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Meraviglie della creatività partenopea
Napoli, i taralli ’nzogna e pepe di Fortunato il tarallaro
Strutto, pepe e mandorle per un cibo da strada povero e antico che dai vicoli più nascosti ci porta ancora oggi il calore e il sapore della città più umile e più vera, lasciandoci in bocca e nel cuore il piacere di un’esperienza indimenticabile
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di Nunzia Manicardi
Sono meno commercializzati dei tarallini pugliesi ma mi auguro, con queste poche righe, di riuscire a rendere loro un buon servizio facendoli maggiormente conoscere al di fuori della città di cui sono simbolo nascosto e verace: Napoli. Non c’è napoletano, infatti, che non ami e non si identifi chi con i propri taralli, che nulla hanno a che vedere coi più famosi tarallini pugliesi. Con questi ultimi condividono soltanto la forma circolare anche se quelli napoletani sono molto più grandi. Ciò è necessario per permettere alle abili mani del fornaio di intrecciare le due striscioline di pasta lievitata a formare quella grossa e volutamente grossolana ciambellina che sembra una ghirlanda campagnola e che va poi cotta nel forno. Una volta i taralli ci fi nivano dentro insieme con il pane per utilizzare lo sfriddo, cioè i ritagli della pasta con cui esso era appena stato preparato; però in seguito, col sempre crescente successo di vendita, venivano cotti anche da soli, appositamente, in una sorta di specializzazione come dimostrano le insegne “Taralleria” che ancora si trovano a Napoli.
Anche l’etimologia ci ricorda la sua intima derivazione dal pane, venendo forse dal greco daratos, col signifi cato di “sorta di pane”. Ma, per quanto riguarda la forma circolare, potrebbe anche derivare dall’italico tar (avvolgere) o dal francese antico danal (pain rond, pane rotondo).
Nasce sotto un panno, il tarallo partenopeo di cui siamo convintissimi e appassionati sostenitori. Nasce e lievita nei forni della Napoli più umile e più vera e da lì si diffonde nei vicoli oscuri dove il sole non penetra mai e dove il calore veniva portato da lui, questo piccolo sole di pasta intrecciata che per i popolani costituiva forse l’unico sfi zio (e l’unico cibo!) sempre a portata di mano e a portata delle proprie possibilità economiche. Costava poco, grazie ai suoi bassi costi di produzione, e riempiva molto, ma soprattutto regalava una pausa benedetta nelle abbruttenti fatiche quotidiane, uno spiraglio di godimento del palato e del cuore, un ristoro momentaneo che, tuttavia, grazie agli altri ingredienti che lo compongono, durava a lungo, che ti portavi dietro mentre riprendevi a faticare e, talvolta, a soffrire anche dei più sottili mali dell’anima e del sentimento.
Quello che resta così a lungo in bocca e nella mente è dato dalla presenza di tre ingredienti fondamentali, senza i quali un tarallo napoletano non è un tarallo e, men che meno, è napoletano: la ’nzogna (la “sugna”, termine dialettale che, in italiano, indica lo strutto, il grasso di maiale) e parecchio pepe, pepe nero.
Tarallo ’nzogna e pepe: questo è il suo nome, una parola d’ordine che apre le porte di questa straordinaria città. All’inizio dell’800 si è poi arricchito di un altro ingrediente che tuttora ne è parte integrante: la mandorla, che si sposa alla perfezione col pepe. La mandorla permette anche di capire se il tarallo è fresco o no, poiché deve essere dura e profumata. Alla larga da quelle molli e inodori!
Tutto questo costituiva anche una sorta di cibo “salvavita” per la popolazione più povera, quella che si affollava nelle zone del porto e che MATILDE SERAO ha descritto così bene nel suo racconto “Il ventre di Napoli”. Per questo popolino perennemente denutrito e affamato arrivava in soccorso il tarallo che costava poco ma saziava molto. La sugna e il pepe lo facevano durare a lungo soddisfacendo almeno il ricordo di aver mangiato, mentre la sugna donava una parte, per quanto minima, delle necessarie calorie quotidiane. In questo modo il tarallo diventava una benedizione per tutti, dal fornaio al consumatore.
Oggi il tarallo napoletano è diventato un bene voluttuario. Lo si trova ancora, appena sfornato, in alcune panetterietarallerie e nei chioschetti sul lungomare, ma è reperibile anche confezionato in sacchetto nei supermercati e, soprattutto, nei pub e nelle birrerie. Taralli e birra sono un duo vincente presso la clientela più giovane, che mantiene attuale questo genuino prodotto dell’inventiva locale.
Cibo povero, in origine, e cibo di strada
Il “tarallaro” era una fi gura caratteristica. Girava tutti i quartieri della città con la sua cesta sulle spalle, offrendo i suoi taralli ai passanti dalla mattina alla sera tanto che ancora oggi, per indicare una persona costretta ad arrabattarsi senza sosta, a Napoli si dice: “Me pare ’a sporta d’o tarallaro!”. E, poiché il tarallo va consumato caldo affi nché possa sprigionare tutta la sua fragranza, andava gridando: Taralle, taralle càvere!, che signifi ca “Taralli caldi!”, estraendoli con estrema attenzione da sotto la coperta con la quale cercava di conservarne il tepore del forno il più a lungo possibile.
Riscaldare il tarallo rimane sempre fondamentale: non occorre chissà che cosa, basta il termosifone o anche il semplice calore del sole affi nché la sugna si liberi e la mandorla profumi… FORTUNATO BISACCIA, Fortunato il “tarallaro”, ha incarnato al meglio questa fi gura di ambulante-imbonitore. Se lo ricordano tuttora, nei vicoli della città antica. Povero in canna, al ritorno dalla seconda guerra mondiale non trovò nient’altro da fare che prendere alcuni taralli da un forno e mettersi a venderli per i vicoli del Rione Sanità e dei Quartieri Spagnoli. Era tanto bravo, tanto simpatico, tanto convincente che arrivò a venderne 1.500 al giorno, cosicché quello che doveva essere un ripiego in attesa di trovare un’occupazione più stabile e redditizia divenne il lavoro di un’intera vita e fece di lui un indimenticabile beniamino delle strade, che rallegrava coi suoi lazzi e i suoi richiami dal sapore napoletano non meno inconfondibile di quello dei suoi taralli. Perfi no il cinema e la televisione fi nirono per interessarsi a lui e gli fu dedicato pure un gradevole libro (“Fortunato. Vita, morte e nessun miracolo di un tarallaro napoletano” di MASSIMO ANDREI, 2007) ma è soprattutto nel cuore della gente del popolo che è rimasta la memoria del suo inconfondibile slogan: Fortunato tene ’a rrobba bbella,’nzogna’nzo’!
Nunzia Manicardi