dalle star internazionali e dalle casalinghe che approfittano degli sconti offerti da Groupon, si aggiunge la grappaterapia. La si può provare a Villa Prato, una residenza settecentesca trasformata dalla famiglia Berta, proprietari delle omonime distillerie, in un esclusiva oasi di benessere nel cuore di Mombaruzzo, in provincia di Asti. La grappaterapia è un trattamento di bellezza eseguito con cosmetici ricavati della distillazione dell uva, un frutto dalla proprietà antiossidanti. Le vinacce sono ricche di polifenoli e di flavonoidi che aiutano a contrastare l invecchiamento cellulare, purificare la pelle, tonificare la micro-circolazione periferica, idratare e donare nutrizione proteica, lipidica, vitaminica e minerale. Bagni, fanghi, massaggi, creme e impacchi che rendono la pelle splendente, in salute e con un aspetto più luminoso e levigato grazie alle riconosciute proprietà rigeneranti e idratanti degli acini e dell olio di vinacciolo. I particolari trattamenti proposti a base di grappaterapia a Villa Prato comprendono il trattamento al viso alla vinaccia, il peeling al corpo ai vinaccioli e zucchero, il fango corpo alla vinaccia, il trattamento a mani e piedi con crema alla vinaccia, il massaggio rilassante all uva e olio di vinaccioli con olio derivato dalle vinacce Berta. Le grotte sotterranee ospitano, poi, l aromaterapia: un avventura sensoriale, che trae origine dai profumi ricavati dagli oli essenziali, dalle spezie e dagli aromi dei pregiati distillati di casa Berta. Terminati i trattamenti, nella storica distilleria a Casalotto di Mombaruzzo è possibile degustare i distillati, le grappe d invecchiamento e il tradizionale amaretto morbido di Mombaruzzo. In questo piccolo angolo di Piemonte si può anche visitare il Museo degli alambicchi e bottiglie d epoca. Ideato da Annacarla Berta e dalla designer Jessica Koba, vi sono raccolti gli strumenti per la produzione della grappa e per il lavoro nei campi, dal 1800 ai primi del 1900. >> Link: www.relaisvillaprato.it

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Seychelles, rum in paradiso di Massimiliano Rella

V

icino ad Anse Royale, una delle più belle spiagge dell’isola di Mahè, alle Seychelles, l’azienda Takamaka produce ottimo rum, uno dei migliori di questa zona dell’Africa orientale tra le acque dell’Oceano Indiano. Orgoglio dei fratelli RICHARD e BERNARD D’OFFAY, creoli “bianchi” di evidenti origini francesi, l’azienda si trova dentro un incantevole sito naturale protetto dalla Seychelles Heritage Foundation, come luogo di interesse culturale. Per oltre duecento

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anni la tenuta è stata una piantagione di banane, tabacco, cotone, poi caduta in disuso dopo la fine della schiavitù. Pochi anni fa è stata ristrutturata e recuperata. Oggi Takamaka paga un affitto per usare gli spazi garantendo anche la buona gestione del sito. Gli impianti produttivi gestiti da 75 dipendenti sono in edifici sostenibili, ben armonizzati con la natura. Chi vuole conoscere la storia di una delle migliori canne da zucchero del continente, scoprire i segreti del buon rum delle Seychelles, visitare un

museo “vivo e produttivo” e ovviamente degustare vari tipi di rum, acquistarli e anche mangiare qualche piatto creolo nel ristorante interno La Plaine St. André, con veranda e giardino, qui è il benvenuto. La degustazione costa 125 rupie (€ 9,00), un conto medio di tre portate 1.000 rupie (€ 68,00). Le Seychelles sono care, ma tant’è. Nata nel 2002 dall’entusiasmo e dall’intraprendenza dei due giovani fratelli D’Offay, con un investimento di 10.000 dollari e una lavorazione

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Richard D’Offay, proprietario con il fratello dell’azienda di rum Takamaka, sull’isola di Mahé.

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Cosa rende speciale il rum di Takamaka? Prima di tutto la materia prima di qualità. La canna da zucchero di Mahè, acquistata da una rete di contadini del nord dell isola, la zona più agricola e meno sviluppata, è tra le migliori in circolazione: biologica, tagliata e pressata a mano

tutta manuale, inclusi imbottigliamento ed etichettatura, l’azienda è passata gradualmente dalle iniziali 8.000 bottiglie a una produzione di 25.000 casse (da 6 e 12 bottiglie da 1 litro) in media all’anno. «Siamo stati abili a reinvestire» ci confida D’Offay. «Quando nel 2008 la crisi ha fatto toccare il fondo all’economia delle Seychelles abbiamo investito in macchinari nuovi, linee d’imbottigliamento, etichettatura, marketing e promozione». Nel 2016 Takamaka prevede di arrivare a 30.000 casse, differenza destinata ai mercati esteri. Oggi esporta appena il 13% del prodotto. «Purtroppo il nostro rum non arriva in Italia» continua D’Offay. «È un mercato che ci interessa, ma non abbiamo i numeri per accontentare tutti, la nostra è una dimensione ancora artigianale». Il principale mercato d’esportazione è la città di Dubai, negli Emirati Arabi, mentre in Europa è la Germania a importare la maggiore quantità, ma parliamo sempre di qualche decina di casse. Ma cos’è che rende speciale il rum di Takamaka? Prima di tutto la materia prima di qualità. La canna da zucchero di Mahè, acquistata da una rete di contadini del nord dell’isola, la zona più agricola e meno sviluppata, è tra le migliori in circolazione: biologica, tagliata e pressata a mano. Anche la canna da zucchero risente delle condizioni meteo, più gonfia d’acqua

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Piccoli alambicchi di sperimentazione nell’azienda di rum Takamaka, isola di Mahé. nei periodi troppo piovosi, asciutta in quelli di siccità. L’equilibrio — cioè il succo migliore — è la soluzione ideale e il prezzo — 4 rupie al kg, circa 30 cent di € — è tra i più alti nel continente africano. Il succo estratto è lasciato per quattro giorni in vasche di fermentazione a temperatura controllata. Poi viene travasato in alambicchi discontinui (batch distillation) per una prima distillazione, ma è con la seconda che vengono separate testa, cuore e coda. Qui finisce la produzione e comincia il piacere. Takamaka propone quattro tipi di rum. Uno spiced rum dal colore dorato, speziato con caramello, vaniglia e una miscela segreta di sapori; un rum bianco

e puro per consumatori che amano l’alcol; un rum al cocco, dal grado alcolico più basso, un po’ più “aperitivo”; e poi il rum da intenditori, il St. André invecchiato otto anni in botti di legno americano usate. I prezzi vanno dai 18 ai 45 euro a bottiglia per il più pregiato. Solo per il mercato interno Takamaka imbottiglia vodka prodotta in Sud Africa per rivenderla alle Seychelles (info: www.takamakabay.com). Massimiliano Rella Nota A pagina 118 visita turistica agli alambicchi in produzione nell’azienda di rum Takamaka, sull’isola di Mahé; photo © Massimiliano Rella.

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STORIA E CULTURA Una tradizione della cultura alimentare italiana da salvaguardare

Il norcino di Andrea Laganga

S

iamo all’alba di una gelida mattina di febbraio. La nebbia galleggia a qualche centimetro da terra e si confonde col vapore dell’acqua bollente, preparata per lavare la carcassa, cui hanno già fatto pelo e contropelo. Il fiato degli uomini si frantuma in mezzo al crocchio, tra gesti veloci e professionali… Siamo tra le mura delle case padronali delle nostre campagne, racconti di tradizioni ora mai sempre meno note, quando il

rito della mattanza domestica del maiale era una festa per le grandi famiglie unite del passato. Quando ancora mangiare la ciccia era considerata un normale e doveroso vizio per la salute di tutti i cari, e la carne di maiale era un sublime piacere da conquistare. Questa pratica di non facile svolgimento era (e lo è sempre) demandata alle sapienti mosse di un’abile figura professionale: il norcino, colui che macella il maiale e si occupa di

lavorarne le carni. Un tempo, il maiale era ucciso in modo barbaro, sgozzato e lasciato morire per dissanguamento perché la carne restasse più tenera e si conservasse meglio. Oggi, fortunatamente, la legge impone l’uso di una pistola veterinaria, che stende l’animale all’istante. Il maiale, insomma —sebbene questo sia per la vittima una consolazione da poco —, non sente dolore. La macellazione è eseguita da un abile professionista

Gian Luigi Uboldi, Il Norcino all’opera, Ex Libris, 1984, Collezione Gian Carlo Torre, Genova. L’uccisione del maiale nel mondo della civiltà contadina assumeva il valore di un vero e proprio rito (photo © www.museidelcibo.it).

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Dal XII al XVII secolo ci fu un forte sviluppo dei mestieri legati alla trasformazione delle carni suine e fra questi il norcino. Tali professionisti iniziarono anche ad organizzarsi in corporazioni o confraternite, andando a ricoprire importanti ruoli all interno della società e creando nuovi prodotti di salumeria. A Bologna esisteva la Corporazione dei Salaroli, mentre nella Firenze De Medici nacque la Compagnia dei facchini di S. Giovanni decollato della nazione norcina. Papa Paolo V, con bolla del 1615, riconobbe la Confraternita norcina dedicata ai santi Benedetto e Scolastica. Otto anni più tardi papa Gregorio XV elevò questa associazione ad Arciconfraternita, alla quale nel 1677 aderì anche l Università dei pizzicaroli norcini e casciani e dei medici empirici norcini

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per non rovinare tutto quel bendidio da trasformare in salumi, braciole e salsicce. La carne di maiale di prima scelta è color rosso pallido e ha grana sottile, venata di rosso. Il lardo, pure di grana sottile, è alto, bianco-rosato e sodo. Chi macella in casa cerca di ottenere la maggiore quantità possibile di carne da utilizzare per preparare prosciutti, pancette, coppe, salami, ciccioli e sapidi insaccati da cuocere, come zamponi, cotechini e salsicce. La carne fresca, braciole costolette e altri tagli, è quella che si trova abitualmente dal macellaio, il quale è rifornito ogni giorno dai macelli industriali. D’inverno, ad utilizzare i residui della macellazione suina si comincia il giorno stesso della pcarìa. Al termine delle lunghe operazioni, che impegnano diverse persone, tutte con compiti ben precisi, si festeggia la fine del lavoro con un pranzo, ovviamente a base di carne di maiale. Un tempo si recuperava anche il sangue, fritto in padella insieme a strutto e cipolla. Qualcuno lo utilizzava (secondo un’usanza diffusa in molte regioni) per preparare economiche ma appetitose frittate insieme a diversi ingredienti. Ogni singola lavorazione era fatta per coprire l’alimentazione di quasi tutto l’anno. Prima le frattaglie in umido e le ossa per il brodo per poi arrivare in primavera per iniziare ad assaggiare i cotechini e il prezioso lardo usato anche per i dolci. Ancora nei primi anni del Novecento, nelle fredde domeniche dei paesi intorno a Norcia venivano reclutate queste figure specializzate per la mattanza dei maiali per le famiglie dei poderi. Conosciuti anche nell’antica Roma come esperti nell’arte di castrare i porci e lavorarne le carni, i norcini avevano una notevole abilità manuale che li rendeva idonei anche a piccoli interventi quali incidere ascessi o cavare denti o steccare qualche fratture. Alcuni di essi dimostrarono anche notevoli capacità tecniche che li spinsero a interventi chirurgici maggiori (ernie, cataratta, asportazione di tumori…) e furono anche molto richiesti per la castrazione di bambini che dovevano essere avviati alla carriera lirica o teatrale come voci bianche, ma naturalmente ciò non poté evitare la scarsa considerazione di cui godettero in campo medico (…sei un macellaio)*.

Ma come mai questa figura sta scomparendo? La figura del norcino è in via di estinzione come tante tradizioni legate alla cultura contadina. Questo perché la gente scappa dalla “terra” per rifugiarsi nelle occupazioni cittadine e le numerose famiglie unite di “una volta” sono sempre più rare e meno unite, sia per affetto che per stili alimentari. È facilmente intuibile che i fruitori del servizio del norcino siano in notevole diminuzione, complice anche una mutata filosofia alimentare: in passato imperava inesorabile la cultura gastronomica del risparmio; l’unico requisito richiesto oggi è il pratico e veloce. Per non parlare delle autorizzazioni sanitarie sempre più difficili da ottenere e di complesse richieste a volte talmente costose da ottemperare che non vale la pena eseguirle per il solo scopo domestico. Se avessimo bisogno quindi di una figura per la macellazione casalinga, dovremmo andare a richiedere la mano esperta del macellaio, conoscitore ed abile lavoratore di tutti i tipi di carne. Andrea Laganga Nota * In epoca medioevale il termine norcino fu adoperato in senso dispregiativo per indicare una delle figure minori che si erano sostituite a quella del chirurgo. Il norcino, infatti, insieme al cerusico, al cava-denti, al concia-osse costituì (spesso riunendole in sé) quel gruppo di figure di ambulanti che in giro per i villaggi e le campagne si prestavano a praticare piccoli interventi chirurgici. Era l’epoca in cui la Chiesa osteggiava ogni attività cruenta (relativamente all’aspetto medico) perché era stato sancito in alcuni Concili che Ecclesia abhorret a sanguine (fonte: www.norcinibresciani.it).

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LIBRI

Vinibuoni d Italia 2017 di Nunzia Manicardi

È

uscita la Guida del TOURING CLUB ITALIANO “Vinibuoni d’Italia” 2017 che compendia l’Italia dei vitigni autoctoni e, in più, i vini e le cantine migliori per tutti i prezzi e in tutte le regioni (con, in aggiunta, gli Spumanti Metodo Classico e l’Istria). La Guida, a cura di Mario Busso, è strumento prezioso non solo a livello enologico e culturale ma, diremmo, anche antropologico ed etnologico. Passare in rassegna i vitigni autoctoni significa infatti mettere in mostra quello che l’Italia presenta di unico al mondo per livello sia quantitativo che qualitativo e anche in termini di rapporto con le tradizioni di lavoro e di vita più antiche. Ricordiamo, a tale proposito, che il termine autoctono riservato a un’uva significa che quel vitigno è nato e si è sviluppato in un preciso luogo geografico adattandosi al territorio

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che lo ha ospitato fin quasi a fondersi con esso. Ebbene, nonostante i termini “stretti” imposti da tale definizione, per cui in pratica si tratta di vitigni che si trovano su una o due province al massimo, in Italia possiamo vantare un patrimonio costituito da centinaia di uve autoctone di consolidata tradizione. Alcune di queste sono molto conosciute, soprattutto grazie agli sforzi di piccoli ma qualificatissimi produttori. Altre sono in via di estinzione, ma il desiderio di sfuggire all’omologazione del gusto fa sì che si rinnovino periodicamente gli sforzi per tenerle in vita anche a seguito delle richieste di un mercato di intenditori alla ricerca di originalità del prodotto e di significati culturali ad esso correlati. Il Touring Club Italiano centra quindi in pieno, con questa pubblicazione, il suo scopo societario che è sempre stato, fin dall’inizio, quello di promuovere la

conoscenza dei territori e delle loro culture. E quale altro mezzo, meglio del vino, potrebbe aiutare in questa impresa? Nel vino si coniugano territorio, enogastronomia e turismo e il nostro, come già detto, è un patrimonio enologico unico al mondo. Meglio di così… Come mette bene in luce il presidente del Touring Club, FRANCO ISEPPI, nella sua prefazione, il vino non è solo un piacere in sé ma anche un motivo di viaggio e un mezzo di conoscenza del nostro Paese specialmente per il tramite offerto dalle cantine stesse, che sempre più di frequente si aprono al pubblico o addirittura si trasformano in agriturismi. Sono più di 5.000 le etichette recensite! Quindi la scelta è più che ampia e qualificata. Per facilitarla la Guida (che è arricchita anche con numerose ricette regionali e locali e inoltre è anche

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M. BUSSO (a cura di) Vini buoni d’Italia 2017 Edizioni Touring 704 pp. – € 22,00

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App) è stata suddivisa in 23 capitoli che corrispondono alle regioni italiane, con la divisione del Trentino dall’Alto Adige e la sezione sull’Istria croata. In ogni regione i produttori selezionati in guida sono stati indicati in ordine di nome. Di ogni azienda, anche se produce altri vini, sono stati segnalati solo quelli ottenuti al 100% da vitigni autoctoni. Per ogni cantina si fornisce un profilo articolato comprendente una sintetica descrizione, l’anagrafica aziendale e il numero complessivo delle bottiglie prodotte. Nella sezione “Vini da non perdere” sono segnalati vini di particolare pregio di aziende che non sono negli elenchi regionali con scheda specifica. Tutti i vini che appaiono in questa sezione, per la loro piacevolezza, corrispondenza al vitigno ed equilibrio hanno raggiunto nelle degustazioni delle commissioni regionali la valutazione massima delle 4 stelle. A fianco del nome del produttore possono apparire alcune icone che indicano: la possibilità di visita in azienda su appuntamento, l’ospitalità agrituristica, la possibilità di acquisto vino in azienda, l’azienda con oltre 100 anni di attività, l’azienda biologica, l’azienda biodinamica, l’impegno ecosostenibile. Le icone del vino indicano a loro volta: il colore del vino (quadratino rosso, giallo o rosa), i vari momenti di apprezzamento (la bottiglia), la tipologia (il bicchiere), i prezzi. La valutazione del vino è espressa con un punteggio che va da 1 a 4 (punteggio massimo). La Golden Star è assegnata a quei vini che, raggiunte le 4 stelle, hanno ottenuto la nomination per concorrere alla Corona. Quest’ultima (di colore giallo) viene assegnata ai vini italiani d’eccellenza, scelti con voto palese di maggioranza nella sessione finale di degustazione a commissioni riunite su scala nazionale. Sono dunque vini che hanno entusiasmato per l’assoluta espressione del vitigno e del territorio di appartenenza, per la gamma aromatica, per il corpo e per l’armonia. Vini di forte identità,

il cui ricordo rimane impresso con la capacità di emozionare a lungo. La Corona del pubblico (di colore verde) viene invece assegnata ai vini votati a Corona dalle commissioni parallele a quelle ufficiali di “Vinibuoni d’Italia” composte da winelovers e operatori del settore che hanno partecipato alle finali nella sessione “Oggi le Corone le decido io”. Il rigore selettivo è severissimo e improntato alla trasparenza. Tutte le degustazioni sono state effettuate dalle commissioni sotto la guida di un coordinatore. I vini sono stati degustati in forma anonima, secondo 4 parametri: qualità, bevibilità, corrispondenza vino-vitigno, solo vini già in bottiglia. Il capitolo sull’Emilia-Romagna è stato curato dalla nostra collaboratrice LAURA FRANCHINI. In questa regione i vitigni autoctoni presenti nella Guida sono ben 57, di cui 25 a bacca bianca e 37 a bacca rossa. Prima di concludere vogliamo sottolineare ancora l’importanza della valorizzazione dei vitigni autoctoni riportando le parole del curatore della Guida: “Non esiste nazione dotata di ricchezze storiche, ambientali e artistiche come l’Italia, un paese capace di suscitare innamoramenti negli artisti e nei letterati di ogni epoca. La medesima considerazione si può fare per i vini, perché gli avvenimenti storici, i costumi, il clima hanno fatto sì che ogni regione si sia configurata con una propria identità vitivinicola. (…) Dietro il lungo cammino dell’enologia italiana ci sono tanti attori, ci sono cantine secolari in cui il tempo ha fermato e confermato valori; in cui l’azione dell’uomo ha saputo coniugare la tradizione all’innovazione; filosofie di produzione e di vita; devozione al lavoro e continuità nella ricerca qualitativa; impegno nel vigneto e nella valorizzazione dei vitigni autoctoni del territorio. Queste cantine mostrano l’orgoglio dell’esperienza e il risultato è nei vini di etichette gloriose che hanno fatto la storia enologica dell’Italia”. Nunzia Manicardi

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La qualità si fa strada Questo libro mira a far emergere le potenzialità di un settore, quello dello street food, che intreccia la propria identità a quella dei luoghi, delle città, del made in Italy

È

disponibile in formato cartaceo e iBook il nuovo libro sul marketing digitale dello street food italiano scritto da MAURO ROSATI e MIHAELA GAVRILA con la prefazione di ALBERTO MATTIACCI, professore ordinario di Economia e Gestione delle Imprese alla Sapienza di Roma nonché presidente Società Italiana Marketing, edito dalla FONDAZIONE QUALIVITA. La qualità si fa strada. Street food – Nuova gastronomia e marketing digitale, propone indicazioni sulle strategie di marketing digitale e alcune linee guida concrete sulla comunicazione on-line veicolata dai social media. Il volume ripercorre l’evoluzione del settore, partendo dal suo debutto nei mainstream media, fino alla sua declinazione secondo le nuove regole dei media digitali, dando vita al primo manuale di marketing digitale, pensato per gli operatori della gastronomia di strada. La narrazione offre una fotografia del panorama nazionale attraverso numeri, prodotti e storytelling mass

mediatico affrontando molti temi specifici. Tra questi il marketing digitale con indicazioni per una strategia efficace con ampio spazio alla comunicazione social attraverso analisi e linee guida per i social network come chiave di successo on-line. Un focus è dedicato all’elemento distintivo dello street food made in Italy: la materia prima di qualità, in particolare ai prodotti agroalimentari certificati DOP e IGP. Chiudono il racconto le storie di successo made in Italy: attraverso il racconto e l’analisi dei migliori street chef e delle best practice nazionali che hanno cavalcato con successo l’onda del marketing e della comunicazione digitale di settore. Per Alberto Mattiacci, «questo libro è un viaggio culturale e sensoriale che svolge un pioneristico scouting della qualità agroalimentare nazionale. Da anni è in corso una trasformazione nel food: sono cambiati il lessico, il “palato”, la geografia e la sua morfologia economica, ed è arrivata la rete, con la globalizzazione tecnologica.

Noi cerchiamo regole e modelli che, analizzando le best practice, cercano di capire se funzioneranno nel futuro. Resta la certezza che il panorama dell’alimentare odierno appare del tutto irriconoscibile, agli occhi di un ipotetico osservatore del passato». Secondo CARLO ALBERTO PRATESI, professore di Economia e Gestione delle Imprese, Università Roma Tre, «rinnovata passione per gli aspetti esperienziali e identitari del cibo; rilancio delle metropoli come luoghi di contaminazione creativa; auto-imprenditorialità (anche come risposta alla crisi); maggiore consapevolezza del valore della diversità biologica e culturale: sono questi i quattro trend che fanno dello street food quel piccolo “rinascimento” alimentare che ci accompagnerà per i prossimi decenni». «Abbiamo cercato di guardare il fenomeno del cibo di strada al di là degli aspetti puramente gastronomici, allargando la nostra ricerca al settore del marketing e a quello della qualità

Lo street food in Italia è sinonimo di prodotto di qualità: molti sono quelli certificati Dop e Igp (photo © 8 magdal3na – Fotolia).

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C è un Italia che cambia e che a fronte delle difficoltà reagisce con la creatività: questo libro mira a far emergere le potenzialità di un settore come lo street food, che intreccia la propria identità a quella dei luoghi, delle città, del made in Italy

MAURO ROSATI – MIHAELA GAVRILA La qualità si fa strada – Street food Nuova gastronomia e marketing digitale Edizioni Qualivita 197 pp. – € 20,00

con l’obiettivo di tracciare una prima ricognizione sullo sviluppo di questa nascente attività economica» dichiara uno degli autori, Mauro Rosati. «Business family, sostenibilità, storytelling, creatività, tradizione e socializzazione sono alcune delle parole chiave riconducibili a questo clamoroso boom di attività street food nel nostro Paese». «C’è un’Italia che cambia e che a fronte delle difficoltà reagisce con la creatività — conclude Mihaela Gavrila — non a caso questo libro mira a far emergere le potenzialità di un settore come quello dello street food, che intreccia la propria identità a quella dei luoghi, delle città, del made in Italy. I casi di successo riportati e la mappa delle opportunità fornita dal libro dimostrano che le tecnologie digitali costituiscono alleati strategici per amplificare la voce di soggetti come i locali di street food, altrimenti destinati a rimanere invisibili o comunque meno noti dei loro competitor della ristorazione tradizionale».

Uno sguardo al mondo del cibo oltre la bolla mediatica

Il crepuscolo degli chef

È

uscito recentemente in libreria il nuovo libro di DAVIDE PAOLINI, “Il Crepuscolo degli chef”. Nel volume, edito da Longanesi, attraverso una lucida e approfondita analisi l’autore mette in evidenza la macroscopica schizofrenia tra realtà fattuale (calo dei consumi alimentari, chiusura di negozi, drastica riduzione dei locali) e realtà virtuale (sovraesposizione mediatica del cibo: web, TV, libri, magazine, blog), da cui emerge un nuovo rapporto, mai riscontrato nel passato, tra gli italiani e la cucina. Dalla spettacolarizzazione televisiva del cibo al food fashion, dallo chef star system al mito del “km 0”, fino all’eterna lotta tra carnivori e vegani. E poi: 13 milioni di foto su Instagram, 25.000 blog, 1.000 siti internet che raggiungono ogni mese oltre 35 milioni di persone. La cucina è oggi un tema sempre più al centro dell’attenzione

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mediatica. Secondo, Paolini le trasmissioni televisive hanno moltiplicato a dismisura un vero e proprio fenomeno di voyeurismo gastronomico, ma a un tale clamore mediatico non corrisponde un innalzamento dei consumi, basti pensare che nell’ultimo anno in Italia hanno chiuso i battenti 10.000 ristoranti. Né corrisponde, per gran parte degli italiani, un reale approfondimento della cultura gastronomica. Il cibo è diventato altro da ciò che era e rappresentava sino a ieri: ammicca dalle vetrine di negozi e librerie, appare a tutte le ore sugli schermi televisivi, pende dai cartelloni pubblicitari, naviga in rete. Il cibo sta diventando un’ossessione, ma, come ci racconta l’autore in questo libro impietoso e divertente, la realtà appare molto diversa. Non è vero che mangiamo di più e meglio, e quella che quotidianamente in TV viene spacciata come cultura del cibo spesso è solo uno spettacolo privo di qualità.

DAVIDE PAOLINI Il crepuscolo degli chef Gli Italiani e il cibo tra bolla mediatica e crisi dei consumi Longanesi Ed., Collana Il Cammeo 216 pp. – € 16,40

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Carne e foie gras

È

stato presentato lo scorso fine ottobre a Milano, presso il Circolo della Stampa in Corso Venezia, il nuovo libro dello chef stellato PAOLO CAPPUCCIO, Carne e foie gras. Tecniche di cottura e design del piatto, prima pubblicazione della nuova collana Star Chef (www.starchefbooks.com), ideata dalla giornalista e scrittrice FRANCESCA NEGRI e dall’art director e graphic designer MASSIMILIANO D’AFFRONTO, nata per realizzare progetti editoriali su misura per ogni cuoco professionista. La cucina di Cappuccio potrebbe essere definita Contemporary Mediterranean, un sapiente mix dei colori sgargianti del Sud Italia, dei più passionali sapori di mare e di terra e di una giusta dose della più brillante creatività made in Italy, il tutto “emulsionato” con una tecnica di lungo corso e con grande professionalità. Carne e foie gras è un libro tecnico che va a colmare un vuoto nella letteratura riguardante le cotture di carne e fegato grasso: il volume, infatti, si prefigge di spiegare in maniera chiara le migliori tecniche di cottura sottovuoto e in forno seguendo pochi ma basilari passaggi. Il vero segreto per cuocere alla perfe-

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zione carne e foie gras starebbe tutto in tre ingredienti: tempo, temperatura e umidità, che vanno applicati alla conoscenza dell’alimento che si va a cuocere. Il libro è corredato da 65 ricette, completo di foto estremamente suggestive che suggeriscono un altro elemento fondamentale per lo chef, ovvero il design del piatto. Infine, poiché la passione per l’alta cucina ha oggi un respiro più che mai internazionale, proprio per arrivare a un pubblico sempre più diffuso e globale il libro è realizzato in doppia lingua: italiano e inglese con traduzione a fronte. L’autore Napoletano di nascita e di temperamento, Paolo Cappuccio con la sua brigata — composta da altri 7 cuochi, alcuni con lui da oltre 10 anni (a partire dal sous-chef MARCO MARRAS e il pasticcere MARIANO DI LEO) — segue la vocazione di cuoco dall’età di 14 anni, sperimentando e mettendosi continuamente alla prova. Ha frequentato e frequenta ancora oggi corsi e scuole qualificate che l’hanno messo in contatto con le realtà più importanti della gastronomia mondiale e con chef di fama interna-

PAOLO CAPPUCCIO Carne e foie gras. Tecniche di cottura e design del piatto Edizione 2016 200 pp. – € 35,00 www.starchefbooks.com zionale, «perché non si finisce mai di scoprire e di imparare». Nota In alto, una delle ricette presenti nel libro. “Amo il foie gras, lo metto dappertutto, nel dolce e nel salato” scrive lo chef Paolo Cappuccio nella prefazione.

Premiata Salumeria Italiana, 1/17


Il profumo della tradizione, il gusto della qualitĂ .

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