Premiata Salumeria Italiana 2-2019

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Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXXI N. 2 Marzo-Aprile 2019

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* in riferimento ai valori medi nutrizionali della Mortadella (fonte dati: CREA – Alimenti e Nutrizione)



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N. 2

€ 6,70 Anno XXXI Marzo-Aprile 2019

Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi

Comitato di redazione Franco Ferrari – Clara Fossato (UNICEB) – Giuliano Marchesin (Unicarve) – Gianni Mozzoni (Legacoop) – Manrico Murzi – Fortunato Tirelli – François Tomei (Assocarni) Comitato scientifico Prof. Giovanni Ballarini – Prof. Fausto Cantarelli Dr. Alfonso Piscopo Collaboratori scientifici Dr. Marco Cappelli – Dr. Massimo Chiappini Prof. Eugenio Del Toma – Dr. Emanuele Guidi Dr. Pierluigi Roncaglia – Prof. Andrea Strata Prof. Sergio Ventura

Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Luigi Credi – Lorenzo Fiorentin

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Fotografia Luigi Credi

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Abbonamenti Fioretta Fiorentin Amministrazione Andrea Tomassone

Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo è impaginato con Adobe® InDesign® CC 2018. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CC 2018.

Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com — Reg. al Tribunale di Modena n. 798 del 23-10-1985

Premiata Salumeria Italiana, 2/19

Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910

Ufficio stampa e Media Partner

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N. 2

€ 6,70 Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia

In questo numero:

Agenda

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Immagini

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Tendenze

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Salumi & Co.

18

Attualità

Alimentazione e ciarlatani in rete

Giovanni Ballarini

20

Il food in rete

Social food

Elena Benedetti

22

Aziende

Fattoria Zivieri, mortadella artigianale di filiera

Gaia Borghi

26

Dok dall’Ava, semplicemente prosciutto

Massimiliano Rella

30

La qualità

Europa, dove la qualità è di casa

Marketing

Italianità, la più grande risorsa

34 Sebastiano Corona

38

A pagina 34.

Premiata Salumeria Italiana, 2/19

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Speciale mortadella

Mortadelle d’Italia

Prodotti tipici

Alla scoperta della Zazzicchia

Elena Benedetti

52

Jelenič, prosciutto e musica

Gian Omar Bison

54

Capra!

Giovanni Ballarini

58

Consumi

Würstel = allegria

Josette Baverez Blanco 62

Indagini

Cibo, sogno notturno per uomini e donne della Penisola in cerca di “coccole”

Gianluca Pacella

64

Tradizioni

È torta fritta o gnocco fritto?

Gemma Zubiani

66

Il ragù

Nunzia Manicardi

68

Week-end

Lüch da Pćëi, un maso da film

Riccardo Lagorio

76

Tutto il biologico, oggi

Masserie Masella, vacanze in salumeria

Massimiliano Rella

78

Locali di gusto

PreTesto, l’Umbria in un boccone

Gaia Borghi

82

Curiosità

L’anno del Maiale in tavola e nelle vetrine

Gemma Zubiani

86

Rassegne

Taste, sempre più bella!

90

Fiere

Milano si prepara ad accogliere il food business

96

42

CSB-System a IFFA e Tuttofood: tutto ciò di cui ha bisogno chi opera… Formaggio

100

Formaggi del Molise

Massimiliano Rella

102

Robiola di Roccaverano: «i miei primi 40 anni»

Riccardo Lagorio

106

Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N Anno XXXI N. 2 Marzo-Aprile 2019

S T O P € 6,70

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In copertina: dadolata di mortadella (photo © Massimiliano Rella).

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Una lacrima piena di gioia

Riccardo Lagorio

110

Naturale, un calice all’Enoteca Storica Faccioli

Federica Cornia

112

I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione: piatti con la mortadella

Laura Franchini

116

Pane

Demurtas, i pionieri del Pistoccu

Sebastiano Corona 120

Bevande

Schnaps, la frutta nel bicchiere

Riccardo Lagorio

124

Sidro Vittoria, metodo classico da tutto pasto made in Cadore

Gian Omar Bison

126

Sono 180 grammi, lascio?

They call me a butcher

Giovanni Papalato 132

Storia e cultura

I ricettari della Contessa in uso alla corte dei Montecuccoli

Nunzia Manicardi 134

Libri

La ricotta come opera d’arte

136

Il cibo ideale

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Vino

A pagina 52. A pagina 102.

A pagina 126.

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Prosciuttificio IL CONTE S.r.l. Via Sant’Ambrogio, 4 – Fraz. Bazzano 43024 Neviano degli Arduini (PR)


AGENDA

Polesine Zibello (PR) Torna anche quest’anno più in forma che mai Salumi da Re, l’evento organizzato dal GAMBERO ROSSO in partnership con Antica Corte Pallavicina a Polesine Zibello, dal 30 marzo al 1 aprile. Salumi da Re riunisce allevatori, norcini e salumieri mettendo in bella mostra la migliore produzione salumiera italiana. La corte cinquecentesca dei fratelli Spigaroli fa da cornice all’evento, aperto a tutti nelle tre giornate di manifestazione, tra degustazioni guidate, convegni, il “Concorso del Panino d’Autore” e la “Gara di taglio a mano del prosciutto”, oltre a momenti di intrattenimento e approfondimenti (photo © menatti.com). www.salumidare.it

Verona L’appuntamento con la 53a edizione di Vinitaly, il Salone Internazionale dei Vini e dei Distillati, è a Veronafiere da domenica 7 a mercoledì 10 aprile. Organic Hall e Vinitaly Design sono due delle novità di quest’anno, pensate per dare ulteriore impulso al progetto di una sempre maggiore specializzazione in chiave business. In contemporanea con Vinitaly e Enolitech, Salone Internazionale delle Tecniche per la Viticoltura, l’Enologia e delle Tecnologie Olivicole e Olearie, è in programma Sol & Agrifood, il Salone Internazionale dell’Agroalimentare di Qualità, che ha come focus specifici l’olio extravergine di oliva, le birre artigianali e i prodotti alimentari realizzati da piccole e medie aziende (photo © karelnoppe). www.vinitaly.com www.solagrifood.com

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Parma La seconda edizione di Cibus Connect si svolgerà i prossimi mercoledì 10 e giovedì 11 aprile. Vincente la sua formula smart: due giornate di fiera professionali, stand e cooking station chiavi in mano per esporre e degustare al meglio i prodotti, azzeramento dei problemi logistici tipici dei grandi eventi in Italia, supporto al sourcing e opportunità di business su misura dei buyer. Prosegue anche la relazione positiva con Slow Food, grazie alla quale sarà possibile trovare prodotti regionali e di nicchia in un’area dedicata. Sono attesi migliaia di operatori dall’Italia e dall’Europa e top buyer dai Paesi d’oltremare, che potranno sfruttare la coincidenza di date con Vinitaly (Cibus Connect apre nella giornata di chiusura di Vinitaly). Funzionale sarà anche la convegnistica: il palinsesto si aprirà col convegno inaugurale durante il quale Cibus e FEDERALIMENTARE presenteranno uno studio di settore realizzato in collaborazione con ISMEA incentrato sui fattori critici di successo delle aziende agroalimentari del Mezzogiorno che stanno, in questo momento, performando benissimo a livello internazionale. Nel pomeriggio della prima giornata si analizzeranno, in collaborazione con la società di consulenza PRICEWATERHOUSECOOPERS PWC, i rapporti proficui che si possono instaurare tra aziende alimentari e grandi catene di distribuzione, con la testimonianza di retailer internazionali ed italiani. Nel corso della seconda giornata si terrà un evento in cui top player del settore presenteranno case history dal mondo del retail e dell’industria incentrando la propria analisi sui prodotti premium brand e premium store brand come driver di sviluppo del punto vendita food anche attraverso il contributo di DELOITTE e dei dati della XXII edizione del loro Power of Retailing (photo © cibus). www.cibus.it

Province di Bologna, Mantova, Modena, Parma e Reggio Emilia Sabato 13 e domenica 14 aprile torna Caseifici Aperti con oltre 50 produttori che apriranno le porte dei propri caseifici per permettere ai visitatori di assistere alla nascita del Parmigiano Reggiano e passeggiare nei suggestivi magazzini di stagionatura. Un viaggio nel tempo alla scoperta del metodo di lavorazione artigianale, rimasto pressoché immutato da oltre nove secoli e una bella occasione per esplorare la biodiversità della DOP. In concomitanza con Caseifici Aperti, il Consorzio del Parmigiano Reggiano aprirà i cancelli a tutti coloro che vorranno visitare lo storico casellino, degustare il Parmigiano Reggiano e fare un viaggio del tempo grazie alla mostra degli attrezzi storici (photo © Consorzio del Parmigiano Reggiano). www.parmigianoreggiano.it

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Santa Maria di Sala (VE) La 9a edizione di Formaggi in Villa si terrà dal 25 al 28 aprile presso Villa Farsetti a Santa Maria di Sala (VE). Si tratta di una grande mostra mercato del gusto dove operatori e un vasto pubblico di appassionati potranno conoscere ed acquistare i migliori formaggi, salumi e prodotti gastronomici per l’alta cucina. In contemporanea, infatti, si svolgerà anche il Salone dell’Alta Salumeria, con una bella selezione di specialità norcine del Belpaese. www.formaggioinvilla.it facebook.com/salonealtasalumeria

Milano Milano si prepara ad accogliere il food business con Tuttofood, in calendario dal 6 al 9 maggio a Fieramilano. Grande novità dell’edizione 2019 sarà Tuttowine, formula originale e innovativa che presenta in un’area dedicata, organizzata in partnership con UIV – Unione Italiana Vini, le opportunità di business specifiche del comparto. Crescita e rafforzamento anche per la rinnovata Retail Plaza. L’arena del retail innovativo si ripropone in una formula più articolata, che dà voce al mercato espositivo insieme a quello dei retailer, sia italiani sia internazionali, col data partner NIELSEN e i vari partner della GDO che si sono succeduti fino ad oggi. Sempre più sotto i riflettori il ruolo centrale, anche nel settore agroalimentare, della trasformazione digitale, che potrà contare sull’area dedicata Tuttodigital, posizionato nel contesto del padiglione 10. Dal “nuovo” naturale ai cibi funzionali, dal novel food all’agrifood 4.0 alla riscoperta delle territorialità, Tuttofood ha rafforzato edizione dopo edizione il proprio ruolo di trendsetter ed è diventato un appuntamento imperdibile per gli operatori di tutto il mondo. Tra le novità di quest’anno anche un layout espositivo ancora più efficace e coinvolgente. Per una crescita condivisa all’insegna della qualità, espositori italiani ed esteri saranno compresenti nei settori merceologici, rafforzati e integrati da affondi sulle territorialità nelle due nuove aree Tuttoregional e Tuttoworld. Previsti anche focus di approfondimento direttamente nell’area per settori quali Tuttodrink, Tuttoseafood, Tuttofrozen, Tuttopasta, Tuttobakery, Tuttogreen. Un’attenzione particolare sarà inoltre rivolta in tutti i settori all’autenticità e alla protezione dei marchi e delle denominazioni di origine. Tra i settori più vivaci si segnalano Tuttogrocery, Tuttosweet e Tuttodairy. Come sempre, grande focus anche sulla formazione, l’informazione e la crescita professionale, con delle vere e proprie Academy tematiche per settori quali Multiprodotto, HO.RE.CA., Carne & Salumi, Lattiero-Caseario (photo © Fieramilano). www.tuttofood.it

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IMMAGINI

Bruschette con ricotta, Speck Alto Adige Igp, confettura di fichi, basilico, sale, pepe e olio extravergine di oliva. Uno snack che coniuga nutrimento con sapore. A pagina 34 la presentazione della campagna di promozione europea dei prodotti di qualità dell’Alto Adige (photo © IDM Südtirol/Stefano Cavada).

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TENDENZE

Cos’è un pop-up store?

La risposta ci viene da POP UPPENS, un network di creativi, aziende e proprietari di spazi che collaborano per realizzare temporary stores ed eventi di pop-up retail. «Un pop-up store è un negozio temporaneo, un punto vendita di concezione relativamente recente, che diffonde una tendenza nata negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Spesso accompagnato da una massiva e mirata attività di pubblicità e caratterizzato da allestimenti di forte impatto, il pop-up store ha come obiettivo fondamentale il consumo esperienziale. Quello che si vuole regalare al consumatore perciò è innanzitutto un’esperienza, che porti nella sua vita “normale” il concetto di “speciale”. Si punta sulla precarietà, sui luoghi inconsueti e sull’effetto sorpresa. L’attività di retail è caratterizzata da vendite flash, che in alcuni casi interessano edizioni limitate del marchio, così da sfondare le resistenze anche dei più riluttanti all’acquisto. Il negozio temporaneo è allo stesso tempo un canale di acquisizione clienti, una strategia di branding e un efficace incentivo alle vendite». Quali sono i principali vantaggi di un pop-up store? «Sicuramente il contatto col consumatore: il format del pop-up retail permette la conoscenza diretta e il conseguente rafforzamento della relazione tra brand e consumatore. L‘aumento della vendite: circa il 95% degli acquisti avviene ancora off-line. Questo canale di vendita, quindi, resta ancora una grande opportunità da cogliere. Il potenziamento della brand awareness: i consumatori e i media amano l’effetto sorpresa che i pop-up stores generano. I costi più bassi: lanciare un pop-up store è per l’80% meno costoso rispetto ad un negozio tradizionale. Infine, la possibilità di testare nuovi mercati e nuovi prodotti: grazie a questo innovativo sistema si può avere accesso a facilmente a nuovi mercati e lanciare nuovi prodotti» (fonte: www.popuppens.com; photo © pixel-cutter.co.uk).

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SALUMI & CO.

Carta da parati

fai da te

È il grande must del momento per ogni interior designer che si rispetti e ciò vale anche per i locali commerciali. La carta da parati sta vivendo una nuova giovinezza, arreda e dà carattere all’ambiente. Basta anche solo una parete per personalizzare un punto vendita con effetti moderni, vintage, texture o grafica creativa. Sono parecchi i siti web che offrono carte da parati personalizzate, stampate ad hoc per ogni esigenza (es. mrperswall.it, megaprint.com). Basta un’idea e via: la trasformazione ha inizio.

Arrediamo con le DECORAZIONI DI LUCE Se fino a poco tempo fa erano relegate al solo periodo natalizio, oggi le catene luminose sono spesso parte permanente degli arredi di ristoranti, caffè e negozi, sia dentro che fuori. Ne basta anche solo un accenno per ravvivare una zona del locale e dare un effetto più caldo e contemporaneo.

Piatti, piattini e tazze

D’AVANGUARDIA Sono due creativi made in Puglia, irriverenti e giocosi. Li trovate su Instagram con il nome di @piattinidavanguardia: ANNAGINA TOTARO ed ANDREA CARDANO realizzano ceramiche personalizzate a mano e sono bravissimi. Un’idea per rendere unico il vostro locale.

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ATTUALITÀ

Alimentazione e ciarlatani in rete di Giovanni Ballarini

N

el passato l’alimentazione degli Italiani era regolata dalla tradizione che stabiliva cosa, come e quando mangiare durante il giorno (colazione, pranzo e cena), nel corso della settimana (giovedì gnocchi, sabato trippa, ecc…), nel susseguirsi delle feste (Natale e Capodanno, Pasqua, ecc…) e nel volvere delle stagioni (tempo delle mele, delle castagne, del vino nuovo, ecc…). Tutto questo è oggi praticamente scomparso e allora sono spuntati prima i fisiologi, poi i nutrizionisti e i dietologi, che con camice bianco e “piramidi” hanno tentato e continuano a cercare di regolare

l’alimentazione della popolazione, ma con scarsi risultati. Sull’alimentazione oggi, usando terminologie anglofone, imperversano i blog (o siti), dove gli influencer (letteralmente, influenzatori) hanno migliaia e finanche milioni di followers (seguaci più o meno fanatici). Inoltre, i mezzi d’informazione, iniziando dai giornali, ogni giorno elencano i cibi che non dovremmo mangiare, quelli che proteggerebbero il cuore o svilupperebbero l’intelligenza e quelli utili per prevenire i tumori, in una ridda di notizie mutevoli e non di rado contrastanti, per cui quello che ieri era veleno oggi è salvifico o viceversa. Tutto ciò va

ad incrementare una sorta di “cucina di Babele”, nella quale la gente, senza più le sicurezze derivanti dalla tradizione, diviene ansiosa se non timorosa nei confronti di ciò che deve mangiare. Marketing di influenza più o meno trasparente Di particolare attenzione per la sua diffusione è il fenomeno degli influencerblog-blogger-followers in cui rientrano anche i ciarlatani della rete. Influencer è chi influenza qualcuno attraverso un blog, un sito internet predisposto ad accogliere confronti e scambio di opinioni. Proposto un tema, si avvia

La carne e i salumi sono da tempo oggetto di teorie complottistiche e allarmismi che oggi vengono combattuti da canali d’informazione scientifica quali carnisostenibili.it e carnerossa.info.

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una discussione alla quale via via si uniscono altri navigatori che con i loro più disparati pareri, e non di rado divagazioni, ingrossano il flusso dei messaggi, delle risposte e controrisposte, arrivando non di rado ad insulti più o meno velati. Alcuni blogger col tempo acquisiscono notorietà, i followers, più o meno abituali, che li seguono, diventano sempre più numerosi e i loro siti finiscono per destare l’interesse di chi opera sul mercato. Su di essi compaiono, con frequenza crescente, messaggi pubblicitari che portano un utile economico ai blogger proprietari dei siti e quello che probabilmente è nato come un gioco si trasforma in un lavoro remunerativo. Come in tutte le attività, vi sono i blogger trasparenti e quelli che non lo sono, divenendo influencer poco seri, superficiali, incompetenti degli argomenti che trattano e che, quel che è più grave, danno avvio a discussioni nelle quali è difficile distinguere tra verità e falsità, tra competenti e imbroglioni. Ampio è oggi il fenomeno dell’influencer marketing, esercitato da persone che, in base al proprio prestigio, con i loro interventi, mostrando sostegno o approvazione (endorsement) per determinati prodotti o marchi, generano un effetto pubblicitario, senza però palesare la finalità commerciale della comunicazione. Agli occhi dei consumatori queste persone presentano una grande credibilità e la loro azione può facilmente sconfinare in una pubblicità occulta o ingannevole. Per evitare ogni tipo di ambiguità, il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, all’art. 7 impone che la comunicazione commerciale debba essere sempre riconoscibile come tale. Diffidate gente, diffidate… e controllate L’influencer non è una figura nuova, anzi è antichissima, se si pensa a quanto avveniva nei secoli passati, come documenta PIERO CAMPORESI (Il libro dei vagabondi, prefazione di FRANCO CARDINI, Garzanti, Milano, 2003). Spesso, nelle piazze dei mercati, i venditori ambulanti attiravano, con la loro oratoria, le persone per vendere merce in molti casi “falsa” (chi non ricorda il filtro magico spacciato da Dulcamara

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Chiara Ferragni, qui alle prese con i burger della catena californiana In-N-Out Burger, conta 17 milioni di followers su Instagram (photo © instagram.com/chiaraferragni). nell’Elisir d’amore di GAETANO DONIZETTI: si tratta in realtà di un buon vino). Ora però il fenomeno, da limitato e locale, si è allargato a livello mondiale, divenendo addirittura pericoloso quando riguarda argomenti relativi alla nostra salute, che spaziano dalla cucina all’alimentazione, alla dietologia. Ci si chiede allora: esiste un metodo, uno schema, un percorso logico per individuare le informazioni vere da quelle false, inesatte, enfatizzate e distorte, o almeno per avere un sospetto? Assolutamente improponibile è un controllo pubblico dei siti, mentre importanti sono alcune precauzioni. Certamente si deve diffidare di quei siti che accolgono argomenti disparati, con propensione a rilanciare notizie per catturare l’attenzione, sollevare dubbi, sospetti e paure nascoste. Poi bisogna cercare di risalire alle fonti dell’infor-

mazione che interessa, così come si fa con gli alimenti, per i quali si esige la tracciabilità della loro origine, di chi produce la materia prima, la trasforma e la commercializza, e come si dovrebbe fare per ogni merce non acquistata in negozi di accertata fiducia. La stessa procedura deve essere applicata alle notizie: bisogna controllare da dove sono nate, dove sono state pubblicate, risalendo alle banche dati, consultabili gratuitamente, che nella maggior parte dei casi ci dicono se una notizia origina da una ricerca scientifica, da chi e in quale istituzione è stata effettuata e da quale rivista è stata pubblicata. Tutti criteri di credibilità, anche se è sempre necessaria una corretta interpretazione dell’informazione. Prof. Giovanni Ballarini Accademia dei Georgofili www.georgofili.info

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IL FOOD IN RETE

Social di Elena

1. Dimore storiche e vino, esperienza unica Si può coniugare la tutela del paesaggio con la produzione di vini e l’offerta di un turismo esperienziale? Si può vivere la straordinaria bellezza della campagna italiana? Attraverso dimorestoricheitaliane.it è possibile. Per andare alla scoperta del nostro patrimonio storico-architettonico e delle tipicità del territorio nella produzione vitivinicola, tra casali, borghi, castelli e masserie si può organizzare una vacanza davvero da sogno (photo © dimorestoricheitaliane.it).

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2. Galanti a Firenze Per chi non può andarli a trovare in piazza della Libertà a Firenze, può seguirli su instagram.com/galantifirenze. GALANTI, gastronomia e ristorante storico dal 1960, è un luogo magico tra enoteca, il gourmet stop per pranzi, cene e spuntini vari e gli acquisti di salumi, vini, formaggi e conserve (gastronomiagalanti.com). Stupendo (photo © instagram. com/galantifirenze).

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food Benedetti

3. Emilia Food Love, salumeria on-line ANDREA e ROSSELLA, calabresi trapiantati in Emilia, hanno trasformato il loro amore per il cibo di questo territorio in un business. In emiliafood.love troviamo un blog e lo store on-line con prodotti selezionati di salumeria, condimenti e formaggi. Fanno spedizioni in Italia e all’estero e sono molto bravi a comunicare sulle varie piattaforme social. Da prendere a esempio (photo © emiliafood.love).

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4. Tuttodigital, eccellenze digitali Manca poco all’edizione 2019 di Tuttofood, la fiera italiana dedicata all’agroalimentare che si terrà a Milano dal 6 al 9 maggio prossimi (www.tuttofood.it). Per questa edizione, che si preannuncia da record, gli organizzatori offrono un palcoscenico di importanza internazionale al mercato delle start-up e alle aziende innovative che operano nel settore food & beverage. Ci sarà infatti Tuttodigital a dare visibilità alle innovazioni che stanno trasformando la filiera agroalimentare, partendo dalle materie prime fino ad arrivare alla consegna del prodotto al consumatore finale.

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On-line la prima ricerca su diffusione e reputazione digitale delle Dop-Igp italiane nel mondo Oltre 6.500 contenuti al giorno veicolati su blog, forum, siti di notizie, social network in tutto il mondo, con oltre la metà delle conversazioni all’estero (55%), soprattutto negli USA (26%), e con più di 100.000 utenti ingaggiati quotidianamente. Questi i principali numeri della presenza delle produzioni agroalimentari e vitivinicole italiane certificate Dop-Igp. A livello di reputazione, le conversazioni digitali con sentiment positivo sono quindici volte più alte di quelle a sentiment negativo (46% contro il 3% sul totale delle menzioni), con Instagram che si afferma come il canale privilegiato per food & wine con trend in continua crescita. Bene il food, che con 28 milioni di utenti coinvolti in nove mesi supera i risultati del wine (23 milioni di utenti), che però mostra una più marcata presenza di conversazioni all’estero (solo negli USA, quasi mille contenuti al giorno contengono riferimenti a vini italiani a denominazione di origine). Sono alcuni dei numeri che emergono dallo studio Web-Dop, la prima ricerca sulla presenza on-line e l’attività digitale delle Dop-Igp italiane realizzata dalla Fondazione Qualivita. Lo studio è frutto di un progetto durato nove mesi, durante i quali sono stati indagati sia la capacità dei prodotti Dop-Igp italiani di generare conversazioni on-line, sia l’insieme delle azioni web e di digital marketing attuate dai Consorzi di tutela. Risultato finale del progetto è il primo report di analisi sulla presenza e la reputazione delle IG italiane sul web, con un focus sull’attività digitale dei Consorzi. Obiettivo a lungo termine, supportare le azioni del sistema a produzione certificata con dati e informazioni in grado di favorire strategie di promozione e tutela nel mondo web. Le conversazioni digitali legate ai prodotti Dop-Igp mostrano un lessico molto ricco e complesso che, accanto ai “temi tipici” delle IG, come qualità, tradizione, territorio, fa emergere termini come turismo, cultura, sostenibilità, ambiente, salute, che sottolineano come cibo e vino made in Italy non rappresentano solo beni di consumo, ma sono veicolo di un valore più ampio che sostiene la crescita del Paese e l’affermarsi della sua reputazione nel mondo. 51 milioni di utenti raggiunti in 9 mesi, con 1,8 milioni di menzioni riferite alle principali IG italiane veicolate, 968.000 autori sul web. All’estero più della metà dei contenuti (55%), mentre in termine di sentiment i risultati positivi sono quindici volte più alti dei negativi (46% contro il 3% delle menzioni IG). Instagram e Blog sono i canali per appassionati, mentre su Twitter e portali News passano anche temi di attualità non sempre connotati positivamente. Nei 9 mesi oggetto di analisi, le menzioni delle Dop-Igp sono passate da 170.000 a 230.000, per un +37%: emerge perciò con chiarezza che la crescita delle IG sul web è un fenomeno in atto, da conoscere, supportare e “presidiare” (fonte: Qualivita).

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“Cibo, non solo nutrimento” al Social Food Forum di Matera «Cibo significa relazioni, non solo nutrimento; cibo significa cura, non solo consumo; cibo significa connessione con un luogo, solidarietà tra generazioni e accoglienza di diverse culture. Un contadino non produce solamente prodotti agricoli, ma insieme agli altri cittadini gestisce sistemi agro-ecologici dove acqua, terra, energia, biodiversità e solidarietà sociale sono interdipendenti tra loro»: lo sostiene John Thackara, scrittore e teorico del design sociale che lo scorso 10 marzo a Matera ha condotto il Social Food Forum, evento pubblico parte del programma di Mammamiaaa, progetto di Matera 2019 co-prodotto da Casa Netural e Fondazione Matera Basilicata 2019 (www.mammamiaaa.it/atlas). Nel corso dell’evento è stato illustrato al pubblico il Social Food Atlas: una piattaforma on-line che rende visibile, per la prima volta in un unico luogo, una vasta gamma di progetti legati al cibo e alla produzione di esso, dal rilevante impatto sociale. Questi progetti includono tra gli altri cucine comunitarie, giardini scolastici e comunitari, urban forest, agriturismo, progetti didattici legati alla terra, campi di restauro ecologico, riserve della biosfera, case di riposo per anziani legate alla natura e sistemi del patrimonio agricolo. «I progetti di social food creano una grande varietà di beni pubblici — ha detto Andrea Paoletti, fondatore di Casa Netural — coesione sociale, salute condivisa e benessere, sviluppo territoriale, sovranità alimentare, apprendimento, innovazione e biodiversità» (fonte: EFA News, European Food Agency; a lato, uno scatto tratto da instagram. com/mammamiaaa.it che narra attraverso immagini e video pranzi collettivi, ricette antiche e i tanti produttori impegnati nel Social Food Forum).


AZIENDE

Fattoria Zivieri, mortadella artigianale di filiera La qualità di prodotto è garantita dalla filiera chiusa: a partire dall’allevamento dei suini sull’Appennino bolognese, tutto è sotto la gestione e il controllo diretto della famiglia Zivieri. Un sogno realizzato di Gaia Borghi

È

bastato un veloce passaparola tra gli operatori e i visitatori che per primi si sono lanciati nell’assaggio e lo stand della Macelleria Zivieri a Taste edizione 2019 è diventato una tappa obbligata per i mortadella lovers. Tra le tante novità presentate quest’anno al

salone fiorentino, infatti, la mortadella artigianale prodotta dalla famiglia Zivieri nel suo nuovo stabilimento di Zola Predosa (BO) ha riscosso un immediato e via via crescente successo, con commenti entusiastici che hanno confermato ulteriormente ad Aldo, Fabrizio e ai collaboratori della macelleria presenti

a Firenze la bontà delle scelte effettuate. Conferme non del tutto necessarie a dire il vero, essendo la mortadella “Fattoria Zivieri” già stata presentata proprio a Bologna nel periodo antecedente il Natale, con apprezzamento generale degli amanti del salume petroniano per eccellenza. Tratti distintivi del prodotto,

Profumata, golosa, irresistibile: la mortadella bolognese è uno dei salumi più amati. Fattoria Zivieri si pone l’obiettivo di mantenere viva la tradizione della produzione artigianale di uno dei prodotti con cui Bologna è identificata in Italia e nel mondo, simbolo della città emiliana tanto da prenderne addirittura il nome (photo © www.fattoriazivieri.it).

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A sinistra: la mortadella prima del confezionamento finale. A destra: il salame rosa, insaccato tradizionale bolognese, molto noto e apprezzato in passato ed oggi quasi introvabile. l’artigianalità della lavorazione, la delicatezza del gusto, l’estrema digeribilità, la persistenza del profumo e, soprattutto, la materia prima di filiera. «La mortadella è il primo importante prodotto del nostro ultimo progetto, Fattoria Zivieri» mi racconta Aldo Zivieri mentre seguiamo passo passo le varie fasi di produzione dell’insaccato. «Un progetto in cui crediamo fortemente da sempre, che è nato e cresce sul concetto stesso di “filiera”, ovvero il poter garantire alla nostra clientela in totale tranquillità che abbiamo il controllo assoluto su ogni aspetto produttivo dei nostri salumi, a partire dagli allevamenti fino al prodotto finito. È la filiera la base della nostra credibilità». La mortadella Fattoria Zivieri viene infatti prodotta con le carni dei maiali di proprietà della famiglia, suini di razze autoctone — in prevalenza Mora romagnola — allevati sull’Appennino bolognese, nei pressi di Sasso Marconi, con grande attenzione al loro benessere, all’alimentazione, al rispetto delle tempistiche naturali di crescita.

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Un controllo che prosegue al momento della macellazione degli animali, con la gestione diretta del macello di Castel di Casio e, naturalmente, del laboratorio di sezionamento e trasformazione di Zola, sito proprio accanto al punto vendita e diventato operativo lo scorso novembre. Un capannone di 1.000 m2 con impianti, stufe, celle di stoccaggio e macchinari dotati di una tecnologia ad hoc, con una capacità produttiva di 20 quintali alla settimana. «Nonostante numeri tutto sommato piccoli, adeguati alle nostre “dimensioni”, la mortadella è il primo prodotto con il quale possiamo pensare di fare delle cifre importanti, ancorché sempre limitate alla disponibilità

della materia prima» prosegue Aldo. «I clienti che già serviamo con le nostre carni e i salumi ci chiedevano da tempo di produrre una mortadella tradizionale, autentica, che andasse cioè a tutelare la bolognesità di questo straordinario salume sia nel gusto che nel saper fare artigiano, nella cura estrema che gli dedichiamo in ogni passaggio della sua realizzazione». Per intenderci, quei gesti antichi come l’insacco e la legatura manuale che in una produzione di tipo industriale non è più possibile mantenere e che, anche grazie alla famiglia Zivieri e ai suoi giovani dipendenti, non andranno perduti.

Ad affiancare la mortadella nella proposta di Fattoria Zivieri un altro classico salume bolognese: il salame rosa, un prodotto antico, sconosciuto al di fuori delle mura cittadine. L’offerta di filiera, questa volta di selvaggina, si completa con la mortadella di cinghiale

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Il progetto Fattoria Zivieri, di cui la mortadella artigianale è il primo importante prodotto, vuole fare della genuinità, della tradizione, quella autentica, della manualità dei processi produttivi e, soprattutto, della sicurezza e salubrità della materia prima, i propri capisaldi. Perché a Bologna, con la mortadella, non si scherza Come ti creo un profumo senza la chimica «Lavoriamo circa due quintali di carne per ogni impasto» mi dice ancora Aldo. «La materia prima, come già detto, è esclusivamente quella proveniente dai

suini dei nostri allevamenti. Si tratta di carni piuttosto grasse, a cui aggiungiamo una concia molto semplice: sale, pepe, noce moscata e coriandolo. I tagli utilizzati sono quelli di spalla, gola e la rifilatura di spalla, pancetta e prosciutto». Quello che le dona una straordinaria digeribilità e leggerezza e la caratterizza rispetto ad altre mortadelle presenti sul mercato, però, è il fatto che non vengono utilizzati i trippini: per i lardelli, di colore bianco, si usa infatti solo il grasso della gola. «La ricetta è praticamente quella di una mortadella di sessant’anni fa» continua Aldo. «L’atro tratto distintivo della nostra mortadella è la cottura: molto lenta (15 ore per le mortadelle di pezzatura maggiore) e ad alte temperature (78 gradi al cuore del prodotto). È nella stufa che si crea il profumo: più è lenta la cottura, più il profumo della mortadella sarà intenso». Nessuna aggiunta chimica o aromi artificiali al “gusto di mortadella”. Una volta cotte, entra in gioco nuovamente il tempo, al contrario però. «Appena tolte dalle stufe le mortadelle devono essere sistemate in una cella con nebulizzazione di acqua fredda a 0 gradi:

quanto più sarà veloce l’abbattimento, quanto più il profumo durerà a lungo». Le pezzature disponibili della mortadella Fattoria Zivieri sono diverse: 500 e 700 g, 1 kg, 3 kg, 6 kg e 10/12 kg. Col salame rosa si gusta il tagliere delle Due Torri Ad affiancare la mortadella nella proposta di Fattoria Zivieri, e ricalcandone la forma, ecco un altro salume bolognese che più bolognese non si può: il salame rosa. Un prodotto che non ha nulla del salame se non il nome. Lo assaggiamo ancora caldo, tagliato a fette spesse, come se fosse una spalla cotta o un prosciutto arrosto: un’esplosione di gusto, che si attenua gustandolo a temperatura ambiente. «A Bologna il salame rosa era considerato il salume della festa: oggi è pressoché scomparso dall’offerta della gastronomia più tipica» commenta Aldo. «L’impasto è più magro rispetto a quello della mortadella e la parte grassa non viene macinata bensì tagliata a tocchetti. Secondo me è un prodotto esagerato: abbiamo deciso di iniziare a produrlo un po’ per gioco ma credo che ci darà un sacco di soddisfazioni».

Graziano Zivieri e il figlio Aldo con Lorenzo Biagioni e Laura Della Giovampaola all’interno del nuovo stabilimento di produzione della mortadella e degli altri prodotti marchiati con il logo “Fattoria Zivieri”, situato proprio accanto al punto vendita. 28

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Uscendo dalle mura cittadine, ma restando sempre all’interno del concetto di filiera, questa volta quella di selvaggina dell’Appennino Bolognese (un progetto che la famiglia Zivieri porta avanti da tempo in collaborazione con la Provincia e la AUSL di Bologna e la Strada dei Vini e dei Sapori), completiamo la nostra degustazione in rosa con la mortadella di cinghiale (60% cinghiale, 40% suino). Un salume diffuso soprattutto nel Centro Italia, che piace molto ai giovani, incuriositi da una proposta nuova, non tradizionale, anche nel sapore. Comunicazione, promozione, fiere ed eventi: si ricomincia «Col progetto di Fattoria Zivieri è stato un po’ come tornare indietro nel tempo: come è successo con la nostra recente partecipazione a Taste, saremo presenti alle fiere e agli eventi di settore in Italia e all’estero per promuovere i nuovi prodotti e la filosofia da cui hanno preso vita» mi dice Aldo. «Se vuoi che un’attività funzioni occorre investire, sempre, certamente dal punto di vista economico ma soprattutto in termini di impegno e dedizione costanti» conclude il padre Graziano, 85 anni e l’entusiasmo di chi al proprio lavoro ha dedicato la vita e continua, insieme alla moglie Adua e ai figli, a dedicarvisi quotidianamente e con passione. «Per caso non si fa nulla». Gaia Borghi >> Link: www.fattoriazivieri.it www.macelleriazivieri.it

La mortadella artigianale Fattoria Zivieri.

La Mora romagnola sale sul podio: Zivieri tra i vincitori del Campionato Italiano del Salame 2018 È il Salame gentile di Mora romagnola della Macelleria Zivieri il miglior “Salame dolce e magro del Nord” secondo l’Accademia delle 5T, organizzatrice del Campionato Italiano del Salame 2018, evento che ha il patrocinio del MIPAAFT ed è giunto alla sua tredicesima edizione. In questa occasione si sono sfidati 60 tra i migliori salami italiani. «Il livello d’eccellenza dei salami candidati è stato davvero notevole, tanto che i vincitori hanno prevalso per pochi centesimi», hanno dichiarato gli organizzatori della gara. Le carni suine di Mora romagnola che la Macelleria Zivieri utilizza per la preparazione di questo salame, così come degli altri salumi di Mora, provengono da allevamenti semibradi di proprietà e sono addizionati soltanto di sale e pepe, nessun conservante e nessun’altra spezia, per esaltare il naturale “sapore del maiale”. Sono carni, queste, che presentano una particolare ricchezza di grasso intramuscolare (marezzatura), risultando quindi piuttosto sapide, e di acidi grassi insaturi, sia mono- che polinsaturi, tra cui gli Omega-3 e Omega-6. >> Link: www.accademia5t.it

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Dok dall’Ava, semplicemente prosciutto Dal classico Dok di San Daniele Dop ai prosciutti speciali ottenuti da suini di diversa razza e provenienza come il Patadok, il Nebrodok, l’Hundok di Massimiliano Rella

Carlo Dall’Ava nel prosciuttificio di famiglia a San Daniele del Friuli (photo © Massimiliano Rella).

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ra il 1955 quando NATALINO D ALL ’A VA cominciò a stagionare prosciutti. Allora ancora molte famiglie italiane allevavano in proprio il maiale e i prosciutti erano fatti artigianalmente. Dopo qualche anno, nel 1982, il signor Natalino creò un prosciuttificio a San Daniele del Friuli e suo figlio CARLO entrò nell’azienda di famiglia in un periodo in cui molto agroalimentare

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era inglobato nelle logiche dei consumi di massa. Il commercio richiedeva quantità sempre maggiori da produrre in tempi rapidi, spesso a discapito del gusto e della qualità. Non condividendo questa impostazione produttiva e non accettando la prospettiva di produrre prosciutti di basso livello per la GDO, Carlo Dall’Ava decise di andare contro corrente. Nel giro di qualche anno rilevò il prosciuttificio DOK DALL’AVA e realizzò

una serie di progetti innovativi. Portò la durata dell’affinamento del prosciutto ad almeno 16 mesi, con riserve di 24 e 36, rinunciando di fatto ai grandi numeri e alla Grande Distribuzione. Il passo successivo fu di organizzare una propria rete vendita in Italia e all’estero e di creare una catena di prosciutterie che, oltre a vendere il prosciutto, lo propongono in tanti piatti diversi per mangiarlo sul posto. E fu subito successo.

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Ma che hanno di diverso i prosciutti Dall’Ava? Oltre alla materia prima, i cosci di maiale, l’azienda utilizza un altro ingrediente, il sale marino lavato di Margherita di Savoia, in Puglia. Per il resto il sapore e la bontà derivano dalla selezione degli animali, dalla manualità, dall’esperienza, dalla tecnologia. Per la produzione l’azienda impiega per il 95% maiali italiani. Per il San Daniele DOP non può fare diversamente perché è il disciplinare che prescrive l’uso esclusivo di animali nati, allevati e macellati in 10 regioni italiane del Centro-Nord, di razza Large White e Landrace e incroci con razza Duroc. In particolare il prosciutto Dok di San Daniele DOP è fatto con cosce di maiali pesanti allevati prevalentemente in pianura Padana, salate e stagionate per almeno 16 mesi. È prodotto nelle versioni con osso e disossato e con stagionature variabili fino a 4 anni. Quando è stagionato per almeno 21 mesi è commercializzato anche come numerodieci, mentre il prosciutto fumato è quello affumicato dopo stagionatura di 16 mesi. L’azienda produce inoltre prosciutti speciali da suini di diversa razza e provenienza. Il Patadok è ottenuto da suini iberici, allevati in Spagna allo stato brado con densità di 6 maiali per ettaro, ed è stagionato per 2 anni. Il Nebrodok è fatto con suini allevati allo stato brado ma in Sicilia, mentre lo Hundok è fatto con cosce di suini Mangalica, una razza pura allevata dal 1700 nelle pianure magiare, in Ungheria, per circa 16 mesi. Un maiale peloso che sembra una pecora grassa ma dà una carne adatta a produrre un prosciutto dolce, di una consistenza tale da sciogliersi in bocca. Il prosciuttificio di San Daniele del Friuli si presenta come una costruzione semplice e luminosa, con grande giardino curato e un parcheggio. Offre anche la possibilità di fermarsi a mangiare in uno spazio moderno e piacevole, con 140 posti a sedere dentro e 120 all’esterno. Nel locale al chiuso, un invitante bancone con sgabelli si presta ad ospitare gli avventori che optano per un pasto veloce. Per chi preferisce una pausa più comoda, ci sono tavoli di legno chiaro con sedie in pelle rosso scuro, intervallati a vetrine che mostrano appetitosi prosciutti stagionati. Acquolina in bocca assicurata! L’offerta gastronomica si basa sulla cucina locale,

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Stagionatura dei San Daniele DOP (photo © Massimiliano Rella).

Spazio degustazione (photo © Massimiliano Rella).

ma è molto probabile che il pregiato affettato della casa sia l’indiscusso protagonista in tavola. L’azienda gestisce prosciutterie con annesso negozio di specialità alimentari in diverse città del Friuli, come Pordenone e Udine, ma anche in Veneto e in Francia, a Les Arcs, stazione sciistica

della Savoia. Nel prosciuttificio di San Daniele sono previste visite guidate con degustazioni a pagamento tutti i giorni, su prenotazione, per gruppi (telefono: 0432 957335). Massimiliano Rella >> Link: www.dokdallava.com

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Tante storie, una sola Favola.

www.mortadellafavola.it


Delicata. Digeribile. Naturale. Favola è la buona mortadella artigianale che tutti riconoscono prima dalla cotenna naturale legata a mano e poi dal gusto incredibilmente delicato. Ogni Favola è unica col suo timbro a fuoco: inimitabile fuori e inconfondibile dentro.

Vieni a trovarci a TUTTO FOOD - PAD. 6P - STAND L15/M17


LA QUALITÀ

Europa, dove la qualità è di casa Sapori autentici e garantiti dall’origine: Vini Alto Adige Doc, Mela Alto Adige Igp, Speck Alto Adige Igp, Formaggio Stelvio Dop

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e certificazioni di qualità dell‘Unione Europea (UE) forniscono ai consumatori uno strumento per orientarsi tra i prodotti alimentari e identificarne origine, qualità e sicurezza e, grazie ad esse, i produttori possono tutelarsi da imitazioni e contraffazioni. Queste condizioni si applicano anche ai Vini Alto Adige DOC, alla Mela Alto Adige IGP, allo Speck Alto Adige IGP e al Formaggio Stelvio DOP. Prodotti in tutto e per tutto sinonimo della qualità alimentare in Alto Adige e in Europa. Quattro di essi, conosciuti ben oltre i confini di questa piccola regione,

diventano così un ideale quartetto di messaggeri per una campagna informativa sul significato delle denominazioni di origine protetta e sul valore aggiunto che rappresentano per consumatori e produttori. Si tratta di un programma triennale dal titolo “Europa, dove la qualità è di casa”, che dal 2018 fino al 2020 fornirà informazioni in quattro paesi — Germania, Italia, Paesi Bassi e Svezia —, sulle garanzie di qualità legate ad IGP – Indicazione Geografica Protetta, DOP – Denominazione di Origine Protetta e DOC. La denominazione protetta o controllata garantisce il rispetto da parte dei produttori di rigorosi

standard qualitativi e lo stretto legame che i prodotti hanno con l’area di origine. In questo modo il consumatore ha la certezza di acquistare un prodotto di qualità autentico e controllato. È anche sinonimo di trasparenza e tracciabilità, ovvero caratteristiche che in un mondo globalizzato assumono sempre maggiore importanza per i consumatori. I prodotti contraddistinti dalle denominazioni di qualità sono strettamente legati alle tradizioni artigianali e alle persone che li producono nella regione di origine, il che li rende unici, inconfondibili e non paragonabili a prodotti presumibilmente “simili”.

Speck Alto Adige Igp, formaggio Stelvio Dop, vini Alto Adige DOC e Mela Alto Adige IGP: queste produzioni tutelate già da anni dalle denominazioni geografiche dell’Unione Europea sono sinonimo della qualità alimentare in Alto Adige e in Europa.

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Le quattro produzioni altoatesine sono protagoniste di un Programma di attività co-finanziato dalla Commissione europea e realizzato in Italia, Germania, Olanda e Svezia per migliorare le conoscenze dei consumatori sui meriti dei prodotti agricoli europei. Denominazioni di qualità e loro significato • DOC significa “Denominazione di Origine Controllata”, contraddistingue i vini di qualità italiani ed è riconosciuta dall‘Unione Europea come ricompresa nella DOP, la Denominazione di Origine Protetta. • L’Indicazione Geografica Protetta certifica che almeno una delle fasi produttive sia stata svolta sulla base di criteri riconosciuti nella zona di origine e che un prodotto sia legato alla regione per una particolare caratteristica.

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• La Denominazione di Origine Protetta garantisce la produzione e la lavorazione di un alimento in una data regione geografica secondo determinate procedure. Tutte le fasi produttive devono svolgersi qui. I prodotti La denominazione Vini Alto Adige Doc esiste dal 1971. Oggi più del 98% dell’intera superficie viticola dell’Alto Adige ha la certificazione Doc. Tutti i vini della zona Doc sono sottoposti a rigorosi controlli di qualità, ad esempio limitazioni alla vendemmia, valori mini-

mi per il tenore di alcol e acidità e molto altro ancora. Grazie alla posizione geografica e al clima mite, alla confluenza tra le zone alpina e continentale, l’Alto Adige rappresenta una regione viticola estremamente variegata, dove su 5.400 ettari di superficie coltivata a vite crescono 20 vitigni diversi, il 60% dei quali sono uve bianche e il 40% rosse. Nel 2005 l’Unione Europea ha riconosciuto la Mela Alto Adige come IGP. 300 giorni di sole l’anno, abbondanti piogge primaverili, un’estate e un autunno solitamente miti regalano alla regione le condizioni ideali per la coltivazione

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Speck Alto Adige Igp nella dieta moderna Lo Speck Alto Adige Igp è simbolo di una regione che fa dello scorrere lento del tempo un privilegio, celebrando l’incontro tra le due culture gastronomiche del suo territorio, l’affumicatura tipica del Nord e la stagionatura all’aria diffusa al Sud. Dal sapore delicato e dalla leggera affumicatura – da fumo di legno poco resinoso – lo Speck Alto Adige Igp contiene macro e micronutrienti essenziali per un corretto stile di vita: per 50 grammi sono 150 le kcal fornite ed è anche per questo che può entrare a pieno titolo in un regime alimentare sano. Non lo diciamo noi ma un documento tecnico-scientifico redatto da NFI–Nutrition Foundation of Italy che approfondisce gli aspetti nutrizionali e il ruolo nell’ambito di un’alimentazione corretta e equilibrata del salume più celebre dell’Alto Adige. Lo Speck Alto Adige Igp si caratterizza per l’alta quantità di proteine nobili, i cui amminoacidi essenziali assolvono un ruolo fondamentale nella vita quotidiana, di sali minerali — come ferro, potassio, fosforo e zinco — e di alcune vitamine del gruppo B che favoriscono il normale metabolismo energetico e il corretto funzionamento del sistema nervoso. Può quindi essere inserito in una dieta varia ed equilibrata, associata ad uno stile di vita attivo, che punti al mantenimento del peso corporeo adeguato e all’introduzione di una serie di nutrienti fondamentali per il corretto funzionamento dell’organismo. Grazie ai suoi componenti, il salume altoatesino si presta anche ad essere consumato dagli sportivi: coloro che infatti praticano assiduamente attività fisica possono consumarlo come secondo piatto accompagnato da grissini o pane. Chi pratica sport in maniera costante ha un elevato fabbisogno energetico da soddisfare e ha la necessità di assumere con la propria alimentazione tutti i macronutrienti in modo equilibrato, soprattutto le proteine: lo speck — che, come tutte le carni, contiene gli amminoacidi essenziali (2,3 grammi di leucina, 1,4 grammi di isoleucina e 1,6 grammi valina) – può rientrare anche nell’alimentazione degli sportivi. Dal rosmarino al ginepro, dall’alloro al pepe, lo Speck Alto Adige Igp acquisisce già con la speziatura il suo gusto unico ma solo dopo una lunga e necessaria stagionatura ed affumicatura può essere gustato e inserito in un piano alimentare bilanciato. Negli ultimi anni infatti le tecniche di allevamento e le tecnologie produttive si sono evolute, favorendo un miglioramento del profilo nutrizionale dei salumi, Speck Alto Adige Igp compreso: ad esempio, secondo i dati pubblicati dall’INRAN, a partire dal 1993, il contenuto di sale è stato ridotto nettamente fino a registrare una diminuzione del 19%. >> Link: www.speck.it

di mele fino a 1.000 metri di altitudine. Questo clima assolutamente unico, abbinato a pratiche agricole controllate, naturali ed ecologiche, conferiscono alle mele dell’Alto Adige la tipica qualità succosa e croccante. Al momento sono 13 le varietà con l’IGP: Braeburn, Elstar, Fuji, Gala, Golden Delicious, Granny Smith, Idared, Morgenduft, Jonagold, Pinova, Red Delicious, Topaz, Winesap. Lo Speck Alto Adige ha ricevuto l’Indicazione di Origine Protetta nel 1996. L’accurata selezione della carne suina, linee guida chiare e rigorosi controlli rendono lo speck dell’Alto

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Adige assolutamente inconfondibile. Il motto dei produttori “poco sale, poco fumo e tanta aria fresca” fa parte della tradizione viva e vissuta, tramandata di generazione in generazione. Le sue caratteristiche distintive sono il gusto saporito e leggermente affumicato: solo lo speck migliore riceve lo storico marchio a fuoco. Lo Stelvio DOP ha ricevuto nel 2007, unico formaggio dell’Alto Adige, la Denominazione di Origine Protetta. La certificazione garantisce qualità nel rispetto della tradizione e delle origini storiche e geografiche: la sua produzio-

ne è documentata sin dal 1914. Si tratta di un formaggio tipico della regione, stagionato per almeno 60 giorni. Per ottenerlo viene lavorato latte vaccino fresco proveniente da masi alpini situati, la maggior parte dei quali è situata a oltre 1.000 metri di altitudine. Attualmente lo Stelvio viene prodotto dalla Mila/ Bergmilch nello stabilimento di Brunico e nella Latteria Burgusio. >> Link: www.europaqualita.eu Nota Photo © IDM Südtirol/Stefano Cavada.

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MARKETING

Italianità, la più grande risorsa Il made in Italy è un brand di grande appeal. Un elemento che dà lustro all’immagine dell’Italia nel mondo. Un fascino che si traduce in cifre di mercato. Ma quanto vale? Perché è così attrattivo dentro e fuori dai confini nazionali? E che potenzialità ulteriori mostra? di Sebastiano Corona

I

l Belpaese, il nome stesso lo dice, evoca uno stile di vita che in tanti ci invidiano. Richiama valori di autenticità, cura delle cose, le suggestioni e la poesia che

il fatto ad arte genera in ognuno. Gli stranieri sono fortemente sensibili a ciò che viene dall’Italia, nella convinzione che italiano significhi soprattutto tempi di vita accettabili e lenti, amore per i

dettagli, stile ed eleganza, in una sola parola, bellezza. Bellezza, nel senso più ampio del termine. Arte, storia, buon cibo, cultura, sole, mare e molto altro ancora. Elementi da cui Nordamericani,

Gli stranieri sono fortemente sensibili a ciò che viene dall’Italia, cibo soprattutto. Per l’Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy, nel 2017 i cibi che richiamano il Belpaese in etichetta hanno generato oltre 6,3 miliardi di euro di vendite, ben 274 milioni di euro in più del 2016 (photo © WavebreakmediaMicro – stock.adobe.com).

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Secondo il Rapporto Coop 2018, tra i Paesi europei l’Italia è la nazione in cui l’alimentazione assume una centralità ed una rilevanza economico-sociale che non ha eguali (photo © Rapporto Coop 2018). Tedeschi, Giapponesi e tanti altri, sono molto attratti. Ed è forse più idealizzato che reale quel concetto che gli stranieri hanno del nostro vivere, oggi più vicino alla frenesia dei nostri cugini d’oltralpe, rispetto a quella a cui eravamo un tempo abituati. Il made in Italy agroalimentare conta su ulteriori elementi. Gli Italiani sono innamorati del cibo — soprattutto di quello buono — come forse nessun altro popolo al mondo. Di questo amore fanno continuo vanto, esprimendolo in ogni occasione. I numeri parlano infatti da soli. Secondo il Rapporto Coop 2018, tra i Paesi europei, è l’Italia la nazione in cui l’alimentazione assume una centralità ed una rilevanza economico-sociale che non ha eguali. Nel Belpaese si destinano all’acquisto del food & beverage le maggiori risorse economiche: secondo l’OCSE, quasi 2.500 euro l’anno a persona, contro i 2.300 della Francia ed i 2.000 della Germania. L’Italia ha l’incidenza della spesa alimentare sul totale dei consumi maggiore nelle graduatorie internazionali. Si tratta di circa un quinto dei consumi complessivi: un primato che in†Europa è condiviso solo con gli Spagnoli e che supera di ben 5 punti percentuali la quota tedesca e di 7 quella britannica.

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L’Italia non solo guida il mercato e i relativi cambiamenti, ma spesso lo anticipa e lo condiziona. Un esempio è quello del calo nei consumi di carne a cui abbiamo assistito negli ultimi anni e l’incremento della spesa per pesce, frutta e verdura, dove il nostro Paese è stato certamente il primo ad avvertire il fenomeno e a cogliere, di conseguenza, le opportunità che derivavano dal cambiamento. Gli Italiani non tradiscono la tradizione, ma strizzano continuamente l’occhio alla sperimentazione. Secondo una recente indagine condotta da IRIInformation Resources, la disponibilità in Italia ad adottare tali innovativi comportamenti di consumo (tra gli altri, salutistico, senza glutine e vegetariano) sembra superiore di alcuni punti percentuali rispetto alla media europea. L’Italiano cede talvolta ai cibi pronti per praticità, ma è anche paradossalmente tornato — un po’ per necessità, un po’ per piacere — alle materie prime che gli consentono di prepararsi in casa alcuni prodotti, senza doverli acquistare già fatti. E sebbene alcune tipologie di piatti surgelati o precotti abbiano il loro appeal, soprattutto nelle famiglie moderne sempre più piccole e sempre più di fretta, la cucina, resta uno degli hobby principali. Secondo un’indagine dell’ufficio studi Ancc-Coop, quasi il 40% dei

nostri connazionali si destreggia con orgoglio e per passione, fra pentole e fornelli. Tutto questo, che apparentemente si mostra come l’espressione del costume di un Paese in un dato momento storico e che può addirittura sembrare un folcloristico modo di approcciare la tavola, ha generato nel tempo un fascino irresistibile, per chi, lo Stivale, lo guarda da fuori. L’interesse e l’attrazione che il made in Italy genera negli stranieri, oltre che negli stessi Italiani, si traduce in cifre. Cifre di tutto rispetto che fanno ritenere, e a ragione, che l’italianità sia uno dei motori della ripresa del Belpaese e uno dei pochi che nei peggiori anni della crisi finanziaria abbia retto e ci abbia consentito di stare a galla nonostante tutto. E, sebbene con i nostri 40 miliardi di euro di prodotti alimentari esportati ci piazziamo solo dopo Germania (che ne vanta ben 76), Francia (60), Olanda e Spagna, il valore dell’export del cibo italiano è assolutamente incoraggiante e fa ben sperare anche per il futuro, soprattutto se si considerano le recenti evoluzioni. Tra il 2007 e il 2017, infatti, il valore delle nostre esportazioni agroalimentari è passato da 22 ad oltre 40 miliardi di euro; un record storico, segnato nel momento finanziario più buio dell’ultimo secolo.

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Culatello di Zibello Dop. Quello delle Identificazioni geografiche è un sistema che, certificando la reale provenienza del prodotto, è garanzia di italianità per chi acquista. Non a caso, negli ultimi 10 anni, ha consolidato il proprio peso sul comparto, anche con incrementi a tripla cifra (photo © www.aifb.it). La richiesta di prodotti alimentari italiani all’estero è forte e richiede sempre più un effettivo legame con il territorio, meglio se certificato. Non a caso continua inarrestabile la corsa verso i mercati d’oltralpe, delle indicazioni geografiche che nel 2016 — secondo la Fondazione Qualivita — ha raggiunto gli 8,4 miliardi di euro, pari al 22% dell’export agroalimentare italiano. Un record che segna un incremento del 21% rispetto al 2015. Se negli ultimi due anni l’industria alimentare italiana ha visto crescere le esportazioni (+3,6% sul 2015 e +10,7% sul 2014), il settore delle DOP e IGP ha ottenuto risultati ancor più netti e soddisfacenti, pari al +5,8% sul 2015 e +17,7% sul 2014. Un sistema, quello delle denominazioni che, certificando la reale provenienza del prodotto, è garanzia di italianità per chi acquista. E non a caso, negli ultimi 10 anni, ha consolidato il proprio peso sul comparto, anche con incrementi a tripla cifra. All’estero amano quindi il prodotto italiano, a maggior ragione se c’è

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una garanzia del fatto che non sia un tarocco. Ma il made in Italy non è un brand vincente solo per gli stranieri. Gli Italiani lo cercano e lo preferiscono, seppur per motivi differenti. Secondo l’Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy, nel 2017 i cibi che richiamano il Belpaese in etichetta hanno generato oltre 6,3 miliardi di euro di vendite, ben 274 milioni di euro in più del 2016. Sui 60.600 prodotti alimentari di largo consumo analizzati dall’Osservatorio, giunto quest’anno alla sua terza edizione, è emerso che oltre 15.300 richiamano la loro origine italiana in etichetta e che, nel corso del 2017, le relative vendite sono cresciute del 4,5%: un tasso maggiore rispetto al +2,3% fatto registrare nel 2016. Sempre secondo la Nielsen, l’elemento più utilizzato in etichetta per richiamare l’Italia è la bandiera tricolore, che compare nel 14,3% dei cibi e che ha generato il 13,8% del giro d’affari totale dell’alimentare confezionato venduto in Italia nel 2017. Rispetto all’anno

precedente, il valore delle vendite è aumentato del 4,9%, contro il +3,1% registrato tra il 2015 e il 2016. Al netto delle denominazioni europee, è il claim 100% italiano a farla da padrone. Nel 2017 ha visto infatti le vendite entro i confini nazionali fare un balzo in avanti del 7,8% rispetto all’anno precedente, grazie soprattutto a formaggi (e in particolare mozzarelle e crescenze), prodotti avicunicoli e latte. A presentarsi in etichetta come 100% italiano sono 5,2 prodotti alimentari su 100 e le relative vendite raggiungono una quota del 7,4% sul totale alimentare. Ugualmente appetibile, ma meno attraente, è il Prodotto in Italia, le cui vendite hanno invece registrato una leggerissima flessione. Sempre nel mercato interno, continua brillantemente l’espansione delle vendite di prodotti a denominazione, con trend molto positivi (rispettivamente +7,8% e +8,7%), ma più contenuti rispetto al 2016. Il motore delle vendite sono i salumi IGP e i vini e gli spumanti DOCG.

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Sempre secondo la Nielsen, sono circa 2.000 le etichette che segnalano anche la regione di provenienza sulla confezione, il 3,3% del totale dell’offerta a scaffale. La regione che viene maggiormente enfatizzata è il Trentino-Alto Adige, seguita da Piemonte, Toscana, Sicilia, Lombardia, Puglia e Campania. Il Trentino-Alto Adige ha il primato sia per numero di prodotti (672), sia per valore delle vendite (241 milioni di euro), in crescita annua del 4,8% durante l’intero 2017. Ma è la Puglia la regione che ha messo a segno il dato più importante dei trend di vendita, registrando un +17,7% rispetto al 2016, seguita da Toscana (+13,9%) e Piemonte (+11,6%). Nel complesso, invece, il numero dei prodotti che evidenziano la regione di provenienza in etichetta è sostanzialmente stabile, sebbene il giro d’affari sia in crescita per tutte le sette regioni citate. Delle cifre che dimostrano quanto il made in Italy sia importante per la nostra economia non c’è però solo ciò che in concreto si produce e si vende:

ci sono anche le potenzialità inespresse e le quote di mercato coperte da altri in nome nostro e, quindi, in maniera del tutto illegittima ed abusiva. L’agropirateria e l’Italian sounding, rappresentate da alimenti prodotti interamente all’estero e con materie prime straniere, dove capeggia in modo del tutto improprio il tricolore, valgono infatti oltre 100 miliardi, più del doppio di ciò che riusciamo al momento ad esportare. Avremmo dunque un mercato ancora molto ampio da occupare, perché in qualche modo già nostro, se solo avessimo la forza e la capacità di farlo. Perché il problema non è solo il fatto che nelle piazze internazionali combattiamo ad armi spuntate (si pensi agli Stati in cui non c’è alcuna tutela dei nostri prodotti, nemmeno di quelli a denominazione). Ciò che dobbiamo chiederci è se effettivamente saremmo in grado di produrre, anche solo per l’estero, più del doppio di quanto già facciamo. La nostra forza produttiva non è ancora sufficiente per coprire le potenzialità che teoricamente avremmo

grazie al nome dell’Italia. Ma anche conoscenza, competenza e organizzazione sono elementi indispensabili in un processo di internazionalizzazione che ha finora coinvolto solo una parte del tessuto produttivo nazionale, appannaggio delle imprese più strutturate che, tra l’altro, non sono quelle più diffuse nel nostro Paese. Ci affligge il nanismo imprenditoriale e in questo caso non si può dire che piccolo sia bello. In Italia, secondo NOMISMA, solamente l’1,7% delle imprese alimentari ha più di 50 addetti, contro il 10,5% della Germania o il 4,1% della Spagna. A conferma dei limiti delle imprese italiane c’è inoltre il fatto che i nostri prodotti tendenzialmente non viaggiano su lunghe tratte, essendo i due terzi dell’export agroalimentare nazionale destinato a mercati “di prossimità”, cioè Paesi dell’Unione Europea. Solo la restante parte ha come destinazione l’America (13,5%), l’Asia (9%), altri Paesi Europei (7,6%) e l’Africa (2,4%). Insomma, c’è ancora tanto da fare. Sebastiano Corona


SPECIALE MORTADELLA Paese che vai, mortadella che trovi

Mortadelle d’Italia

G

irovagando su e giù per il Belpaese si possono incontrare mortadelle crude stagionale o anche cotte. Numerosi sono i salumi che portano questo nome e il motivo ci rimanda al passato. Un tempo, infatti, per mortadella si intendeva un insaccato prodotto con un impasto ottenuto lavorando la carne a taglio grossolano. Nei ricettari del 1300 e 1400 sono citati vari tipi di mortadelle fatte con carne di maiale cruda. Della mortadella cruda scrive per primo MASTRO MARTINO DE ROSSI, detto DA COMO; dopo di lui CRISTOFORO DA MESSISBUGO (1549) e FRANCESCO LEONARDI (1790), il quale intitola una sua ricetta Mortadella delle Spianate.

Tutti questi autori parlano di insaccati “crudi”, quindi di una mortadella diversa da quella di Bologna. Riprendiamo la mappatura stilata a suo tempo dal PROF. CARLO CANTONI e andiamo alla ricerca di un prodotto che è tanto vario quanto capace di racchiudere nei propri ingredienti e lavorazioni l’espressione più autentica di un territorio. Mortadella classica di Bologna Si utilizza esclusivamente carne di suino pesante italiano e grasso di gola tagliato in cubetti; l’impiego di conservanti è ridotto ai minimi termini, consentendo soltanto nitriti e nitrati in piccolissima quantità, precisamente due grammi mescolati a sale per 100 kg di carne

(la tipologia delle carni suine attuali non consente di azzerare la presenza degli additivi). La concia è composta di sale, pepe nero in grani, pepe bianco macinato, macis, coriandolo, polpa d’aglio pestato e la cottura avviene in stufe di pietra con una gradazione al cuore tra i 75 e 77 °C. Per l’involucro è consentita soltanto la vescica di suino, mai quella sintetica. Esternamente la mortadella classica di Bologna non presenta differenze particolari: è al taglio che evidenzia caratteristiche abbastanza differenti da quelle normalmente in commercio. Infatti, si nota una colorazione leggermente tendente al marrone chiaro e non quella rossa o rosata a cui siamo abituati. Il

Rosetta con Mortadella Bologna (photo © Anna Quaglia).

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profumo, non sostenuto da additivi o aromi, è meno “prepotente” di quello delle altre mortadelle, ma più complesso. Al gusto, si ritrovano sensazioni di dolcezza, delicatezza e consistenza del tutto particolari: l’insieme organolettico tende alla suadenza più che alla sapidità. Eccellente gustata a cubetti. Mortadella di Prato È un salume a pasta cotta prodotto nelle province di Prato e Pistoia. Ha forma cilindrica, aspetto variabile in base al peso, che oscilla fra 300-500 g o più. La farcia è fine. Per prepararlo si impiegano rifilature di spalla, prosciutto, di coppa, sale, spezie (pepe nero in grani, pepe nero macinato, sale, polpa d’aglio pestato, macis, coriandolo, cannella, garofano e alchermes). Le carni, dopo mondatura e rifilatura, sono tritate a grana finissima e vengono addizionate della concia e dei lardelli raffreddati e tagliati a cubetti. Dopo la miscelazione, si procede all’insacco. Si cuoce poi in caldaia a 70 °C per 2 ore al giorno per cinque giorni. Mortadella umbra L’impasto di questo insaccato è composto di carne suina magra di prima scelta che viene tritata molto finemente; la concia è fatta esclusivamente di sale e pepe. Si insacca nel budello naturale al centro del quale viene inserito un lardello lungo 25-30 centimetri, come la mortadella. Viene pressata finché ottiene la caratteristica forma di parallelepipedo. Si fa asciugare per qualche giorno in ambiente ben ventilato e caldo e si fa poi stagionare per alcuni mesi in cantina. L’area di produzione è rappresentata da tutta la regione umbra. Oggi questo prodotto sta scomparendo dal suo mercato originario e la tradizione si sta spostando nella zona di Amatrice, nel Lazio e di Campotosto, in Abruzzo. La vera zona di origine sembra essere stata quella di Preci, in provincia di Perugia. Mortadella della Val d’Ossola È un salame di carne suina della Val d’Ossola e della Val Vigezzo. Ha una grana grossolana e si consuma fresco, previa cottura, o crudo, dopo circa due mesi di stagionatura. La forma è quella di una bisaccia tondeggiante, schiacciata in senso latero-laterale, fortemente solcata dal tracciato dello spago, di peso

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Mortadella di Prato (photo © www.toscanaovunquebella.it). variabile, indicativamente tra 300 e 500 grammi. Per la sua preparazione si impiegano tagli suini magri, pancetta, fegato di maiale (5-10%), sale, pepe, aglio pestato, vino. Budello naturale: vescica suina. La lavorazione si compie con la mondatura e rifilatura delle carni, preparazione della concia, taglio di carne e lardelli a grana grossa. A seguire: trasferimento del trito nell’impastatrice, aggiunta della concia, miscelazione, passaggio del miscelato in insaccatrice ed insacco, legatura a mano con spago e asciugatura a temperatura ambiente per 4-5 giorni. La stagionatura si fa in cantina per 60 giorni. Mortadella delle Apuane È un salume tradizionale della provincia di Massa Carrara, in particolare del Comune di Montignoso, a base di tagli pregiati di carne di maiale, quali coppa, spalla, lardo e pancetta. Le carni sono tritate con stampi di 12-15 mm, quindi l’impasto è a grana grossolana; nello stesso si aggiungono sale, pepe in grani e macinato, noce moscata, cannella, vino bianco di Candia, vitamina C e nitrato di potassio. Si impasta molto accuratamente e quindi si insacca in budello naturale di manzo o tipo bondeana, cercando di massaggiare bene in modo da far uscire tutta l’aria dall’impasto. Si fora il budello e si asciuga per 6-7 giorni

a 25 °C, in ambiente caldo e umido, fino all’affioramento di chiazze di muffa bianca. È buona regola consumare la mortadella dopo un breve periodo di stagionatura, effettuata a 12-14 °C per pochi giorni (7-10). Mortadella nostrale di Cardoso Si tratta di un salume tradizionale della Versilia (Lucca); è un insaccato di grosse dimensioni a base di sola carne suina (80% con tessuto muscolare e 20% grassi). Le carni vengono tritate a grana media (5-6 mm), addizionate di sale, pepe, aglio, timo, rosmarino, finocchio selvatico e altre erbe a composizione variabile da produttore a produttore. Dopo accurata miscelazione si insacca in budello bovino o suino secondo la pezzatura e la forma volute, e si asciuga per 8 giorni a circa 25 °C. Se non consumata fresca, la stagionatura avviene a 12-14 °C fino a 10 mesi. La mortadella nostrale di Cardoso ha forma ovale (12 cm di lunghezza e 15 cm di diametro), cilindrica piccola (25-30 cm di lunghezza per 5 cm di diametro) o cilindrica grossa (45 cm di lunghezza e 8-10 cm di diametro), legata a mano, di colore grigio per la fioritura delle muffe. Al taglio appare di colore rosso acceso, compatta, con bella evidenza dei lardelli.

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Mortadella di Camaiore (photo © Made in Lucca). Mortadella di Camaiore Salume tradizionale originario di Camaiore in Versilia (provincia di Lucca), la “sbriciolona” è un insaccato crudo in budello naturale di carne suina stagionato per un tempo variabile (da 2 a 4 mesi) a seconda del peso. Ha un diametro compreso tra 3 e 8 centimetri, una lunghezza di 10-30 centimetri e un peso variabile tra 1 e 5 chilogrammi. Si presenta come cilindro ricurvo, con superficie di colore grigio per la fioritura fungina, solcato da corda. Al taglio presenta una pasta morbida, con grana di colore rosso rubino scuro nella parte magra nella quale risalta il bianco dei lardelli tagliati irregolarmente.

e la spalla e le rifilature del prosciutto per le carni magre (80%); la pancetta e il lardo per la parte grassa (20%). Le carni sono macinate finemente e unite al quinto di grasso duro tagliato a dadini. L’impasto si concia e si insacca in budello bovino (zucchetta). Si mette ad asciugare per 8 giorni a circa 25 °C. La stagionatura avviene a 12-14 °C per 4-5 mesi, a seconda delle dimensioni, l’insaccato è pronto per il consumo. La mortadella trequandina ha forma cilindrica e dimensioni variabili, per un peso oscillante fra 1 e 1,5 kg. Al taglio appare di colore rosso acceso, compatta, con bella evidenza dei lardelli. È un prodotto analogo al salame toscano.

Mortadella trequandina Si produce in provincia di Siena, in particolare Trequanda. È un insaccato di carni magre di prima scelta di suino pesante e grassi. È additivato con sale e pepe, nitrato e acido ascorbico. Per la sua preparazione si usa del suino

Mortadella viterbese Salume crudo insaccato in budello naturale bovino, a forma di salame spianato, dello spessore di 4-5 cm, del peso di circa 2 kg, la cui superficie di taglio si presenta di colore rosso vivo, con occhiature bianche dovute ai

Col termine “mortadella” in passato si intendeva un insaccato fatto con impasto ottenuto lavorando la carne di maiale con il mortaio (in latino “mortarium”). Nei ricettari del 1300 e 1400 troviamo vari tipi di mortadelle fatte con carne di maiale cruda

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lardelli di grasso e grani di pepe nero spesso visibili. Componenti principali sono la spalla del maiale disossata e il grasso di gola (massimo 10%) con l’aggiunta di sale, pepe, aglio tritato e vino. Nel salume di tipo industriale viene aggiunto anche acido ascorbico (vitamina C), zucchero, nitrito e nitrato di sodio e potassio; facoltativa l’aggiunta di piccole quantità di latte in polvere. La produzione attuale di questo insaccato è quasi esclusivamente a carattere industriale (circa 700 quintali l’anno) e avviene presso i vari stabilimenti esistenti a Viterbo che, però, lo commercializzano come un generico salame schiacciato stagionato. La carne magra della spalla disossata e, a volte, anche della coscia, dopo l’asportazione delle parti tendinee, viene tritata con piastra di 2 mm, quindi si impasta per circa 10 minuti insieme agli altri ingredienti, compresi i lardelli del grasso di gola, precedentemente conditi e tenuti sotto sale per 24 ore. L’impasto, dopo un periodo di riposo per 48 ore a temperatura tra 0° e 4 °C, è insaccato nel budello naturale bovino, quindi è pressato e messo a stagionare per 2-3 mesi. Mortadella romana o spianata È un esempio di mortadella cruda, quindi diversa dalla classica mortadella, che viene cotta in stufe di pietra prima della stagionatura. Per quanto riguarda la preparazione di questo salume, la ricetta è simile, per ingredienti, a quella della corallina. La differenza avviene nelle fasi di insaccamento e di stagionatura; in questo caso, infatti, viene utilizzato un budello di origine bovina e le carni magre macinate finemente e miscelate con lardelli tagliati a mano a punta di coltello. L’impasto, condito ed aromatizzato, è insaccato in budello naturale di bovino e posto ad asciugare per qualche giorno in apposite gabbiette metalliche (solamente pochi artigiani usano ancora lo schiacciamento tra due assi di legno), fatta maturare alcuni giorni in locale con fuoco per poi essere stagionata per alcuni mesi appesa in locali ventilati. Gli ingredienti sono dati da tagli magri (circa 75%) — polpa di spalla suina, rifilatura di prosciutto — e grasso suino tagliato a dadini (circa 25%). Poi, sale, pepe macinato e intero, aglio schiacciato e macerato nel vino, nitrato di potassio (E 252), budello dritto

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Mortadella di Cardoso (photo © Il Desco). (gentile) bovino. La tradizione della mortadella romana, chiamata comunemente “spianata”, è riconducibile alla particolare tecnica di trasformazione. Nella metodologia di preparazione si fa particolare riferimento all’impiego di aglio schiacciato nel vino, all’insacco in budello naturale, alle gabbie metalliche per la fase di asciugatura ed alla fase di stagionatura in cantine. Mortadella di Amatrice È un salume di produzione locale a grana fine di carne suina di prima qualità, con lardello centrale. Presenta forma tondeggiante, sapore intenso, appena piccante. Il bastone di lardo inserito al centro rende inconfondibile la mortadellina amatriciana che si presenta, al taglio, di colore rosa-violaceo con un nucleo centrale bianco. Si ottiene macinando, non troppo finemente, lombo e spalla di maiale a cui si aggiungono sale e pepe, macinato ed in grani, e lardo tagliato a pezzetti. Dopo aver fatto riposare l’impasto per 6-8 ore, lo si lavora cercando di dargli forma ovale e ponendo una cura particolare nel far fuoriuscire l’aria. Successivamente si cuce un quadrato di intestino — precedentemente lavato con acqua e aceto e lasciato ad asciugare — intorno all’impasto e si posizionano due stecche di legno di nocciolo ai lati del salume per tenerlo schiacciato. Le mortadelline vengono, poi, poste sotto

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peso per 24 ore e bucate con piccoli spilli per favorire la fuoriuscita di aria. In seguito si pongono ad asciugare per qualche giorno in un locale con camino, si trasferiscono, infine, in una cantina asciutta e ventilata per ulteriori 3-4 mesi. A mano a mano che la stagionatura procede, le mortadelline si restringono e le due stecche vengono rimosse. Il salume pesa mediamente 1,3 kg. La produzione di mortadelline è legata da più di tre secoli al territorio, come si evince dalle testimonianze orali raccolte. La peculiarità di questo insaccato è di potersi conservare più a lungo di altri e di poter essere consumato fino alla produzione dell’anno successivo. Mortadella di Campotosto La mortadella di Campotosto (conosciuta anche con la colorita espressione di “coglioni di mulo”) è prodotta prevalentemente nel comune di Campotosto, in provincia di L’Aquila. È un salume lavorato a mano di carne di suino pesante, macinato a grana fine e con una caratteristica barretta di lardo inserita all’interno (lardello). Ha forma ovoidale ed è commercializzata in coppia. Nella parte inferiore del salame viene posto un tralcetto, che serve a stringere lo spago durante la stagionatura, in modo da far aderire l’involucro all’insaccato ed evitarne l’allentamento. La pezzatura oscilla tra 400 e 500 g la coppia a stagionatura ultimata. L’impasto, che

si presenta di colore roseo, mentre perfettamente bianco risulta essere il lardo centrale, viene speziato con pepe e altri aromi naturali (in quantità variabile a seconda della ricetta tramandata nelle varie famiglie di produttori), che conferiscono al prodotto dolcezza, aroma fragrante e caratteristico. I tagli di carne per la preparazione delle mortadelle di Campotosto sono spalla, collo, lombo, coscia, pancetta. La proporzione tra i vari tagli deve essere tale da garantire un 80% di carne magra (25% minimo di prosciutto) e un 20% di pancetta. La macinatura viene effettuata tramite una macchina con stampo a fori di diametro compreso tra 2 e 4 mm, con l’accortezza di utilizzare lame ben affilate onde prevenire la smelmatura dei grassi. Le fasi successive alla macinatura sono la speziatura e l’aromatizzazione con sale (24-26 g/kg), pepe macinato (1 g/kg), pepe tritato grosso (2 g/kg), aromi e vino bianco. La carne macinata ed impastata con gli aromi è lasciata maturare per non meno di 24 ore in ambienti a temperatura compresa tra 0 e 4 °C. A parte avviene la preparazione del budello, che è del tipo “torta”: viene gonfiato, tagliato in senso longitudinale e lavato accuratamente. Servirà ad avvolgere la mortadella rivestendola completamente. All’atto della lavorazione si pesano le porzioni di impasto, di 325 g, cominciando quindi, a modellare con le mani fino a ottenere la tipica forma. È durante questa fase che al centro della mortadella viene inserito il lardello, della dimensione di mm 20x20x110. Si procede, quindi, alla legatura a doppia briglia con spago medio calibro e, legate a coppia, le mortadelle si appendono su pertiche di legno. Si espone al fumo per 15 giorni sopra camini o bracieri alimentati giorno e notte con legna o brace, successivamente, in locali aperti e freddi, il salame verrà esposto alla tramontana, indispensabile a garantire un’ottimale asciugatura. Questa fase di stagionatura trova nel microclima esistente tra Campotosto e Poggio Cancelli (ad un altitudine compresa tra 1300 e 1450 m), una condizione particolarmente favorevole. Dopo circa tre mesi dalla macinatura il prodotto essiccato è pronto per essere consumato. Attualmente, purtroppo, sono poche le famiglie che producono

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Mortadella di Campotosto (photo © Only Fabrizio – stock.adobe.com). l’originale mortadella di Campotosto. Sul mercato si trovano molti prodotti simili al salume originale, del quale non è possibile imitare la lavorazione, le caratteristiche organolettiche e soprattutto la qualità della materia prima impiegata. Mortadella di Accumoli La mortadella di Accumoli è un salume impostato sulla trasformazione delle rifilature magre di costato, spalla, coscia e pancetta. Caratteristica è la trituratura fine delle carni; si contraddistingue anche per il giusto rapporto tra parte magra e grassa e dall’involucro in cui l’impasto viene mantenuto, costituito da un panetto di sevo ed intestino crasso ricucito. Ha forma cilindrica con una pezzatura finale di circa 1,5-2 kg, il colore è rosso cupo screziato bianco, il sapore è sapido. La mortadella di Accumoli ha un mercato locale e regionale (il comprensorio dei Monti della Laga). Sporadicamente anche extraregionale. Tradizionalmente viene ancora preparata nei soli mesi invernali (novembre-marzo) — anche se nei laboratori moderni è prodotta anche in altri periodi dell’anno — con suini alimentati a secco e che sfruttano un pascolo estivo di sottobosco. Il peso

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vivo alla macellazione è di 130-150 kg. Il processo di trasformazione è caratterizzato dalla scelta del sezionato, dall’esclusivo impiego del pepe come condimento, dalla stufatura in camera calda con riscaldamento e combustione naturale ed una lunga stagionatura in camere fredde, in cui avviene il restringimento progressivo del salume, tramite le caratteristiche “stecche” di legno (generalmente di faggio). La stagionatura dura in media 4 mesi. Le mortadelle di fegato Nel Libro per cuoco redatto da un anonimo nel 1300 si legge: “Se ti voj fare mortadelle, toj lo figato del porcho e lo sua reta over raixella: toj lo figato e falo alessare, e quando è cocto trailo fora et toj herbe bone e pever e ove [uova] e caxo [cacio] e sale tanto che bassta, e toj lo figato e queste cosse e bati ben insieme in un mortaro, e fai pastume [impasto] e di stempera cum ova e con un pocho de la lesaóra [lessatura] del figato, e poi toj la reta e faj le mortadelle, e quando sono fatte frizili in bono onto colato. Quando sono fricte dàli caldi a tavola”. Nulla di sorprendente in questa mortadella di fegato che anche ISABELLA D’ESTE ordinava

di preparare al fido LEONELLO DA BAISO: “[…] Essendo adesso il tempo di far li salemi, ve pregamo ni faciati fare due solii [mastelli] tra cevellati, mortadelle et zambudelli, de la sorte et bonà che sete consueto fare […] Fate che gli siano anche de le mortadelle de fegato […]”. Ma il fegato di suino nelle salsicce era adoperato anche nell’antichità, nei vari botellus e tomacule romane. Oggi le mortadelle di fegato si producono in Lombardia e Piemonte con lieve differenze di composizione. Mortadella de fidigh o fidighina Gli ingredienti di questo salume sono carni suine magre (20%), grasso corposo (15%), fegato di suino (65%). I coadiuvanti tecnologici: sale, aromi naturali, spezie e pepe macinato, filtrati nel vino rosso. Gli additivi: noce moscata, nitrito. Le sue peculiarità: forma a ferro di cavallo; dimensione: 20-25 cm; sapore tipico; odore tipico speziato, colore rosso scuro. I centri di produzione più importanti sono Salice Terme, Sabbioneta, Lomazzo, Lurate Caccivio, in provincia di Pavia, Mantova e Como. Il fatto che lo stesso salume si trovi in località diverse, può essere attribuito a spostamenti di nuclei

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contadini, o a norcini erranti o altri motivi analoghi. Il fegato del suino, insieme a ritagli magri mondati delle parti dure e alla pancetta viene condito con vino rosso aromatizzato (preferibilmente Barbera), macinato finemente e insaccato nella vescica o budello animale. Maturazione: in cucina per 3-4 giorni. Periodo di stagionatura: 30/40 giorni in cantina. Dopo questo periodo, se non si consumano subito, le mortadelle vengono conservate in recipienti di coccio detti terragne, verdi marmorizzate all’esterno e color caffellatte all’interno, sotto la sugna liquefatta che le mantiene morbide. Peso da 200 a 700 g.

Mortadella d’Orta Si tratta di una mortadella cotta compo-

sta da fegato di maiale, triti di banco, carniccio, guanciale e pancetta. La pezzatura di questo prodotto è di circa 2-3 kg. La carne è tritata assai finemente e conciata utilizzando vin brulè, cioè vino rosso (generalmente Barbera) bollito, anice stellato, chiodi di garofano, cannella e altre spezie. Il tutto viene insaccato nella muletta di maiale (cieco) e/o crespone. Una volta la cottura della mortadella di fegato era effettuata in pentoloni con acqua bollente; oggi i salumifici effettuano la cottura a vapore. La stagionatura dura circa 60 giorni ed ha luogo in normali camere di stagionatura. Viene prodotta nel Novarese e Vercellese. Mortadella di fegato cruda sotto grasso Per la sua preparazione si usano fegato di suino (30%), carni suine, sale, latte scremato in polvere, destrosio, saccarosio, spezie e aromi. Dopo le fasi di mondatura, refrigerazione, preparazione impasto, insacco, legatura, asciugamento e copertura con strutto, viene stagionata per 20-30 giorni o più.

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Mortadella di fegato al vin brulè Nel Basso Milanese e a Varese si produce anche la mortadella di fegato al vin brulè. Viene preparata aggiungendo il vin brulè agli ingredienti tradizionali della mortadella di fegato. È diffusa nella Bassa Lodigiana, in provincia di Milano, e nella zona collinare del paese, con centro a Salice Terme. Oltre che col vin brulè può essere insaporita con l’amaretto di Saronno o la grappa di Angera.

Fideghin o fideghina Oltre che in Lombardia, come detto, la mortadella di fegato è prodotta in Piemonte (Novarese e Vercellese) cruda o cotta. La prima è detta anche fideghin o fideghina, mentre quella cotta è detta mortadella d’Orta. Gli ingredienti della prima sono fegato di maiale, carniccio, guanciale e pancetta. Il peso di questa mortadellina cruda è di circa 200 grammi. Gli ingredienti sono macinati in modo molto fine e insaccati. Le mortadelle sono poi legate con la caratteristica forma a ferro di cavallo. In passato venivano fatte stagionare in cantina coi bracieri accesi per asciugarle; attualmente sono poste in celle di stagionatura. Il prodotto non è cotto e generalmente è consumato crudo e stagionato. Consumato cotto bollito è ingrediente principe della panissa o paniscia, piatto tipico del Vercellese. In passato questi salumi erano conservati nelle duje (recipienti tradizionali) con lo strutto di maiale.

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PRODOTTI TIPICI

Alla scoperta della Zazzicchia A Patrica, piccolo comune della valle di Sacco non distante da Frosinone, la famiglia Pellegrini porta avanti un lavoro di recupero dei sapori ciociari di Elena Benedetti

L’

ANTICA MACELLERIA PELLEGRINI è una piccola società cooperativa a conduzione familiare con un negozio di carni fresche e preparati e l’annesso laboratorio dedicato alla lavorazione di insaccati della tradizione. Gestita da MARCO PELLEGRINI insieme ai genitori, questa attività iniziata nei primi del ‘900 rappresenta oggi la continuità di una tradizione che, dopo oltre un secolo, è la manifestazione di una passione

immutata nella lavorazione delle carni e dei salumi della Ciociaria. Il bisnonno si dedicava originariamente all’allevamento di ovini e alle donne di casa spettava il compito di lavorare le carni trasformandole anche in salumi. Da qui un patrimonio di ricette e lavorazioni che Marco ha custodito e fatto proprio con quello che è il salume che più lo rappresenta, la Zazzicchia (salsiccia) di Patrica, riconosciuta dall’ARSIAL come prodotto tipico. Ed è sicuramente anche

la più rinomata salsiccia del territorio ciociaro per la qualità delle carni e la ricercatezza degli ingredienti. «La Zazzicchia di Patrica ha origini nel lontano 1912 e risale ad una vecchia ricetta che la nostra famiglia si tramanda ormai da quattro generazioni» mi dice Marco Pellegrini. «L’artefice è la mia bisnonna Felicola, che intuitivamente e saggiamente seppe unire i prodotti del territorio». Alla base di questa salsiccia c’è la lavorazione delle carni suine,

Zazzicchia di Patrica stagionata.

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ricavate da animali che provengono da allevamenti locali dei monti Lepini, soprattutto di razze autoctone del maiale rosa e di quello nero. I tagli impiegati per il macinato di carne sono spalla, lombo e pancetta. I profumi aggiunti sono di finocchio selvatico, scorze di arancia, peperoncino e aglio precedentemente macerato nel vino. «L’impiego di queste spezie conferisce il giusto equilibrio tra carni magre e grasse» aggiunge Marco. Ottenuto un impasto omogeneo, questo viene lasciato una notte in cella per poi essere tagliato al coltello e insaccato. La Zazzicchia di Patrica può essere consumata fresca, stagionata (minimo una ventina di giorni) o sottolio. Ideale per gli antipasti o per uno spuntino, è perfetta per condire la pasta, come piatto unico con patate o broccoli, e coi formaggi. «La selezione delle carni, provenienti solo da allevamenti locali con animali nutriti in modo naturale, la lavorazione artigianale, imparata da mio padre e prima di lui, dal nonno e dal bisnonno, l’impiego di aromi pregiati e la stagionatura controllata quotidianamente, oltre a un giusto rapporto qualità-prezzo, sono alla base del nostro lavoro» sottolinea Marco. Nella macelleria l’offerta è incentrata su carni pregiate come Marchigiana o Chianina. «Siamo una macelleria autorizzata dal Consorzio di tutela alla vendita del Vitellone bianco dell’Appennino Centrale». Il banco carni ospita anche polli e conigli provenienti da piccoli allevamenti locali, la bufaletta dell’Amaseno e il maiale nero. Progetti per il futuro? «Queste terre, un tempo ricche di attività agricole e dedite all’allevamento, si sono via via spopolate. Abbiamo dei terreni di famiglia e vorrei realizzare un piccolo allevamento per l’autoconsumo della mia macelleria» dice Marco. Un ritorno alle origini per questa famiglia che ogni giorno fa della propria professionalità un prezioso lavoro di tutela della cultura agroalimentare del territorio. Elena Benedetti Antica Macelleria Pellegrini Via Quattro Strade 146 03010 Patrica (FR) Telefono: 0775 222208 Web: www.anticamacelleriapellegrini.it

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In alto: la zazzicchia fresca. In basso: zazzicchia di Patrica sottolio.

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Jelenič, prosciutto e musica Questa famiglia di Žminj, in Croazia, fa il prosciutto leggendo lo spartito e lo firma con una chiave di violino di Gian Omar Bison

N

on si sa bene nella storia della famiglia dove e quando sia iniziata la musica e dove e quando la norcineria. Gli JELENIČ insaccano, salano e stagionano così come suonano da decenni nelle piazze nei matrimoni privati. Ma nel 1999, in previsione dell’avvio del percorso di

riconoscimento della denominazione d’origine da parte dell’Unione Europea — la DOP del prosciutto istriano è ufficiale dal 2015 —, le cose sono cambiate. E dai tre, quattro prosciutti all’anno che con gli altri preparati venivano confezionati da papà Branko per solo uso domestico, sono passati subito

alle 108 cosce lavorate. Il successivo ingresso in azienda dei figli Paolo e Luca ha strutturato lavoro e organizzazione. E adesso parliamo di una realtà da 1.800 pezzi prodotti nel 2017, con una capacità che può arrivare a pieno regime a 2.500, terza per grandezza su un totale di quindici aziende istriane

La fase di salagione dei prosciutti è fondamentale per conferire la giusta sapidità al prodotto.

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riconosciute per la produzione, attuale, di 16.000 prosciutti DOP e consorziate attorno ad uno specifico disciplinare di produzione. «La crescita è stata progressiva — puntualizza Luca — ma il vero salto di qualità l’abbiamo fatto nel 2005, quando sia io che Paolo abbiamo iniziato a dedicarci a tempo pieno a questa attività. Da quel momento abbiamo dovuto allargare la fornitura di cosce ai maiali non più solo istriani in senso stretto ma anche a quelli di razza Duroc e Landrace della Slavonia croata. L’importante è il rispetto del disciplinare e la garanzia della qualità che deriva dalla materia prima e quindi dalla genetica dell’animale e da come è stato alimentato e allevato. Poi, certo, anche la lavorazione è determinante». Due sono i tipi di prosciutto venduti: il DOP controllato e certificato dalla Biotekna di Zagabria e marchiato con la “chiave di violino” e gli altri, fuori dalla certificazione, lavorati con maiali della zona. «Tra le caratteristiche del prosciutto DOP ci sono i mesi di stagionatura, uno per ogni chilo di prodotto fresco e finito, con un minimo di 15 mesi. E poi non ha la pelle, come ad esempio il prosciutto dalmata, ha la giusta dose di grasso e non è affumicato. Utilizziamo solo sale e pepe e qualche altra spezia, nessun conservante. Dove mettiamo a stagionare i prosciutti teniamo per tutto l’anno porte e finestre spalancate perché si affinino con l’aria, con la bora in particolare, così che possano acquisire sentori caratteristici e distintivi tipici del nostro microclima». Attualmente in azienda sono tre in tutto, compreso un dipendente impiegato nella bottega di Pola. E in estate arrivano ad impiegare sei unità, compreso il personale a chiamata. «Tutti i prosciutti

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In alto: tra le caratteristiche del prosciutto Istriano Dop ci sono i mesi di stagionatura, uno per ogni chilo di prodotto fresco. Per l’azienda Pršutana Jelenič il minimo è pari a quindici mesi. In basso: foto di gruppo della famiglia.

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Il prosciutto tagliato a coltello prodotto dalla famiglia Jelenič. passano tra le mie mani e quelle di mio fratello almeno dieci volte prima di uscire in commercio ad un peso di otto chili circa. La nostra attività insomma è ancora molto artigianale: non sono sicuro che il personale dipendente avrebbe la stessa nostra attenzione maniacale». In tutto gli JELENIČ lavorano 30 tonnellate di maiale all’anno, 27 delle quali solo di cosce. Il resto viene dedicato alla pancetta, all’ossocollo e all’ombo-

lo, una speciale, grande salsiccia. «Il prosciutto — puntualizzano — viene tagliato sempre tutto al coltello e a volte, su richiesta, disossiamo. Il DOP lo vendiamo a 25 euro al chilo e quello di famiglia a 21, ma disossato a 45». Tanti i premi assommati tra la storica, grande fiera del prosciutto di Antignano (Internacionalni sajam pršuta Tinjan, isap.hr), ma anche di recente in fiera a Stoccarda. «Per noi una grande

soddisfazione. I nostri prodotti vengono consumati in gran parte in Croazia, ma esportiamo anche in Slovenia e Italia». Crescere, espandersi, alla luce di una domanda che sembra destinata ad aumentare: non c’è un grandissimo desiderio in tal senso. «Siamo un po’ preoccupati perché giovani in età lavorativa che abbiano la pazienza e l’abnegazione di imparare, ma anche la voglia di restare in Istria, ce ne sono pochi» sostengono Paolo e Luca. «Stiamo assistendo da anni ad un grande esodo di ragazzi, pur essendo noi disposti a pagarli bene. Tanti pensano di poter vivere soltanto di turismo sei mesi all’anno: ma questo non è possibile! Tra dieci o vent’anni chi lavorerà nelle nostre aziende artigianali? È bene che su questo la politica e gli amministratori facciano una grande riflessione». Branko accarezza i figli con gli occhi e non nasconde la soddisfazione per il loro impegno e i loro successi. «Sono contento per i miei figli che sono bravi. Luca è più portato per il lavoro in senso stretto e disosso e Paolo per il commercio, l’amministrazione e la comunicazione». Poi si suona, molto. Un complesso di sei persone che suona di tutto, dalle cover al folk, in cui Paolo si occupa di voce, fisarmonica e tastiera e Luca della batteria. L’esempio? Papà Branko che per decenni ha suonato in oltre quattrocento matrimoni. Gian Omar Bison Pršutana Jelenič Pazinska cesta 2c 52341 Žminj (Croazia) Telefono: 091 420 49 99 Web: www.istarskiprsut.hr

L’Istarski Pršut DOP è un prodotto essiccato a base di carne ottenuto dalla coscia di maiale, senza cotenna né tessuto adiposo sottocutaneo, e con le ossa pelviche. Le cosce fresche in un primo tempo sono bagnate di una salamoia secca con sale marino e spezie, in seguito sono lasciate asciugare all’aria, non affumicate e sottoposte ad un processo di stagionatura della durata complessiva di almeno 12 mesi. Il prosciutto istriano presenta un tessuto muscolare di colore uniforme tra il rosa e il rosso, senza decolorazioni accentuate, e il tessuto adiposo dev’essere bianco. È caratterizzato da un odore ben distinto e caratteristico della carne di suino stagionata ed essiccata e delle erbe aromatiche. Ha un profumo tipico, pieno ed intenso, ed un tenore salino moderato. Le specifiche qualità organolettiche dell’Istarski Pršut Dop sono evidenti innanzitutto nell’aspetto esterno poiché mancano la cotenna e il tessuto adiposo sottocutaneo, mentre rimangono le ossa pelviche che conferiscono al prodotto una forma peculiarmente allungata e spesso, sulla superficie, sono presenti colonie, più o meno grandi, di muffe. La zona di produzione dell’Istarski Pršut Dop è limitata a i confini amministrativi della contea dell’Istria, ad eccezione delle isole che appartengono a tale contea, in cui la produzione non è consentita. La denominazione di origine è stata registrata per la prima volta nel 2002, il che consente alla zona di produzione della materia prima di essere più vasta della zona di produzione del prodotto finale stesso (fonte: Qualivita, www.qualivita.it).

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Prosciutto di Modena Dop: +16,3% della produzione nel 2018 Buone notizie dal Consorzio del Prosciutto di Modena, che chiude il 2018 con un bel segno più sulla produzione. Sono stati circa 71.600 infatti i prosciutti avviati alla produzione, segnando un incremento del 16,3% rispetto al 2017, per un valore al consumo di circa 12.500.000 euro. Anche il segmento del preaffettato ha registrato un aumento di circa il 17% rispetto al 2017, confermandosi un canale importante che assorbe circa il 15% della produzione totale. «È indubbio che questi dati, in controtendenza rispetto ad un mercato in contrazione, ci confermano che stiamo lavorando nella direzione giusta dal punto di vista della promozione e della commercializzazione del nostro prodotto» commenta il presidente del Consorzio Giorgia Vitali «Siamo molto soddisfatti dei risultati raggiunti dal Prosciutto di Modena sui mercati esteri che — per quanto riguarda i Paesi UE — risulta molto apprezzato in Germania, Inghilterra e Francia». Buona l’attività del Consorzio anche Oltreoceano, in particolare negli USA, dove sono state intraprese diverse attività per far conoscere al grande pubblico questa eccellenza modenese. Prossimo obiettivo il Giappone: sono tre i prosciuttifici abilitati ad esportare verso questo Paese, quarta economia più avanzata al mondo e partner importante per la UE. In Italia, il prossimo appuntamento per il Consorzio sarà Cibus Connect a Parma. >> Link: www.consorzioprosciuttomodena.it


Capra! Nel passato, e ancora oggi, ogni specie animale ha sempre avuto una funzione principale e alcune accessorie. La capra era usata soprattutto per il latte e i formaggi e solo occasionalmente per la carne, che oggi sta acquistando un certo interesse di Giovanni Ballarini

L

a capra domestica (Capra hircus), animale umile e frugale, nell’antichità veniva allevata anche dalle categorie più povere della popolazione per avere quotidianamente latte e formaggi, mentre solo occasionalmente se ne utilizzavano anche le carni. Questa tradizione vive ancora oggi in alcune regioni meridionali e in alcune regioni montuose delle Alpi e degli Appennini, ma è destinata a espandersi.

Addomesticamento e riti antichi La domesticazione ovicaprina sembra sia avvenuta in Mesopotamia nel 6.000 a.C. Le pecore fornivano soprattutto la lana, le capre il latte e di entrambe si consumava la carne. In Estremo Oriente, dalla Mongolia alla Cina settentrionale, si affermò un sistema alimentare basato sul consumo di carne, latte e derivati di capra, mentre nella penisola araba era apprezzata soprattutto la carne di

cammello; al di fuori delle culture pastorali, l’animale da carne per eccellenza era il maiale. Bovini ed equini avevano invece la finalità principale di fornire lavoro, tanto che ISIDORO DI SIVIGLIA, nel 600 d.C., distingueva gli animali in “quelli che servono ad alleviare la fatica dell’uomo, come bovini ed equini, e quelli che servono a nutrirlo, come ovini e suini”. L’addomesticamento delle capre diede origine a molti miti, che ne sottolineavano l’importanza. Sarebbe

Carne secca di pecora e capra (photo © shop.salumiesalami.com).

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stata la capra Amaltea a nutrire con il suo latte il sommo Zeus (il Giove romano), quando era bambino nell’isola di Creta. L’animale aveva partorito proprio in quel periodo due caprettini. Quando Zeus divenne adulto, volle per gratitudine rendere eterni nel cielo la madre insieme ai due figli (si tratta della costellazione dell’Auriga, rappresentata come un uomo che tiene in braccio due piccole caprette ed una terza capra sulla spalla, Ndr). Un giorno, giocando, Zeus spezzò un corno ad Amaltea, che divenne il corno dell’abbondanza (cornucopia), fatto che testimonia ulteriormente l’importanza dell’animale. Nelle cerimonie religiose greche la capra era offerta in sacrificio ad Apollo, Afrodite, Artemide e Dioniso, mentre nel mondo romano veniva immolata a Libero, Mercurio e soprattutto ad Asclepio, il dio della salute. L’antico legame della capra con la medicina è attestato dal termine greco pharmakòs (farmaco, medicamento), che significa “vittima” o “capro espiatorio” e indica come in origine l’animale fosse sacrificato per la salvezza dei cittadini. Le capre erano presenti nei più antichi riti di Roma, come quello dei Lupercali; emerge così il quadro di una società pastorale nella quale l’allevamento della capra era una voce rilevante. Questo animale straordinario presta il suo aspetto (zoccoli, coda e corna) a esseri mitologici quali i Satiri, i Sileni, il dio Pan (ovvero Fauno) e poi al diavolo dei cristiani. I suoi occhi, come quelli del lupo, riflettono la luce e brillano di notte, per cui gli animali sono in grado di vedere distintamente anche con poca luce. Sognare carne di capra è un buon segno per chi si trova nei guai. Chi non sta bene deve eliminare il male e con l’uccisione della capra (chìmaira) elimina la calamità (cheimòn). La capra è un animale con più di uno stomaco, dove purifica anche il cibo impuro. Gli antichi erano colpiti dalla sua attitudine a evitare il cibo sporco o situato in basso, al livello del suolo, a mangiare solo fronde, germogli, arbusti lignei e spinosi sollevati da terra, e a curarsi da sola in caso di malattia, cercando specificamente determinati vegetali con potere curativo. Meravigliosa appariva l’attitudine della capra ad allattare e accudire

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Cacciatorino di capra (photo © www.enjoeat.eu). bambini piccoli. Nell’intestino di una capra selvatica doveva trovarsi anche il leggendario Bezoar o Bezar, una pietra o concrezione lapidea considerata in Oriente un antidoto universale contro tutte le malattie. Carne di capra di ieri La carne di capra, consigliata dai medici fin dall’antichità perché ritenuta molto nutritiva, ha sapore e odore non sempre gradevoli. A questo proposito si ricorda la storia di un celebre atleta tebano, “il più forte di tutti”, che si nutriva solo di carne di capra, preso in giro per il suo odore non proprio gradevole. GALENO, nel suo trattato di dietologia, precisa che, escludendo i capretti, la carne di capra migliore si ottiene dal maschio castrato, un procedimento che la rende più dolce, nutriente, facile da digerire e senza il caratteristico odore ircino del maschio intero.

Sempre secondo Galeno, la carne di capra è accettabile nel periodo iniziale dell’estate, quando gli arbusti sono pieni di germogli e l’animale mangia il suo cibo preferito, ed è preferibile la carne delle capre selvatiche, che vivono sulle montagne, dura e senza grassi. La loro carne si conserva per un numero di giorni superiore rispetto a quella di altri animali domestici, allevati con cibo di qualità scadente. Diverso è il giudizio sulla carne di capretto nutrito di solo latte, con pochi mesi di vita, una costosa prelibatezza per ricchi, come risulta dalle ricette di APICIO. Non si conoscono antichi insaccati di carne di capra, ma nell’Odissea OMERO cita dei budelli di capra, riempiti di grasso e sangue, arrostiti sul fuoco. Questa è forse la prima testimonianza di una tradizione che si è conservata nel tempo, quella delle interiora di agnello o di capretto con la rete dell’omento che

Non si conoscono antichi insaccati di carne di capra, ma nell’Odissea Omero cita dei budelli di capra riempiti di grasso e sangue arrostiti sul fuoco. Questa è forse la prima testimonianza di una tradizione che si è conservata nel tempo, quella delle interiora di agnello o di capretto con la rete dell’omento che le contiene (paliàta), arrostite o fritte in padella

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Tabella 1 – Etichetta nutrizionale per 100 g di carne di capra Valore energetico (calorie) Proteine (g)

109,00 20,60

Carboidrati (g)

0,00

Grassi (g)

2,31

Saturi (g)

0,71

Monoinsaturi (g)

1,03

Polinsaturi (g)

0,17

Colesterolo (g)

57,00

Fibra alimentare (g) Sodio (mg) le contiene (paliàta), arrostite o fritte in padella. Nella Roma antica, le tavolette di Vindolanda, località di confine lungo il vallo di Adriano, attestano il consumo di porcellini da latte, prosciutto, carne di capra e di cervo. Ricercatissimo era anche il grasso o sego di capra, più bianco e consistente rispetto a quello di pecora, usato per l’illuminazione nelle case, a volte mescolato con cera, o per fare un sapone colorante (per capelli) preparato con cenere di legna di faggio. Nell’Editto dei Prezzi emanato nel 301 d.C. da DIOCLEZIANO, la carne di capra o castrato ha il prezzo massimo

0,00 82,00 di 8 denarii a libbra (equivalente a 327,48 grammi). La carne di maiale, la più richiesta, ha un prezzo di 12 denarii a libbra e sullo stesso prezzo di 12 denarii a libbra si allinea la carne di agnello e di capretto, insieme a quella di cervo, camoscio e capriolo. Odierna carne di capra Diverse e interessanti sono le caratteristiche delle carni di capra femmina e di maschio castrato, oggi allevati in buone condizioni e macellati in età relativamente giovane. Il costo è decisamente basso rispetto a quello di altre carni; inoltre, è una carne rossa magrissima, molto ricca

di proteine, parecchio nutritiva, con un sapore molto marcato, che si presta a numerose preparazioni. Dal punto di vista nutrizionale, la carne di capra è apprezzata per il basso contenuto lipidico, meno grassa del 12-14% delle altre carni rosse, e perché non ha depositi di grasso intramuscolari. Cento grammi di carne di capra apportano circa 109 calorie (0% carboidrati, 80,8% proteine, 19,2% grassi). Nelle carcasse la percentuale di tessuto magro è pari al 60-65%, mentre quella di tessuto grasso si aggira attorno al 12-14%, inferiore a quella che si riscontra in altri animali con carni rosse. La carne di capra ha un sapore simile, ma più marcato, a quella dell’agnello e in alcuni paesi asiatici si usa un’unica parola per descriverle entrambe. Secondo l’età e le condizioni dell’animale prima della macellazione, la carne delle capre femmine e dei castrati adulti può assumere toni simili alla selvaggina. Questo tipo di carne ha bisogno di essere cotta più a lungo e a temperature più basse rispetto alle altre carni rosse. In Italia, come nella maggior parte dei paesi occidentali, questa carne non gode di molta considerazione, mentre è molto apprezzata in altri paesi. Molti degli immigrati nel nostro Paese apprezzano le carni di capra

Violino di capra della Valchiavenna. Questo singolare salume, prodotto con la coscia e la spalla della capra, ha davvero la forma di un violino, con la zampa a fungere da manico e la massa muscolare da cassa. Anche la tecnica del taglio è interessante, avendo la solennità di un rito in cui esibirsi convivialmente. Per affettarlo, infatti, si appoggia alla spalla e si maneggia il coltello quasi nello stesso modo con cui si usa un archetto. La tradizione vuole che il violino passi di mano in mano e che ogni commensale affetti la propria porzione. La pezzatura è ridotta: da due chili circa per la spalletta anteriore ai tre e mezzo della coscia posteriore (photo © spinetta – stock.adobe.com).

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e pecora e le trasformano in cucina secondo le loro usanze, anche per preparare gustosi kebab. Caratteristiche della carne Le qualità della carne di capra dipendono da razza, alimentazione, età, ambiente e dal tipo di allevamento. L’età alla macellazione è il principale fattore che determina la composizione delle carni. Con l’aumentare dell’età, diminuisce la rilevanza delle ossa, resta più o meno costante la percentuale del tessuto magro e aumenta quella del grasso. La quantità di grasso dipende soprattutto dall’alimentazione, da sesso, età, velocità di crescita e razza. Il grasso sottocutaneo o di copertura è in generale piuttosto scarso, di colore variabile dal bianco al giallo, mentre il colore della carne varia dal rosa al rosso. La carne di capra è magra, con rilevanti qualità nutrizionali, e da secoli è considerata una prelibatezza perché, dopo una corretta frollatura, è molto tenera e di un sapore selvatico delicato. Altre parti commestibili della capra sono il cervello, il fegato e alcuni tratti dell’intestino del capretto. La testa e le zampe, una volta pulite e affumicate, sono usate per preparare zuppe. Salumi e gastronomia caprina In alcune regioni italiane le cosce e talvolta anche le spalle di capra sono salate e stagionate per confezionare una sorta di prosciutto. In Lombardia (Valchiavenna) tra i prodotti agroalimentari tradizionali vi è il violino di capra, fatto con cosce e spalle conservate mediante salatura a umido, affumicatura ed essiccazione. La denominazione di “violino” deriva dalla sua forma, ma soprattutto dal modo in cui si impugna il salume quando lo si taglia in fette sottili. Con la carne di capra e fagioli si prepara un saporito stufato, tipico della cucina dell’estremo ponente ligure. Alcune ricette prevedono la possibilità di usare sia la carne di capra che quella di pecora: per esempio l’aneloto, una preparazione abruzzese d’interiora di agnello o capretto; o la mucisca molisana, carne di pecora o capra salata essiccata al sole e condita con erbe, aglio e peperoncino. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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“La bottega è la nostra missione” – Sono queste le parole che racchiudono in sintesi la filosofia e lo spirito che animano le attività di “Vecchia Malga”, storica azienda nata nel 1969, che con la sua presenza sul territorio bolognese è diventata un vero e proprio punto di riferimento per l’attenta selezione delle materie prime, dei prodotti di qualità e per la peculiarità dei suoi negozi, unici nel loro genere. “La bottega per noi è un palcoscenico” – Basati sulla filosofia che “un buon prodotto lo si gusta mangiandolo ma prima lo si assaggia con gli occhi, i punti vendita del brand portano il prodotto in primo piano, valorizzandone quelle caratteristiche e qualità che lo rendono un’eccellenza gastronomica del territorio. Una sorta di palcoscenico, dove ogni elemento che vi compare, e ne è un componente essenziale, è un personaggio, col suo carattere, la sua precisa identità. E percorrendo questo palcoscenico, unendo i personaggi, possiamo vivere una straordinaria e coinvolgente esperienza, una sorta di viaggio visivo, olfattivo e gustativo unico. “Il commercio è conoscenza consapevole dell’autenticità dei prodotti” – Perfette guide di questo viaggio, i membri dello staff “Vecchia Malga” accompagnano il cliente in un percorso di storia, tradizione e valori di una volta che culmina con la degustazione delle eccellenze presenti nel punto vendita. Il commercio cessa di essere così una pratica e diviene conoscenza, del territorio, della qualità del prodotto, degli uomini e delle donne che quel prodotto lo lavorano, lo trasformano e, infine, lo consumano. “La bottega sarà anche on-line da metà gennaio 2018” – “Vecchia Malga” è diventata parte integrante dell’economia bolognese grazie anche all’ubicazione in zone strategiche della città quali il centro storico e l’Aeroporto Marconi, punto nevralgico da cui partire per far conoscere le eccellenze enogastronomiche locali in tutto il mondo. E da oggi è anche on-line, con il nuovo progetto di e-commerce: www.vecchiamalganegozi.com

Vecchia Malga Negozi Srl Via Roma, 55/A - 40069 Zola Predosa (BO) Tel: 051/6166687 - Fax: 051/6166686 info@vecchiamalganegozi.it - www.vecchiamalganegozi.com Zola 051/6166740 Via Roma, 55/A Zola Predosa (BO) La Baita 051/223940 Via Pescherie vecchie, 3A Bologna Mazzini 051/346508 Via Mazzini, 93 Bologna Negozio Aeroporto 051/6472198 Gastronomia - Aeroporto G. Marconi piano terra Pizzeria Vecchia Malga 051/6472196 Verace Pizza Napoletana - Aeroporto G. Marconi piano terra Vecchia Bologna 051/6472208 Ristorante/negozio/wine bar - Aeroporto G. Marconi sala imbarchi Bar Vecchia Malga 051/6472168 Bar - Aeroporto G. Marconi sala imbarchi Gastronomia Italiana 051/0060962 negozio - Aeroporto G. Marconi extra Schengen


CONSUMI

Würstel = allegria Versatilità, prezzo basso e praticità sono le chiavi del successo dei würstel presso un pubblico ampio che lo inserisce sempre più spesso nel proprio menù, dall’aperitivo al secondo, dato anche il suo innalzamento qualitatitavo sia per la versione di suino che per quella con pollo di Josette Baverez Blanco

I

l 26 ottobre 2015, l’agenzia intergovernativa IARC, acronimo di International Agency for Research on Cancer, diramò il comunicato riguardante il rischio cancerogeno nel consumare le carni rosse e i lavorati (insaccati e salumi). Tra novembre e gennaio 2016, il calo medio del consumo fu del 7% e quello dei würstel del 20,4% solo a novembre! Dal 9 all’11 ottobre dello stesso anno si celebrava per la prima volta la “Festa della Patata e del Würstel”, nel quadro di una simil Oktoberfest, al Castello di Arzignano, in provincia di Vicenza. Pochi di noi conoscono questa rocca medioevale costruita, come tutta la cinta muraria, nella pietra nera locale, sopra la piazza della città. Fu costruito dalla signoria di Mastino II della Scala (1308-1351), probabilmente su un altro nucleo fortificato in precedenza. Due porte vi danno accesso e nel cortile rimane ben conservato un pozzo del 1400. Siamo nella zona Nord-Est dell’Italia, quella confinante con i paesi di lingua tedesca, che ha subito l’influenza austro-ungarica nella storia così come nella gastronomia locale, a livello di

Il würstel, diminutivo di würst, che in tedesco significa salsiccia, si ottiene da un impasto di carne, lardo di maiale, aromi e spezie macinate finemente. In Italia la carne di suino impiegata per la sua produzione non può essere separata meccanicamente e deve rispondere alla definizione di “carne” che ne dà l’Unione Europea. Successivamente, il composto viene fatto riposare prima di procedere con l’insaccatura, l’affumicatura, la cottura ed il raffreddamento. È un salume arrivato in Italia dall’Europa centrale, ormai pienamente diffuso e apprezzato anche qui. Di dimensioni piccole, in genere “monodose”, si ottiene insaccando un impasto di carni suine selezionate. Il colore, esterno e interno, è solitamente rosato, mentre il sapore delle singole varietà può essere personalizzato dall’aggiunta di aromi, come cipolla rossa, sale, pepe, origano e a volte zucchero. Consumato crudo o cotto, anche nella versione con carni avicole, si è velocemente integrato nella moderna gastronomia italiana (fonte: IVSI; www.salumi-italiani.it).

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produzione e di consumi. Non c’è quindi da stupirci nell’assistere a questa festa — la cui ultima edizione si è svolta dal 12 al 14 ottobre scorsi —, dove si versano fiumi di birra d’importazione, si azzannano würstel “in tutte le salse” e altri piatti tipici, si ascolta musica tirolese e si gioca come bimbi a scovare per trovare dove sono nascoste le patate durante una bella camminata. In tal modo, e col passaparola, si sta cercando di rilanciare al meglio il consumo dei würstel, che purtroppo non sono sempre di grande qualità. Basta però saper scegliere bene il prodotto, leggendo accuratamente quanto scritto sulla confezione e fidandosi di una marca scelta. Questo prodotto, il più amato del mondo tedesco e austriaco sotto varie forme e con appellativi diversi, è il protagonista anche dei famosi hot dog anglosassoni ed americani che si vendono nelle bancarelle mobili e nei furgoni e che da anni hanno un ampio mercato anche in altri paesi europei, nelle birrerie e osterie. Accompagnati da senape, maionese o ketchup, sono serviti o nel pane morbido o tra due fette di pane. Si può definire un salume trasversale: lo mangiano gli operai come i dirigenti, uomini e donne, nonni e bimbi, in strada o a tavola. Con la famosa crisi seguita al comunicato dell’IARC, ma cominciata in precedenza, addirittura da più di dieci anni, si è sviluppato soprattutto il segmento avicolo di questa salsiccia. Un po’ per il suo prezzo più conveniente, ma soprattutto perché la “carne bianca” si allinea meglio ai nuovi canoni alimentari. Versatilità, prezzo basso e praticità sono le tre chiavi del successo dei würstel presso un pubblico che lo inserisce sempre più spesso nei menù, dall’aperitivo al secondo, dato il suo innalzamento qualitativo, sia esso di suino o di pollo. I produttori di würstel proclamano che il prodotto si vende da solo e in effetti non ci sono molti annunci pubblicitari alla televisione. Noi ci auguriamo che possano essere moltiplicate le occasioni festaiole come quella di Arzignano, per mantenere, nel nostro immaginario, l’abbinamento “würstel = allegria”. Josette Baverez Blanco Nota Panino con würstel e senape (photo © Massimiliano Rella).

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INDAGINI

Cibo, sogno notturno per uomini e donne della Penisola in cerca di “coccole” A rilevarlo una ricerca condotta dal food delivery Deliveroo e realizzata in collaborazione con Doxa su un campione nazionale di 1.000 persone di Gianluca Pacella

G

li Italiani pensano continuamente al cibo tanto da sognarlo anche molto spesso. Una sorta di ossessione piacevole insomma, per una persona su due che lo sogna con una certa regolarità e una su cinque che afferma di sognarlo sempre. A rilevarlo è una ricerca condotta dal food delivery Deliveroo e realizzata in collaborazione con DOXA su un campione nazionale

di 1.000 persone. Ad oggi, secondo l’analisi, è pari al 96% il numero degli interpellati che ammette di sognare. Un Italiano su 2 (58%) afferma che gli capita spesso. A sognare sono soprattutto le donne (62%), i più giovani (65% tra i 18 e i 24 anni) e i Millennials (64% tra i 54 e i 34 anni). Tra i sogni, quelli che hanno a che fare col cibo rappresentano una quota elevata: il 42% afferma infatti di

sognare cibo con molta frequenza, mentre quelli che dichiarano di fare sogni in chiave food di tanto in tanto portano la percentuale al 90%. A sognare frequentemente cose da mangiare — spiegano i ricercatori — sono i più giovani (41% tra i 18 e i 24 anni) e gli abitanti del Sud e delle Isole (36%), a testimonianza — viene sostenuto — del rapporto stretto in queste aree col cibo. Tra i piatti più sognati in testa ci sono pizza e pasta

Tra i piatti più sognati da Italiani e Italiane ci sono soprattutto pizza e pasta. Seguono subito dopo i dolci, in particolare per le donne, e la carne, apprezzata nella fascia d’età 25-34 anni (photo © darkbird – stock.adobe.com).

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(43%) e i dolci (41%). Segue la carne (22%), apprezzata in modo particolare nella fascia d’età 25-34 anni (32%), il pesce (16%) e i cibi particolari provenienti ad esempio da cucine straniere o esotiche (16%). Il proprio piatto preferito è sognato dal 18% degli intervistati. A sognare pasta e pizza sono soprattutto gli uomini, mentre le donne quando dormono sembrano farsi trascinare dalla passione per i dolci. Dall’indagine emerge infine che sognare cibo la notte è associato per oltre il 60% ad uno stato d’animo di allegria, soprattutto per i più giovani (70%) e per gli adulti tra i 45 e 54 anni (63%). Segue il desiderio col 50% (sensazione provata specialmente dai Millennials 61%) e la passione col 39%. Solo il 4% dei rispondenti associa al cibo stati d’animo connotati negativamente come paura e noia. «Pasta, pizza e dolci nella vita onirica come nella vita reale — dice la psicologa e psicoterapeuta IRENE BOZZI nel commentare l’indagine — ci coccolano e ci consolano e hanno un valore positivo, così come i cibi naturali, in quanto doni della terra, ci invitano a considerare i valori della vita e ad accettarne il lato migliore. La carne invece diventa l’allegoria della sessualità». La Bozzi sottolinea inoltre che «al piacere di gustare un bel piatto di pasta, una pizza o dei dolci, sono legati non solo il gusto e l’olfatto, ma anche fattori diversi di natura neurovegetativa, endocrina, psicologica e socio-culturale. Questi ultimi — specifica la studiosa — fanno parte delle abitudini familiari e sociali e del tentativo di risolvere problemi o desideri inconsci da appagare, ogni alimento può infatti assumere nel sogno un valore simbolico». Insomma, conclude Irene Bozzi, «sognare di assaporare questi cibi ci consola e ci coccola aiutandoci a superare ansie, stress o l’ultima delusione affettiva. Non si mangia solo per nutrirsi, ma esistono desideri e problemi inconsci che così si soddisfano». La realtà — specifica in ultimo la dottoressa Bozzi — va affrontata anche con qualche sogno che rappresenta le speranze, ridà energia e aiuta con la fantasia ad essere più creativi e a vivere meglio le difficoltà quotidiane. Gianluca Pacella

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ACETAIA


TRADIZIONI Aguzza la vista e trova le differenze!

È torta fritta o gnocco fritto? di Gemma Zubiani

L

a cucina emiliana si contraddistingue per alcuni tratti fondamentali: le sue ricette tradizionali sono gustosissime, il sapore intenso, la preparazione delle pietanze risulta piuttosto semplice, l’apporto calorico è quasi sempre molto importante e la presentazione dei piatti non può che essere abbondante e festosa. Un altro tratto che contraddistingue questa regione è la nomenclatura delle ricette: basta un paio di chilometri e lo stesso piatto ha un nome diverso. Generalmente insieme al nome può cambiare qualche minuscolo dettaglio della preparazione che, per il campanilismo tipico della zona, impone la diversa nomenclatura! È proprio il caso di gnocco fritto e torta fritta che, salvo interpretazioni speciali di qualche ristoratore creativo, hanno esattamente la stessa ricetta e la stessa finalità di consumo, con l’unica differenze di avvenire a Modena e Reggio Emilia nel primo caso e a Parma nel secondo. Vi risparmio tutte le diatribe su quale articolo usare per parlarne perché è un cibo ruspante e non abbiamo tempo e voglia di disquisire su finezze filologiche da Accademia della Crusca: IL o LO gnocco fritto (fate voi a me non interessa) è un impasto da pane steso in sfoglia di altezza di tre millimetri circa, tagliato a losanghe di cinque o sei centimetri di lato e fritto nello strutto. Volendo fare gli esagerati, si può mettere il lardo già nell’impasto come raccomandava di fare PELLEGRINO ARTUSI e si può anche usare acqua gasata senza lievito, ma per una ricetta più moderna basta usare

lievito in bustina e accontentarsi della frittura per garantire il necessario apporto calorico. La frittura in particolare sarebbe proprio da fare nello strutto di maiale. E questo è un problema. Non tanto per chi se lo cucina in casa che può fare un po’ come vuole, quanto per i ristoranti e i bar che non possono disporre di dispositivi che permettano di raggiungere il punto di fumo richiesto dallo strutto ovvero 230 gradi. Generalmente si trova infatti fritto negli oli vegetali e questo è di sicuro meglio per la salute ma si discosta dalla tradizione originale. Mi sento di rassicurarvi però: il gnocco fritto è sempre buono e il vero segreto del suo inconfondibile sapore e del piacere che offre al palato è da cercare nei salumi che lo accompagnano! Il gnocco e la torta fritta sono in Emilia il più classico degli antipasti conviviali da servire alla tavolata intera per una degustazione di salumi collettiva. Tipicamente con salame, spalla cotta, coppa e prosciutto crudo ma anche con stracchino e gorgonzola. Ed è proprio qui che si nascondono le insidie: perché una volta che si è fatto il gnocco, lo si è fritto bene e asciugato sulla carta apposita (fin qui sono operazioni semplici), bisogna servirlo ancora caldo e accompagnarlo con salumi di alta qualità. Sono proprio quelli, infatti, che determinano la bontà del piatto e la soddisfazione della tavola. A meno che non si decida di nobilitarlo e cercare accostamenti più ricercati: la più nobile delle sorti di un pezzo di gnocco fritto è generalmente il culatello. Senza dubbio il salume più aristocratico del panorama

emiliano, non fosse altro per il prezzo. Altrimenti lo si può accompagnare con il lardo pestato che sarebbe una crema che si ottiene mantecando lardo, strutto, prezzemolo e aglio fino a farlo diventare un composto morbido da spalmare. È più elaborato di una fetta di salame ma rientra nelle abitudini più convenzionali (sta molto bene anche con le polentine o con le crescentine montanare tra l’altro…). La vera provocazione sarebbe immaginarsi accostamenti che sembrano provocatori ma che a ben guardare hanno delle radici condivise: cosa ne dite di gnocco e caviale? Oppure gnocco fritto con panna acida e salmone affumicato? Sono certa che vi ricorda qualcosa! In fondo i blinis russi sono allo stesso modo impasti semplici di farina e grasso che si servono caldi con i prodotti tipici della zona. Ed ecco allora che, abbattute le barriere e i confini, dall’Emilia alla Siberia si aprono possibilità anche per chi, come me, è cresciuto nella Bassa Reggiana pensando che il gnocco fritto debba per forza essere mangiato col salame annaffiandolo di Lambrusco! Anche per questo motivo domenica a casa mia si servirà gnocco fritto ma come accompagnamento proporrò una salsa guacamole a base di avocado, un’emulsione di caprino con mostarda di lime e scaglie di sale, una composta di scorza d’arancia sfumata al cognac con cubetti di speck saltati in padella… Per stare sul sicuro terrò pronto comunque anche un tagliere con ottimo salame felino, coppa piacentina e culatello di Zibello, perché sono quasi certa che i miei ospiti preferiranno le care vecchie abitudini nostrane.

Stesso prodotto, nome diverso: il gnocco fritto a Parma si chiama torta fritta perché, le prime volte che lo si iniziò ad assaggiare da queste parti, prima di servirlo in tavola lo si spolverava di zucchero ed era mangiato a fine pasto, come dolce (da qui “torta”). Col tempo si scoprì che poteva essere degustato anche senza zucchero, abbinandolo a salumi e formaggi. Ma anche dolce, credeteci, è una vera squisitezza!

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Gnocco fritto con Parmigiano Reggiano a scaglie e prosciutto crudo (photo Š Consorzio del Parmigiano Reggiano).


Alla napoletana o alla bolognese, sta bene praticamente su tutto

Il ragù di Nunzia Manicardi

N

apoletano o bolognese, non è assolutamente il caso di farne una disputa gastronomica. Ognuno dei due ha i propri fautori e il nostro consiglio è di diventare, se già non lo si è, sostenitori di entrambi. Come si può, infatti,

prediligere l’uno a scapito dell’altro? Sono tutti e due sinonimo di cucina italiana ai massimi livelli, veri e propri biglietti da visita del nostro Paese benché, indiscutibilmente, all’estero sia soltanto quello alla bolognese ad essere conosciuto e apprezzato come

Tagliatelle con ragù alla bolognese (photo © Zaira Zarotti).

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più e meglio non si potrebbe. Come tutte — se non tutte — le cose del nostro Paese, essi rispecchiano le differenze, addirittura gli opposti delle tradizioni culinarie che lo caratterizzano. Ragù alla napoletana e ragù alla bolognese non fanno eccezione. Ma, al di là delle differenze regionali e locali, il ragù è il sugo italiano per definizione, quello che ci ha dato un’impronta unitaria e nazionale e che quindi è giusto definire come la “bandiera” della nostra italianità in tavola (insieme con la pizza, naturalmente!). Sugo per la pastasciutta. Origini francesi per “risvegliare l’appetito” Il ragù si ricollega anche all’originaria povertà del nostro Paese con il tentativo, realizzato con enorme successo grazie all’inesauribile e caleidoscopica creatività del nostro popolo, di portare sulla mensa, almeno nel giorno festivo, qualche ritaglio di carne a compensare il magro pasto a disposizione. Il termine ragù, che peraltro non è nemmeno di origine italiana, definisce infatti un condimento a base di pezzi o pezzetti di carne, anche macinata, messi a cuocere a lungo con olio d’oliva, pomodoro e odori e con il quale si accompagnano piatti di pasta. Predominava il farinaceo, dunque, rispetto alla carne, anche se poi il ragù si è andato via via arricchendo fino a diventare una preparazione perfino costosa e sovrabbondante dal punto di vista nutrizionale. Un tempo, però, sia la pasta che il pomodoro venivano utilizzati pochissimo e al loro posto si preparava un brodo, anche a base di vino rosso. Era dunque il ragù, in origine, più un secondo di carne (o anche di pesce) che non un condimento e come tale entrava pure nel menù delle truppe militari. L’etimologia della parola ragù, che ha le sue basi nel francese antico ragoût (dal 1990 semplificato in

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ragout), sostantivo derivato da ragoûter, cioè “risvegliare l’appetito”, dapprima indicava infatti dei piatti di carne stufata con abbondante condimento a base di verdure, patate o legumi cotti a fuoco lento in una salsa che veniva poi usata per accompagnare altre pietanze (ne esistono varianti anche nei territori francofoni extra-francesi: in Canada vengono preparati il ragoût de boulettes (polpette di pollo) e il ragoût de pattes (zampe di pollo), in Svizzera il ragoût de moutons (di montone) e in Belgio il ragoût hesbignon). In Italia, come abbiamo detto, divenne poi l’accompagnamento tradizionale della pasta nei giorni di festa. Durante il periodo fascista il regime tentò di “italianizzare” il termine trasformandolo in un ragutto, che però non ebbe alcun successo e che sparì insieme con il regime che l’aveva inventato. Il “brodo scuro” descritto da Pellegrino Artusi L’utilizzo generalizzato del ragù ha dunque basi abbastanza recenti, tant’è vero che il grandissimo gastronomo PELLEGRINO ARTUSI (1820-1911), nel suo libro fondamentale La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, del ragù nemmeno parla, benché poi sia diventato il condimento indispensabile delle tagliatelle di cui la sua Romagna va tanto fiera e di cui nessun romagnolo può fare assolutamente a meno (almeno una volta o due alla settimana!). Artusi descrive comunque il suo antecedente, quel sugo di carne o brodo scuro che all’odierno ragù tanto già assomiglia (ricetta n. 4): “La Romagna, che è a due passi dalla Toscana, ‘avendo in tasca la Crusca’, chiama il sugo di carne brodo scuro, forse dal colore, che tira al marrone. Questo sugo bisognerebbe vederlo fare da un bravo cuoco; ma spero vi riuscirà, se non squisito, discreto almeno, con queste mie indicazioni. Coprite il fondo di una cazzaruola con fettine sottili di lardone o di carnesecca (quest’ultima è da preferirsi) e sopra alle medesime trinciate una grossa cipolla, una carota e una costola di sedano. Aggiungete qua e là qualche pezzetto di burro, e sopra a questi ingredienti distendete carne magra di manzo a pezzetti o a bracioline. Qualunque carne di manzo è buona; anzi per meno spesa si suol prendere quella insanguinata del collo o altra più scadente che i macellari in

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Ragù alla bolognese Ricetta “attualizzata”, depositata il 17 ottobre 1982 dall’Accademia Italiana della Cucina presso la Camera di Commercio di Bologna. Ingredienti per 6 persone • g 300 di polpa di manzo (cartella o pancia o fesone di spalla o fusello) macinata grossa • g 150 di pancetta di maiale • g 50 di carota gialla • g 50 di costa di sedano • g 50 di cipolla • g 300 di passata di pomodoro o pelati • ½ bicchiere di vino bianco secco • ½ bicchiere di latte intero • poco brodo • olio d’oliva o burro • sale e pepe • ½ bicchiere di panna liquida da montare (facoltativa) Preparazione Sciogliere in un tegame, possibilmente di terracotta o di alluminio spesso, di circa cm 20, la pancetta tagliata prima a dadini e poi tritata fine con la mezzaluna. Unire 3 cucchiai d’olio o 50 grammi di burro, gli odori tritati fini e fare appassire dolcemente. Unire la carne macinata e mescolare bene con un mestolo facendola rosolare finché non “sfrigola”. Bagnare con il vino e mescolare delicatamente sino a quando non sarà completamente evaporato. Unire la passata o i pelati, coprire e fare sobbollire lentamente per circa 2 ore aggiungendo, quando occorre, del brodo; verso la fine unire il latte per smorzare l’acidità del pomodoro. Aggiustare di sale e di pepe. Alla fine, quando il ragù è pronto, secondo l’uso bolognese, aggiungere la panna, se si tratta di condire paste secche. Per le tagliatelle il suo uso è da escludere.

Firenze chiamano ‘parature’. Aggiungete ritagli di carne di cucina, se ne avete, cotenne o altro, che tutto serve, purché sia roba sana. Condite con solo sale e due chiodi di garofani e ponete la cazzaruola al fuoco senza mai toccarla. Quando vi giungerà al naso l’odore della cipolla bruciata rivoltate la carne, e quando la vedrete tutta rosolata per bene, anzi quasi nera, versate acqua fredda quanta ne sta in un piccolo ramaiuolo, replicando per tre volte l’operazione di mano in mano che l’acqua va prosciugandosi. Per ultimo, se la quantità della carne fosse di grammi 500 circa, versate nella cazzaruola un litro e mezzo di acqua calda, o, ciò che meglio sarebbe, un brodo di ossa spugnose, e fatelo bollire adagino per cinque o sei ore di seguito onde ristringere il sugo ed estrarre dalla carne tutta la sua sostanza. Passatelo poi per istaccio, e quando il suo grasso sarà rappreso, formando un grosso velo al disopra, levatelo tutto per rendere il sugo meno grave allo stomaco. Questo sugo, conservandosi per diversi giorni, può servire a molti usi e con esso si possono fare dei buoni pasticci di maccheroni.

I colli e le teste di pollo spezzate, uniti alla carne di manzo, daranno al sugo un sapore più grato. I resti della carne, benché dissugati, si possono utilizzare in famiglia facendo delle polpette”. Nel tempo poi il ragù è andato evolvendosi anche sotto la spinta delle esigenze della moderna ristorazione, sia pubblica che domestica, e alla tipica preparazione casalinga è affiancata oggi una produzione industriale in barattoli pronti all’uso. In epoca recente sono utilizzati anche ragù di pesce (di spigola, di cernia, ecc…) o di tofu (nei menu vegetariani). C’è anche quello alla barese, alla potentina, alla genovese… I tipici ragù della cucina italiana restano sempre il ragù bolognese e il ragù napoletano anche se, ripetiamo, numerose sono le varianti presenti pure in altre regioni. Certamente molto meno note ma ugualmente buone, come, ad esempio, il ragù alla barese (in genere con carni di maiale, manzo, agnello che si mettono tagliate a pezzi insieme alle brasciole di vitello in una pentola di terracotta e si lasciano cuocere nel sugo di pomodoro

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tro un tegame di terracotta (questo ai suoi “tempi d’oro”, poi ovviamente i tempi sono cambiati anche a Napoli). Data la lunghezza della preparazione, Eduardo sosteneva che i migliori cuochi ne fossero i portinai, i quali avevano il tempo, di tanto in tanto, di assentarsi dalla loro guardiola per andare a dare una rimescolata al sugo. La carne veniva poi affettata e servita come secondo piatto, mentre il sugo andava a finire sugli ziti. Il ragù napoletano è probabilmente il condimento più conosciuto della cucina napoletana, nonostante la sua poca diffusione nell’uso quotidiano a causa della complessità e durata della preparazione. Continua ad essere perciò un piatto tipicamente festivo, in cui diversi tipi di carne bovina e suina, tagliata a pezzi e non tritata, sono cotti in una salsa di pomodoro a fuoco molto lento.

Lasagne al forno (photo © claudiadaniele – stock.adobe.com). per ore e ore) e il ragù alla potentina (preparato foderando con un’ottima pancetta locale una grossa bistecca farcita con pezzetti di pecorino lucano e un trito di aglio e prezzemolo, ben legata e messa a rosolare con olio e strutto nel solito tegame di terracotta, il tutto portato a cottura con il pomodoro). Attenzione, invece, che il ragù alla genovese, nonostante il nome, è anch’esso un ragù napoletano, menzionato per la prima volta dal poeta GUIDO CAVALCANTI già nel Trecento. Probabilmente deve la definizione a un cuoco napoletano che di “genovese” aveva il cognome, il soprannome o la provenienza. È una delle tipiche ricette per il pranzo della domenica: una salsa di cipolle e carne cotte insieme lentamente sino a formare, a cottura ultimata, una crema densa, di colore

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marroncino che è utilizzata per condire la pasta. La carne, tenerissima, viene servita come secondo piatto. Il ragù alla napoletana Non è neppure vero che il formato ideale di pasta per il ragù alla napoletana sia costituito dagli spaghetti, come molti credono. Ci vorrebbero invece gli ziti (simili a maccheroni lisci), come raccomandava perfino il grande drammaturgo e attore partenopeo EDUARDO DE FILIPPO. Di Eduardo ci sono rimaste anche alcune raccomandazioni specifiche tratte dalla tradizione napoletana più verace. Innanzitutto il ragù deve pippiare (sbuffare) per ore e ore (almeno 6) a fuoco bassissimo su una fornacella a carbone con il suo bel pezzo di carne di manzo (e/o di maiale) immerso in molta cipolla den-

La poesia di Eduardo Al ragù napoletano Eduardo De Filippo ha dedicato vari riferimenti nelle sue opere teatrali, come quello ben noto nella commedia Sabato, domenica e lunedì (1959), e anche una poesia dal titolo, appunto, ‘O rrau, che, al di là del tono scherzoso, mette in risalto due principi fondamentali. Il primo è che nessun ragù è buono come quello fatto… dalla mamma!, e il secondo che non basta cuocere della carne nel pomodoro per avere il ragù. «‘O rraù ca me piace a me m’ ‘o ffaceva sulo mammà. A che m’aggio spusato a te, ne parlammo pè ne parlà. Io nun songo difficultuso; ma luvàmmel’ ‘a miezo st’uso. Sì, va buono: comme vuò tu. Mò ce avéssem ‘appiccecà? Tu che dice? Chest’è rraù? E io m’ ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià… M’ ‘a faje dicere ‘na parola? Chesta è carne c’ ‘a pummarola.» (“Il ragù che a me piace / me lo faceva solo mammà. / Da quando ti ho sposato, / ne parliamo tanto per parla’. / Io non sono difficile; / ma togliamoci quest’abitudine. / Sì, va bene: come vuoi tu. / Ora vorremmo pure litigare? / Tu che dici? Questo è ragù? / Ed io me lo mangio tanto per mangiare… / Ma me la fai dire una parola? / Questa è carne col pomodoro”; fonte: www.poesieracconti.it)

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e invitante profumo, molto buono, e il signore nell’assaggiarlo trovò che era veramente gustoso e saporito. Lo chiamò così ‘Raù’, lo stesso nome del suo bambino. In realtà il termine ragù deriva dal francese ragout che indica un tipo di cottura di carne e verdure simile allo spezzatino. Bisogna inoltre ricordare che il pomodoro non arrivò in Italia prima della fine del XVI secolo. Fu poi ALBERTO ALVISI, cuoco dell’allora cardinale di Imola verso la fine del 1700, a cucinare il primo ragù vero e proprio, servito con un piatto di maccheroni. All’inizio del 1800 il ragù fece la sua comparsa anche in alcuni libri di cucina emiliani ed era un piatto che, nella maggior parte delle volte, veniva servito nei giorni di festa”.

Spaghetti con ragù e piselli. Poco usuale in Italia, l’abbinamento spaghetti e ragù si è diffuso soprattutto all’estero (photo © Noce Moscata food blog). La leggenda della Compagnia dei Bianchi C’è anche una leggenda (che riprendiamo da Wikipedia) secondo la quale “a Napoli, alla fine del Trecento, esisteva la Compagnia dei Bianchi di giustizia che percorreva la città a piedi invocando ‘misericordia e pace’. La compagnia giunse presso il Palazzo dell’Imperatore, tuttora esistente in via Tribunali, che fu dimora di Carlo, imperatore di Costantinopoli, e di Maria di Valois, figlia di re Carlo d’Angiò. All’epoca il palazzo era abitato da un signore nemico di tutti, tanto scortese quanto crudele, che tutti cercavano di evitare. La predicazione della compagnia convinse la popolazione a riappacificarsi con i propri nemici, ma solo il nobile che risiedeva nel Palazzo dell’Imperatore

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decise di non accettare l’invito dei Bianchi, nutrendo da sempre antichi e tenaci rancori. Non cedette neanche quando il figliolo di tre mesi, in braccio alla balia, sfilò le manine dalle fasce e incrociandole gridò tre volte: ‘misericordia e pace’. Il nobile era accecato dall’ira, serbava rancore e vendetta e un giorno la sua donna, per intenerirlo, gli preparò un piatto di maccheroni. La provvidenza riempì il piatto di una salsa piena di sangue. Finalmente, commosso dal prodigio, l’ostinato signore si rappacificò con i suoi nemici e vestì il bianco saio della Compagnia. Sua moglie, in seguito all’inaspettata decisione, preparò di nuovo i maccheroni che anche quella volta, come per magia, divennero rossi. Ma quel misterioso intingolo aveva uno strano

Una cottura lenta, lenta, lenta e lunga, lunga, lunga La preparazione del ragù alla napoletana è scandita da tre fasi che, alla fine, comportano in pratica due giorni di lavorazione. Tradizionalmente, infatti, la preparazione inizia non solo al mattino presto della domenica, ma addirittura il sabato sera, per riuscire a far addensare la salsa sino a farle assumere una consistenza molto cremosa. In una pentola di coccio si fanno rosolare nell’olio le cipolle affettate sottilmente e poi si mette la carne. Questa va girata continuamente per evitare che le cipolle si brucino. Dovranno appassire fin quasi a dileguarsi, mentre la carne dovrà fare la sua crosticina scura. Per riuscirci bisogna rimanere sempre vigili ai fornelli, pronti a rimestare con la cucchiarella di legno e a bagnare con il vino rosso ogni volta che il sugo tende ad asciugarsi. Quando la carne sarà diventata di un bel colore dorato e il vino evaporato, aggiungete la passata di pomodoro (meglio se fatta in casa) sciogliendo anche, se volete, un cucchiaio di concentrato di pomodoro (quest’uso si è generalizzato successivamente). Se il ragù è fatto bene e la carne è buona non c’è bisogno di altri odori, men che meno di aglio, sedano e basilico a fine cottura, come alcuni ormai indulgono a fare… Regolate semplicemente di sale e mettete a cuocere dapprima per circa 20 minuti a fiamma un po’ alta e poi, per circa cinque-sei ore, a fuoco bassissimo, tenendo il cucchiaio di legno tra la pentola e il coperchio in

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modo da far pippiare il ragù. Di tanto in tanto, però, rimestatelo per non farlo attaccare sul fondo della pentola. Anche per quanto riguarda la scelta della carne bisognerebbe rimanere fedeli al muscolo di manzo (il cosiddetto mammunciello o gamboncello o colarda), che deve essere non macinato ma tagliato a pezzi grossi, da 500 grammi fino a un chilogrammo, come una bistecca, e che viene anche farcito con ingredienti vari (uvetta, pinoli, formaggio, salame o lardo, noce moscata, prezzemolo) e legato con uno spago. Generalmente però è utilizzato un misto di carne di manzo (tagli anteriori e poco pregiati, che necessitano di lunga cottura) e di maiale. I tagli oggi impiegati sono però numerosi e possono variare da quartiere a quartiere. Oltre al muscolo di manzo troviamo le spuntature di maiale (le tracchie), l’involtino di cotenna (cotica), la polpetta e la brasciola o braciola, termine che a Napoli indica un involtino di carne di manzo ripieno di aglio, prezzemolo, pinoli, uva passa e dadini di formaggio. Il ragù alla bolognese Ma quello che più di tutto e tutti rappresenta la cucina italiana nel mondo è il ragù alla bolognese, tanto noto all’estero da essere chiamato bolognese, e basta come sinonimo di sugo (e d’Italia).

Protagonista di questo ragù è la carne macinata; l’opposto, dunque, di come viene cucinata in quello alla napoletana. Carne che qui è ancora di manzo, ma stavolta si tratta della polpa mentre là era il muscolo. Gli odori: cipolla, carota e sedano, che nell’altro sono assenti. Ci sono poi pancetta di maiale e il vino. Bianco secco, mentre a Napoli è rosso. Con le tagliatelle, ma anche con le lasagne e la polenta Il risultato è un sugo fine e colorato, la cui vivacità anche cromatica tocca l’apice quando si sposa con le belle tagliatelle gialle (cioè all’uovo) a formare le famosissime tagliatelle alla bolognese, che potrebbero anche giustamente essere definite tagliatelle alla romagnola, vista l’importanza e la significatività che hanno fino a Rimini e oltre. È usato anche per condire altri tipi di pasta, come le lasagne al forno (arricchito in tal caso con la besciamella) e il tipico piatto povero del passato, la polenta. Basta dire “bolognese” e tutto il mondo sa di che si parla, tuttavia… Abbiamo rimarcato più volte la diffusione del sugo alla bolognese all’estero ma, purtroppo, bisogna anche ricordare che colà un uso molto comune, soprattutto nel Nord Europa, è quello di condire gli spaghetti (erroneamente chiamati

spaghetti alla bolognese), che vengono venduti perfino in lattina. L’abbinamento è davvero scorretto perché la cucina emiliana, in particolare con questo ragù, ha sempre preferito la sfoglia all’uovo, solitamente fresca, rispetto alle paste di semola di grano duro, generalmente secche. La ricetta depositata presso la Camera di Commercio Il 17 ottobre del 1982 la ricetta ufficiale del ragù alla bolognese è stata depositata presso la Camera di Commercio di Bologna dalla delegazione regionale dell’Accademia Italiana della Cucina, allo scopo di garantire la continuità e il rispetto della tradizione gastronomica bolognese in Italia e nel mondo. L’Accademia stessa, poi, ne ha proposto una versione attualizzata, che prevede la possibilità di utilizzare tagli di manzo alternativi alla cartella (la parte muscolare del diaframma): in sostituzione, infatti, si possono scegliere pancia, fesone di spalla e fusello. Ha consentito inoltre di sostituire i 5 cucchiai di salsa di pomodoro o i 20 grammi di triplo concentrato con passata di pomodoro o pelati. Il procedimento però è rimasto inalterato: dopo una rosolatura iniziale di pancetta, verdure e carne, serve una lenta, lunga cottura. Nunzia Manicardi

Chef Bizzarri, si ricomincia con Niko Romito “Chef Bizzarri”, l’iniziativa che mette attorno a un tavolo alta ristorazione e birra di qualità, torna per la terza volta a Roma con tre nomi d’eccezione: Niko Romito, ristorante Reale di Castel di Sangro (CH), Heinz Beck, La Pergola di Roma (entrambi 3 stelle Michelin) e il bistellato La Madia, di Licata (AG), con lo chef Pino Cuttaia. Prova generale il 12 marzo, con Niko Romito chiamato ad accostare l’alta cucina ai boccali “bizzarri” di Birra del Borgo, che organizza l’evento all’interno del locale romano Osteria Birra del Borgo, quartiere Prati (www.birradelborgo.it). Birre in tiratura limitata, come l’Equilibrista, Italian Grape Ale fatta con l’uso di mosto d’uva di Sangiovese (40%) e mosto di birra Duchessa (60%), lavorate col procedimento del metodo classico (rifermentazione in bottiglia), girate regolarmente (remuage), poi con sboccatura e aggiunta di liqueur d’expédition. Per la serata inaugurale Romito ha accostato, ad esempio, una bomba con maiale fondente e senape alla Caos di Birra del Borgo e un’antifocaccia con vitello tonnato alla Equilibrista. Osteria Birra del Borgo nasce nel 2017 su iniziativa di Leonardo Di Vincenzo per rendere protagonista la birra insieme a una cucina dagli accostamenti sorprendenti, realizzati anche grazie al lavoro di Luca Pezzetta, che ha introdotto nell’osteria la pizza gourmet (photo © Alberto Blasetti). Massimiliano Rella

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WEEK-END

Lüch da Pćëi, un maso da film di Riccardo Lagorio

M

ai andati al cinema in stalla? Si può fare a San Cassiano, Alta Val Badia, nel maso Lüch da Pćëi, comodamente seduti su balle di fieno e con accanto le protagoniste del video, le mucche di LUCA e MARINA CRAZZOLARA. Il film mostra tutte le attività della fattoria: dall’allevamento delle bovine da latte alla mungitura, dalla produzione di formaggi al ciclo chiuso di fienagione, l’agricoltura nei campi e la stagionatura. E dopo lo spettacolo si può continuare con un assaggio di cinque diversi tipi di formaggio a latte crudo e di yogurt cremoso. «La stalla, Majun da Pćëi, è stata costruita con gli accorgimenti più moderni prestando la massima attenzione e rispetto alla natura che la

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circonda, come l’impianto di biogas dove finiscono i residui organici degli hotel dell’Alta Val Badia e l’impianto fotovoltaico che permette di vendere energia elettrica pulita» ricorda Marina. L’allevamento continua da quattro generazioni, ma la trasformazione del latte risale al 2001 con l’utilizzo esclusivo di erba e fieno, semi di lino, erba medica, colza e lupino, ricchi di Omega-3, che garantiscono agli animali una dieta ben bilanciata nel rispetto dell’ambiente e comportano una tracciabilità dal campo alla tavola. Accorgimenti produttivi che hanno permesso ai Crazzolara di aderire all’associazione internazionale Bleu Blanc Cœur, nata in Francia con l’obiettivo di offrire ai consumatori formaggi

con un ottimo equilibrio nutrizionale basati su un’agricoltura sostenibile e secondo la regola che “Quando gli animali vengono allevati bene, gli uomini si sentono meglio”. Anche perché, sottolinea la stessa Marina, «Nei paesi industrializzati i dati sull’alimentazione e sulle sue conseguenze non smettono di preoccupare e l’errata alimentazione è fonte di malattie. Così abbiamo fatto la scelta di contribuire ad un’agricoltura vocata alla salute del consumatore». Le bovine, per lo più Pezzate rosse, oltre a poter contare su un’alimentazione del tutto naturale, trovano riparo in una stalla a stabulazione libera durante le giornate meno piacevoli. Ne nascono formaggi buoni e sani. Come il Conturines, formaggio a crosta

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A sinistra: un film in stalla. È così che Lüch da Pćëi mostra tutte le sue attività: la fattoria con animali, le stalle, i trattori, ma anche un caseificio e un comodo Bed & Breakfast (photo © www.facebook.com/altabadialat.it). In alto: uno dei formaggio di Lüch da Pćëi. A destra: la stalla del maso (photo © Catherine Karnow).

lavata e tempi di stagionatura più prolungati, che permettono al formaggio di acquisire gusto e sapore accentuati, è sicuramente la punta di diamante di Lüch da Pćëi. Il Gran Bacun stagiona oltre un anno acquisendo straordinari aromi di nocciola e cardo. Anche le formaggelle presentano profili organolettici interessanti, come il San Cassiano, erbaceo al naso, ben equilibrato in bocca. Sono ormai bene avviate le prove e la produzione delle formaggelle cremose e aromatizzate: quelle con il tartufo nero (Gadertaler Goldtaler), con le erbe aromatiche o alla birra. In particolare quest’ultima categoria viene affinato con la birra di un microbirrificio della Val Pusteria, il PUSTERTALER FREIHEIT. Una volta tolta dalla forma, il formaggio fre-

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sco viene immerso in un bagno di birra per alcuni giorni e poi messo a riposare in cantina. Durante la stagionatura si provvede a lavare ogni formaggella con la birra almeno 3 volte la settimana, azione che conferisce al formaggio un tipico retrogusto. I loro yogurt, ovviamente senza conservanti, sono accumunati dalla cremosità e dall’innata assenza di asprezza che talvolta li caratterizza. Quello senza aggiunte sa rappresentare al meglio le caratteristiche del latte grazie al vago sapore erbaceo. Quelli alla frutta contengono semilavorati naturali composti da un quantitativo minino del 30% di frutta e con l’azione gelificante della pectina. E alla fine ci si potrà sedere al loro

ristorante Sieia con pietanze simbolo della cultura ladina come i cajoncìe (ravioli ripieni di patate, ricotta, spinaci, frutta essiccata come le pere selvatiche che venivano raccolte nel tardo autunno), la zuppa d’orzo, la jüfa (una sorta di besciamella di farina di grano saraceno che si compatta sul fuoco) o i panini secchi di farina di segale e frumento con cumino e finocchietto, le pucce, che accompagnano lo speck. Riccardo Lagorio Lüch da Pćëi Strada Pecei 17 39036 San Cassiano in Badia (BZ) Telefono: 0471 849286 E-mail: info@luchdapcei.it Web: altabadialat.it

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TUTTO IL BIOLOGICO, OGGI

Masserie Masella, vacanze in salumeria di Massimiliano Rella

A

lle origini di quest’azienda agrituristica a 650 metri slm, alle pendici del versante campano del massiccio del Matese, con allevamento di suini, produzione artigianale di salumi tradizionali, coltivazione di frutta e cereali, ma anche produzione d’olio extravergine d’oliva, conserve, confetture e sottoli — nonché trattoria di montagna — c’era una piccola osteria fondata nel 1969 dalla signora FILOMENA, nonna degli attuali proprietari: DINO MASELLA, le sorelle FILOMENA e GIOVANNA, oltre al

cognato DANIELE ZOCCOLILLO. L’osteria nacque da una brillante intuizione della nonna quando intorno a Cerreto Sannita, nel dopoguerra, venivano ad esercitarsi i militari: la signora pensò bene di cominciare a proporre colazioni con prodotti casalinghi. Pian piano si sviluppò l’osteria, poi, nel ‘74, al ritorno del figlio Pasquale dalla Germania, dove aveva lavorato in campo alberghiero, l’osteria diventò una trattoria di cucina casalinga e tipica, con piatti preparati con i prodotti dell’azienda agricola.

Nel 2003, dopo gli studi all’alberghiero, subentrò in azienda il figlio Dino che, insieme alle sorelle e al cognato, decise di sviluppare un’attività agricola a tutto tondo: cominciando a recuperare piatti e ricette tipiche e della tradizione, poi, nel 2013, avviando la produzione di ortofrutta e l’anno successivo della salumeria, puntando sulla qualità e l’artigianalità, senza l’uso di conservanti. MASSERIE MASELLA è oggi un’azienda biologica certificata di 13 ettari coltivati a cereali e legumi proteici (favino, piselli proteici, ecc…) per l’alimentazione dei

I cotechini di tipo “Corallino” nel salumificio di Masserie Masella.

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Masserie Masella è un’azienda agricola biologica che nasce con l’obiettivo cardine di salvaguardare, valorizzare e diffondere i prodotti tipici e tradizionali dell’alto Sannio, a partire dal laboratorio interno di produzione dei salumi suini: una settantina di capi l’anno di razze Landrace (danese) e Petrain (francese). Ma c’è in progetto, tra qualche anno, di allevare anche il Nero casertano in un appezzamento sotto la montagna, una zona di castagneti. Una parte dei campi è dedicata anche alla coltivazione di frutta, in gran parte per la trasformazione in confetture e per il ristorante; tutto ciò che cade a terra durante la maturazione è utilizzato invece per integrare l’alimentazione dei suini. Tra i frutti, oltre ad albicocche e ciliegie, vari tipi di mele e pere autoctone. Soltanto la crusca è acquistata in certi periodi dell’anno da agricoltori biologici. I suini rosa sono nutriti con cereali dell’azienda periodicamente triturati col mulino interno, condizione questa che garantisce un’alimentazione ideale anche dal punto di vista organolettico. L’obiettivo è quello di alimentare e crescere i suini secondo quanto indicato negli annali storici delle suore conventuali di clausura presenti a Cerreto sin dal ‘500 e che riportano gli appunti dell’acquisto “dello mangiare per lo accrescimento dello maiale per lo sostentamento del convento”, che prevedeva grano, orzo e granturco e l’aggiunta di frutta e ortaggi spontanei o di bucce di patate bollite d’inverno. La macellazione dei capi avviene nei locali comunali, il laboratorio invece è interno all’azienda. Qui sono prodotte artigianalmente salsicce dolci e piccanti, soppressata, lardo, cotechino Corallino, Prigiotto, pancette tese e arrotolate, salsiccia d’ poc’ (di poco), una specialità di territorio che ricorda il Pezzente della Basilicata. Nella versione sannita, però,

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Cella di stagionatura del salumificio di Masserie Masella. questo prodotto viene fatto con gli scarti delle salsicce classiche, parti grasse e sanguigne, e alcune frattaglie, tra le quali il cuore. Questo prodotto, che rientra nell’Arca Slow Food, è stagionato per 30-35 giorni e ha un sapore intenso e piacevole. I Masella producono anche una variante della salsiccia d’ poc’ che prevede l’uso di fegato e polmone, due scarti che non riescono a stagionare. In questo caso la salsiccia viene lasciata a sgocciolare gli umori per qualche giorno poi viene immersa nella sugna calda dove “cuoce” per induzione; alla fine del processo, si ottiene un prodotto utilizzato in cucina come condimento di zuppe e ragù serviti anche nel ristorante interno. La soppressata, il prodotto più pregiato, viene fatto con tagli magri di filetto e prosciutto a grana fine, pepe in

grani e lardo a cubetti per dare succulenza e grassezza. Stagiona da 40 a 90 giorni. Il Prigiotto è un “culatello” di 18-24 mesi. Il nome risale alla prisciotta menzionata negli annali delle suore clarisse del ‘700, un termine volgare con cui venivano chiamati i salumi ottenuti con tagli del prosciutto. In questa zona del Sannio, intorno alla valle Telesina, per consuetudine i prosciutti venivano portati a stagionare nel vicino paese montano di Pietraroia, a 800 metri d’altezza, in virtù di un microclima freddo e asciutto. Quelli che non venivano portati a Pietraroia finivano nelle umide cantine dei paesi della valle, come Castelvenere o Cerreto: a causa dell’umidità i prosciutti venivano disossati. Un prodotto creato dai Masella è il cotechino Corallino. Viene fatto con i tagli classici del cotechino che vengo-

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La cultura contadina rispettata ed interpretata, raccontano i titolari, può rappresentare un valore aggiunto per questo territorio, che ha eccezionali valenze ambientali e un forte potenziale per lo sviluppo di un turismo di qualità no fermentati ma non cotti — nervetti, parti grasse, ecc… — ad eccezione della cotenna. All’impasto si aggiunge peperoncino, una buona quantità di peperone dolce e altri aromi. L’insaccato stagiona fino a 6 mesi e consiste in un salame morbido ma non spalmabile che al sapore ricorda vagamente la ‘nduja calabrese. La stagionatura dei prodotti è effettuata in due fasi in due distinte celle, la prima per l’asciugatura iniziale degli insaccati a temperatura e umidità controllate (in un sistema a ricambio e riciclo dell’aria interna-esterna), la seconda in una cella a sistema entalpico in cui l’umidità e la temperatura si “autoregolano”, tenendo conto dei valori di umidità e temperatura dei salumi. Valori quindi rilevati e non indotti. I prezzi in azienda vanno dai 15,00 €/kg di lardo e pancetta ai 30,00 €/kg della soppressata. Oltre al punto vendita l’area di valorizzazione commerciale dei salumi Masella è il ristorante (aperto venerdì e sabato a pranzo e cena, domenica solo a pranzo, gli altri giorni su prenotazione; conto per 3 portate € 25,00), non solo per i taglieri ma anche per alcuni piatti della cucina, gestita direttamente da Dino, il cuoco di casa. La salumeria Masserie Masella offre infine ospitalità in cinque camere rustiche, tutto nella stessa struttura (€ 50,00 in B&B). Insomma, il posto ideale per una vacanza in salumeria (www.masseriemasella.it). Massimiliano Rella In alto: il Prigiotto con sugna. In basso: i norcini di Masserie Masella. Da sinistra, Dino Masella, Francesco, Luigi e il papà Daniele Zoccolillo.

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Nota Photo © Massimiliano Rella.

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LOCALI DI GUSTO

PreTesto, l’Umbria in un boccone di Gaia Borghi

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i scrive PreTesto (seguito dall’hashtag #Umbriafoodlovers), si legge bistrot & bottega 100% umbro, che già da qualche tempo a Milano (l’inaugurazione del locale risale a fine 2015), e dalla scorsa estate anche a Como, offre una proposta di ristorazione originale legata ad un prodotto tipico della tradizione della regione più verde d’Italia, la torta al testo. Dall’aspetto simile ad una piadina romagnola, ben più nota e comune dalle mie parti, l’Emilia-Romagna, e in generale nel Nord Italia, la torta al testo è una specialità antica ma poco conosciuta al di fuori dei confini regionali, la cui ricetta risale addirittura alla popolazione degli Umbri. L’impasto di questa focaccia bassa, che in Umbria viene venduta proprio nelle Focaccerie, è sem-

plicissimo: farina, olio extra vergine di oliva, acqua, sale e un pizzico di lievito. Servendosi di un mattarello, lo si stende dandogli la forma di un disco rotondo alto circa un centimetro e lo si cuoce su un piano di ghisa, il testo* appunto, fino a doratura. Tagliata a spicchi, la torta al testo viene per lo più gustata farcendola con il meglio della norcineria locale, dal saporito prosciutto crudo al morbido ciauscolo, dalla porchetta al capocollo, dal salame al guanciale. E non poteva essere altrimenti visto che il termine stesso di “norcineria” deriva dal nome degli abitanti di Norcia, i norcini, macellai divenuti abilissimi nella lavorazione della carne animale, maiale in primis, grazie agli insegnamenti della scuola chirurgica di Preci, sorta del XIII secolo proprio in Valnerina.

Tagliata a spicchi, la torta al testo viene farcita con il meglio della norcineria umbra, dal saporito prosciutto crudo, magari insieme ad un pecorino, al morbido ciauscolo, dalla salsiccia con l’erba campagnola alla porchetta, fino a coppa di testa, guanciale e capocollo. Ad accompagnare, vini e birre only made in Umbria

La torta al testo farcita con crudo e pecorino e quella con salsiccia e erba campagnola ovvero spinaci, cicoria e cime di rapa.

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Insomma, nella formula moderna e smart di PreTesto — nel cui menù entrano anche i taglieri, con i salumi, naturalmente, ma anche con i formaggi, sempre rigorosamente umbri, le bruschette, i fritti, l’arvoltolo, pizzetta fritta tipica del Perugino variamente farcita, le insalate, qualche primo e secondo anche con tartufo nero di Norcia, che finisce pure sull’ovetto “stracciato” — si respira storia e tradizione regionale ad ogni boccone. La proposta più particolare? Sicuramente il torta burger, con la torta al testo al posto del classico bun, il panino leggermente dolce con i semi di sesamo che identifica universalmente l’hamburger americano, farcito questa volta con carne di manzo o di pollo, entrambi di provenienza umbra. Infine, il bistrot, come anticipato, è anche bottega: acquisti e consumi comodamente a casa salumi, vini, birre, formaggi, legumi e altri prodotti made in Umbria. Da dove nasce l’idea di portare i sapori dell’Umbria in Lombardia lo chiediamo a FRANCO MARENZI, uno dei titolari della società proprietaria di PreTesto. «Il nostro obiettivo — mi racconta Franco — è stato sin dall’inizio quello di divulgare la cultura enogastronomica umbra, relativamente meno diffusa e conosciuta rispetto ad altre al di fuori dei propri confini. Da qui l’idea di “testarne” la validità nella città più “stimolante” d’Italia, anche dal punto di vista della ristorazione: Milano. Diciamo che riuscire a “farsi un nome” qui è stato un ottimo punto di partenza per il nostro progetto di espansione». Qual è il vostro modello di ristorazione e il target a cui vi rivolgete con PreTesto? «I nostri sono bistrot informali, nei quali i dettagli creativi degli arredi e dello stile sottolineano la volontà di evidenziare il contrasto tra vecchio e nuovo, creando un ambiente di carattere e personalità, ma, soprattutto, dove la qualità delle materie prime e la genuinità delle ricette la fanno da padrone. Non a caso, già alla partenza del progetto, abbiamo coinvolto giovani cuochi umbri che tutt’ora ci seguono nei due locali di Milano e Como, per consentirci di rappresentare al meglio l’autenticità dei piatti e della cucina regionale. Il target della clientela è molto vario, sia per la posizione dei locali che per il menù proposto, spaziando

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In alto: il locale milanese. In basso: l’arvoltolo, la tipica pizzetta fritta umbra. dai pranzi di lavoro “mordi e fuggi”, che prediligono primi, torta al testo, zuppe, insalatone…, agli aperitivi, fino a cene più “strutturate” in cui la carne,il tartufo e una bottiglia di Sagrantino ci permettono di soddisfare anche palati più esigenti. In sintesi, una clientela che comprende professionisti (soprattutto a pranzo), turisti, famiglie e giovani». La torta al testo farcita permette di far conoscere e gustare tutti i meravigliosi salumi umbri. Qual è la farcitura più richiesta e qual è la sua preferita? «In menu abbiamo molte proposte di farcitura, sia nelle sue versioni più “appetitose”, quindi con la norcineria

umbra, che in quelle più leggere, come quelle vegetariane con erba campagnola e pecorino o con zucchine grigliate e stracchino. Le farciture più gettonate sono sia quella con erba e salsiccia umbra sia quella più classica con prosciutto crudo e pecorino. Non di rado i clienti si divertono a comporre la propria “torta” utilizzando i vari ingredienti che mettiamo loro a disposizione, mischiando prodotti che, grazie alla loro bontà, permettono abbinamenti anche insoliti. Io ad esempio non ho una mia versione preferita, perché come loro mi diverto a sperimentare ogni volta una farcitura non prevista da quelli che sono i nostri abbinamenti proposti in carta».

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umbri insieme a MAURIZIO CIARAPICA, il socio perugino che, tra le altre cose, sovrintende tutta la parte approvvigionamenti e selezione dei fornitori della zona. I torta burger sono tra le nostre proposte più apprezzate, sia per la bontà della carne, che per il bovino è la razza Chianina, che per le varie e diverse “versioni” in menu. Viene molto apprezzato anche l’impiattamento». L’estate scorsa avete aperto il secondo locale a Como. Come stanno andando le cose? «Ovviamente, il locale di Como risente più del primo di veri e propri “picchi” di attività; avendo aperto ad agosto abbiamo avuto una vera e propria partenza col botto, sia per la novità in città che per la presenza massiccia di turisti legata ai mesi caldi. Lo stesso è avvenuto nel periodo natalizio, anche grazie all’evento “Città dei Balocchi” che ci ha permesso di avere un’affluenza importante di clienti attirati dalle bellissime luminarie proiettate sui monumenti della città e al mercatino di Natale, dove c’era anche una casetta PreTesto. Dopo un prevedibile periodo di flessione di inizio anno, ci prepariamo ad una vera e propria ripartenza primaverile, forti anche del nuovo dehors da 50 posti che inaugureremo a breve».

In alto: zuppa di ceci e tartufo nero di Norcia. In basso: il torta burger “Cannara” di Chianina con cipolla caramellata, pecorino semistagionato e salse. Avete scelto di restare fedeli all’Umbria anche per le bevande. Ma qual è l’accoppiata perfetta della torta al testo con i salumi: birra o vino? «Entrambi! La torta al testo si sposa perfettamente sia con la birra che con del buon vino. Da PreTesto la scelta è ampia sia per quanto riguarda i vini, per i quali proponiamo una selezione di cantine rigorosamente umbre e pensiamo di rappresentare al meglio quelli che sono i capisaldi dell’enologia regionale, dal Sagrantino al Rosso di Montefalco,al Grechetto e tanto altro, che per quanto riguarda le birre artigianali di Fabbrica della Birra Perugia».

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A chi vi rivolgete per l’acquisto dei salumi? «Per controllare al meglio la filiera di provenienza dall’origine ai nostri locali non disperdiamo le nostre energie e i nostri acquisti tra un numero elevato di produttori. Per quanto riguarda i salumi collaboriamo sin dall’inizio della nostra attività con il Salumificio Gaggioli di Solfagnano (PG), che ci fornisce anche la carne che utilizziamo per i torta burger». A proposito di torta burger, chi è l’inventore di questa proposta? «L’idea è venuta, ancor prima di aprire il primo PreTesto, ai nostri cuochi

Aprirete altri locali? Se sì, sempre in Lombardia o anche in altre regioni? «Il nostro progetto effettivamente prevede l’apertura di altri PreTesto con particolare focus sul Nord Italia: stiamo valutando varie opportunità, dal secondo locale a Milano ad altre possibilità in città universitarie o turistiche del Nord». Gaia Borghi PreTesto • Viale Montenero, ang. via F.lli Campi 20122 Milano Telefono: 02 54123894 • Via Albertolli 5 22100 Como Telefono: 031 2030301 Web: www.pretesto.eu Nota * In epoca romana era prassi cuocere pani e focacce su delle tegole di terracotta: testum in latino, infatti, vuol dire proprio tegola.

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CURIOSITÀ Per l’oroscopo cinese il nuovo anno “in rosa” è cominciato il 5 febbraio

L’anno del Maiale in tavola e nelle vetrine di Gemma Zubiani

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arissimi amici, Buon anno! No, non sono affatto in ritardo: un anno molto interessante è infatti iniziato il 5 febbraio e possiamo serenamente festeggiare nello Zodiaco cinese l’anno del Maiale! Per noi appassionati di carne, salumi e ricette carnivore è un segno molto interessante e questa ricorrenza ci permette di parlare con affetto, trasporto e giubilo dell’animale per eccellenza di cui non si butta via niente, che trasmette gioia e benessere a tutte le tavole. Ci sarà più difficile festeggiare il prossimo anno, quando nel cielo sarà il turno del Topo… Innanzitutto, quindi, alziamo i calici e facciamo un bel brindisi ai nati sotto il segno del Maiale. Sono persone caratterizzate da onestà intellettuale, generosità e modestia. Lavoratori instancabili dotati di pazienza formidabile, non lesinano in gesti gentili e proteggono i propri cari con affetto e costanza. Pare che li aspetti un 2019 particolarmente sfidante ma, dopo alcune difficoltà, raccoglieranno anche grandi soddisfazioni e, soprattutto, potranno contare su chi è loro affine e li sostiene da sempre, quelli del Coniglio come me. Ora, non so voi, negli oroscopi io credo poco. Ma se c’è una fede incrollabile che ho da sempre è quella che ripongo nell’effetto benefico di una fetta di salame: l’alternativa naturale agli antidepressivi, il toccasana che risolve ogni problema, la panacea per il malumore! Pink Pig fashion Caro Maiale, ti dobbiamo tanto e per renderti omaggio puoi contare su tutte le cucine emiliane, su tutti gli appassionati carnivori e quest’anno in tua celebrazione arriva… la moda! Ebbene sì: l’ansia di compiacere il ricco mercato cinese spinge tutti i marchi di moda a produrre

I portafogli della capsule collection di Gucci dedicata all’anno del Maiale. splendide capsule collection dedicate al maiale per raccogliere consensi e strizzare l’occhio a questa cultura che tanto ha da offrire a tutte le casse dei negozi di lusso. Così troviamo ALBERTA FERRETTI che, dopo le magliette dedicate ai giorni della settimana, alle previsioni del tempo, al Natale e all’ALITALIA, sfodera la felpa rossa con una sagoma suina dorata e la scritta dal lettering identificativo It’s a wonderful year. Per le signore carnivore ecco un primo desiderio a cui si aggiunge la collezione di abbigliamento e accessori di MOSCHINO che ha arruolato Porky Pig e Petunia Pig della scuderia WARNER BROS. VERSACE ha nascosto dei maialini nei suoi capi al posto delle teste di medusa che identificano il marchio e STUART WEITZMAN ha creato un disegno stilizzato per una collezione di bustine e scarpe. Ma sono piene di graziosi maialini anche le collezioni di ETRO, EMPORIO ARMANI, DIESEL, BOTTEGA VENETA (non oso immaginare i prezzi!) e, soprattutto, GUCCI, che ha messo in campo

Il maiale è particolarmente caro ai Cinesi, tanto che, se nel paniere usato per le statistiche in USA c’è il BigMac, in Cina c’è la carne di maiale. Le parole famiglia e casa si scrivono nello stesso modo in cinese: il carattere che le rappresenta è un tetto con la zampa suina appesa sotto, come per noi zampone e cotechino, da sempre considerati simboli di buon auspicio

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i tre porcellini di Walt Disney e una campagna pubblicitaria ricchissima e divertente con prodotti contestualizzati in ambienti lussuosi: su divani di broccato e candide lenzuola, in auto di lusso o sulla tavola imbandita per un tè in società, troviamo maiali di tutte le taglie e razze, educatamente coccolati e con collari di brillanti. Anche FERRAGAMO ha realizzato una campagna fotografica molto social in omaggio a questa ricorrenza: per affiancare i suoi prodotti dedicati al Capodanno cinese ha scelto un maiale così bello che non se ne vedevano dai tempi di Babe maialino coraggioso. Immagini sofisticate ed eleganti che passeranno alla storia della moda e del costume, non ho dubbi. Su questo etereo sfondo candido risaltano i bellissimi prodotti del made in Italy da esportazione ma è l’indiscutibile bellezza del modello che la rende una pagina indimenticabile della storia della gastr… pardon, della moda. Sono abbastanza convinta che questa ondata di notorietà farà bene alle vendite di tutti questi marchi, darà impulso al divertimento nel vestire ma avrà anche il terribile effetto collaterale di far proliferare i maiali da compagnia… Mi auguro di non dovervi scrivere presto di questa nuova moda. Gemma Zubiani Nota A pagina 86, il maialino protagonista della campagna Ferragamo; photo © globelife.com

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Berkel: anche il taglio perfetto è questione di design In occasione della Milano Design Week 2019, la Coltelleria Lorenzi, storica insegna milanese di Via Ponte Vetero, nel cuore del Brera Design District, renderà omaggio alla mitica Volano ospitando due pezzi unici della mostra “A Slice Odyssey” con cui Berkel ha inaugurato lo scorso ottobre i festeggiamenti per il proprio 120o anniversario. Per celebrare il marchio che ha fatto dell’affettatrice un oggetto di culto e di design, la Coltelleria Lorenzi presenterà al pubblico del Fuorisalone Revolution (in basso a sinistra) e TheWalls (in basso a destra), due delle sei interpretazioni artistiche dellaVolano B114, l’affettatrice più famosa della storia nata nel 1898 a Rotterdam dall’ingegno di Wilhelmus van Berkel. Gli anni Sessanta e Settanta rivivono in Revolution, caleidoscopio di colori psichedelici inneggianti a progresso, libertà culturale e Flower Power; The Walls è invece il racconto delle rivoluzioni e dei muri caduti negli anni Ottanta, fra inconfondibili geometrie e grafiche da videogames. Due esemplari del modello B114 — nel classico rosso Berkel e nella variante nera — e una B3 rossa completeranno l’esposizione. L’evoluzione del brand Berkel sarà perfettamente raccontato dalla nuova Home Line nera, l’affettatrice elettrica che coniuga design all’avanguardia e performance professionali: linee futuristiche e dimensioni straordinariamente compatte in cui si concentrano funzionalità, materiali e dotazioni di sicurezza ereditati dal mondo professionale e prestazioni eccellenti. Dal taglio perfetto alla conservazione del cibo: l’attenzione al design caratterizza anche MiniVac, la macchina per il sottovuoto degli alimenti di uso domestico, ma dalle prestazioni professionali. Grazie al proprio stile unico e inconfondibile Berkel trasforma un elettrodomestico ordinario in un oggetto dal design raffinato e innovativo, da esibire in cucina e non da nascondere in un ripostiglio. E infine la nuova collezione di coltelli firmati Berkel, tra cui la nuovissima linea Outdoor, che fondono il fascino di un’arte millenaria con le più avanzate tecniche di lavorazione e con i materiali più pregiati. I coltelli Berkel sono veri capolavori di artigianalità perché nascono dalle mani sapienti di maestri coltellinai e sono l’espressione di uno stile inconfondibilmente made in Italy. Fedele alla propria tradizione da oltre cinquant’anni, Coltelleria Lorenzi rende così omaggio al design e all’arte del taglio perfetto. >> Link: www.theberkelworld.it

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RASSEGNE

Taste, sempre più bella!

L’

edizione 2019 di Taste, la numero quattordici, ospitata come di consueto all’interno della Leopolda di Firenze, si è conclusa l’11 marzo scorso ancora una volta nel segno dell’entusiasmo diffuso tra espositori, operatori del settore e pubblico di foodappassionati. Oltre 16.000 presenze hanno affollato la ex stazione ferroviaria nei tre giorni di salone, scoprendo le novità e la ricchezza gastronomica delle quasi 400 aziende espositrici e partecipando agli eventi in programma al salone e in città per il FuoriDiTaste.

In totale sono stati circa 6.000 i buyer registrati, mettendo a segno un +3% rispetto ad un anno fa, con incrementi sia dall’Italia (+3%) che dall’estero, in aumento del 5% come persone registrate e in percentuale ancora maggiore come numero di aziende compratrici (+8%). La Germania (+64%) si conferma mercato numero uno come presenze al salone; a seguire, Francia (+26% come ragioni sociali), Svizzera (+18% come ragioni sociali), Spagna (+35%), Austria (+60%) e Corea, al raddoppio dei suoi compratori. Molto bene anche i numeri da Olanda, Israele e Repubbli-

ca Ceca. «L’energia di Taste contagia tutti» ha dichiarato AGOSTINO POLETTO, direttore generale di Pitti Immagine. «È stata un’edizione più che positiva, che si inserisce in una serie di edizioni in crescita, sia nei numeri che nella qualità, e di questo siamo molto soddisfatti. La selezione di aziende — anche con i nuovi ingressi e le novità che hanno portato al salone — sono state giudicate di altissimo livello. Al tempo stesso, Taste è sempre di più un appuntamento per professionals: abbiamo registrato maggiori presenze e sempre più qualificate tra negozi specializzati,

Questa quattordicesima edizione ha presentato le novità di quasi 400 aziende, una selezione delle più qualificate realtà italiane dell’enogastronomia contemporanea, accanto ad oggetti di food & kitchen design, capi e attrezzature tecniche per la cucina.

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1) Il Gran Deposito Aceto Balsamico Giuseppe Giusti era presente sia all’interno della Leopolda che, per FuoriDiTaste, da Procacci 1885 per un aperitivo “balsamico” e i cocktail preparati col nuovo Vermouth. 2) Immancabile Favola, l’unica mortadella insaccata e cotta nella cotenna naturale, prodotta dal Salumificio Mec Palmieri di San Prospero (MO). 3) I formaggi pluripremiati del Caseificio Il Fiorino di Roccalbegna (GR). 4) L’Acetaia Leonardi di Magreta di Formigine (MO). 5) Zivieri ritorna a Taste con un nuovo progetto, la prima mortadella artigianale di filiera “Fattoria Zivieri”. 6) Caviar Import ha presentato la sua ampia offerta, tra cui il prodotto di punta dell’azienda veneziana, il pregiato caviale iraniano importato in Italia.

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1) La mortadella classica Bonfatti della Gianni Negrini di Renazzo (FE), presidio Slow Food insieme a Salame rosa e Mortadella Lyon, i Salumi Rosa tradizionali bolognesi. 2) I prosciutti crudi di Casa Graziano, realizzati ancora secondo tradizione artigiana a Tizzano Val Parma (PR). 3) Il salumificio Devodier di Mulazzano Ponte di Lesignano Bagni (PR) con la sua ricca offerta di crudi, culatello, culatta e spalla cruda. 4) I buonissimi salumi naturali del padovano Salumificio Bazza. 5) L’Artigiano della ‘Nduja di Spilinga (VV) con il suo prodotto di punta. 6) La Macelleria Falorni di Greve in Chianti (FI) ha presentato l’ampia gamma di salumi realizzati artigianalmente tra cui anche il nuovo salame di Chianina, profumatissimo.

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Prosciutto di Modena DOP

Perché solo un prosciutto così è crudo, è buono, è Modena. Sono le dolci pendenze delle nostre colline e il gentile scorrere del Panaro, tra le province di Modena, Bologna e Reggio Emilia, a conferire al Prosciutto di Modena DOP un sapore così caratteristico e perfettamente equilibrato. I nostri ingredienti? Solo coscia di suino italiano, sale e 14 mesi di paziente stagionatura. Prosciutto di Modena DOP. La nostra dolcezza, sta tutta nell’attesa.

Beneficiario: Consorzio del Prosciutto di Modena Autorità di gestione: Direzione Generale Agricoltura, Caccia e Pesca Regione Emilia-Romagna

UNIONE EUROPEA

Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale

L’ E u ro p a

consorzioprosciuttomodena.it

i nvest e

nelle

zone

r ur a l i

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1) La mortadella di Prato del Salumificio Mannori, protagonista anche di un evento FuoriDiTaste con l’esclusivo Harry’s Bar Firenze e i vini del Consorzio della Vernaccia di San Gimignano Docg. 2) Il prosciutto stagionato, il ciauscolo e i salumi tipici marchigiani della famiglia Vitali di Re Norcino, esempio di attività salumiera artigianale a filiera corta. aziende della distribuzione, department store, importatori di eccellenze italiane, insomma molte delle migliori realtà internazionali del mondo del cibo di qualità. Infine, Taste è anche sempre più un incubatore di tendenze, idee e temi della scena culinaria contemporanea:

Pianeta Pane ha conquistato tutti, con i laboratori A Scuola di Pane sold out e i talk seguitissimi, così come i Ring del Gastronauta di DAVIDE PAOLINI, solo per citarne uno quello con protagonisti MASSIMO BOTTURA e MASSIMILIANO ALAJMO e i loro progetti sociali. E chiaramente

c’è stata tanta partecipazione anche per i quasi 90 eventi che hanno animato Firenze col FuoriDiTaste: come sempre creativi e gustosi». >> Link: www.pittimmagine.com/corporate/fairs/taste.html

Le novità a Taste: nuove proposte gourmand! Pitti Taste è in continua evoluzione. Gli esperti di food culture ogni anno portano a Firenze il risultato delle loro ricerche su tutto il territorio italiano. Tra eccellenze da valorizzare, produzioni di nicchia ed esperienze innovative, c’è sempre qualcosa di nuovo (e di buono) da scoprire. Lo dimostrano le aziende che hanno partecipato per la prima volta all’edizione 2019. Le loro sono storie che rivelano la bellezza di terre poco conosciute, ma preservate e valorizzate grazie a produzioni tipiche di altissima qualità. Come i prodotti della Salina di Cervia, la più a nord d’Italia, che identificano un intero territorio. A Taste erano presenti, oltre al tipico sale integrale e privo di cloruri amari, anche i sali con le erbe aromatiche e i nuovi prodotti per il corpo. Ci sono poi storie che raccontano di famiglie che si tramandano ricette segrete di generazione in generazione. Come fanno i Taddeucci di Lucca dal 1881. Quest’anno Taste ha ospitato il loro famoso buccellato (in foto), super recensito da magazine internazionali e molto apprezzato anche da Carlo d’Inghilterra durante una visita all’antica pasticceria toscana. In tema di storie familiari, alla Leopolda è arrivata l’esperienza centenaria dell’azienda Maratelli di Asigliano Vercellese, che ha dato il proprio nome ad una varietà di riso, la più antica d’Italia, ancora oggi coltivata e lavorata con tecniche tradizionali e prodotta in quantità limitata. La famiglia conserva in purezza il seme di questo riso. Ancora, i Bifulco – Carni dal 1947, allevatori e affinatori da 4 generazioni alle pendici del Vesuvio. La frollatura “secondo Luciano” varia da un minimo di 60 ad un massimo di 250 giorni e garantisce alla carne un sapore unico. Poi i Testa, la cui storia di pescatori è legata all’etnea Ognina, l’antico porto di Ulisse che un’impressionante eruzione ha colmato, lasciando spazio ad un porticciolo. Oggi come allora, sono specializzati nella pesca e nella conservazione di tonno rosso del Tirreno, pesce azzurro delle Eolie, acciughe dello Ionio.

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FIERE Appuntamento con Tuttofood a Fieramilano dal 6 al 9 maggio

Milano si prepara ad accogliere il food business

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l 2018 è stato un anno record per il digital food in Italia. Per la prima volta è stata infatti superata la soglia psicologica del miliardo di euro — quota 1,1 miliardi —, con un incremento del 34% in valore rispetto agli 849 milioni del 2017. Una crescita qualitativa che accomuna tanto l’ecommerce agroalimentare quanto il food delivery nel portare on-line le tendenze all’opera nel retail fisico: dalla divaricazione tra primo prezzo e prodotti premium alla crescente attenzione per la tracciabilità, che trova nel digitale uno scenario di applicazione ideale. Questi sono solo alcuni dei dati dell’ultimo Osservatorio B2C di NETCOMM e Politecnico di Milano presentati al Netcomm Focus Food: per Tuttofood l’evento, di cui la manifestazione è partner, ha dato agli organizzatori l’opportunità di presentare il work in progress verso la prossima edizione, in programma a Fieramilano dal 6 al 9 maggio. Debutta il vino, cresce il retail Grande novità dell’edizione 2019 sarà Tuttowine, una formula originale e innovativa che presenta in un’area dedicata, organizzata in partnership con UIV – Unione Italiana Vini, le opportunità di business specifiche del comparto ai target professionali italiani e internazionali, nel contesto più ampio di una manifestazione che fa della compresenza dei diversi settori del food & beverage una delle sue principali carte vincenti. Crescita e rafforzamento anche per la rinnovata Retail Plaza. L’arena del retail innovativo si ripropone in una formula più articolata, che dà voce al mercato espositivo insieme a quello dei retailer, sia italiani sia internazionali, col data partner Nielsen e i vari partner della GDO che si sono succeduti fino ad oggi come Amazon, Carrefour, Gruppo Végé, Eataly, Easy Coop, Iper, Unes con Il Viaggiator Goloso, Metro. Declinato in workshop, convegni, eventi in-store e tavole rotonde, il nuovo progetto 20182019 si rivolge anche ai consumatori oltre che alla comunità business grazie a uno storytelling che rende protagonista il trade in modo accattivante per un pubblico diversificato. Riconoscimento ufficiale USDA Nella prossima edizione la collettiva degli Stati Uniti USA Pavillion riceverà

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Dal “nuovo” naturale ai cibi funzionali, dal novel food all’agrifood 4.0 alla riscoperta delle territorialità, Tuttofood ha rafforzato edizione dopo edizione il proprio ruolo di trendsetter ed è diventato un appuntamento imperdibile per gli operatori di tutto il mondo. per la prima volta l’endorsement ufficiale dello US Department of Agriculture (USDA). Rilasciato secondo severi requisiti nel creare opportunità di business, il riconoscimento è un’autorevole conferma del crescente ruolo di Tuttofood quale hub internazionale grazie all’efficacia nel far incontrare domanda e offerta mirate e nell’anticipare scenari di mercato e tendenze di consumo. Tuttofood diventa così la prima, e ad oggi unica, manifestazione agroalimentare certificata USDA in Italia. In tema di internazionalità, ad oggi sono già oltre 1.100 le aziende già registrate, delle quali circa una su 12 proveniente dall’estero, in rappresentanza di molti tra i Paesi più dinamici per l’interscambio agroalimentare, quali Austria, Belgio, Danimarca, Egitto, Francia, Germania, Grecia, Hong Kong, Irlanda, Iran Paesi Bassi, Perù, Portogallo, Regno Unito, Romania, Spagna, Svizzera, Taiwan, Turchia. Saranno inoltre presenti espositori provenienti da Argentina, Brasile, Canada, Cina, Croazia, Ecuador, Giappone, India, Kosovo, Marocco, Messico, Polonia, Russia, Slovenia, Sri Lanka, Sud Corea, Tunisia, Vietnam e Stati Uniti. L’evento in contemporanea dedicato al fresco, Fruit Innovation, vedrà la partecipazione di aziende e collettive da Camerun, Canada, Cina, Francia, Germania e Spagna oltre che dall’Italia.

Digital transformation protagonista Riguardo ai contenuti, sempre più sotto i riflettori il ruolo centrale, anche nel settore agroalimentare, della trasformazione digitale, che potrà contare sull’area dedicata Tuttodigital. Posizionato nel contesto del padiglione 10, questo vero e proprio “villaggio digitale” sarà il palcoscenico ideale, in particolare per le start-up, per presentare le proposte tecnologiche food & beverage più innovative in termini di piattaforme e-commerce, app innovative e fornitura di servizi avanzati. Fieramilano e Tuttofood hanno inoltre rinnovato fino al 2021 anche l’alleanza con il Consorzio Netcomm, per approfondire i temi dell’innovazione tecnologica e del social eating al servizio del business. La panoramica sulle soluzioni tecnologiche più innovative sarà completata da Seeds&Chips – The Global Food Innovation Summit, che tornerà in contemporanea con Tuttofood nei padiglioni di Fieramilano ospitando, come di consueto, relatori istituzionali, esperti e giovani talenti tutti di altissimo profilo, chiamati a trattare temi che spazieranno dalla nutrizione intelligente all’agricoltura di precisione, dalle soluzioni per l’economia circolare e la sostenibilità fino al ruolo delle tecnologie nella cucina gourmet.

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La mappa dell’area espositiva di Tuttofood 2019

Photo © tuttofood.it

Oltre la piattaforma di business, un trendsetter da non mancare Dal “nuovo” naturale ai cibi funzionali, dal novel food all’agrifood 4.0 alla riscoperta delle territorialità, Tuttofood ha rafforzato edizione dopo edizione il proprio ruolo di trendsetter ed è diventato un appuntamento imperdibile per gli operatori di tutto il mondo. Tra le molte novità del 2019 anche un layout espositivo ancora più efficace e coinvolgente. Per una crescita condivisa all’insegna della qualità, espositori italiani ed esteri saranno compresenti nei

settori merceologici, rafforzati e integrati da affondi sulle territorialità nelle due nuove aree Tuttoregional e Tuttoworld. Previsti anche focus di approfondimento direttamente nell’area per settori quali Tuttodrink, Tuttoseafood, Tuttofrozen, Tuttopasta, Tuttobakery, Tuttogreen. Un’attenzione particolare sarà inoltre rivolta in tutti i settori all’autenticità e alla protezione dei marchi e delle denominazioni di origine. Tra i settori più vivaci si segnalano Tuttogrocery, Tuttosweet e Tuttodairy. Come sempre, grande focus anche su formazione, l’informazione e

Informazioni utili * I saloni tematici di Tuttofood 2019 sono i seguenti: • Tuttodairy • Tuttomeat • Tuttofrozen • Tuttosweet • Tuttopasta • Tuttobakery • Tuttogrocery • Tuttodeli • Tuttooil • Tuttogreen • Tuttoregional • Tuttowine • Tuttoworld • Tuttoseafood • Tuttodrink • Tuttodigital. * In contemporanea si svolgeranno le manifestazioni Fruit Innovation e Seeds&Chips – The Global Food Innovation Summit. * L’ingresso è riservato ai soli operatori. * Dal 6 all’8 maggio gli orari di apertura ai visitatori sono dalle 9,30 alle 18, con anticipo chiusura alle ore 16,00 per il 9 maggio.

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la crescita professionale, con delle vere e proprie Academy tematiche per settori quali Multiprodotto, HO.RE.CA., Carne & Salumi, Lattiero-Caseario. Anche nel 2019, Tuttofood sarà primario partner di Milano Food City (2-9 maggio), la settimana del cibo di qualità che si svolgerà in contemporanea con la manifestazione, coinvolgendo operatori, appassionati, turisti e semplici cittadini con una serie di eventi in alcune delle location più affascinanti della città e ai quali il salone contribuirà come di consueto con un palinsesto pensato per avvicinare in modo accattivante l’utente finale all’offerta più originale e innovativa dei propri espositori. Nota A pagina 96, photo © instagram.com/ tuttofoodmilano

Tuttofood 2019 6-9 maggio – Fieramilano Web: www.tuttofood.it @TuttoFoodMilano

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6 - 9 MAGGIO FIERA MILANO PAD 10 - F02 F06 G01 G05

Solo le cose buone nascono per essere condivise. In un piccolo angolo della Toscana, luogo di simbiosi perfetta fra uomo e natura, in mezzo alle colline pisane, nascono le idee ed i progetti del Caseificio Busti che continua a rinnovarsi a partire dall’anno della sua fondazione nel 1955. Nell’attuale e moderno sito produttivo di Acciaiolo vengono ideate le nuove ricette, frutto di un lavoro lungo e paziente, alla ricerca del perfetto equilibrio tra gusto, profumi e segreti di lavorazione, il tutto mantenendo invariati i tradizionali metodi di lavorazione artigianali, vero punto di forza dell’Azienda.

www.caseificiobusti.it

BUSTI FORMAGGI S.R.L. VIA MARCONI, 13 A/B - 56043 - LOC. ACCIAIOLO - FAUGLIA (PI) TEL. +39 050 650565 - FAX +39 050 659057- COMMERCIALE@CASEIFICIOBUSTI.IT


CSB-System a IFFA e Tuttofood: tutto ciò di cui ha bisogno chi opera nel settore carne e salumi

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i può descrivere così la partecipazione del gruppo CSB-System alle due fiere di riferimento per il settore che si svolgeranno in contemporanea a maggio: IFFA (4-9) e Tuttofood (6-9). CSB-System sarà presente a Francoforte e a Milano con le sue soluzioni per la digitalizzazione e l’automazione. A IFFA (Pad. 11.1 Stand B81) Al Pad. 11.1 Stand B81 gli esperti CSB saranno a disposizione dei visitatori per mostrare soluzioni IT all’avanguardia relative a: Smart ERP; Smart Meat Factory; Smart Greenfield; Smart Optimization.

dimensioni; il Factory ERP per gli stabilimenti di produzione di gruppi o multinazionali; infine, la soluzione completa Industry ERP. I tre sistemi differiscono in termini di complessità e funzionalità ma tutti e tre svolgono un ruolo centrale all’interno dell’azienda. Oltre all’aspetto commerciale e della gestione magazzino il CSB consente il controllo in tempo reale degli impianti, pianifica i complessi processi di produzione, controlla e automatizza interi magazzini. Durante la fiera, in appositi angoli a tema dello stand, i visitatori potranno scoprire di più sulle singole soluzioni e confrontarsi con gli esperti CSB.

Smart ERP Solutions Il software ERP è il cuore pulsante di un’azienda. CSB presenta il suo ERP in tre varianti diverse: il Basic ERP, soluzione nuova, pensata per realtà aziendali e/o laboratori di piccole

Smart Meat Factory Le soluzioni software e di automazione CSB hanno l’obiettivo di rendere produzione e logistica degli stabilimenti più intelligente ed efficiente. Tra queste si annovera il quadro di controllo per

la linea di peso-prezzatura, grazie al quale è possibile monitorare meglio gli impianti di produzione e confezionamento, aumentando l’efficienza complessiva degli impianti (OEE). Un grosso potenziale per l’automazione e la digitalizzazione degli stabilimenti è offerto anche dal riconoscimento automatico delle immagini: la CSB Unit Recognition può rilevare contenitori a rendere e codici a barre in modo rapido ed efficace; il CSB Image Meater, invece, rende possibile la classificazione commerciale delle mezzene in modo automatico e non invasivo. Smart Greenfield Sarebbe opportuno riflettere su come proiettare uno stabilimento verso il futuro digitale, già nella sua fase progettuale. Non fa alcuna differenza che si tratti di una fabbrica per la lavorazione di manzo, maiale o pollame; in ogni caso,

La soluzione completa per la vostra azienda

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diventa sempre più importante monitorare e gestire il flusso delle informazioni lungo l’intera filiera. Allo stand CSB i visitatori potranno ricevere informazioni utili su questo tema. D’altronde, tutti i dati riguardanti le materie prime, la lavorazione ed il prodotto finito devono essere registrati costantemente durante il ciclo produttivo per essere poi trasmessi in modo efficiente ai fini, per esempio, di una rintracciabilità senza lacune. «Noi accompagniamo i nostri clienti verso la digitalizzazione — afferma in proposito Andrè Muehlberger — dalla progettazione di nuovi stabilimenti allo sviluppo digitale di fabbriche già esistenti, fino al raggiungimento di una produzione di carne completamente digitalizzata». Smart Optimization Un altro tema che i visitatori potranno approfondire sono le soluzioni con le quali ottimizzare i processi, ridurre il consumo di materie prime e controllare i costi. Ad esempio, clienti CSB riportano che con l’ottimizzazione degli acquisti, raggiunta grazie all’utilizzo del gestionale CSB, sono riusciti a risparmiare fino al 5% sugli acquisti di materie prime e componenti. Anche la gestione ricette può dare in tal senso un grosso contributo, perché ottimizza le quantità dei componenti presenti nella distinta base tramite un algoritmo particolare. Per quanto riguarda i costi di trasporto, invece, l’ottimizzazione dei giri consente di risparmiare, realisticamente, fino al 15%. Uno sguardo alle imprese intelligenti A quanti abbiano il desiderio di combinare la visita in fiera con uno sguardo alla realtà di altre aziende del settore carne che adoperano già da anni con successo le tecnologie del gruppo CSB, viene offerta la possibilità iscriversi ai

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In alto: ad IFFA il Gruppo CSB ha organizzato per il 9 maggio il Meat Business Day, durante il quale esperti del settore esporranno delle relazioni sulle best practice del settore carne. In basso: Tuttofood è la fiera dedicata al food & beverage che da anni ormai richiama a Milano visitatori da tutto il mondo. Smart Meat Factory Tours. Durante la visita ai più moderni produttori di carne in Europa, i partecipanti avranno l’occasione di conoscere dal vivo soluzioni di automazione innovative, tecnologie per l’elaborazione di immagini e supply chain costantemente ottimizzate (per maggiori informazioni inviare una email a info.it@csb.com o telefonare al numero: 045 8905593). Oltre ai tour aziendali il gruppo CSB ha organizzato per il 9 maggio il Meat Business Day, durante il quale esperti del settore esporranno delle relazioni sulle best practice del settore carne.

visitatori interessati saranno mostrati gli ultimi sviluppi del software ERP, nelle tre varianti precedentemente menzionate; sarà anche un’occasione per riflettere sui vantaggi che derivano dall’implementazione in azienda di un gestionale totalmente integrato e modulare quale è il CSB-System.

A Tuttofood (Pad. 6 Stand L05 M08) Milano è un palcoscenico ideale per presentare e conoscere idee e prodotti innovativi, analizzare i trend di mercato e scambiare esperienze. In quest’occasione la CSB-System Srl, filiale italiana del gruppo con sede a Verona, sarà presente al Pad. 6 Stand L05 M08. Ai

Referente: • Dott. A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (Verona) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb.com

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FORMAGGIO Stracciata, caciocavallo, manteca, caciosalame, scamorza, laccetti, ricotta e pecorino

Formaggi del Molise di Massimiliano Rella

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el Molise prevalentemente montuoso, con alcuni rilievi che sfiorano o superano i 2.000 metri, i pascoli d’altura sono stati per secoli la destinazione estiva di greggi transumanti dalle pianure regionali ma anche pugliesi e di altre terre di confine. La tradizione della transumanza è oggi testimoniata dai resti di tratturi e sentieri lungo le pendici dei monti. Anche se ridimensionata rispetto al passato, la pastorizia alimenta un’eccellente produzione di formaggi. Spesso

sono aziende a gestione familiare a tramandare lavorazioni e specialità. Di Nucci, latteria dal 1662 Tra queste il Caseificio Di Nucci di Agnone (IS), la cui storia si collega ad un documento del 1662 conservato negli archivi parrocchiali di Capracotta, sempre in provincia di Isernia. Nel secondo dopoguerra ANTONIO DI NUCCI trasformò l’attività familiare in una vera e propria impresa, separando la produzione casearia dalla zootecnica. Oggi il

signor FRANCO e i figli SERENA, ANTONIA e FRANCESCO, undicesima generazione, continuano a produrre formaggi a pasta filata, fatti artigianalmente per una scelta d’alta qualità e bassa quantità. In media sono lavorati quotidianamente 30 quintali di latte crudo degli alti pascoli molisani (sopra i 1.200 m), fornito da una ventina d’allevatori di razze Pezzata rossa e Bruna alpina. Nascono così la stracciata, una striscia di mozzarella filata a mano, salata per immersione in salamoia, ripiegata

Fette di caciosalame del Caseificio Di Nucci di Agnone (IS). Un prodotto particolarissimo: nell’involucro di caciocavallo viene custodito il salume molisano d’eccellenza, la soppressata (photo © Massimiliano Rella).

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a strati e tagliata. Ma anche la ricotta dal siero del caciocavallo, senza l’uso di panna, fresca o salata; i caciocavalli semi-stagionati fino a 60 giorni, stagionati da 60 a 120 e stagionati extra in cantina di pietra rapillo di Agnone per oltre 180 giorni. E ancora: la manteca, un caciocavallo che avvolge una palla di burro, inserita all’interno per conservarla, un prodotto pensato in tempi antichi, quando non esistevano i frigoriferi, e il caciosalame, un caciocavallo a forma di fuso che contiene un’intera soppressata di qualità, fornita dall’azienda Florio Salumi di Montecilfone (CB) o da Antonelli, di Castel del Giudice (IS). Spaccio aziendale e piccolo museo, visitabile su prenotazione, l’azienda è aperta dal lunedì al sabato (www.caseificiodinucci.it). Pallotta, dove “il latte sa di latte” Nella vicina Capracotta il Caseificio Pallotta, di SALVATORE, RENZO E RAFFAELE, produce formaggi tipici dal latte di vacche Brune alpine dal 1988, quando i tre fratelli decisero di trasformare in proprio il latte dell’allevamento famigliare e aprirono un laboratorio artigianale. Nel 2001 hanno realizzato un nuovo caseificio con impianto di lavorazione e tecnologia all’avanguardia. Vengono lavorati 50 quintali di latte al giorno prodotto in allevamenti dell’alta montagna molisana, animali cresciuti in un ambiente incontaminato e con alimentazione naturale. Oltre a scamorze, stracciate e caciocavallo, fanno il caciocavallo Macchione, dal nome della località La Macchia dove si trova l’allevamento: questo grande caciocavallo è una forma da 18-20 kg, dal sapore intenso e leggermente piccante, stagionato 15 mesi in grotte di tufo. I laccetti sono invece dei bocconcini a pasta filata di

Il caciocavallo “Macchione” del Caseificio Pallotta (photo © Massimiliano Rella). forma tondeggiante, legati a metà con una fibra di rafia e conservati in acqua per mantenerli morbidi e freschi. Il pecorino, infine, è preparato con latte di pecore e capre lavorato a crudo, odore intenso e sapore fragrante e pastoso grazie ad una stagionatura di almeno 3 mesi. Vendita diretta tutti i giorni (www.caseificiopallotta.com).

Anche se ridimensionata rispetto al passato, nell’Alto Molise la pastorizia alimenta un’eccellente produzione di formaggi. Spesso sono aziende a gestione familiare a tramandare lavorazioni e specialità, formaggi nella cui realizzazione viene trasferita l’identità di un territorio

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Famiglia Cese: ritorno alle origini tra Abruzzo e Molise È un ritorno alle origini quello di ENRICO CESE, un imprenditore che con la moglie ROSARIA e il figlioletto ELIA all’inizio del 2014 si è trasferito da Roma a Roio del Sangro (CH), tra Abruzzo e Molise, per produrre formaggi con il latte dell’allevamento paterno (telefono: 334 1588237 – 338 3470062). Circa 150 capre, da vari incroci di maltese, Camosciata, Alpina e Ionica, allevate allo stato brado ad oltre 1.200 metri d’altezza, accanto alle antiche vie della transumanza. A tutela del consumatore la produzione prevede la pastorizzazione del latte e l’autocontrollo con due controlli mensili aggiuntivi, l’uso di starter per arricchire i fermenti lattici. «L’idea è quella di fare una piccola produzione di qualità, senza l’uso

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Scamorze morbide appena fatte del Caseificio Di Nucci. La scamorza è uno dei formaggi freschi tradizionali della produzione alto molisana; a latte crudo, è realizzata artigianalmente senza conservanti, preservando il gusto autentico di un territorio. La famiglia Di Nucci, originaria di Capracotta, produce formaggi tipici della civiltà della transumanza dal 1662. di abbattitori, come si fa nelle malghe di montagna, da animali munti a mano ogni mattina», ci dice Enrico. Una robiola fresca da consumare entro 15 giorni;

una caciotta morbida semi-stagionata e affinata sottovuoto per non 12 mesi con diversi aromi, l’erba cipollina ad esempio, oppure crusche, vinacce, paprika,

pepe o zenzero; e una caciotta di lunga stagionatura, circa 24 mesi, sono i tre i prodotti di base. Tanto per cominciare. Massimiliano Rella

Asiago Dop in Giappone: ritirato prodotto al Foodex Nel corso di Foodex Japan, la principale fiera dell’agroalimentare in Giappone, il Consorzio tutela Formaggio Asiago ha ottenuto dalle autorità l’immediato ritiro di un prodotto che evocava impropriamente la denominazione Asiago. La presenza attiva del Consorzio in fiera e il suo intervento tempestivo è stato il primo banco di prova dell’efficacia dell’accordo di partenariato economico con la UE (EPA). «Quest’azione — ha dichiarato il presidente del Consorzio Fiorenzo Rigoni — frutto del sistema di vigilanza puntale consortile e dell’ottima collaborazione avviata con le autorità giapponesi, dimostra concretamente gli effetti dei negoziati e offre a tutti i nostri soci la certezza di poter cogliere, in un contesto di piena tutela, il grande interesse che la proposta di valore gastronomico e culturale contenuta nell’Asiago Dop riscuote in questo Paese» (fonte: Ufficio Stampa Consorzio Tutela Formaggio Asiago).

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Robiola di Roccaverano: «i miei primi 40 anni» Un formaggio a pasta morbida a latte 100% caprino o caprino e bovino le cui origini risalgono ai Celti, realizzato artigianalmente nel territorio situato sulle colline intorno al paese di Roccaverano, in provincia di Asti di Riccardo Lagorio

È

quasi sera sulla strada che da Roccaverano porta a Serole. Un lungo tramonto di primavera fiammeggia l’Alta Langa, i muretti a secco di pietra grigia, i terrazzamenti un tempo destinati alla coltivazione di cereali, legumi e verdure. Poi foraggio per animali. La gente di qui ricorda anche l’uva da vino. La brezza suda salsedine e dal mare si arrampica su per i calanchi. Poi a un tratto i belati scavalcano i recinti in legno: l’appello delle 50 capre sollecita WILMA TRAVERSA alla mungitura, anni trascorsi in ufficio e infine la resa al richiamo della natura e del passato. «Seguendo il disciplinare

di produzione, lavoro il latte di capra a crudo così ne preserviamo al meglio le sfumature di aroma. E dopo due mesi dalla produzione si può mettere in vasetti d’olio, metodo adatto per una lunga conservazione». La Robiola di Roccaverano ebbe il primato di essere il primo formaggio italiano di capra a salire sul podio delle DOP giusto quarant’anni fa e da allora le regole della filiera sono chiare: le capre devono pascolare 6 mesi l’anno, il latte non può essere portato da fuori area del disciplinare e almeno l’80% del foraggio che finisce nella mangiatoia delle capre è cresciuto nei comuni produttori.

Un modo semplice che permette alle aziende agricole, tutte di dimensioni familiari, di adempiere al ruolo di presidio di aree dove il fenomeno dell’esodo è ancora tangibile. «Grazie alle oltre 4.000 capre che alleviamo nelle nostre stalle — spiega MATTEO MARCONI, vicepresidente del Consorzio di tutela, — possiamo contare su una produzione di quasi 420.000 formaggette e, dopo anni di scelte controcorrente, il mercato ci riconosce una unicità e una notorietà che ci permette di continuare a vivere queste terre. Tanto che, nel mese di maggio, in occasione del quarantesimo compleanno del riconoscimento della DOP,

Furono i Romani a chiamare questo formaggio “rubeola”, da “ruber”, termine con cui veniva indicato il colore rossastro assunto dalla crosta al termine della stagionatura.

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La Robiola di Roccaverano è stato il primo formaggio italiano di capra a salire sul podio delle Dop giusto 40 anni fa e da allora le regole della filiera sono chiare: le capre devono pascolare 6 mesi l’anno, il latte non può essere portato da fuori area del disciplinare e almeno l’80% del foraggio per le capre è cresciuto nei comuni produttori Jerome Pfister e la moglie Sara Latrache, Azienda agricola Stutz & Pfister.

Un formaggio che per sua natura si trasforma riuscendo ad intercettare mercati diversi. «Ad oggi la richiesta supera l’offerta, soprattutto nell’alta gastronomia, e questo determina un buon prezzo per i nostri associati», conferma il presidente del Consorzio Fabrizio Garbarino

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inaugureremo a Roccaverano un punto informativo con degustazione, vendita e punto di partenza per conoscere il formaggio e il territorio di produzione». Colline e percorsi tutti da scoprire, magari restando abbagliati dalle preziose testimonianze artistiche del Parco d’Arte Quarelli (www.quarelli.it, che offre anche un’ottima sistemazione per la notte), dove artisti di levatura internazionale hanno installato i propri lavori su quei terrazzamenti un tempo coltivati, come matrimonio tra arte e natura. Del resto la bellezza di questa terra coinvolge anche giovani e giovanissimi. Come PINUCCIA RIZZOLIO. Sulle rive del torrente Tatorba, a Monastero Bormida, in un paesaggio selvaggio e propizio all’allevamento di capre, ha compiuto da poco trent’anni e svolge tutte le mansioni esclusivamente a mano. «L’azienda dove lavoro era quella del bisnonno. Quando andavo a scuola, pensavo solo ai lavori da fare in stalla, ci sono cresciuta e oggi è mia. Ho realizzato il mio sogno con le mie 150 capre e l’aiuto costante di mia madre, MARIA CATALANO, che con me cura la stalla e la produzione di formaggio». Che si vende nello spaccio o prende la strada di grossisti e stagionatori.

O come JEROME PFISTER. Una singolare storia, la sua. I genitori arrivarono giovanissimi sulle colline isolate di Mombaldone dalla Svizzera nel 1991 e acquisirono i segreti per produrre la Robiola di Roccaverano dagli anziani del posto. «Negli anni Novanta il costo delle cascine era accessibile, qui trovarono la tranquillità che stavano cercando e iniziarono con poche capre. Oggi siamo otto nel caseificio e due persone seguono le greggi». Insieme alla moglie SARA LATRACHE, Jerome ha voluto conferire alla robiola una lavorazione che mitiga il gusto ircino. Così, mantenendo il processo a latte crudo, questo viene portato a 20 °C, inserito il lattoinnesto e il caglio. «La coagulazione lattico-presamica della Robiola di Roccaverano DOP è assai singolare: il latte in via di coagulazione si mette in appositi contenitori dai quali il siero sgronda e, dopo successive rivoluzioni, raggiunge la forma canonica», spiega Jerome. «La Robiola di Roccaverano DOP si consuma da sola, ma è assai versatile in cucina». Capacità all’utilizzo in cucina confermato nelle tante trattorie della zona: dal ripieno dei plin del Tre Colline in Langa a Bubbio (trecollineinlanga.it)

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In alto: Andrea Adorno, dell’omonima cascina a Ponti (AL). In basso: Pinuccia Rizzolio, dell’azienda agricola Cà del Ponte di Monastero Bormida (AT).

Indirizzi utili Az. Agricola Wilma Traversa Regione Boglioli 14050 Olmo Gentile (AT) Telefono: 0144 93089 E-mail: ra.traversa@libero.it

Az. Agricola Stutz & Pfister Regione Poggi 1 14050 Mombaldone (AT) Telefono: 0144 950730 Web: www.robiolabio.com

Az. Agricola Cà del Ponte Regione Sessania 1 14058 Monastero Bormida (AT) Telefono: 328 2006697 Web: www.cadelponte.com

Cascina Adorno Regione Cravarezza 15010 Ponti (AL) Telefono: 0144 596112 Web: www.agriturismoadorno.it

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alla crema per gli gnocchi preparati da ELISABETTA RATTO nel suo Perigolosi di Monastero Bormida (perigolosi.eu): una meraviglia. Del resto la Robiola di Roccaverano è vista come vanto anche dagli amministratori locali, come conferma MARIA GRAZIA ARAMINI, sindaco di uno dei comuni meno abitati d’Italia, Olmo Gentile. «Contare su una DOP nel nostro territorio è un’ottima molla per il turismo. Olandesi, Tedeschi, Svizzeri sono incuriositi dal nostro formaggio e dalle nostre colline perché cercano posti tranquilli, casolari isolati dove avere un orto o una piscina. E talvolta si fermano per tutta la vita». E FABRIZIO GARBARINO, presidente del Consorzio, conferma lo stato di buona salute del prodotto. «Al momento la richiesta supera l’offerta, soprattutto nell’alta gastronomia, e questo determina un buon prezzo per i nostri associati. È altrettanto vero che il Consorzio ha davanti a sé tanto lavoro: nei 19 comuni dove si può produrre la DOP ci sono tante aziende agricole che ancora non seguono il disciplinare e quindi l’offerta è potenzialmente ampliabile». Un formaggio che per sua natura si trasforma e riesce a intercettare mercati diversi: dalle sensazioni di yogurt, erba verde e nocciola delle forme fresche, dalla pasta morbida e finemente granulosa, alle note ircine, muschiate e vegetali selvatiche con sfumature diverse secondo il pascolo e il terroir, al piccante e alla persistenza che si intensificano col procedere della stagionatura, quando la crosta tende a colorarsi di nuance rossastre. Esperienza che diventa realtà nell’azienda agricola di ADRIANO ADORNO,a Ponti, dove le robiole sono tenute a maturare anche per 6 mesi. Si parte dalle robiole asciutte ma grasse, dalla pasta solubile e aromi con note acide e dolci, sino ad arrivare ai classici sentori ircini, con sfumature speziate e piccanti che riportano al profumo di terra, funghi, di radici, di sottobosco. Formaggette da assaporare lentamente, dialogando con un bicchiere di Nizza DOCG, l’espressione più nobile della Barbera, o con del Loazzolo DOC, il Moscato appassito e custodito nelle cantine per anni prima d’essere stappato. Esempi di come la gastronomia permette di viaggiare stando seduti a casa. Riccardo Lagorio

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


VINO

Una lacrima piena di gioia di Riccardo Lagorio

L’

immenso patrimonio di vitigni autoctoni italiani trova nella Lacrima di Morro d’Alba un legame così indissolubile col territorio da rifletterne addirittura il toponimo nel nome. Il termine lacrima, invece, deriva dalla caratteristica degli acini, che durante la maturazione possono rompersi facendo fuoriuscire piccole gocce di succo. Il toponimo del centro marchigiano indica una collina rivolta ad oriente e quindi non ha nulla a che fare con la più nota Alba piemontese. La Lacrima di Morro d’Alba è un vitigno che ancora in pochi conoscono, avendo corso il rischio di completo abbandono negli anni Settanta, quando il sistema di allevamento ad alberata si era dimostrato poco rispondente alle necessità del mercato. Infatti, si cercò di coltivarlo con sistemi di allevamento

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moderni e, nel 1985, il riconoscimento della DOC ne sancì l’importanza all’interno del panorama ampelografico italiano, decretandone la rinascita e un rinnovato interesse. Oggi la denominazione comprende territori dei comuni di Morro d’Alba, Belvedere Ostrense, Monte San Vito, Ostra, San Marcello e Senigallia, tutti in provincia di Ancona, e sono una ventina i produttori che reclamano la Denominazione. I vini che derivano dalla Lacrima di Morro d’Alba possiedono caratteri

assai riconoscibili come l’intenso profumo di rosa e un delicato ricordo di spezie quando è giovane, un’intensa colorazione violacea e la buona forza alcolica. Il naso si converte in attributi più fruttati e floreali con il trascorrere del tempo e ha come indicatori la fragola, la ciliegia, le more e la violetta. In un documento del 1720 si attesta la produzione di vino da parte della FAMIGLIA VICARI (vicarivini.it), nota per vivere da sempre in contrada Pozzo Buono, dove gli abitanti del paese

Intenso profumo di rosa e delicato ricordo di spezie se giovani, intensa colorazione violacea e buona forza alcolica con l’invecchiamento: sono i caratteri dei vini che derivano dalla Lacrima di Morro d’Alba

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attingevano acqua potabile. L’azienda, a carattere familiare, vede NAZZARENO e i due figli VICO e VALENTINA svolgere tutte le attività connesse alla preparazione e commercializzazione. «Sono ben cinque le declinazioni di Lacrima che realizziamo», spiega Valentina. Essenza esprime al massimo gli aromi originali del vitigno, Dasempre rappresenta la versione tradizionale strutturata, per ottenere Superiore si scelgono i migliori grappoli che vengono appassiti per almeno un mese con un risultato di grande potenza, le uve di Amaranto appassiscono per due mesi e mezzo ottenendo un vino amabile, corposo e persistente, Sfumature è lo spumante metodo classico rosato che esalta la finezza e l’eleganza del vitigno. STEFANO MANCINELLI è considerato anche dai vignaioli di Morro d’Alba il produttore che per primo ha conferito alla Lacrima una dignità che va oltre la diffusione locale. «La qualità del vino dipende dalla qualità della materia prima che si trasforma», taglia corto, confermando di possedere una spiccata dose di serietà e pragmatismo. Il suo Superiore è scurissimo e conferma le note dolci del frutto, giocando sulla complessità ed equilibrio di floreale, fruttato e speziato senza che nessun elemento prevalga sugli altri. Il tannino è accentuato, anche se «Nella Lacrima i tannini sono morbidi, ma si amplificano con la buccia grossa». L’annata 2015 si esprime al naso con note di agrume, sostituendo piano quelle di rosa. Adatto per il coniglio in porchetta, condito con finocchietto. Il Re Sole, passito e profumato di miele di tiglio, balsamico, non è stucchevole anche grazie all’acidità che si sprigiona nel finale. «Desidero lanciare una provocazione, suggerendo di apprezzarlo con una fiorentina» (mancinellivini.it). Un terzo esempio di dedizione nei confronti della Lacrima è quello di PIERGIOVANNI GIUSTI (lacrimagiusti.it). Il Rubbjano 2014 ha spiccata intensità di colore, violaceo, la ricchezza aromatica della visciola si fonde con accenni floreali, di leggero tostato, spezie morbide. Al gusto si ripropone il frutto maturo accarezzato da quello floreale. Il tannino vivace amplifica le sensazioni fruttate e speziate.

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In alto: un bicchiere di Lacrima di Morro d’Alba (photo © lorenzovinci.it). In basso: Nazzareno Vicari con i figli Vico e Valentina. Il Guardengo di MARIO LUCCHETTI, un’altra storica presenza nel panorama della Lacrima, profuma di ciliegia, visciola, una leggera speziatura senza presenze vanigliate legate al legno. I sentori vinosi, che evolvono verso un bouquet floreale, con note di viola e profumi di piccoli frutti rossi. L’ampia intensità gustativa, quasi il bicchiere fosse una buccia da masticare, è sorretta dalla tannicità. La famiglia di origini mezzadrili si è evoluta negli anni grazie al fondatore ARMANDO che, da innestatore, ha sempre

avuto come obiettivo la crescita della cantina (mariolucchetti.it). A tavola, la Lacrima di Morro d’Alba è assai versatile anche se le carni bianche, arrosto o in umido, risultano le più adatte. Tuttavia, per la sua delicatezza e i tannini vellutati, si può provare con i brodetti marchigiani e con le carni cucinate con la frutta. Riccardo Lagorio Nota A pag. 110, grappolo di Lacrima di Morro d’Alba (photo © www.mariolucchetti.it).

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Naturale, un calice all’Enoteca Storica Faccioli di Federica Cornia

«P

er capire il vino un po’ devi studiarlo, un po’ devi conoscerlo, un po’ devi avere buona memoria e un po’ devi avere anche discrete capacità gustative». Parola di ELISA ARGENTESI. Siamo a Bologna, all’Enoteca Storica Faccioli. Un mestiere c’è chi lo fa di mestiere e c’è chi lo fa per passione. Elisa mi è sembrata una che il suo mestiere lo fa davvero per passione e con passione. S’accende in viso, un po’ delusa, se le si parla bene di un vino senza saperle dire il nome di quel che si è assaggiato e si entusiasma se le si accenna ad un viticoltore che lei conosce e apprezza. Da sei anni, insieme al marito STEFANO,

gestisce quest’enoteca storica in via Altabella 15/b, in pieno centro storico. Da quando ha lasciato l’enoteca Zampa di via Andrea Costa, sempre in città, ma appena fuori porta. Già da allora aveva il pallino per i vini naturali. È lì che Elisa ha conosciuto e servito vino a CARLO FACCIOLI, nipote di quell’Olindo che nel 1924 fondò l’omonima enoteca all’ombra delle due torri, poi trasferita nel ‘34 dove si trova tuttora. E quando Carlo, oste di terza generazione stanco di portare avanti l’attività di famiglia, le ha proposto la gestione dell’enoteca, Elisa ha accettato e ha deciso di proporre ai propri clienti qualcosa di nuovo, che in enoteca difficilmente si trovava: champagne e vini naturali.

Varcare la soglia di questo locale, infatti, significa entrare nell’antro del vino naturale nel cuore della città di Bologna. Chiusa la porta, scompare il brusio della strada, si affonda dentro un mondo di luci soffuse e ricami di note jazz. È un attimo poi lasciar correre lo sguardo lungo le pareti, saltando da un’etichetta all’altra, tra le bottiglie intruppate e ben ordinate negli scaffali di legno scuro, scorrerle fin su, ai piani alti: a destra i vini naturali dalle varie regioni d’Italia, a sinistra, oltre il lungo bancone, i vini naturali dal mondo, dove non mancano, certo, gli champagne, 65 etichette in tutto. 650 in totale i vini selezionati da Elisa nel corso degli anni, 100% naturali.

Stefano Ferrari e Elisa Argentesi. Marito e moglie, gestiscono insieme l’Enoteca Storica Faccioli in via Altabella a Bologna.

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Sono circa 650 i vini che propone l’Enoteca Storica Faccioli, tutti naturali (photo © www.instagram.com/elisaenotecafaccioli). Ci sono voluti anni per costruire questa piccola cattedrale enoica, anni spesi in degustazioni alle fiere di settore, oggi per lo più disertate perché, dice Elisa, troppo affollate e aperte anche ai non addetti ai lavori. Al loro posto degustazioni mirate presso i produttori. In fondo, ed Elisa lo aggiunge con un che di soddisfazione misto a orgoglio, con 650 etichette all’attivo, il grosso è fatto. Mettere in piedi tutto questo, però, non è stato facile, soprattutto farlo sei anni fa, quando puntare sui vini naturali non era affatto scontato. Pian piano, però, le cose hanno iniziato a funzionare, soprattutto a partire dall’estate scorsa e attualmente l’enoteca ha una sua clientela di appassionati e curiosi, che arrivano da città limitrofe come Modena o Reggio Emilia, ma anche stranieri. Elisa e Stefano sentono di aver raggiunto l’obiettivo che si erano posti inizialmente, quello cioè di catturare un target esigente. «Il nostro lavoro è selezionare buoni produttori, acquistare i loro vini e vendere quelli». E se il cliente li apprezza e li compra allora è fatta. Che sia il segnale di un cambiamento nel gusto dei consumatori nel corso del tempo? «Negli ultimi anni — mi dice Elisa — anche i ristoranti più noti hanno aggiunto alla loro selezione vini naturali. Massimo Bottura, ad esempio, ha in cantina i vini dell’azienda La Stoppa, il più importante produttore di

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vini naturali dell’Emilia-Romagna, di Rivergaro (PC)». Non sono facili i vini naturali, non sono vini per tutti i palati. Per questo Elisa, a chi si siede in enoteca ed è curioso di assaggiarli, preferisce fare qualche domanda in più. «Credo sia sbagliato dare al cliente in assaggio un vino che piace a me. Per questo, prima di fargli una proposta, preferisco capire chi ho di fronte facendogli alcune domande. Sai, ci sono persone con meno pregiudizi di altre. Un orange wine, per esempio, vino macerato sulle bucce, con un certo corpo e un’aromaticità spinta, può spiazzare chi lo beve oppure farlo innamorare». Insomma, se siete palati portati all’avventura l’Enoteca Storica Faccioli è un posto davvero interessante. Ad accompagnare i vostri calici Elisa e Stefano propongo un menu essenziale e gustoso, dove non mancano primi piatti, tra cui lasagne e zuppe, e dove naturalmente sul tagliere si stendono, paciosi, i salumi accompagnati da focaccia romana e formaggi vari: prosciutto crudo Sant’Ilario stagionato 28 mesi, mortadella Felsineo selezione TOurt-len, Culatello di Zibello DOP, Jamón Ibérico de Bellota. Sempre per palati coraggiosi, oltre il pane col burro e alici di Cetara, sul crostino trovate anche l’anguilla affumicata. Federica Cornia


Camminare le vigne: luoghi, persone e cultura del vino italiano Questo il titolo del primo corso di perfezionamento proposto dall’Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli dedicato ai professionisti e ai futuri operatori. Sei saranno i nuclei tematici approfonditi, per un totale di 180 ore nell’arco di un semestre, con l’obiettivo di valorizzare i continui rimandi culturali e territoriali che rendono uniche le eccellenze enologiche italiane. Se camminare le vigne è espressione eminentemente veronelliana, il modulo didattico Vigne e vini d’Italia ne declina coerentemente contenuti e tematiche. Il primo dei sei moduli è, infatti, un percorso attraverso le denominazioni e le aziende che fanno dell’Italia un punto di riferimento per la produzione vitivinicola mondiale. Non un semplice excursus enografico, quindi, ma un viaggio ideale affidato a docenti di grande competenza, chiamati, ciascuno, a fornire il ritratto di un territorio specifico. A raccontare i distretti vitivinicoli saranno critici e degustatori di alto profilo come Andrea Alpi, Gigi Brozzoni, Armando Castagno, Enrico Donati, Luciano Ferraro, Walter Filiputti, Marco Magnoli, Luciano Pignataro, Alessandra Piubello e Fabio Rizzari. Con loro saranno, inoltre, voci autorevoli provenienti dall’ambito universitario, consulenti e vignaioli quali Massimo Bertamini, Peter Dipoli, Franco Martinetti, Federico Staderini, Leonardo Valenti e Gabriele Valentini. Cinque i capitoli che consentiranno di percorrere la Penisola secondo delle direttrici che incrociano elementi geografici e continuità storico-culturali: Arco Alpino, Colli Padani, Costa Adriatica, Costa tirrenica e Isole. «Ogni lezione sarà divisa in due parti — spiega Andrea Alpi, responsabile didattico dell’Alta Scuola Veronelli — nella prima avranno spazio il racconto e la testimonianza affidati al docente ospite; nella seconda si svolgerà un vero e proprio incontro dal vivo con i migliori vini del territorio esplorato, condotto dai degustatori dell’Alta Scuola Veronelli, a garanzia della continuità didattico-formativa agli assaggi. Passato prossimo, attualità, progetti e tendenze del vino italiano verranno resi comprensibili e comunicabili presentandone i punti di forza e le peculiarità, con un taglio uniforme nella precisione ma poliedrico nel racconto, valorizzato dall’eterogeneità disciplinare dei docenti». Strumento cardine di Camminare le vigne: luoghi, persone e cultura del vino italiano sarà il Sensorium, speciale banco d’assaggio composto da un’ampia selezione di vini italiani d’eccellenza. A questi si affiancheranno campioni olfattivi e gustativi che permetteranno agli allievi di definire mappe sensoriali dei principali vitigni italiani. I contenuti e le suggestioni del modulo Vigne e vini d’Italia troveranno il loro completamento nei tre momenti esperienziali durante i quali l’attività didattica si sposterà dall’Isola veneziana di San Giorgio Maggiore, sede dell’Alta Scuola, a tre grandi terroir rispettivamente nel Nord, Centro e Sud del Paese. Qui vigne, vini, luoghi e persone acquisiranno, allora, il valore prezioso della testimonianza diretta. Ogni lezione sarà integrata dal materiale didattico e dai riferimenti bibliografici forniti ai corsisti grazie a una piattaforma di formazione a distanza appositamente creata per l’Alta Scuola Veronelli. Allievi e docenti potranno, quindi, fare riferimento a elementi precedentemente condivisi che permetteranno alla didattica d’aula di essere più efficace, personalizzata e partecipativa (photo © auremar – stock.adobe.com). >> Link: www.altascuolaveronelli.it – www.instagram.com/altascuolaveronelli

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Viticoltura eroica premiata dall’UNESCO I muretti a secco sono il simbolo della viticoltura eroica e finalmente anche patrimonio dell’Umanità. I territori individuati dall’UNESCO per i muretti a secco (Cipro, Croazia, Francia, Grecia, Italia, Slovenia, Spagna e Svizzera) corrispondono infatti alle zone vocate per la viticoltura eroica. «Il riconoscimento da parte dell’UNESCO della pratica rurale dell’arte dei muretti a secco, che è stata iscritta nella lista degli elementi dichiarati patrimonio culturale immateriale dell’umanità, rappresenta una grande testimonianza per la viticoltura eroica nell’intera area del Mediterraneo e per i territori in forte pendenza, onorando e qualificando ulteriormente il lavoro dei vignaioli eroici». A dirlo è Roberto Gaudio, presidente del Cervim, il Centro di Ricerca, Studi, Salvaguardia, Coordinamento e Valorizzazione per la Viticoltura Montana, che evidenzia come l’arte dei muretti a secco ricalchi la geografia della viticoltura eroica, che è ovviamente più ampia. È la seconda volta, ricorda il Cervim, dopo la pratica tradizionale della coltivazione della vite ad alberello di Pantelleria, che viene attribuito questo riconoscimento ad una pratica agricola e rurale. Ed anche l’isola siciliana è uno dei territori simbolo dei vini estremi di grande qualità. Ci sono altri riconoscimenti UNESCO inerenti la viticoltura eroica? Sì e più di uno: rispettivamente nel 1997 e nel 2000 c’è stato il riconoscimento, quale paesaggio culturale (anche per la presenza dei vigneti), del Parco Nazionale delle Cinque Terre e della Regione della Wachau in Austria; nel 2001 vi è stato per la prima volta il riconoscimento, quale paesaggio viticolo, della Regione del Douro in Portogallo, seguita nel 2004 dall’Ilha do Pico nelle Isole Azzorre, dalla zona del Lavaux in Svizzera nel 2007 ed infine da Langhe, Roero e Monferrato nel 2014; nello stesso anno anche il riconoscimento della coltivazione della vite ad alberello dell’isola di Pantelleria, primo elemento culturale al mondo di carattere agricolo riconosciuto dall’UNESCO (fonte: Cervim; a lato, i vigneti di Pico, nelle Azzorre, photo © Schlierner – stock.adobe.com).

Vini ad Arte si conferma la kermesse enologica più importante della Romagna Vini ad Arte chiude la XIV edizione (17-18 febbraio) con numeri in forte crescita: +20% di visitatori al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza (RA) e +16% di aziende partecipanti. Un successo frutto del grande lavoro, in termini di ricerca della qualità, dei produttori vinicoli romagnoli e del Consorzio Vini di Romagna, che costantemente supporta i soci e i produttori del territorio nella tutela e nella valorizzazione delle denominazioni romagnole. Un bilancio positivo su tutta la linea, commenta Giordano Zinzani, presidente del Consorzio Vini di Romagna. «Ogni anno Vini ad Arte cresce nei numeri e nella qualità dei vini presentati. Non posso che sottolineare questo positivo miglioramento a livello di partecipazione e di organizzazione generale. Un successo che arriva grazie soprattutto all’equilibrio dei vari momenti e alle sinergie create tra tutti i soggetti coinvolti. Un plauso quindi all’organizzazione alle cantine che ci hanno creduto e ai partner, perché hanno dato voce ad un territorio unico nelle sue eccellenze e peculiarità enogastronomiche». Grande partecipazione anche per l’Anteprima del Romagna Sangiovese — era di scena la Riserva 2016 — che quest’anno ha contato ben 41 giornalisti della stampa di settore nazionale ed internazionale che si sono dedicati alla degustazione tecnica di circa 120 vini e alla scoperta del territorio attraverso un tour nelle aziende. >> Link: www.viniadarte.it

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I VINI DI PREMIATA SALUMERIA ITALIANA

Degustazione: piatti con la mortadella di Laura Franchini

P

iù volte questa rivista ha dedicato alla Mortadella, la regina dei salumi, articoli e approfondimenti, e questo numero non fa eccezione. Un salume amatissimo da grandi e piccini, in Italia e nel mondo, protagonista della tavola e delle merende più gustose. Alzi la mano chi non ricorda con nostalgia il panino con la mortadella che accompagnava le merende dell’infanzia. Se è avvolta dal pane che esalta al meglio le sue squisite caratteristiche, non bisogna dimenticare che la mortadella è anche protagonista di

tantissimi piatti e ricette, della tradizione come della creatività, a dimostrazione che la qualità è sempre fonte di ispirazione e rinnovamento. La mortadella è infatti prevista in ricette della grande tradizione italiana, in particolare emiliana, basti pensare ai tortellini, ma è altrettanto vero che non mancano nuove idee ed ispirazioni, meno scontate e non per questo meno gustose. Ed è proprio alle ricette che vedono la mortadella tra gli ingredienti che dedichiamo la degustazione di questo numero, sicuri di stuzzicare curiosità e appetito.

La mortadella classica, morbida e profumata, o quella arricchita dalla croccantezza pistacchi, è deliziosa sia gustata da sola, sul pane o altri prodotti da forno, che come ingrediente per numerose ricette, da quelle più classiche della tradizione a quelle più innovative

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Vino e mortadella, quale accostare? Esiste un ventaglio di opzioni? Dal classicissimo Lambrusco allo Champagne, certamente le bollicine sgrassano il palato e lo preparano al meglio per ogni nuovo assaggio del salume rosa piÚ famoso al mondo (photo Š Massimiliano Rella).

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Tortellini in brodo con Lambrusco di Sorbara Vecchia Modena Premium Mention Honorable Cleto Chiarli Prevista nella ricetta della tradizione, la mortadella nei tortellini esprime al meglio quella versatilità e intensità di gusto che le ha permesso di entrare a far parte di tante ricette ed interpretazioni. Qui la troviamo in abbinamento con il Parmigiano Reggiano e la carne di maiale, avvolta della sottile sfoglia della abili rezdore emiliane, affogata nel brodo di carne: sua maestà il tortellino. L’abbinamento con il vino va diretto verso la tradizione: è il Lambrusco il vino adatto, grazie alla sua corrispondenza di intensità di gusto e alla fresca bolla che sgrassa il palato. La scelta è andata sul Vecchia Modena di CHIARLI, prezioso di note fruttate tipiche, rose in fiore ed erbe di campo, ben calibrata sapidità e freschezza, sgrassante la schiuma, grande armonia e tipicità, servire fresco, calice perfetto con tutta la cucina emiliana, si presta splendidamente anche ad abbinamenti trasversali, da provare con la cucina thai e giapponese.

Cleto Chiarli Via Belvedere 4 41014 Castelvetro di Modena (MO) Telefono: 059 3163311 E-mail: italia@chiarli.it Web: www.chiarli.it

Polpette di carne al sugo con Chianti Classico DOCG Gran Selezione Colledilà 2015 Ricasoli Un piatto della cucina povera, nato per riciclare gli avanzi di carne, che nel tempo ha acquisito un posto d’onore sulle tavole di famiglie e ristoranti, grazie alle tante versioni, sempre gustosissime. In questa ricetta, oltre al macinato di maiale e/o di manzo (magari un avanzo del bollito della domenica), suggeriamo di aggiungere una bella mangiata di formaggio grattugiato e abbondante mortadella tritata. Le polpette andranno poi impanate nell’uovo e nel pangrattato e cotte nella salsa di pomodoro, a fuoco lento. Un piatto povero accompagnato da un nobilissimo calice di Chianti, prodotto da una delle realtà più antiche ed importanti del panorama vinicolo italiano e non solo, la famiglia RICASOLI. Un calice di grande tradizione, equilibrato e fresco, adatto alle imponenti e succulenti bistecche alla fiorentina, così come a piatti di umidi e stracotti, sarà perfetto con le polpette al sugo.

Barone Ricasoli Spa Loc. Madonna a Brolio 53013 Gaiole di Chianti (SI) Telefono: 0577 7301 E-mail: barone@ricasoli.it Web: ricasoli.com

Valigini di verza con Lambrusco Emilia Igt Caveriol Ros Ferretti Vini In inverno, quando le verze sono croccanti e piene di sapore, i piatti che le vedono protagoniste sono numerosi. Questi gustosi involtini, ripieni di carne e cotti nella salsa di pomodoro, ne sono un esempio. Diverse le ricette, che utilizzano carne, di maiale, di manzo o di pollo, salsiccia, prosciutto crudo e Parmigiano Reggiano, e prevedono quasi sempre la mortadella. Gli involtini possono anche essere cotti in bianco, ma la tradizione li vuole in umido nella salsa di pomodoro, con soffritto di verdure e odori. Un piatto di grande soddisfazione, ricco e saporito, che richiede un vino fresco e sgrassante. La scelta è andata su un calice della provincia di Reggio Emilia, dove i valigini sono di casa, il Lambrusco Caveriol Ros, prodotto dalle sorelle ELISA e DENISE FERRETTI, con l’aiuto del papà SANTE, secondo i dettami dell’agricoltura biologica. Copioso di note davvero linde e tipiche di frutta scura, soprattutto more, è bevibilissimo, fresco e armonico, perfetto con i piatti della tradizione locale.

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Ferretti Vini Via Giacomo Matteotti 56 42040 Campegine RE Telefono: 0522 676092 E-mail: info@ferrettivini.it Web: www.ferrettivini.it

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Pasta Reale con Sangiovese Superiore Smembar Galassi Maria

Galassi Maria Via Casetta 688 47522 Paderno di Cesena (FC) Telefono: 338 7230288 E-mail: info@galassimaria.it Web: www.galassimaria.it

Un piatto fumante di pasta reale, detta anche zuppa imperiale, scalda il corpo e il cuore. Antica ricetta dell’Emilia del palato, prevede un copioso utilizzo di Parmigiano Reggiano, accompagnato da uova, noce moscata, farina e mortadella. Gli scintillanti e saporitissimi dorati cubetti di pasta reale andranno cotti in ottimo brodo di gallina e serviti nelle fredde e nebbiose sere invernali. Ad accompagnarlo abbiamo scelto un calice di Sangiovese della cantina GALASSI MARIA della collina cesenate, di impronta biologica. Si tratta del Sangiovese Superiore Smembar, floreale e speziato con note ammandorlate e dalla bella spalla acida, non banale e dalla grande beva. Adatto ad accompagnare fumanti piatti di tagliatelle romagnole al ragù e secondi di carne, anche elaborati, si presta perfettamente al matrimonio con la pasta reale, un connubio elegante e non scontato, che non deluderà i palati più esigenti.

Uovo pochè con crema di patate, asparagi e Mortadella Bologna Igp con Garganega Veneto Igt Libello Menti Vini

Menti Vini Contrada Selva 2 36054 Montebello Vicentino (VI) Telefono: 0444 440117 E-mail: info@mentivini.it Web: www.mentivini.it

Ricetta dello chef DARIO BARUZZI dell’Insolito Ristorante di Russi (RA), prevede l’utilizzo e la cottura della mortadella, che andrà precedentemente immersa in acqua e ghiaccio per almeno 2 ore, poi le fette vanno asciugate e cotte in forno per 90 minuti a 110 gradi. Alla fine, sarà croccantissima e profumata e verrà accompagnata dall’uovo, cotto in aceto bianco, con patate, porri e asparagi. Un piatto creativo e moderno, decisamente sfizioso e di gran gusto, che abbiamo accompagnato ad un calice di Garganega della CANTINA MENTI. Uve Garganega in purezza per questo calice brillante dalle note esotiche ed equilibrate, agrumi e tarassaco, ben intenso e lungo, assolutamente armonico, ottima sorsata, piena. Un vino che si adatta splendidamente ad accompagnare aperitivi, fritti di pesce e finger food, da servire ben freddo. Ottimo con la mortadella, in questa moderna ricetta, ma non solo.

Pizza fiordilatte, crema di pistacchi e mortadella con Lambrusco Rosé di Modena Spumante DOC Metodo Classico Cantina della Volta

Cantina della Volta Via per Modena 82 41030 Bomporto (MO) Telefono: 059 7473312 E-mail: info@cantinadellavolta.com Web: www.cantinadellavolta.com

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Se uno dei piatti più amati della cucina italiana è la pizza, non poteva mancare in questa carrellata una versione con la mortadella, salume altrettanto amato. La ricetta è quella della pizzeria Starita con fiordilatte e crema di pistacchi, morbida, rotonda e dal gusto pieno. Su questa prelibatezza la scelta del vino in abbinamento è andata sul Lambrusco Rosé di Modena Spumante Doc Metodo Classico 2014 di CANTINA DELLA VOLTA, uve di Lambrusco di Sorbara in purezza, selezionate attentamente e raccolte a mano in cassette da massimo 17 kg. Il calice è di un bel rosa tenue, il perlage fine e vellutato, la bocca rotonda, fresca, ben bilanciata nella lunghezza. Perfetto come aperitivo, adattissimo anche al tutto pasto, si abbina con grande facilità ai salumi e in particolare alla mortadella, con questa squisita pizza riuscirà a sgrassare il palato e a sostenere fragranza e intensità.

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PANE

Demurtas, i pionieri del Pistoccu Ăˆ un’affascinante storia di ambizione e sacrificio quella della famiglia Demurtas di Villagrande Strisaili, paesino di 3.500 anime nel cuore dell’Ogliastra. Intuizione imprenditoriale e grande propensione al lavoro che hanno portato Alfredo Demurtas e sua moglie Elvira dal mondo della pastorizia a quello della produzione semindustriale di pane tipico sardo di Sebastiano Corona 120

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on lo sapeva fare il pane ALFREDO DEMURTAS quando, nel 1953, decise di abbandonare la vita in campagna per avviare un’impresa. Sono stati i due panettieri che collaboravano con lui — in un periodo in cui nei piccoli paesini dell’interno dell’isola il pane si faceva rigorosamente in casa — a insegnargli il mestiere. E, dopo averlo imparato, non solo ci si dedicò anima e corpo, ma spesso, dopo aver lavorato tutta la notte, non avendo ancora un furgone, andava a piedi a fare le consegne. Non pago, a fine mattinata, partiva con un camion a noleggio alla volta della Trexenta, a comprare grano e mangimi, di cui aveva la rivendita. In più Demurtas si occupava di tutto il resto: gestiva rapporti, accoglieva clienti, faceva di conto, ampliava gli orizzonti di quella che all’epoca era ancora una piccola realtà produttiva. Non fu facile, ma nemmeno impossibile. Demurtas era uomo dalle grandi capacità, che osservava con curiosità gli altri operatori, per imparare. Non voleva diventare il migliore, ma ci teneva a migliorarsi sempre. Con questo spirito ha affrontato ogni fase di un percorso lavorativo ed imprenditoriale di oltre sessant’anni che tuttora i figli e la moglie portano avanti con entusiasmo.

Sino al 1972 era il pane fresco il core business dell’azienda. Demurtas produceva soprattutto pane di consumo quotidiano, pane di patate e S’Angule, una pasta di semola tipica del comune ogliastrino soggetta ad una lunga e particolare lavorazione. Furono poi l’incontro e il matrimonio con Elvira che aprirono una nuova fase per l’impresa. Sfidando qualunque regola di mercato dell’epoca, sua moglie volle infatti far partire una linea produttiva parallela a quella già presente in azienda: il Pistoccu. Questo pane tipico locale, immancabile nelle abitazioni della zona e in particolare in quelle dei pastori, era prodotto costantemente dalle massaie per autoconsumo e acquistarlo era considerato, al tempo, cosa disdicevole. Produrlo per la vendita era quindi un azzardo e decidere di farlo in maniera professionale e costante una sfida vera e propria, vinta e a pieno titolo. In quel periodo, infatti, nelle cittadine della zona, come Tortolì e Lanusei, comuni in via di espansione che pullulavano di attività commerciali e di servizi, erano sempre più presenti famiglie che, non gestendo attività legate alle campagne, non producevano il pane in casa. Fu così che i Demurtas iniziarono a produrre per un mercato diverso da quello paesano, rivolgendosi, anche

geograficamente, ad un ambito nuovo e differente, facendo da apripista nella vendita di una specialità tipica che era appannaggio delle massaie e nella quale invece oggi sono leader e presenti sia in negozi specializzati sia nella Grande Distribuzione. Non passò molto tempo e il Pistoccu — realizzato di giorno, al contrario del pane fresco che andava in cottura di notte — richiese l’allestimento di un locale esclusivo, dove si operava completamente a mano con l’ausilio di una decina di collaboratori. L’attività si espanse e divenne negli anni straordinariamente impegnativa per tutta la famiglia e, sotto certi aspetti, addirittura alienante. Lavorazione notturna del pane fresco, lavorazione diurna del Pistoccu, punto vendita con l’offerta di altri prodotti alimentari: non c’era un momento della giornata in cui i Demurtas si potessero considerare liberi dal lavoro. «Già quando eravamo bambini le nostre vacanze dalla scuola si svolgevano dentro il panificio. E se qualche amichetto ci faceva visita, veniva anche lui fagocitato dalla macchina produttiva. Siamo cresciuti tra gli sfarinati» racconta ALESSIA DEMURTAS, socia con il fratello Filippo e il marito Giancarlo (anche lui Demurtas!) dell’impresa che gestisce panificio e negozio.

Dai Demurtas è il pane tradizionale che la fa da padrone ma è ragguardevole anche la produzione di dolci, quelli tipici sardi in testa. Negli ultimi anni è stata introdotta la linea dei panettoni, ma ci sono anche specialità della zona prodotte per ricorrenze particolari., come i pani cerimoniali

Alfredo Demurtas (photo © Alessia Demurtas).

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È una storia di impresa di più di sessant’anni dunque quella dei Demurtas, che si intreccia con le vicende di una famiglia che, oltre a non risparmiarsi nel lavoro, ha puntato sempre all’eccellenza. Vincitori per due edizioni di seguito del Sardinia Food Award nella panificazione, i Demurtas sono da tempo certificati UNI EN ISO 9001, riuscendo con successo ad applicare criteri gestionali moderni ad una struttura fortemente concentrata sulle produzioni tipiche, in un connubio eccellente tra tradizione e innovazione. Il Pistoccu, per esempio, è realizzato interamente a macchina, con un sistema che garantisce igiene e sicurezza assoluta del prodotto e, nel contempo, un’elevata qualità e un inconfondibile gusto. Il pane tradizionale la fa da padrone, ma è ragguardevole anche la produzione di dolci, quelli tipici sardi in testa. Negli ultimi anni è stata introdotta la linea dei panettoni, gran parte della quale varca il Tirreno, ma ci sono anche specialità della zona che vengono qui prodotte per ricorrenze particolari. I pani cerimoniali per esempio, tanto belli quanto gustosi, sono utilizzati durante la messa, al momento dell’offertorio, in occasione di sacramenti o feste religiose. La Paniscedda, un dolce sconosciuto anche ai più in Sardegna, è realizzato con una miscela di prodotti della montagna: noci, mandorle, vin cotto, uvetta, miele e farina, ha una forma tondeggiante e un grosso foro in mezzo. Viene guarnita con una glassa bianchissima e decori vari di colori tenui o argento. Sembra davvero un peccato mangiarla! Si tratta di una specialità ottima da gustare e ricca di significati simbolici. Dolce dal buon auspicio, la Paniscedda nasce per la festa di Sant’Antonio, a gennaio. Si porta in chiesa dove viene benedetta, per essere poi regalata, offerta, distribuita e consumata in compagnia. Non prima di aver chiesto una grazia al santo. I Demurtas ne sono produttori da decenni e da sempre riescono nell’intento di proporre una specialità pregiatissima, rispettandone il valore simbolico e religioso, così come accade per molti altri prodotti che fanno parte del catalogo aziendale. La tradizione qui è un diktat, ma sempre con lo sguardo rivolto al futuro. Sebastiano Corona

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Pane Pistoccu Il patrimonio gastronomico sardo annovera centinaia di tipologie di pane, una più pregiata e gustosa dell’altra e con peculiarità straordinariamente diverse tra loro. Le specialità biscottate, cioè quelle a doppia cottura, sono tra le più caratteristiche. Nate per un consumo a lunghissimo termine, erano particolarmente utili quando i pastori stavano fuori casa per alcuni mesi e avevano necessità di provviste che durassero nel tempo. Oggi queste tipologie di pane sono comunque particolarmente preziose in cucina, perché fortemente versatili. Possono essere impiegate in piatti particolari o consumate tal quali. Il più noto è certamente il pane Carasau, tipico del Nuorese, la cui produzione è ormai diffusa in tutta l’isola e non solo. C’è però un’altra specialità che con il Carasau ha in comune parte della preparazione e la fase della doppia cottura, ma che è meno nota: è il pane Pistoccu, che si presenta a sfoglie circolari o quadrate, ma ha uno spessore maggiore e, proprio perché più corposo, consente il consumo dopo essere stato leggermente bagnato nella parte ruvida. Questo pregiatissimo pane, proposto con o senza patate e anche nella versione integrale, è tipico dell’Ogliastra e subisce un processo di lavorazione lungo e complesso. Non è solo soggetto a doppia lievitazione — con tutti i benefici che ne derivano in termini di digeribilità — ma viene anche cotto due volte e alla fine risulta poverissimo di umidità. Il Pistoccu ha una lavorazione particolarmente affascinante a cui vale la pena assistere se possibile. Una volta pronto l’impasto, infatti, viene lavorato in sfoglie sottili rettangolari o circolari sovrapposte. Il loro spessore è differente a seconda della tradizione del comune in cui viene prodotto e a seconda delle preferenze del produttore. Dopo qualche secondo nel forno, la sfoglia si gonfia diventando come una palla e a quel punto è pronta per essere estratta. Può essere consumata così (e nel caso prende il nome di pane Modde) oppure essere tagliata longitudinalmente, perché le due sfoglie possano essere separate e nuovamente infornate. Uscirà un prodotto croccantissimo, dal colore bianco sino all’ambrato e con una parte ruvida e una liscia. Il consumo può avvenire nella versione croccante oppure a seguito di un inumidimento con acqua che la rende morbida ed evita il rischio di rotture in piccoli pezzi.Accompagna prodotti locali come formaggi, salumi e carni, ma è ottima anche come base per degustare creme e marmellate, ed è ancor più indicata nelle zuppe e nelle minestre al posto della pasta (photo © Novel Studio di Natali Remo).

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BEVANDE Sapori e profumi dei masi del Tirolo

Schnaps, la frutta nel bicchiere di Riccardo Lagorio

“S

pinatspätzle”, “Speckknödl mit Sauerkraut”, “Schlipfkrapfen” e “Geselchtes”: non sono scioglilingua ma nomi di tipici piatti della cucina tirolese. Un autorevole esempio dove trovarli è il ristorante Sigwart’s di Brixlegg, al quale è stato dato recentemente ampio riscontro sulla rivista EUROCARNI (LAGORIO R., Sigwart: l’eleganza del bosco tra i fornelli, in EUROCARNI n. 12/2018, pag. 114). Tuttavia, sono sempre più numerosi i ristoranti e le trattorie tirolesi che offrono il menu anche in lingua italiana. La traduzione, relativamente semplice per i piatti internazionali, risulta spesso alquanto difficile per i piatti locali che, a volte, richiedono una traslitterazione o una

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interpretazione della portata. È il caso dello Schnaps, la bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione e successiva distillazione della frutta. Appartengono a questa famiglia le Obstler (Obst in tedesco è “frutta”), ma la confusione è dietro l’angolo poiché anche spiriti neutri aromatizzati con infusi di bacche fresche o erbe vengono sommariamente definiti Schnaps. Sono puramente intuitivi il valore e la cura necessari per ottenere l’uno e l’altro. L’Alpbachtal si distingue nel panorama tirolese e, più in generale, di lingua tedesca, per avere investito molto nella promozione della proposta gastronomica, anche sulla scia della presenza di alcuni autorevoli produttori di Schnaps. Come KONRAD KIRCHMAIR, pittoresco

personaggio che gestisce un maso del Seicento a 800 metri di altitudine, Hechahof (www.speckstueberl.at). «Stiamo sempre più trascurando l’immenso scrigno di sapere celato nella natura, che continua però ad essere a nostra disposizione. In particolare la ricerca delle erbe selvatiche, e negli infusi che se ne ottengono, c’è la soluzione a tanti dei nostri malanni» racconta. Kirchmair passa veloce dal piccolo affumicatoio per lo speck, che serve a coloro che passeggiano lungo i sentieri che portano a Brunnerberg, al belvedere fuori dal maso e allo spaccio di distillati e liquori. Possiede un numero imprecisato di meli disposti al limitare dei sentieri o alle pendici delle colline. Sono almeno 15 le varietà di mele con le quali pro-

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A sinistra: Konrad Kirchmair nel suo maso a Brixlegg. Oltre a quelli con la frutta, Kirchmair produce uno Schnaps con l’imperatoria, erba dalle proprietà rinvigorenti. A destra: Günter Kammerlander nella valle Alpbachtal coltiva di persona la frutta che poi utilizza per i suoi premiati distillati. duce Schnaps. «Quando non si riesce a raccogliere separatamente le mele o la quantità di un tipo non è sufficiente per produrre uno Schnaps di quella varietà, la aggiungiamo alle pere o ad altra frutta. Si ottiene così un distillato di frutta in senso lato, l’Obstler», spiega. Tuttavia, il suo grande amore è l’imperatoria (Peucedanum ostruthium), un’erba spontanea considerata officinale, nota per le sue proprietà toniche. Indicando una minuscola ampolla Kirchmair assicura: «Ciò che la distingue è la sua fragranza aromatica, ma per produrre lo Schnaps si usa il rizoma dal quale, una volta fatto a pezzi, lasciato fermentare e distillato, si ottiene un digestivo rinvigorente dal sapore molto caratteristico». Uno squisito digestivo viene inoltre prodotto con il pino cirmolo. La raccolta avviene tra fine giugno e inizio luglio: è assai faticosa poiché le pigne possono essere tolte dall’albero solo a mano e in determinate aree, trattandosi di una pianta sotto vincolo ambientale. Le pigne si tagliano in fette larghe da 3 a 5 mm e vengono messe a macerare in alcol per 6 settimane in un contenitore di vetro. Scosso di tanto in tanto, il contenuto viene filtrato e vi si aggiunge del miele per attenuarne il sapore acre. Pare sia un toccasana per lo stomaco. Non distante dal maso Hechahof, GÜNTER KAMMERLANDER di Reith nella valle

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Alpbachtal (www.pinzgerhof.at) coltiva di persona la frutta che poi utilizza per i suoi premiati distillati: mele, pere, albicocche, susine, ciliegie e sorbo. La sua azienda, il maso Pinzgerhof, è titolare del più antico diritto di distillazione di tutta l’Austria, che fu rilasciato direttamente dall’imperatrice Maria Teresa. «Mia suocera ha sempre distillato e io ho iniziato nel 2005. Poi, nel 2011, ho ottenuto il diploma di sommelier dei distillati. In questo modo riesco ad individuare meglio quali sapori e profumi potranno sprigionarsi nella bottiglia» dichiara. Dall’alambicco in rame costruito in proprio escono Schnaps che hanno una marcia in più. Quello del sorbo dell’uccellatore si ottiene dopo il ciclo fermentativo e una doppia distillazione con una successivo maturazione di almeno due anni in piccole botticelle. «La raccolta di questi frutti selvatici di colore oro rosso avviene a mano, di solito dopo il primo gelo, in modo che l’acido sorbico dei frutti, che è amaro e acre, si neutralizzi. Il procedimento di produzione è dispendioso e la resa risulta assai scarsa: per ottenere 2 litri circa di distillato servono 100 kg di mosto». Attività che si ripercuotono sul prezzo: 120,00 €/l. Il profumo e il sapore del distillato sono un’indimenticabile e composita combinazione di dolce-fruttato accompagnato

da una fine nota amara che ricorda il profumo della terra e del tabacco. Lo Schnaps di prugnolo selvatico sorprende per il suo aroma di marzapane, che si percepisce anche tra le labbra. Alle proprietà depurative, toniche e digestive del prugnolo selvatico si sommano le caratteristiche organolettiche del distillato, piacevolmente fruttato e secco. Le ciliegie e le amarene vengono invece lavate, chiuse in appositi recipienti per 3 settimane a 22 gradi e parzialmente separate dai noccioli per ottenere il giusto grado di retrogusto di mandorle e spezie. Dai 150 meli intorno al maso-pensione i frutti vengono raccolti separatamente in base al livello di maturazione, indice di puntiglio che ha come obiettivo una produzione pregiata. «I distillatori di Schnaps tirolesi vengono sottoposti ogni anno a rigorosi esami da una giuria internazionale. Solo i migliori sono premiati con il Sigillo di qualità tirolese e possono imbottigliare le partite di Schnaps in una particolare bottiglia, che contiene il distillato prodotto con frutta tirolese maturata al sole. Da alcuni anni noi abbiamo questo privilegio, che chiamiamo Signum» dichiara. Il naso e il palato, sopraffatti dalla bontà, confermano. Di grande livello anche il gin, dalle piacevoli note di fieno e agrumi. Riccardo Lagorio

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L’impresa di Andrea Bonalberti e Andrea Concina nella provincia di Belluno

Sidro Vittoria, metodo classico da tutto pasto made in Cadore di Gian Omar Bison 126

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l sidro, la sua cultura ma, soprattutto, il recupero e l’utilizzo delle mele autoctone delle montagne cadorine in provincia di Belluno sono una missione culturale, storica, antropologica, prima ancora che essere un impresa economica avviata da ANDREA BONALBERTI e ANDREA CONCINA quattro anni fa in quel di Vigo di Cadore. Ottenere come loro uno “spumante di mele” metodo classico, tanto curioso sotto il profilo produttivo, quanto originale sotto quello organolettico, merita attenzione. In Italia interessa un consumo di ultranicchia, apparentemente poco competitivo

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in un segmento di mercato composto da alcolici sovrapponibili al vino. Ma agli occhi, al naso e in bocca parliamo di un giallo dorato, frizzante, perlage medio, le cui caratteristiche sensoriali si giocano su profumi fruttati come la mela verde e gli agrumi, qualche accenno vegetale e di erbe aromatiche e su un sapore dal forte impatto acidico, pronunciato ma non eccessivo, parziale mineralità e soprattutto tannico. Il tannino si avverte, astringe, e questa peculiarità sommata alle altre amplia inesorabilmente il range di possibile consumo e abbinamento per contrasto col

In questa pagina: il sidro può essere ottenuto a partire da pressoché qualunque varietà di mele e pere; tuttavia, proprio come avviene per il vino, i migliori risultati si ottengono quando viene prodotto con alcune varietà specifiche di mele e pere, quelle a maggior contenuto di acidità e tannino che rendono questa bevanda una valida alternativa a birra e vino.

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In alto: le bottiglie di Sidro Vittoria. Il sidro è una bevanda antica, la cui diffusione è ben documentata già dal nono secolo dopo Cristo. In ambito europeo sono quattro le aree geografiche che tradizionalmente lo producono: Regno Unito (primo Paese produttore e consumatore al mondo), Francia, Spagna e l’area tedesca e austriaca. In basso: l’impianto del frutteto nel comune di Vigo è sviluppato con logica commerciale ma su precisi criteri di progettazione ecosostenibili con la creazione di una coltura caratterizzata da bassi consumi energetici e idrici. Il frutteto è infatti disegnato secondo i principi della permacultura, con una precisa alternanza di cultivar e con la realizzazione di associazioni di piante e animali che ne favoriscano la crescita, facilitandone la gestione e mitigando anche gli eventuali fattori ambientali avversi.

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cibo, del prodotto: certamente da aperitivo, insaccati, speck e prosciutto crudo, formaggi anche stagionati, paste asciutte condite in maniera ricca e sugosa, carni e pesci in umido e cibi speziati in generale. Titolo alcolometrico tra gli 8 e i 9 gradi, residuo zuccherino al consumo sui 13/14 grammi litro, grossomodo come uno spumante extra dry. Bottiglia champagnotta da 0,75 l, con tappo a fungo e capsula standard. Ma il progetto che prende il nome di Sidro Vittoria, sottolineano Andrea e Andrea, nasce principalmente in campo e dopo in sidreria. «Qui abbiamo impiantato due frutteti, oltre a vecchi meleti presi in affitto, entrambi produttivi, per quanto quello più vicino al paese è piccolino ed ha uno scopo prevalentemente dimostrativo e didattico. Il grosso lo abbiamo accorpato sotto la montagna, conoscendo all’epoca dell’acquisto il primo dramma delle imprese agricole montane, la ricongiunzione terriera. Parliamo di fazzoletti di terra da 600 m2 con ventun proprietari e frazionamenti incredibili. Ne siamo venuti a capo dedicando tanto tempo e tanta pazienza arrivando a disporre, ora come ora, di più di un ettaro complessivo che qui è tantissimo. In questo momento abbiamo circa seicento alberi produttivi di varietà tipiche d’Oltremanica, ma ne stanno arrivando altri dall’Inghilterra. Sono tutte mele e pere da sidro non da tavola. Abbiamo alcune piante di varietà autoctone che abbiamo scelto sulla base di specifici studi dell’azienda Veneto Agricoltura sulle antiche varietà del Veneto come la Calamana trevigiana. Vedremo un po’ come va. Ma la stragrande maggioranza sono meli e peri inglesi specifici per sidrificare. Sono frutti aspri, giusti di tannino, appropriati per la trasformazione». Una vocazione per la sostenibilità ambientale delle produzioni e una vocazione alla permacultura cullate con anni di studio e ricerche approfondite. «Abbiamo creato una sorta di frutteto che si autogestisce — puntualizzano — utilizzando cultivar diverse consociate a piante specifiche. Ogni fila, che ha un sesto di impianto piuttosto largo, replica una sequenza ordinata: melo, pero ed azoto fissatore di vario tipo come l’ontano nero che serve per evitare l’utilizzo di fertilizzanti di sintesi.

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Il progetto Sidro Vittoria è nato dalla passione e dalla ricerca di Andrea Bonalberti e Andrea Concina. Mira a recuperare la migliore tradizione enogastronomica italiana combinando varietà di mele storiche locali, tradizionalmente adatte alla produzione di sidro, con varietà internazionali che ne assicurano un bilanciamento ideale Andrea Bonalberti e Andrea Concina. Poi sottochioma associati con bulbi di narciso, che sono fortemente tossici, e allontanano le arvicole, o con ginepro, ciliegio selvatico e con tutta una serie di alberi che in teoria dovrebbero essere i buoni compagni di queste piante, della

loro salute e capacità di difendersi senza bisogno di additivi chimici. Pensiamo inoltre che come clima questo, con inverni rigidi, sia un territorio vocato. Il melo ha bisogno di sbalzi termici importanti e il freddo aiuta

anche a combattere i parassiti. Qui la cimice asiatica non è mai arrivata. In definitiva parliamo di zero trattamenti anche perché riteniamo che parlare di terroir per poi trasformare il terreno in un substrato inerte, caricandolo poi di

Il sidro nasce dalla fermentazione del succo di mela. In USA e Canada il sidro ha diversi nomi a seconda della gradazione alcolica, che varia dal 2 all’8%: apple juice, hard cider e apple wine, un sidro a cui vengono aggiunti zuccheri o altra frutta per una seconda fermentazione che ne aumenta di molto la gradazione alcolica. Il tipo di mela utilizzata e il processo di lavorazione più o meno lungo danno origine a sidri con caratteristiche diverse. Il sapore va dal dry allo sweet (secco o dolce), il colore varia dal giallo chiaro, all’arancio fino al bronzo e può essere torbido e ricco di sedimenti o chiaro e trasparente, come il white cider, un sidro quasi incolore ma con tasso alcolico abbastanza alto. Le prime notizie di una bevanda alcolica a base di mele fermate arrivano però dall’Egitto, prima dell’anno zero. Anche nella letteratura bizantina e greca si trovano riferimenti a questa bevanda, molto apprezzata e ritenuta un bene prezioso. In Italia fu Giulio Cesare a portare la cultura del sidro dalle sue campagne bretoni e la bevanda presto conquistò l’aristocrazia romana. Se furono i Celti i primi a produrre e trasmettere l’uso di questa bevanda, soprattutto per fini curativi, gli Arabi portarono una serie di migliorie agricole nelle coltivazione delle mele e ne promossero l’uso ovunque. Le loro tecniche di coltivazione arrivarono anche in Spagna, nelle Asturie, dove il sidro ebbe una grande crescita di produzione e consumo intorno al XII, XIII e XVIII secolo. Proprio qui sono stati rinvenuti documenti e libri contabili che riportavano di scambi della bevanda. Culla del sidro in Europa fu la Francia e in particolar modo la Normandia dove la diffusione del sidro risale al Medioevo, quando era considerato un bene raro e di lusso, riservato ai ricchi. Nel 1700 il sidro ebbe un enorme incremento e in Bretagna si diffusero le sidrerie. Il prezzo economico delle mele rispetto ai cereali per produrre birra e la difficoltà nel reperire vino ne decretano il successo. È l’Herefordshire la zona della Gran Bretagna dove il sidro ebbe maggior diffusione: venne introdotto intorno all’anno 1000 d.C. da Guglielmo il Conquistatore. E conquistò così tanto la popolazione che, intorno al 1200, spesso veniva preferito all’acqua, perché considerato più puro, per battezzare i bambini. Negli ultimi secoli il sidro si è diffuso in tutto il mondo e sono cresciute le aree di produzione, così come i consumatori. Lo stato che ne produce in maggior quantità e dove anche il consumo è il più alto al mondo resta la Gran Bretagna, dove sta quasi eguagliando il consumo della birra. A livello etimologico, il termine sidro nasce nella lingua d’oil attorno al 11301140. Precedentemente veniva chiamato auppegard, épégard, yébleron, sistr. I marinai dei paesi baschi lo chiamavano sagarnoa o sagardoa “vino di mela”. In Grecia era conosciuto con i nomi semitici di σικερίτης, sikerítēs, o σίκερα, síkera, dall’ebraico ‫רכש‬, šēkār. In latino diventa sicĕra, termine da cui deriva la parola moderna sidro (fonte: sidroandcider.it).

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Il progetto Sidro Vittoria si basa su tre linee complementari: l’impianto nel comune di Vigo di un frutteto di cultivar selezionate specificamente per le loro caratteristiche organolettiche; la selezione e l’innesto di marze da piante antiche coltivate nel territorio per la realizzazione di nuove piante; il recupero e il rilancio delle produzioni fruttifere da antiche cultivar con finalità produttive. fitofarmaci e fertilizzanti industriali di sintesi, non abbia senso». Entrambi i soci fanno un altro lavoro, «che ci mantiene e ci permette di finanziare tutto il progetto che sta prendendo comunque sempre più spazio. Diciamo che oramai siamo al 50%». Non stiamo comunque parlando di hobby essendo sempre stato un progetto imprenditoriale. «Sia io che il mio socio abbiamo vissuto quasi dieci anni in Inghilterra dove il sidro è una bevanda di largo consumo. Gli Inglesi soffrono del fatto che, salvo rare ed illuminate eccezioni, rispetto al XVII secolo, quando il sidro non mancava mai nelle tavole regali e veniva proposto rifermentato in bottiglia, adesso si è ridotto a bevanda quasi banale. Per questo la nostra ricerca ha guardato da subito ai secoli XVII e XVIII. Siamo ritornati indietro recuperando la cultura del sidro cercando di fare sintesi tra mele inglesi difficili da bere per il palato italiano e le mele italiane che mancano sotto il profilo del tannino e dell’acidità ma hanno caratteristiche proprie, distintive». Il salto di qualità è stato fatto due anni fa, quando i soci hanno preso in affitto la vecchia sede di un’occhialeria artigiana adattandola a cantina spaziosa, al momento quanto basta. Il flusso

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è diviso in tre fasi dell’anno: la prima riguarda la vendemmia, da settembre ai primi di novembre. «Quest’anno, tra l’altro, l’abbiamo anticipata di quasi un mese perché ha fatto caldo e le mele erano cariche di zucchero. Portiamo le nostre mele in cantina e, dopo il passaggio nelle vasche di lavaggio, maciniamo il tutto intero così com’è, con una pressa soffice, massimo tre bar, e poi facciamo decantazione e filtrazione grossolana. Usiamo il residuo in parte come compost per il frutteto e in parte la diamo ai cavalli. A questo punto si passa alla prima fermentazione, alla “svinatura”, poi, dopo sette mesi di maturazione, alla rifermentazione in bottiglia con successivo passaggio nei giro pallets per portare i lieviti in punta, congelatore e sboccatura finale con l’aggiunta di liqueur d’expédition quasi sempre sidro base o talvolta con qualche sperimentazione di frutti diversi come il prugnolo». Si conclude con poi tappatura e gabbiettatura. Il prodotto non è microfiltrato e, prima dell’immissione sul mercato, passati i controlli preposti, viene addizionato di solforosa. «Pochissima — sottolineano — sperando nel tempo di arrivare a zero». La resa media di sidro in rapporto

alle mele raccolte è del 60%. L’ultima raccolta ha portato 70 ettolitri per 8.000 bottiglie su 11 tonnellate circa di mele raccolte nei meleti del Cadore. «Nel tempo, con queste dimensioni, potremo arrivare a 20.000 bottiglie». Le pere ancora non vengono sidrificate. «È più difficile. Un giorno avremo come in Inghilterra il sidro di pere e il sidro di mele». Ad oggi, stante l’esiguità dei numeri, il prodotto è utilizzato per campionatura e vendita franco cantina. «Questo ci è servito per avere feedback necessari a capire e tarare il percorso intrapreso. Ora, con 8.000 bottiglie, ci stiamo muovendo per fiere e concorsi specifici. La distribuzione a breve sarà organizzata con alcuni distributori italiani che ci hanno chiesto di entrare a far parte della loro rete. In Italia è un mercato in crescita e il consumatore medio non conosce il prodotto. Lo associano ad un succo di mele dolciastro, che invece non è. Non è un vino, ovviamente, ma se volessimo equipararlo, per semplicità, non sarebbe un prodotto da dessert o da aperitivo in senso stretto. È un metodo classico da tutto pasto. Più invecchieremo sui lieviti e più ci avvicineremo a sentori complessi e simili ai classici crosta di pane, frutta secca e burro fuso. Il problema è che nessuno ha affrontato in maniera ortodossa questo procedimento da tanto tempo. I produttori in Italia sono pochissimi. Noi facciamo dei blend specifici con mele locali e l’unica mela che non coltiviamo qui è la Campanina, tipica del Mantovano, che ha una quantità di tannini altissimi. Abbiamo provato anche l’utilizzo di botti di secondo passaggio per l’affinamento, ma a noi interessa che siano le mele a definire il gusto. Per quanto riguarda i lieviti, oltre a quelli selezionati rispetto gli obiettivi che ci siamo dati, soprattutto rispetto al fatto di alterare il meno possibile il gusto della mela, stiamo anche lavorando su quelli indigeni che le mele hanno naturalmente sulla buccia». Sfida tanto appassionante quanto complicata. Gian Omar Bison Sidro Vittoria SP619 84 32040 Auronzo di Cadore (BL) Telefono: 349 595 0975 Web: www.sidrovittoria.com

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L’Aceto Balsamico di Modena Igp conquista gli USA Il Consorzio di tutela dell’Aceto Balsamico di Modena IGP è stato recentemente protagonista di una serie di iniziative promozionali Oltreoceano. La più importante? Certamente quella che dal 19 al 24 febbraio ha visto il prezioso condimento sotto i riflettori della 18a edizione del Food Network & Cooking Channel South Beach Wine & Food Festival, a Miami, Florida. Considerato uno dei più importanti eventi statunitensi per il settore di vini e distillati, il SOBEWFF ha dunque ospitato per il secondo anno consecutivo le attività del Consorzio di tutela Aceto Balsamico di Modena Igp quale esempio di eccellenza agroalimentare made in Italy, che esporta annualmente oltre il 90% della produzione in circa 120 Paesi di tutto il mondo. In particolare, l’oro nero di Modena si è reso protagonista del Barilla’s Italian Bites on the Beach, nel quale oltre 30 dei più grandi chef americani hanno preparato piatti ispirati alle varie regioni d’Italia con interessanti reinterpretazioni, e degli eventi del Grand Tasting Village di Goya Foods, evento di punta del festival per conoscere nuove tendenze e prodotti nel settore delle bevande. «La presenza del Consorzio a SOBEWFF — ha dichiarato il direttore del Consorzio Federico Desimoni — è stata un’occasione importante di visibilità per l’Aceto Balsamico di Modena Igp e, soprattutto, ci ha dato l’opportunità di testare come e quanto la nostra campagna promozionale negli Stati Uniti per aumentare il livello di riconoscimento delle produzioni a Indicazione Geografica Europea abbia avuto effetto sui consumatori nel principale mercato d’Oltreoceano». Durante la missione in USA un’importante novità si è poi delineata in campo formativo, con la partnership con l’Institute of Culinary Education (ICE), uno degli istituti culinari più grandi al mondo con oltre 14.000 alunni formati negli anni e divenuti poi leader nei settori della ristorazione e dell’ospitalità. «La definizione di questa partnership rappresenta un obiettivo di enorme prestigio per la nostra realtà» ha aggiunto Desimoni. «Collaborare con un’istituzione formativa di tale livello è un privilegio ed un’occasione per continuare ad educare anche la prossima generazione di chef sull’importanza dell’utilizzo di prodotti garantiti dalla protezione dell’Identificazione Geografia europea». La partnership con ICE stabilisce che, al fine di cogliere tutte le proprietà dell’Aceto Balsamico di Modena, gli chef dell’istituto lo incorporino nella ricerca e nello sviluppo di ricette e prevede altresì l’assegnazione a tre studenti di una borsa di studio nonché l’opportunità di recarsi a Modena, luogo di nascita dell’Aceto Balsamico di Modena Igp (fonte: www.consorziobalsamico.it).

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SONO 180 GRAMMI, LASCIO?

They call me a butcher di Giovanni Papalato

“I am an architect, They call me a butcher, I am a pioneer, They call me primitive I am purity, They call me perverted” Manic Street Preachers, Faster, 1994

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uffiano. Ruffiano e ipocrita. Ci sta che uno lo possa pensare di me leggendo questo articolo. Sì, perché dire su questa rivista che ho una sorta di atavica adorazione per i macellai può dare adito a certe considerazioni. Correrò questo rischio. Quando ero monello con il nonno di cui porto il nome, andavo tutti i sabati mattina in centro. Una passeggiata di pochi minuti dal nostro quartiere, che aveva come prima tappa Piazza Grande, poi si andava dall’orologiaio, ogni volta con un orologio diverso da consegnare o da ritirare. Mentre pescavo dal sacchetto di carta che mi era stato regalato al momento del mio arrivo — ma che non potevo aprire prima di un certo orario—, le mentine che di menta non avevano nulla essendo cerchi di zucchero colorato, mio nonno annunciava «Adesa andam dal pchèr» (Ora andiamo dal macellaio). Era il momento in cui dall’italiano con cui si esprimeva al di fuori delle mura domestiche, il babbo della mia mamma passava al dialetto modenese. Entrare in macelleria era un’avventura che mi entusiasmava. I colori, dal bianco al rosa al rosso, la luce, la pulizia, l’uomo col camice dietro al bancone, un sacco di donne. Mio nonno mi dava il Borsalino, si sbottonava la giacca e parlava col titolare della bottega, prima qualche convenevole, poi cosa aveva

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intenzione di prendere. Sì, perché con cosa poi si tornava a casa lo sceglieva il macellaio. Io ero proprio felice, era

il momento che, ovviamente assieme al sacchetto delle mentine, attendevo di più.

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Ora, voi capirete certamente che con questa premessa per me fu un discreto tribolo amare una canzone che, poco meno di 15 anni più tardi, mi entrava tra stomaco e gola e che iniziava così: “(I HATE PURITY, HATE GOODNESS, I DON’T WANT VIRTUE TO EXIST ANYWHERE, I WANT EVERYONE CORRUPT) I AM AN ARCHITECT, THEY CALL ME A BUTCHER, I AM A PIONEER, THEY CALL ME PRIMITIVE, I AM PURITY, THEY CALL ME PERVERTED, HOLDING YOU BUT I ONLY MISS THESE THINGS WHEN THEY LEAVE”. L’accezione negativa con cui veniva utilizzato quel sostantivo mi lasciava interdetto, ma poi avrei capito. Adoravo i testi di M ANIC STREET PREACHERS e The Holy Bible sarebbe diventato uno dei miei dischi preferiti nel giro di pochi ascolti, ma quella frase in Faster, il primo improbabile — almeno a sentire le dichiarazioni della band —, singolo, mi disturbava. Ma andiamo con ordine. Gallesi di Blackwood, i Manic Street Preachers, sarcastica definizione dei poliziotti inglesi e dei loro manganelli nei thatcheriani anni ‘80, hanno alle spalle due album tra Punk, Glam e Decadentismo, con produzioni che laccano e alterano brani che nella maggior parte dei casi avrebbero meritato maggior fortuna. Pubblicano nell’agosto del 1994 un disco che invece viene prodotto da loro stessi e si sente. Il titolo denuncia un paradosso, facendo leva sulla presunta verità assoluta e inconfutabile di un testo sacro e la sua discussione da parte di chi nelle canzoni, al suo interno, voleva proprio denunciare le contraddizioni del potere. Un titolo che, con irriverenza, vuole affermare, dissacrare, sopportare ed esibire come una cicatrice. Ideali e reali quelle di RICHEY JAMES EDWARDS. Autore di gran parte dei testi, responsabile della grafica dei dischi, non il frontman, chitarrista mediocre, era il cuore della band e in questa “Sacra Bibbia” assume il ruolo di icona, trasfigurando. Socialista, dopo un concerto, alla domanda se la band credesse davvero in quello che predicava, si incise con un rasoio 4 REAL sul braccio. Ecco quel they call me a butcher che senso ha.

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E mentre a metà ‘90 il mondo tende le orecchie a Grunge e Brit Pop, i Manics suonano post punk in cui immergono un innato senso della melodia ed una carica che viene dal basso e cresce. La copertina dell’album è uno sguardo spietato sull’Occidente opulento e sulla deriva che più o meno consapevolmente persegue: un corpo gigantesco, opera di JENNY SAVILLE, Strategia: lato nord, fronte, lato sud. I testi, dicevamo. In questa occasione sono del già citato Edwards e del bassista Nicky Wire e infatti ci troviamo al contempo la sfera personale e intima mischiata ad esternazioni politiche. Il tutto sotto forma di un taglia e cuci continuo, concreto e pulsante, quasi vivesse un dissidio interno: diari, citazioni, manifesti e confessioni, frasi campionate da trasmissioni televisive e radiofoniche, film e tutto ciò che in quel momento poteva rappresentare il dibattito politico e sociale filtrato dalla sensibilità di un approccio intimo e privato. JAMES DEAN BRADFIELD, che dei Manics è voce e faccia, deve lottare, stirando e sputando parole, rincorrendo metrica e tempi per rendere tutto organico, e lo fa con una passione commovente. I ritornelli sono come cascate a cui abbandonarsi dopo le strofe. Correnti che trascinano e spingono rendendo tutto un’esperienza estrema e difficile. Il lato A ha un inizio quasi convenzionale, YES è quasi pop, nonostante la ruvidezza e si distrae dall’intensità che invece strutturerà il disco. Tutto il contrario di Ifwhiteamericatoldthetruthforonedayit’sworldwouldfallapart, una rovinosa corsa di tempi dispari e spigoli, cavalcate e rincorse, il tutto a dipingere con realismo estremo il consumismo statunitense. In questo brano ci sono ancora certe scorie di Generation Terrorists, il debutto della band gallese. È con Walking Abortion che entriamo davvero nel disagio di Edwards: la strumentazione ridotta al minimo per evidenziare il testo, in cui al termine del brano si urla Who’s responsible, you fucking are. Non ci sono più scuse, tu che stai ascoltando non puoi più essere un estraneo. She is Suffering è un brano che avvolge, lentamente nel riff e nel tempo della batteria; parla di desiderio e consapevolezza e, come una spirale, sembra non finire mai.

Un basso minimale e inesorabile caratterizza Archive Of Pain, che sottolinea come una certa lezione post punk non sia stata dimenticata. L’immediatezza di un inno, pop ma con un irriverenza indiscutibile è Revol, che gioca con citazionismo e irriverenza. Arrivare al settimo brano e trovare 4st 7lb, che è il peso oltre il quale l’anoressia diventa senza possibilità di ritorno, sapendo del travaglio personale dell’autore, è disturbante nella sua estrema sincerità, chitarre e sussurri, sospiri e batteria militare, rigore e disciplina. Con Mausoleum saliamo su di un tetto a forza di spallate, per prendere spazio e riflettere commossi sulle vittime dell’Olocausto. Ecco quindi quella Faster di cui vi raccontavo all’inizio. Comincia con una citazione di 1984 di ORWELL e si imprime con la semplicità, che solo i grandi brani hanno, di entrare diretti nello stomaco di chi ascolta anche per la prima volta. Un manifesto che parla per contrasti: consapevolezza e autolesionismo, un altro inno senza la volontà di diventarlo, tra accenni di devoluzione e punk. Inganna nel suo incidere solare e pacificato This is Yesterday che esplode in un ritornello bellissimo e impossibile da ignorare ma si realizza nella finzione di chiudere gli occhi e pensare al passato. Die In The Summertime ritrova immediatezza nel riff concitato della strofa come giocando a rimpiattino per poi liberarsi nel ritornello. The Intense Humming Of Evil ha la forza di un racconto nei suoni industriali e nella sezione ritmica minimale e ossessiva, riprendendo il discorso iniziato con Mausoleum. È col brano finale P.C.P che si torna a cantare sotto le mentite spoglie dell’immediatezza di una lucida e consapevole deriva. Richey Edwards scomparirà circa un anno dopo l’uscita di questo album inghiottito dal suo disagio e i Manic Street Preachers non saranno più gli stessi. Questo disco, oscuro, inteso e disperatamente urgente, a me personalmente ha dato e continua a dare tanto. Gli ho perdonato presto quella frase che mi sembrava sbagliata, perché non lo era. Giovanni Papalato

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STORIA E CULTURA

I ricettari della Contessa in uso alla corte dei Montecuccoli Ricciarda Molza, moglie di Galeotto I e nonna di Raimondo, appassionata di cucina, si interessava personalmente di capretti arrosto, cinghiali alla menta e tanti altri piatti tipici di un’età gastronomica ormai passata, ma per noi ricca di fascino e curiosità di Nunzia Manicardi

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he cosa si mangiava alla corte dei Montecuccoli, l’antica e nobile famiglia di feudatari, signori di gran parte dell’Appennino modenese e, in particolare, del Frignano, dove ancora oggi sopravvi-

ve, in località Montecuccolo vicino a Pavullo, il loro bel castello? Possiamo toglierci questa curiosità grazie ad un libro in cui si ritrovano le ricette che una contessa della famiglia Montecuccoli, nel XVI secolo, faceva preparare nella

Il Castello di Montecuccolo e l’annesso borgo medievale sorgono nella località omonima, poco distante dal centro di Pavullo nel Frignano, su un rilievo roccioso posto all’estremità meridionale di una dorsale fittamente boscosa che si incunea profondamente nella valle del fiume Scoltenna-Panaro (photo © www.icastelli.it).

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cucina del suo castello e che ancora attualmente possono così essere riprodotte, portando anche sulle nostre tavole il sapore della tradizione del Frignano medievale e rinascimentale. Tratte da ricettari medievali, rinascimentali e dalla tradizione popolare, sono ricette originali, curiose, capaci ancora oggi di stuzzicare i palati più raffinati. Il volume si intitola I ricettari della Contessa ed è curato da FRANCA ASCARI SCANABISSI per Adelmo Iaccheri Editore in Pavullo. Protagonista è la contessa Ricciarda Molza, che andò in sposa a Galeotto I Montecuccoli, nonno di Raimondo, che fu grande militare e politico del 1600. “Di Ricciarda si racconta che era appassionata di cucina, che s’interessava personalmente alla preparazione di pranzi e banchetti per personaggi famosi, suoi ospiti” racconta la Scanabissi. “La curiosità per la gastronomia di allora è stata alla base di una mia ricerca storica, incentrata sugli antichi ricettari medievali e rinascimentali e sulla tradizione popolare, per riportare alla luce ricette ormai scomparse”. Che cosa, allora, veniva portato in tavola a quei tempi? Sulle tavole dei Montecuccoli venivano serviti cibi semplici, realizzati con prodotti locali, arricchiti da spezie ed aromi. Le ricette illustrate nel libro sono divise in sette parti e vanno da zuppe e paste a piatti a base di carne, uova, castagne (ricordiamo,

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Il savòr è una preparazione tipica emiliano-romagnola a base di mosto d’uva (saba) con aggiunta di frutta. Dal sapore intenso, è ideale accanto a formaggi freschi e stagionati, con la polenta, “ilâ€? gnocco fritto e le crescentine, nei dolci e sulla piadina. ad esempio, l’anatra in salsa di prugne, le quaglie con cavoli, le uova nella cenere calda, i maltagliati di castagne) fino ad arrivare a salse, conserve e, naturalmente, dolci (altri esempi interessanti: la salsa bollente per stinchi di maiale, il “savòr de uvaâ€?, la cotognata, la mostarda, le frittelle di fichi, le torte di ciliegie o di fragole, il biancomangiare‌).

FRANCA ASCARI SCANABISSI I ricettari della Contessa Adelmo Iaccheri Editore, 2011 112 pp. – ₏ 10,00 www.ilfrignanodeimontecuccoli.it

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I ricettari della Contessa è stato presentato in collaborazione col GAL Antico Frignano e Appennino Reggiano, l’Agenzia per lo sviluppo locale integrato (www.galmodenareggio.it) e rientrava in ÂŤun progetto europeo di piĂš ampio respiro, basato sulla figura di Raimondo Montecuccoli e della sua famigliaÂť, come spiegano il presidente del GAL LUCIANO CORREGGI e il direttore GUALTIERO LUTTI. Il progetto in questione prevedeva infatti anche la realizzazione di ÂŤeventi e studi, ricerche e pubblicazioni storico-turistiche e programmi di cooperazione internazionale per valorizzare il territorio e le sue peculiaritĂ , nonchĂŠ la registrazione del marchio La Dispensa dei MontecuccoliÂť. Nunzia Manicardi Nota Franca Ascari Scanabissi è nata a Modena ma vive a Pavullo. Laureata in lettere, è presidente dell’Associazione Volontari Ospedalieri (A.V.O.) e del gruppo storico “Corte dei Montecuccoliâ€?. Ha pubblicato: Madre mia e Lettere di una figlia. Da anni lavora con LILIANA BENATTI SPENNATO, con la quale ha dato alle stampe diverse opere tra cui I mille volti dell’antica cucina montanara, Erboristi per caso‌ salutisti per convinzione, Profumo di pane, Alla riscoperta degli antichi mestieri. Entrambe collaborano alla rivista Il Frignano.

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LIBRI

La ricotta come opera d’arte

La ricotta è un prodotto unico nella sua semplicità. L’aroma e il sapore di questo latticino ci riportano a un mondo di sapori e colori dove c’è spazio per il dolce e il salato, il caldo e il freddo, la carne e il pesce, e dove anche l’occhio, oltre al palato, vuole al sua parte TANO PISANO La ricotta ricotta. Ricette d’artista Polistampa, 2018; 284 pp. – 32,00 €

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li gnocchi gnudi del Casentino, il truscello di Messina, la torta del pastore abruzzese. Sono alcune tra le più gustose ricette a base di ricotta della tradizione mediterranea. Ma leggendo La ricotta ricotta, compendio illustrato firmato dall’artista e chef TANO PISANO, ci accorgiamo che il nostro latticino, spesso servito al naturale o con un po’ di miele o zucchero, è in realtà il protagonista ideale di tanti antipasti, insalate, primi, secondi e dolci. Il testo, che raccoglie oltre 250 ricette, non è un semplice libro di cucina, ma uno scrigno prezioso dove il cibo diventa arte. L’autore, originario di Lentini, in provincia di Siracusa, ha infatti sempre coniugato la tavola a pittura e scultura, fin da quando negli anni Settanta, con già importanti mostre all’attivo, decise di intraprendere la carriera di chef. Iniziando da Copena-

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ghen, ha gestito ristoranti di successo in Provenza e in Catalogna, lavorando con cuochi di tutto il mondo, senza per questo abbandonare una carriera fatta di esposizioni personali e collettive di acquerelli e murales, incisioni, sculture, ceramiche decorate. E sono proprio i suoi dipinti ad accompagnare, assieme a un nutrito corredo fotografico, le ricette del volume, precedute da un’introduzione dello storico ZEFFIRO CIUFFOLETTI, che trattando di ricotta ci riporta indietro al mondo dei pastori e della transumanza. «Nella mia cucina — spiega Tano — la ricotta è sempre stata un ingrediente fondamentale e le ricette che ho raccolto comprendono piatti freddi e cotti. Da qui il titolo del libro». Un testo coloratissimo dove zuppe e frittate, tartine e risotti, pizze e tartare sono scelte privilegiando la facilità di esecuzione e rifuggendo dalle mode come la cucina minimalista, la post nouvelle

cuisine, la cucina fatta con sifoni e altri strumenti poco utilizzati nelle nostre case.

El recuit, recuit, la prima edizione del volume in lingua catalana (2014), è stata insignita al Salone del Libro di Francoforte 2016 del GourmandWorld Cookbook Award.

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Il cibo ideale

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l volume Il cibo ideale — presentato in occasione di Taste Firenze — accende i riflettori su un tema delicato: l’importanza di una sana alimentazione per i malati oncologici. Il libro è parte della tesi di laurea sull’alimentazione nei pazienti in chemioterapia che FRANCESCA PIROZZI, scomparsa a 24 anni per un linfoma, stava scrivendo dal suo letto di ospedale. Il padre Marco ha voluto proseguire il lavoro della figlia pubblicando quelle ricerche universitarie. Il testo si è via via arricchito di spunti e contributi “utili” a tutti nell’approccio quotidiano col cibo grazie ad importanti firme come il PROF. GIORGIO CALABRESE, docente di Dietetica e Nutrizione Umana, il DOTT. LUCA IMPERATORI, dirigente medico U.O.C. Oncologia Medica, e gli chef NADIA SANTINI del ristorante Dal Pescatore, MAURO ULIASSI del ristorante Uliassi, MASSIMILIANO ALAJMO del ristorante Le Calandre, RICCARDO CAMANINI del ristorante Lido 84, PIETRO LEEMANN del ristorante Joia e PAOLO SIMIONI del Forte Village Resort. L’idea è che forse non esiste un “mangiare ideale”, un cibo che nel bene o nel male influisca sul nostro vivere. Tutto può far male e allo stesso tempo bene. Sono la qualità dei prodotti, le modalità di preparazione, la quantità di quello che mangiamo che, uniti al nostro stile di vita ed a dove viviamo,

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possono determinare o meno l’insorgere di malattie. Il cambiamento del modo di mangiare continua a mutare le nostre abitudini, la nostra cucina ed il nostro modo di fare la spesa. Sugli scaffali dei supermercati un prodotto per essere “buono” deve per forza essere senza qualcosa, indirizzando il consumatore verso una totale confusione. La grande industria e la globalizzazione, se da una parte hanno portato un più facile accesso ai prodotti, dall’altra hanno standardizzato palato e scelte. Cosa vuol dire mangiare sano oggi? L’alimentazione è ancora solo nutrimento? Quanto i programmi televisivi stanno alzando il livello di conoscenza sul cibo? Da cosa dipenderà la ristorazione del futuro? Il continuo lavoro di ricerca degli chef aiuta anche a migliorare la qualità delle materie prime? Quale stile alimentare è meglio seguire durante la chemioterapia? Sono alcune delle domande a cui, per accompagnare la tesi di Francesca, sono state date risposte, raccontate esperienze, consigli e ricette. La prefazione è stata curata da ANDREA SINIGAGLIA, direttore generale di Alma – Scuola di Cucina Internazionale di Colorno (PR) e il disegno di copertina è stato realizzato da Vito Nucci. Il ricavato della vendita del libro sta finanziando i ricercatori del Dipartimento di Scienze Biomolecolari dell’Università di Urbino

che hanno identificato e sviluppato una classe di composti caratterizzati dalla capacità d’indurre una spiccata attività biologica nei confronti delle cellule tumorali. >> Link: francescapirozzi.it

FRANCESCA PIROZZI Il cibo ideale Per una sana alimentazione, con i consigli di nutrizionisti e chef stellati ai malati oncologici Francesca Pirozzi Onlus 224 pp. – € 20,00

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Accostare il piatto più popolare e democratico che ci sia al vino, simbolo del lusso e della festa, ma anche a certe sue versioni più rustiche e meno aristocratiche, non è più ormai una novità. Oggi l’abbinamento tra pizza e bolle — che siano quelle nostrane o forestiere, provenienti da terroir più o meno blasonati — è del tutto sdoganato. Ma negli ultimi anni anche la natura stessa dei due protagonisti di questo libro è cambiata sostanzialmente: la pizza si è fatta gourmet, sempre più elaborata; le bollicine, dal canto loro, si sono spesso levate di dosso il mantello della nobiltà. Percorsi all’apparenza opposti, che invece nascondono appassionanti affinità, raccontate da TANIA MAURI e LUCIANA SQUADRILLI, con la collaborazione di ALFONSO ISINELLI, andando oltre il solo abbinamento sensoriale, attraverso 20 ritratti “effervescenti” (non potremmo usare altro termine) di pizzaioli e vignaioli che ruotano intorno a dieci concetti di base che ne accomunano carattere e lavoro.

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24HPP è il nuovo progetto editoriale di Berberè con la direzione editoriale di MARTINA LIVERANI, creatrice e direttrice responsabile di Dispensa. Un lavoro collettivo, che mette insieme autrici e autori, fotografi, artiste e illustratori. Non solo un magazine, ma anche una guida giovane e colorata, in doppia lingua, per scoprire l’anima più contemporanea delle nostre metropoli. Il progetto, a cadenza semestrale, è unico nel suo genere e ha come obiettivo raccontare tutto ciò che ruota attorno alla cultura della pizza, che è in primis connessione sociale, attraverso gli intrecci di relazioni urbane, persone, luoghi, immagini e leggende metropolitane. Insomma, si tratta di un vero e proprio progetto editoriale artistico, oltre che gastronomico, che racconta la cultura delle città nelle sue declinazioni. Pizza sì, sempre! Ma anche design, architettura, fotografia, musica e cinema. Il primo numero è dedicato a Bologna, città natale di Berberè, dalla cultura dinamica, vivace e sovversiva. Il bookmagazine si acquista in ogni pizzeria Berberè.

Curata da LUCA BUREI e ALFONSO ISINELLI, questa è la sesta edizione dell’autorevole guida allo Champagne, vincitrice di vari premi internazionali quali Gourmand International e Terres et Vins de Champagne. All’interno c’è una veste grafica studiata per rendere chiara la lettura, oltre alle schede di più di 130 maison e 400 cuvée ancora più ricche, realizzate con lo stesso appassionato criterio di valutazione: un giudizio corale frutto di una degustazione collettiva, di un confronto vivace, di emozioni condivise. Il linguaggio è vibrante, sincero e accurato. Un viaggio dedicato a tutti gli appassionati e ai professionisti per scoprire e apprezzare i colori, gli aromi e la personalità di queste pregiate bottiglie. Di ciascun produttore viene raccontata la storia e sintetizzato lo stile, nella consapevolezza che la passione, unita alla ricerca e ad un’equilibrata lavorazione, rendono lo Champagne non solo il vino più famoso del mondo, ma anche un’esperienza da vivere appieno.

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