Premiata Salumeria Italiana 1-2021

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Meraviglie della creatività partenopea

Napoli, i taralli ’nzogna e pepe di Fortunato il tarallaro Strutto, pepe e mandorle per un cibo da strada povero e antico che dai vicoli più nascosti ci porta ancora oggi il calore e il sapore della città più umile e più vera, lasciandoci in bocca e nel cuore il piacere di un’esperienza indimenticabile di Nunzia Manicardi

ono meno commercializzati dei tarallini pugliesi ma mi auguro, con queste poche righe, di riuscire a rendere loro un buon servizio facendoli maggiormente conoscere al di fuori della città di cui sono simbolo nascosto e verace: Napoli. Non c’è napoletano, infatti, che non ami e non si identifichi con i propri taralli, che nulla hanno a che vedere coi più famosi tarallini pugliesi. Con questi ultimi condividono soltanto la forma circolare anche se quelli napoletani sono molto più grandi. Ciò è necessario per permettere alle abili mani del fornaio di intrecciare le due striscioline di pasta lievitata a formare quella grossa e volutamente grossolana ciambellina che sembra una ghirlanda campagnola e che va poi cotta nel forno. Una volta i taralli ci finivano dentro insieme con il pane per utilizzare lo sfriddo, cioè i ritagli della pasta con cui esso era appena stato preparato; però in seguito, col sempre crescente successo di vendita, venivano cotti anche da soli, appositamente, in

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una sorta di specializzazione come dimostrano le insegne “Taralleria” che ancora si trovano a Napoli. Anche l’etimologia ci ricorda la sua intima derivazione dal pane, venendo forse dal greco daratos, col significato di “sorta di pane”. Ma, per quanto riguarda la forma circolare, potrebbe anche derivare dall’italico tar (avvolgere) o dal francese antico danal (pain rond, pane rotondo). Nasce sotto un panno, il tarallo partenopeo di cui siamo convintissimi e appassionati sostenitori. Nasce e lievita nei forni della Napoli più umile e più vera e da lì si diffonde nei vicoli oscuri dove il sole non penetra mai e dove il calore veniva portato da lui, questo piccolo sole di pasta intrecciata che per i popolani costituiva forse l’unico sfizio (e l’unico cibo!) sempre a portata di mano e a portata delle proprie possibilità economiche. Costava poco, grazie ai suoi bassi costi di produzione, e riempiva molto, ma soprattutto regalava una pausa benedetta nelle abbruttenti fatiche quotidiane, uno spiraglio di godimento

del palato e del cuore, un ristoro momentaneo che, tuttavia, grazie agli altri ingredienti che lo compongono, durava a lungo, che ti portavi dietro mentre riprendevi a faticare e, talvolta, a soffrire anche dei più sottili mali dell’anima e del sentimento. Quello che resta così a lungo in bocca e nella mente è dato dalla presenza di tre ingredienti fondamentali, senza i quali un tarallo napoletano non è un tarallo e, men che meno, è napoletano: la ’nzogna (la “sugna”, termine dialettale che, in italiano, indica lo strutto, il grasso di maiale) e parecchio pepe, pepe nero. Tarallo ’nzogna e pepe: questo è il suo nome, una parola d’ordine che apre le porte di questa straordinaria città. All’inizio dell’800 si è poi arricchito di un altro ingrediente che tuttora ne è parte integrante: la mandorla, che si sposa alla perfezione col pepe. La mandorla permette anche di capire se il tarallo è fresco o no, poiché deve essere dura e profumata. Alla larga da quelle molli e inodori!

Premiata Salumeria Italiana, 1/21


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