Premiata Salumeria Italiana 4-2016

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Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXVIII N. 4 Luglio-Agosto 2016

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Fior di Cardo Pecorino a Caglio Vegetale i

Dalla rivisitazione di un’antica ricetta regionale nasce il Fior di Cardo, prodotto con caglio vegetale estratto dal fiore di cardo selvatico del genere cynara cardunculus. È un formaggio fresco, dal sapore dolce e dalla crosta sottile di colore giallo paglierino. Si può consumare già a pochi giorni dalla produzione, apprezzando a pieno i profumi, i sentori ed i sapori del latte. Indicato per un’alimentazione vegetariana, è ideale per accompagnare fresche insalate e verdure di stagione.

Te r r a M a d r e Salone del Gusto

2016

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N. 4 Anno XXVIII Luglio-Agosto 2016

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Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Renato Bergonzini – Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni 1732 1st Ave #27220 – New York, NY 10128 Tel. 001 212 956-8566 E-mail: Stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Carlo Cantoni (Milano) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia) Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CS5.5. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CS5.1.

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Dall’Alto Adige. Garantito. Speck Alto Adige IGP: qualità e origine certificate. Ha un gusto delicatamente affumicato, origini genuine e viene prodotto secondo antiche tradizioni locali: è lo Speck dell’Alto Adige, unico e inconfondibile. Per questo merita il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) attribuito dall’Unione Europea. Perché tutti possano riconoscere la sua qualità. Autentica e garantita.

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N. 4

In questo numero: Immagini

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Agenda

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Attualità

Il culatello è uno!

Il food in rete

Social food

14 Elena Benedetti

Amazon spinge con l’alimentare Aziende

Tradizione, qualità e grandi numeri? Si può!

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Elena Benedetti

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Arriva sul mercato la linea “I Leggeri di Palmieri” con solo carni di pollo Gaia Borghi

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Felsineo, cinquant’anni di storia e di… mortadella

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Memento

Ciao Gino!

Marco Credi

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La Qualità

Prosciutto della Dalmazia, nuova stella tra le Igp d’Europa

Riccardo Lagorio

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Anniversari

Venti candeline per i Salumi Piacentini Dop

Silvia Saracino

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Eventi

Negrini: con Bonfatti riscopriamo i salumi rosa

Consumi

Italiani amanti del prosciutto ma non dei maiali

Giovanni Ballarini 42

Analisi del food

Una tavola priva di…

Guido Guidi

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Riccardo Lagorio

50

Turismo enogastronomico Lago d’Iseo: enogastronomia, arte, natura, dopo Christo

Tendenze

Mercati

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Alla scoperta del Varzi

Josette Baverez Blanco 56

L’evoluzione del panino

Silvia Saracino

Dalla ricetta scritta alla cucina registrata

Giovanni Ballarini 60

L’Italia trova all’estero la sua salvezza

Sebastiano Corona 62

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58

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Premiate Salumerie Italiane

Boudin, mocette, salsicce e violini: coi Segor scopriamo i salumi della Val d’Aosta

Riccardo Lagorio

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Nutrizione

Cibo o alimentazione spazzatura?

Giovanni Ballarini

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Fiere

Cibus Tec 2016: si annuncia un’edizione da record

Formaggio

La nuova arte casearia altoatesina 3.0 nasce da patrioti della miglior specie

76 Riccardo Lagorio

King Stilton

Nunzia Manicardi

82

Salvagn e la nascita del formaggio

Raffaele Bertolini

86

Mandrie in quota, inizia la stagione del Bitto Dop

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I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione: ad ogni vino il suo panino

Tecnologie

Salumificio Valpolicella e CSB-System, collaborazione vincente

Storia e cultura Libri

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Laura Franchini

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Sottovuoto, nuovo protagonista dell’industria salumiera

Giovanni Ballarini

Metti una sera a cena con gli antichi Romani

Sebastiano Corona 104

Un libro ancora attuale

Giovanni Ballarini 108

La buona pizza

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In copertina: tagliere estivo con Prosciutto di Parma Dop (photo © Massimiliano Rella).

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IMMAGINI

Si fa presto a dire panino! Ormai sdoganato dalla pausa pranzo mordi e fuggi, il panino è approdato nei menu à la carte dei ristoranti più prestigiosi, dove brilla di luce propria accanto a piatti e proposte complesse. Non solo: stanno rifiorendo in tutta Italia botteghe di generi alimentari dove il panino trova la sua naturale collocazione ma in versione gourmet. Ce ne parla Silvia Saracino a pagina 58, ma se volete abbinare al vostro panino il vino giusto, correte a leggere l’originale degustazione di Laura Franchini a pagina 92 (photo © www.verdi-s.it).

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AGENDA Asiago (VI) Vi segnaliamo Made in Malga, l’evento che dall’8 all’11 settembre ad Asiago trasformerà i negozi, le enoteche, i wine bar, i ristoranti e gli hotel in vetrine dei migliori formaggi di montagna italiani. Made in malga si rivolge a tutti gli amanti del formaggio d’alpeggio. E proprio il formaggio sarà il filo conduttore di un week-end da trascorrere tra le vie di Asiago all’insegna del gusto. Il programma degli eventi verrà diffuso tramite la mappa del circuito Made in Malga che riporterà le tappe dove assaggiare oltre ai formaggi, anche vini, liquori, birre artigianali, salumi, confetture e tanti altri prodotti dell’agricoltura di montagna. www.madeinmalga.it

Torino Dal 22 al 26 settembre saremo tutti a Terra Madre Salone del Gusto a Torino! Nuovo il format e nuova la location che non è più il Lingotto bensì il cuore della città. Moltissime quindi le novità di questa edizione, in cui si celebrano i 20 anni dalla nascita del Salone internazionale del Gusto e i 30 anni di attività di Slow Food in Italia. Il tema di Terra Madre Salone del Gusto 2016, Voler bene alla terra, racchiude in sé il cuore delle attività di Slow Food nel mondo. «Voler bene alla terra significa prendersene cura, occuparsene con gentilezza e amore: coltivare e custodire l’ambiente deve essere il segno distintivo di questo momento», commenta Carlo Petrini, presidente di Slow Food. «Serve una mobilitazione delle anime di tutti noi, un movimento globale che prenda in mano le disuguaglianze economiche ed ecologiche e si impegni per risolverle». Tutti possiamo dimostrare il nostro amore per la terra quando facciamo la spesa, quando ci trasformiamo da consumatori a co-produttori, quando non ci limitiamo a comprare ciò che mangiamo, ma cerchiamo di guardare a come quel cibo è stato prodotto, alla sua storia e alla sua origine, alle mani, ai volti e al lavoro che gli hanno dato vita. «Noi, con le nostre scelte, determiniamo il successo di un sistema di produzione, di agricoltura, di allevamento — continua Petrini — e soprattutto determiniamo il futuro del pianeta». Contadini, pescatori, artigiani, allevatori e cuochi di Terra Madre mostrano come il primo atto di amore per la terra sia seminarla con semi buoni, innaffiarla quando lo richiede, garantirne la fertilità, raccoglierne i frutti coltivati con rispetto, senza esigere più di quanto possa dare. «Se penso al mondo contadino, vedo i custodi dei saperi e delle conoscenze agricole sostenibili, vedo giovani che decidono di non abbandonare i loro luoghi per continuare a custodirli e coltivarli, vedo donne che non solo cucinano il cibo, ma si prendono cura delle materie prime e ne conservano la memoria. Sono loro i veri protagonisti dell’evento che potete incontrare a Torino». www.salonedelgusto.com 12

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Bressanone (BZ) Piazza Duomo, cuore pulsante di Bressanone, si sta preparando ad accogliere turisti e curiosi per l’annuale ed immancabile appuntamento con il tradizionale Mercato del Pane e dello Strudel Alto Adige. Tre giorni, dal 30 settembre al 2 ottobre, dedicati ad uno degli alimenti che vanta in Alto Adige una tradizione lunghissima, tutt’oggi ancora viva e sentita. Pane di segale croccante, pagnotta pusterese, pagnotte vanostane in coppia, tutti a marchio di qualità Alto Adige che garantisce l’utilizzo di ingredienti naturali e di cereali di provenienza locale. Ogni vallata ha le sue specialità, le sue tradizioni e le sue ricette da custodire gelosamente per conferire al proprio pane un gusto unico e inconfondibile. Il segreto della grande varietà risiede proprio qui, nelle peculiarità regionali e culturali dell’Alto Adige. Un’occasione per divertirsi con tutta la famiglia a sperimentare l’esperienza di fare il pane, lasciarsi inebriare dal suo profumo fragrante di quando è appena sfornato e assaporarne le tante tipologie. Il Mercato del Pane e dello Strudel Alto Adige sarà un GreenEvent, verrà cioè organizzato e programmato secondo criteri sostenibili. www.mercatodelpane.it

Santa Maddalena (BZ) Le giornate dell’1 e 2 ottobre, Santa Maddalena, idilliaco paesino della Val di Funes circondato dall’incantevole cornice del profilo naturale del gruppo alpino delle Odle, si prepara ad accogliere l’annuale e ormai sempre più internazionale appuntamento con il re dei salumi altoatesini: lo Speck Alto Adige IGP! Due giorni all’insegna del divertimento immersi nella natura incontaminata accompagnati da canti, danze folcloristiche e musica tipica, un mercato di specialità regionali, i forni che sforneranno il fragrante pane tipico dell’Alto Adige. Un ricco programma di intrattenimento che vede protagonista anche l’ormai famoso Gletscherhons, il tagliatore più veloce di speck, e l’elezione della Regina dello Speck 2016. Il tutto condito da una vasta proposta gastronomica: dai piatti tipici come i classici taglieri di Speck Alto Adige Igp, i canederli o i gröstel (patate arrostite e speck), fino alle pietanze più creative come la vellutata di zucca con fettine di speck o l’insalata di cavolo cappuccio con speck. La festa nasce da un’iniziativa comune dell’Associazione Turistica Val di Funes, del Consorzio Tutela Speck Alto Adige e di IDM Alto Adige. Anche quest’anno la festa aderirà all’iniziativa GreenEvent. www.festadellospeck.it

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ATTUALITÀ

Il culatello è uno! La tutela della denominazione generica si è completata. Soddisfazione per il Consorzio e il suo presidente Massimo Spigaroli

«È

stato un percorso lungo sette anni, ma finalmente la tutela della denominazione generica Culatello è realtà». Con queste parole, accompagnate da una grande soddisfazione, lo scorso 28 giugno il presidente del Consorzio di tutela del Culatello di Zibello MASSIMO SPIGAROLI ha commentato la pubblicazione del decreto ministeriale a firma congiunta di CARLO CALENDA, Ministero dello Sviluppo economico, e di MAURIZIO MARTINA, titolare del Ministero dell’Agricoltura. «Questo atto finalmente regolamenta la produzione e la vendita del “culatello”, termine largamente utilizzato nel corso degli anni per indicare salumi che nulla avevano a che vedere con questo prodotto». Nella sua nuova promulgazione l’atto contiene la

normazione della denominazione generica Culatello identificandolo come in effetti è, un insaccato. Tale normativa costituisce una pietra miliare per la tutela di tutti i prodotti derivati dalla coscia del maiale e privi di cotenna (culatelli) ed in particolar modo per il Culatello di Zibello, unico della famiglia a fregiarsi della DOP. «È un risultato storico che produrrà l’effetto di eliminare dal mercato tutte quelle denominazioni che si fregiano ingiustamente del termine “culatello”» ha aggiunto Spigaroli, ricordando l’indotto di milioni di pezzi prodotti nell’ultimo decennio che ha causato ricadute negative evidenti sul comportato del re dei salumi della Bassa Parmense. Scaduti i termini di proroga sarà quindi vietato utilizzare la denominazione di vendita “culatello” per prodotti similari

lavorati con tecniche diverse anche se possiedono la stessa base anatomica. Il decreto prevede anche il divieto di impiego del termine nelle denominazioni, negli ingredienti e comunque nell’etichettatura o nella presentazione di prodotti nei quali non sia utilizzata la materia prima individuata e descritta nel decreto stesso, ovvero un prodotto insaccato e legato con spago di una stagionatura minima di 9 mesi. Non sarà quindi più possibile usare denominazioni di vendita quali culatello con cotenna, strolghino di culatello, fiocco di culatello ed altri prodotti simili. «Con questo nuovo strumento di tutela si potrà agire più efficacemente per la difesa del prodotto DOP, creando maggior trasparenza nel mercato anche a garanzia del consumatore finale» ha concluso il presidente.

Il Culatello di Zibello Dop nasce in zone caratterizzate da inverni freddi, lunghi e nebbiosi, ed estati torride ed assolate nelle zone intorno alle rive del Po. La giusta alternanza di periodi secchi ed umidi consente la lenta maturazione dei salumi, durante la quale si sviluppano gli inconfondibili profumi e sapori che hanno reso celebre l’insaccato nel mondo.

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ph: Franceschini Vincenzo

Da oltre 50 anni curiamo i nostri prodotti con grande amore. Selezioniamo solo le migliori carni di suini Italiani e le lavoriamo nel rispetto della tradizione.

FRANCESCHINI GINO & C. SRL Via dei Marmorari, 38 - 41057 Spilamberto (Mo) Tel. + 39 (0) 59784037 - Fax +39 (0) 59784075 - info@franceschinigino.it - www.franceschinigino.it


IL FOOD IN RETE

Social di Elena

2. Bresaola della Valtellina Igp in un clic 1. Pane di Altamura Dop nel web Ecco un gran bell’esempio di come un Consorzio di tutela sia riuscito davvero a raccontare l’identità profonda di un prodotto d’eccellenza in modo semplice e diretto. Ci riferiamo al PANE DI ALTAMURA DOP, lavorato da sempre con materie prime locali e con una gestualità radicata nelle tradizioni di un territorio. Il sito è da vedere: www. panealtamuradop.it

Il Consorzio di tutela BRESAOLA DELLA VALTELLINA IGP ha lanciato una campagna di comunicazione e trasparenza sul sito www.bresaoladellavaltellina.it, in nome delle 14 aziende associate e di un settore che negli ultimi 15 anni (in netta controtendenza rispetto al comparto delle carni bovine fresche e lavorate) ha visto crescere i consumi del 39%. Piacevole nella navigazione, ricco di contenuti, informazioni e curiosità il sito accompagna il visitatore in Valtellina alla scoperta di un salume che sembra mettere tutti d’accordo.

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food Benedetti

3. Jamie, food influencer number one Lo scorso aprile l’agenzia TELEGRAPH HILL ha stilato la classifica dei 50 food influencer più seguiti nel Regno Unito e al primo posto c’è sempre lui, JAMIE OLIVER. Simpatico, diretto, accessibile a tutti, presente sui social con canali curati e stilosi il giusto, Jamie è un grande cultore della cucina italiana e dei prodotti del Belpaese, compresi i salumi. E così un suo repost di salame e vino rosso sul profilo Instagram, www.instagram.com/jamieoliver, in un soffio si aggiudica quasi 40.000 like! Potere dei social…

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4. Amazing Food, e-shop per food & wine L’abbiamo testato di recente in redazione perché eravamo a caccia di un Pecorino delle Balze Volterrane DOP difficile da trovare a Modena. È bastato un clic e una carta di credito per riceverlo due giorni dopo in un packaging a dir poco perfetto. Il sito è www.amazingfood.it e fa capo ad una società di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso. Dietro al progetto sono tre gli attori: Valsana, con alle spalle una solida esperienza nella selezione di prodotti gourmet, la web agency H-Art e tre consulenti foodies creativi e competenti nell’e-commerce. Dentro ci trovate di tutto: dai salumi, ai formaggi, pasta, conserve, tè, caffè fino ai dolci. Da provare!

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Amazon spinge con l’alimentare Da luglio Amazon Prime Now consegna a Milano in un’ora anche i prodotti di U2 Supermercato e il bio di NaturaSì

A

partire dallo scorso 7 luglio a Milano e in alcuni comuni dell’hinterland, un’ampia gamma di prodotti, tra cui i freschi e l’ortofrutta, dei supermercati U2 e NaturaSì sono acquistabili attraverso Prime Now, il servizio riservato ai clienti Prime, che consegna i prodotti acquistati in 1 ora o in una finestra a scelta di 2 ore in 49 codici di avviamento postale della città e zone limitrofe. Con pochi click i clienti Amazon Prime possono ricevere prodotti con consegne ultrarapide, utili anche per le esigenze dell’ultimo minuto, quando non si ha la possibilità di fermarsi in uno dei punti vendita. Scaricando sul proprio smartphone o tablet l’app Prime Now, disponibile per dispositivi Apple (iOS) e Android, i clienti Prime possono verificare la disponibilità del servizio a casa propria o nel punto scelto per la consegna immettendo il CAP e attendendo la notifica dall’applicazione. La verifica può essere inoltre eseguita vistando la pagina web www. amazon.it/primenow

Più prodotti, più velocemente a casa Quando viene effettuato un ordine tramite Prime Now, i clienti creano liste di spesa separate in relazione al negozio di riferimento: Amazon, U2 o NaturaSì. Per completare l’acquisto è richiesto un ordine minimo di € 19,00 per negozio. I clienti Prime Now possono scegliere se farsi consegnare la spesa in un’ora al costo di € 6,90, oppure optare per la consegna gratuita in una finestra di 2 ore a scelta. I prodotti di Amazon e U2 vengono consegnati dalle ore 8:00 alle 24:00 tutti i giorni della settimana, quelli di NaturaSì dal lunedì al sabato dalle 10:00 alle 20:00. «L’accordo con Unes e NaturaSì rappresenta un importante passo avanti nello sviluppo del servizio Prime Now, consentendoci di ampliare ulteriormente la gamma di prodotti offerti e allo stesso tempo di estendere anche ai clienti dei brand, U2 e NaturaSì, la possibilità di beneficiare del servizio di consegna in un’ora» ha dichiarato MARIANGELA MARSEGLIA, direttore EU Prime Now. «Puntiamo a estendere Prime Now

Marco Ferrara, city manager di Amazon Prime Now.

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anche in altre città, stringendo accordi simili con altri distributori a livello locale». «Grazie ad Amazon, i nostri clienti oggi possono acquistare i nostri prodotti in qualsiasi momento e farseli consegnare dove preferiscono, a tempo record. In questo modo anche chi non ha un supermercato U2 vicino casa, può accedere a tutta la nostra selezione di prodotti, inclusi i nostri marchi “U! Confronta e Risparmia” e “Viaggiator Goloso”» ha commentato MARIO GASBARRINO, AD Unes. «Grande enfasi sarà data ai prodotti freschi che rappresentano per i nostri clienti uno dei principali motivi di fidelizzazione. Grazie ad un partner come Amazon, con il quale condividiamo la centralità del cliente, vogliamo offrire un servizio semplice, innovativo e veloce ad un numero sempre maggiore di consumatori». Amazon Prime si può attivare al costo annuale di € 19,99, con il primo mese gratuito per i nuovi iscritti. Il servizio è attivabile visitando la pagina web www.amazon.it/prime

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AZIENDE

Tradizione, qualità e grandi numeri? Si può! Con il Gran Naturale Royal Prosciutti propone un crudo stagionato solo con sale marino, senza glutine e privo di conservanti, che ha tutti i numeri per conquistare anche il mercato estero di Elena Benedetti

U

n milione è una cifra altissima, che siano per esempio euro, o persone, o una distesa sconfinata di alberi. Insomma, qualsiasi cosa contata un milione di volte è tanta roba. Immaginate ora un milione di prosciutti crudi, lavorati uno ad uno con le mani e il sapere di una tradizione antica, curati e osservati nel corso di una stagionatura che non scende sotto i 10 mesi. Per arrivare

ad un risultato di tale portata servono capacità imprenditoriali, una visione del business di lungo periodo, investimenti, conoscenza del prodotto, personale formato e, naturalmente, spazio e una logistica che funzioni. Royal Prosciutti a Sala Baganza Ne sanno qualcosa VALENTINA AGNANI e SERGIO GIUSTI, rispettivamente presidente e AD di Royal Prosciutti, l’azienda parmense con sede a Sala

Baganza che oggi si sviluppa su una superficie di 18.000 metri quadrati, a cui si sommano altri 3.000 m2 realizzati per il capitolato dell’export negli USA, messo a punto non solo per il crudo stagionato ma anche per il disosso. L’azienda fa parte di Suincom, il Gruppo modenese ai vertici nazionali del settore della lavorazione e commercio delle carni suine, che di recente ha festeggiato i 20 anni di attività.

Il prosciutto crudo stagionato Gran Naturale di Royal Prosciutti presentato a Cibus 2016.

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anche questa è una realtà. «Lo stabilimento oggi permette di lavorare con standard qualitativi elevatissimi e in grandi numeri» mi conferma con una punta di soddisfazione Sergio Giusti, precisando che oltre la metà della produzione di questa struttura di Sala Baganza può essere Gran Naturale. Le carte in regola ci sono tutte e anche i consumatori esteri oggi possono di diritto ambire ad un prodotto italiano, di qualità, senza sofisticazioni chimiche e senza glutine.

Valentina Agnani e Sergio Giusti, presidente e AD di Royal Prosciutti. Gran Naturale, crudo senza conservanti e gluten free Fortemente vocata all’esportazione di questo crudo non marchiato, lo scorso maggio, nella cornice fieristica di Cibus, Royal Prosciutti ha presentato il Gran Naturale. «Con questo lancio siamo partiti dalla consapevolezza che qui, ogni giorno, si lavorano e si stagionano un milione di prosciutti con un metodo di lavorazione che è totalmente naturale» mi spiega Valentina. «Ciò significa che non aggiungiamo conservanti e garantiamo un prodotto senza glutine, grazie ad una sugna fatta di farina di riso». Cosa serve quindi per fare il Gran Naturale? «Cosce di suino estero selezionate e conformi al nostro capitolato interno, sale marino, mani esperte e almeno 10 mesi, che

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diventano 12 nella versione Riserva» risponde Sergio Giusti, che si occupa della direzione dello stabilimento di Sala Baganza. La pezzatura finale di questo crudo, naturalmente buono e adatto per tutti i consumatori, è di 6,5 kg. «È un prosciutto più ricercato, caratterizzato da una selezione di peso più alta ed è sicuramente un prodotto diverso per stagionatura e assenza di sofisticazioni» aggiunge Valentina, che ne sottolinea la dolcezza e la gradevolezza all’assaggio. «Nelle quattro giornate di Cibus abbiamo raccolto parecchio interesse, anche dagli operatori esteri che in questa edizione 2016 sono stati più numerosi». Qualità e grandi numeri Sembra un ossimoro abbinare la qualità ai grandi numeri e invece

Suincom, la crescita continua Era il 1996 quando un gruppo di manager con lunga esperienza nel settore della lavorazione delle carni fondò la Suincom, portandola rapidamente vertici nazionali del settore della lavorazione e commercio delle carni suine. Sono trascorsi esattamente 20 anni e tanto lavoro è stato fatto nell’organizzazione di un assetto produttivo che ha visto anche le acquisizioni di BP Prosciutti, azienda specializzata nei prosciutti crudi, e di Royal Prosciutti, con il suo moderno impianto di Sala Baganza. Oggi il Gruppo Suincom controlla tutta la filiera del crudo e vanta una reputazione aziendale di standard di prodotto che indubbiamente sono una bella leva competitiva, anche sui mercati esteri. «Sono orgoglioso della squadra che abbiamo creato in questi anni e che ci consente di essere un riferimento per le migliori industrie della salumeria e per la clientela del prosciutto crudo, Grande Distribuzione, grossisti e importatori stranieri» ha dichiarato il presidente del Gruppo Suincom ROBERTO AGNANI all’houseorgan informativo di CONFINDUSTRIA MODENA lo scorso maggio, in occasione delle celebrazioni del ventennale di attività. «In un contesto di mercato difficile, e in considerazione del fatto che sui media si dà grande enfasi ai danni provocati dal consumo di carne senza alcun tipo di discernimento», ha poi sottolineato Agnani, «ritengo che il comparto debba difendere il proprio lavoro, comunicando la qualità e la tradizione che lo accompagna». Sante parole! Elena Benedetti >> Link: www.suincom.it

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La Rivoluzione delle carni bianche ha avuto inizio

Arriva sul mercato la linea “I Leggeri di Palmieri” con solo carni di pollo di Gaia Borghi

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evi affrontare gli esami di fine anno scolastico e desideri ottenere la maggior concentrazione possibile semplicemente curando la tua alimentazione? Scegli il pollo! Vuoi restare in forma o perdere qualche chilo in vista della prova costume ma non sei un grande sportivo? Vai di pollo! Stai particolarmente attento alla dieta dei tuoi bambini e li vuoi fare felici con un alimento sano, digeribile, nutriente, leggero e controllato?

Opta per il pollo! Soffri d’insonnia e oramai hai tentato di tutto mentre basterebbe prediligere una cena a base di proteine facilmente digeribili? Abbandona le pecore e mangiati il pollo! Pollo, pollo e ancora pollo. Hai un problema? Il pollo è la soluzione, il minimo comun denominatore che oggi sembra mettere d’accordo le persone appartenenti alle più diverse categorie: medici, nutrizionisti, sportivi, mamme, bimbi, consumatori di ogni età, ceto sociale e paese. Secondo

un recente sondaggio realizzato da DOXA per UNAItalia, l’Unione Nazionale delle filiere agroalimentari delle carni e delle uova, 8 Italiani su 10 lo consumano almeno una volta alla settimana e 7 su 10 considerano quella di pollo, tra tutte le carni, la migliore da un punto di vista nutrizionale, ricca di proteine e povera di grassi. Cambiando orizzonte, sempre dai dati raccolti dall’associazione, negli Stati Uniti 9 consumatori su 10 acquistano regolarmente il pollo

Pollastrella, la nuova mortadella di pollo firmata Palmieri, appena lanciata sul mercato. Il prodotto fa parte della linea I Leggeri di Palmieri, insieme a Pollastrino cotechino di pollo, e Pollastrone polpettone di pollo. 22

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e i valori relativi al consumo del 2016 superano di gran lunga quelli degli ultimi due anni. Insomma, in questo momento storico in cui non si fa che parlare di “addii alla carne”, il pollo risulta senza dubbio vincente. «La zootecnia italiana sta vivendo un periodo storico di grandi sfide e profondi cambiamenti», si legge sul sito di UNAItalia, www. unaitalia.com. «Crisi dei consumi, allarmi alimentari, frammentazione del tessuto produttivo, stanno mettendo a dura prova un comparto fondamentale per l’economia del Paese. In questo difficile contesto di mercato, il settore avicolo è quello che ha tenuto meglio: negli anni in cui la negativa congiuntura economica e l’avanzata del vegetarianismo hanno influenzato i consumi delle famiglie italiane, determinando un calo della spesa per le carni e i derivati pari a –7,5% a valori costanti, i prodotti avicoli — unico esempio tra le carni — hanno visto aumentare, tra il 2009 e il 2015, i consumi, la produzione, la ricchezza prodotta dagli allevamenti e quella prodotta dalla trasformazione». Pollastrella Palmieri, leggerezza made in Italy E se il pollo incrociasse sulla sua strada due artigiani salumieri specializzati, veri e propri maestri nella produzione della mortadella, cosa succederebbe? Eliminato il condizionale, succede che nasce Pollastrella, una mortadella prodotta con carne di pollo, anzi, specifichiamo, con una

Palmieri: tanto lavoro e un’azienda in crescita I fratelli Massimo, Michele e Marcello Palmieri rappresentano quell’idea di imprenditoria emiliana Doc fatta di poche parole e molti fatti! Chi li conosce sa che sono concreti, sempre in movimento, con i piedi ben piantati nell’operatività della loro azienda e la testa impegnata a inventare nuove linee di prodotto e a sviluppare le posizioni sul mercato nei canali già occupati. «L’azienda ha già superato i volumi di prodotto pre-terremoto (che nel maggio 2012 fece dei danni notevoli in questa parte della regione) e oggi la nostra mortadella Favola resta il prodotto di punta e di bandiera sul mercato» ci racconta Marcello Palmieri. «Il mercato ci sta dando parecchie soddisfazioni» aggiunge Paolo Arcangeli, il direttore generale dello stabilimento di San Prospero, alle porte di Modena. «A fine luglio si può già tracciare un primo bilancio parziale dell’anno in corso, e possiamo affermare che il 2016 conferma i nostri obiettivi di crescita nonostante la contrazione dei consumi, e i primi risultati dovuti agli investimenti sulla rete di vendita e sui nuovi prodotti». Mec Palmieri ha canalizzato l’offerta dei salumi tra la GDO e il normal trade. In questo modo il consumatore può trovare i prodotti sia tra gli scaffali del supermercato sia nella bella salumeria sotto casa, differenziati per canale ed esclusività, conciliando il gusto alle esigenze di portafoglio. >> Link: www.mecpalmieri.it

selezione di carne di animali nati e allevati a terra in Italia. I fratelli Palmieri, dell’omonimo salumificio di S. Prospero (MO), creatori della mitica mortadella Favola, hanno deciso di lanciare sul mercato all’inizio dell’estate un prodotto che andasse incontro alle richieste dei consumatori e all’attuale trend di “ricerca della leggerezza”: 100 grammi di Pollastrella forniscono infatti solo 133 Kcal. Per ottenere questo risultato, i tagli utilizzati sono coscia e petto di pollo

selezionati e lavorati senza l’uso di macchinari per la separazione meccanica. Anche per la parte “grassa” del prodotto si usa il pollo e al posto dei classici lardelli di suino si predilige il petto, ottenendo una mortadella fino al 70% più magra del salume tradizionale. Profumata, dal sapore delicato, equilibrata nel gusto, Pollastrella è senza glutine, polifosfati e derivati del latte, glutammato monosodico e OGM. Soltanto buona insomma. Gaia Borghi

Eureka Food, le eccellenze della Bassa Modenese in rete A pochi passi dallo stabilimento di Mec Palmieri a San Prospero (MO) c’è Eureka Food, showroom nato da un progetto di Marco Buongiorno che un anno fa ha messo in rete 16 tra le più importanti aziende produttrici di eccellenze agroalimentari della Bassa Modenese, per promuovere le eccellenze del territorio, anche on-line. «Al centro di tutto c’è la voglia di raccontare chi siamo, quali sono le nostre tradizioni enogastronomiche e, soprattutto, raccontare i prodotti tipici e le aziende che li producono. Gli obiettivi del progetto sono la creazione di un marchio di prodotto condiviso, la valorizzazione e promozione delle aziende e i prodotti di eccellenza attraverso strategie di marketing condivise, e la creazione di circuiti economici virtuosi al fine di commercializzare i prodotti» scrive Marco sulla pagina del suo sito. Eureka Food accoglie il visitatore, che sia un turista a caccia di prodotti o un operatore professionale, per degustazioni guidate e acquisti. Questi sono possibili anche on-line, attraverso l’e-shop www.eurekafood.it >> Link: www.instagram.com/eurekafood

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Fagottini di riso e Pollastrella Ingredienti per 4 persone • 8 fette di Pollastrella • 200 g di riso basmati • 1 mazzetto di basilico • 1 spicchio d’aglio • 4 cucchiaio di olio EVO • 1 limone • sale q.b. Preparazione (facile, 35’) Cuoci il riso, scolalo e fallo raffreddare. Lava e asciuga bene il basilico, trasferiscilo nel frullatore e aggiungi aglio, olio e un pizzico di sale. Frulla il tutto fino ad ottenere una salsa grossolana, per 2-3 minuti circa. Condisci il riso con la salsa appena preparata, aggiungi una grattugiata di scorza di limone e mescola per insaporire il tutto. Prendi le fette di Pollastrella e stendile su un piano di lavoro. Al centro di ogni fetta sistema un cucchiaio abbondante di riso, richiudila a forma di fagottino. Completa il piatto con un filo di olio EVO a crudo e una spruzzata di succo di limone.

Polpette ai tre sapori Ingredienti per 4 persone 350 g ricotta di mucca • 200 g di Pollastrella • 4 cucchiai di pistacchi sgusciati • 4 fette di pan carré • 200 ml di latte • 1 uovo • sale • pangrattato q.b. • 1 cucchiaio di pomodorini secchi • 1 cucchiaino di capperi • olio EVO Preparazione (facile, 30’) In una ciotola capiente amalgama la ricotta, le fette di Pollastrella frullate, il pane precedentemente ammollato e strizzato nel latte e l’uovo. Aggiusta di sale e aggiungi all’impasto i pistacchi tritati finemente. Forma tante piccole palline grandi quanto una noce e passale nel pangrattato. Disponile su una teglia precedentemente rivestita di carta forno e infornale a 180 °C fino a doratura; circa 15/20 minuti. Prepara la salsa frullando i capperi con i pomodorini e l’olio. Servi le polpette ancora calde accompagnate dalla salsa.

Crostini con mousse e pistacchi Ingredienti per 4 persone Panna fresca liquida 60 ml • formaggio tipo Philadelphia 70 g • Pollastrella 100 g • pistacchi salati e tritati 10 g • pepe nero macinato q.b • fette di pane per bruschetta q.b. Preparazione (facile, 15’) Affetta il pane e arrostiscilo da entrambi i lati. In un mixer inserisci: le fette di Pollastrella tagliate a piccoli pezzi, la panna e il formaggio; frulla il tutto fino a ottenere un composto cremoso e omogeneo. Trasferisci la mousse in una sac à poche con bocchetta stellata e metti su ogni crostino un ciuffetto di crema. Guarnisci con una spolverata di pistacchi tritati e di pepe nero macinato.

Girelle rucola e Pollastrella Ingredienti per 4 persone 5 fette lunghe di pane per tramezzini • Pollastrella 150 g • robiola 100 g • pepe nero macinato e sale q.b. • latte 50 g • rucola 30 g Preparazione (facile 20’) Metti in una ciotola la robiola, la Pollastrella sminuzzata grossolanamente, sale e pepe; aggiungi il latte e inizia a frullare gli ingredienti con un frullatore ad immersione. Otterrai una crema liscia e omogenea. Prendi una fetta di pane e appiattiscila leggermente con il mattarello, quindi spalma su tutta la superficie uno strato di crema. Prendi la rucola e distribuiscila sulla fetta di pane in modo da ricoprire tutto lo strato di crema, quindi inizia ad arrotolare la fetta su se stessa, partendo dal lato corto. Avvolgi ogni rotolino nella pellicola trasparente e fallo riposare in frigorifero per almeno 30 minuti. Trascorso il tempo necessario rimuovi delicatamente la pellicola e tagliali in fette spesse circa 1 cm. Servili ancora freddi.

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Felsineo, cinquant’anni di storia e di… mortadella Felsineo è la più forte realtà italiana specializzata nella produzione del goloso salume

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a storia dell’azienda Felsineo inizia nel 1947 a Bologna. Dapprima come piccolo salumificio a conduzione familiare, nel luglio 1963 avviene il trasferimento nella vicina Zola Predosa, in un’area industriale allora appena agli albori, dove ancora oggi ha sede l’azienda. È infatti proprio qui che nasce il primo nucleo dell’odierno salumificio Felsineo, ampliato nel corso degli anni fino agli attuali 22.000 m2 coperti. Negli anni ‘70 la grande svolta della specializzazione e la scelta di dedicarsi esclusivamente alla produzione di mortadella. Ed è sempre di

quegli anni, in funzione del boom dei consumi e della nascita della distribuzione moderna, la decisione della famiglia Raimondi di imprimere all’attività una dimensione industriale. 12 milioni di chili di mortadella Felsineo vanta un assortimento con più di 500 referenze e, mediamente, ogni anno si producono 12 milioni di chili di mortadella. Circa il 70% della produzione è di Mortadella Bologna IGP, di cui Felsineo è il principale produttore, con quasi 1/3 del totale. Peculiarità di tutte le mortadelle Felsineo è l’elevata digeribilità. La

caratteristica basilare della produzione è infatti l’ingredientistica: carne di suino selezionata, solo aromi naturali, nessun additivo aggiunto (ad eccezione di quelli tecnologicamente indispensabili). Uno dei pilastri della linea aziendale è la mortadella Bologna IGP La Blu di Felsineo®, disponibile in diversi formati, dai 100 grammi al chilo nel libero servizio, fino ai 250 kg nel banco taglio. La Blu è preparata solo con materie prime di qualità, sicure e controllate; viene lavorata con la sapienza della tradizione e con le migliori tecnologie a disposizione;

1963 Mortadella Artigianale è l’ultima nata tra le mortadelle Felsineo.

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ha una lista di ingredienti molto corta, che non prevede l’aggiunta di zuccheri, derivati del latte, glutammati, coloranti e aromi artificiali; è cotta in particolari e moderne stufe ad aria secca per ottenere un gusto ed un profumo inconfondibili; è raffreddata in tempi rapidissimi per conservare al meglio le proprietà organolettiche. Per celebrare i primi 50 anni del salumificio, i titolari hanno poi pensato ad una mortadella che racchiudesse lo spirito di Felsineo sublimato e reso contemporaneo dall’uso della tecnologia più innovativa. Una mortadella con la potenzialità e l’ambizione di ampliare il target di consumatori tradizionali del salume. Così, per la 1963 Mortadella Artigianale la decisione di utilizzare solo carne fresca e di origine italiana: suini pesanti provenienti dagli allevamenti vicini all’azienda, in una ricetta semplice, costituita esclusivamente dalla spalla, dalla sovracoscia di prosciutto e dal pregiato guanciale per i cubetti. Il risultato è una mortadella tenace, di una consistenza notevole, una percezione che avvicina il prodotto al taglio anatomico e lo distanzia dal mondo del macinato. Un partner sicuro e affidabile La specializzazione, gli elevati standard qualitativi, la capacità innovativa, la flessibilità produttiva, le garanzie di sicurezza e l’indiscutibile bontà dei prodotti, hanno reso Felsineo un partner sicuro ed affidabile. Il 2015 si è dimostrato per l’azienda un anno con un trend positivo, in controtendenza rispetto al mercato totale della mortadella. In questo senso un ruolo importante spetta all’ottimo rapporto qualità/prezzo che caratterizza l’offerta di Felsineo, mortadella di riferimento per i consumatori italiani.

>> Link: www.felsineo.com

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MEMENTO

Ciao Gino! È mancato a 79 anni il maestro salumiere Gino Franceschini, titolare dell’omonimo salumificio con sede a Spilamberto (MO) di Marco Credi

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fflitto da qualche tempo da un male incurabile, all’età di 79 anni è venuto a mancare nella notte tra il 26 e 27 giugno Gino Franceschini, fondatore dello storico Salumificio Franceschini Gino & C. Srl. Quella di Gino è una di quelle storie che meritano di essere raccontate: spilambertese DOC, nato tra le due guerre in una famiglia di contadini che aveva l’usanza di allevare e macellare il maiale, per potere poi contare, durante l’anno, sui due prosciutti, le coppe, la pancetta, i salami… Crebbe, quindi, in una classica famiglia abituata ad utilizzare ogni minima parte dell’animale, del quale, come si dice a Parma paragonandolo alla musica di Verdi, non si butta nulla. In più, rispetto ad altri ragazzi della sua generazione, Gino ebbe dalla sua un vantaggio, parlando di salumeria: il nonno e il papà erano esperti macellai, che d’inverno andavano presso i vari contadini della zona a fér pcaria, cioè a fare salumeria. All’età di dieci-dodici anni, ebbe la fortuna di conoscere un vecchio e famoso macellaio, “Iusferi”, che lo prese a lavorare con sé. Iusferi, che di nome faceva Adolfo, gli insegnò i segreti del mestiere. «Mi è rimasto impresso quando portavamo, sulle nostre montagne, la carne nei birocci ricoperti dal ghiaccio» ci raccontò una volta Gino. «Non potrò mai dimenticare i pentoloni di rame fumanti, con l’acqua bollente pronta per essere gettata sul carro, in mezzo all’aia, dove pelavamo il maiale: successivamente lo appendevamo, legato con un corda, a due olmi e lo dividevamo in mezzene; dopodiché lo portavamo in casa, su banconi improvvisati formati da asce, il più delle volte sorrette da

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due casse da uva, e lì iniziava il lavoro vero e proprio di macelleria e salumeria. Ripensandoci ora, con tutte le norme sanitarie che sono in vigore, mi sembra di parlare del Medioevo! Erano tempi di grandi sacrifici per me, ma senza la scuola di Iusferi non sarei mai diventato quel macellatoresalumiere esperto che sono, capace di dare valore ad ogni pezzo di carne». A diciotto anni, Franceschini colse al balzo un’opportunità di lavoro proveniente dalla Francia (per i giovani, che pensano di essere nati nel paese di Bengodi, vorremmo ricordare che allora, per mangiare, anche noi Modenesi talvolta emigravamo): un’importante industria salumiera, nei pressi di Aix-en-Provence, cercava personale, per cui Gino, “dopo aver appreso l’arte”, invece di “metterla da parte”, decise di tentare l’avventura. Tra il ‘53 e il ‘54 lavorò, dunque, due anni all’estero, da emigrante. «Andai in uno stabilimento di salumeria — ricordava — dove c’erano due capifabbrica modenesi: lì ho capito come si lavora in una grande fabbrica. Il metodo era completamente diverso da quello del mio maestro, che badava solamente alla qualità: si puntava sulla quantità e sulla velocità dei tempi di produzione, sui bassi prezzi e, purtroppo, la qualità della materia prima non era importante, bastava che fosse accettabile». Questa esperienza, durata circa due anni, influì anch’essa sul Franceschini che un giorno sarebbe diventato imprenditore: ma influì come esempio da non perseguire, come una tabella da tenere sempre ben presente sotto gli occhi di chi ha deciso, nella vita, di puntare tutto sulla qualità eccelsa per diversificarsi dagli altri e per fornire

Gino Franceschini. salumi di nicchia, fatti come Dio comanda. Infatti, il nostro Gino, con quei quattrini guadagnati all’estero riuscì ad aprire una piccola salumeria, in cui produceva salsiccia. E da lì, dopo vari allargamenti e capannoni presi in affitto, arrivò a costruire lo stabilimento che oggi conosciamo. L’associazione aziendale lavorazioni carni suine della provincia di Modena lo ha eletto presidente per diversi mandati. Ha vinto molte volte anche il primo premio del concorso per il migliore zampone di Modena. Non ci dilunghiamo oltre: abbiamo solo voluto rimarcare “l’uomo” Gino, che con sacrificio e abnegazione ha raggiunto traguardi inaspettati. Edizioni Pubblicità Italia Srl partecipa con profondo cordoglio al dolore della moglie Luciana e dei figli Vincenzo e Adelaide, che avranno il compito di proseguire nel cammino intrapreso dal padre.

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LA QUALITÀ

Prosciutto della Dalmazia, nuova stella tra le Igp d’Europa di Riccardo Lagorio

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al 13 febbraio 2016 la bandiera azzurra dell’Europa unita si è arricchita di un’altra stella con il Prosciutto della Dalmazia Igp. La prima testimonianza scritta del commercio di prosciutto dalmata risale al 1557, anno in cui i cosci (e i formaggi, da Pago, si veda in PREMIATA SALUMERIA ITALIANA n. 4/2014, di LAGORIO R., Merletti, saline e pecore. Alla scoperta del pecorino di Pago, tra i più conosciuti e premiati prodotti caseari del mondo, pag. 88) sono esportati a Venezia da Zara e dall’entroterra zaratino, che allora si estendeva sino alle terre del fiume Drina, confine naturale con l’Impero ottomano e, in epoca anteriore limite tra Impero Romano d’Occidente e Bisanzio. Senz’altro aiutata dalla facile accessibilità del sale marino (da Nona e Stagno in particolare) e da un clima particolarmente adatto, le competenze per la conservazione della carne suina in Dalmazia sono passate da generazione in generazione in tutta la costa croata lungo il Mar Adriatico e la tutela oggi comprende le contee di Zara, Sebenico, Spalato, Ragusa e il comune di Novaglia. Clima mediterraneo con estati calde e secche e inverni miti con un flusso d’aria costante (per almeno 130 giorni l’anno). L’umidità relativa durante l’anno varia dal 56 al 76%. Già nelle ottocentesche memorie della baronessa prussiana IDA VON REINSFELD DÜRINGSFELD si fa ampia descrizione del prosciutto dalmata come alimento di consuetudine delle famiglie benestanti. Facile intuire che la produzione di allora non fosse quin-

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di sufficiente ad innescare processi di flussi commerciali verso l’esterno: il consumo doveva pertanto avvenire prevalentemente nelle aree di elaborazione. Piuttosto, esistono evidenze letterarie che il prosciutto dalmata venisse proposto alle tavole di piccoli ed esclusivi gruppi di viaggiatori in grado di riconoscerne la peculiarità, come si evince in alcuni diari di viaggio (e riportato da FRANO IVANIŠEVIĆ in Principato di Pollica vita popolare e costumi, Zagabria, 1903). Nel 1938 l’inserzione pubblicitaria dell’oste RUDOLF BERGŠTAJN su un settimanale locale di Varasdino, a 80 km a nord di Zagabria, proclama la possibilità di degustare autentico prosciutto dalmata nel proprio locale. Ma fino allo scoppio della Seconda Guerra mondiale i documenti pubblici confermano che il prosciutto dalmata viene prodotto in quantità limitate dalle famiglie rurali e ceduto alla ristorazione e alle famiglie più ricche. È a partire dagli anni Sessanta del XX secolo che l’aumento del tenore di vita, specie nella zona costiera e nell’immediato entroterra, e la creazione di cooperative di produttori, che il consumo di prosciutto crudo inizia a farsi strada anche negli strati più bassi della società. La sua unicità e il suo carattere distintivo diventano oggetto di ricerca scientifica (come il lavoro di SIME DŽAPO, Contributo alla produzione e proprietà del prosciutto affumicato dalmata, Zagabria, 1969, e quello di JOSIP ZIVKOVIC, Igiene e della tecnologia della carne, Zagabria, 1986). Lo sviluppo del turismo e la crescente domanda dei prodotti ti-

Lo sviluppo del turismo e la crescente domanda dei prodotti tipici a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso fanno diventare il Prosciutto della Dalmazia uno dei simboli riconoscibili ed economicamente significativi della Croazia

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Drago Bebić, produttore e affinatore di prosciutti in Croazia.

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Il Prosciutto della Dalmazia Igp. La carne è di colore rosso vivo, con evidenti infiltrazioni di grasso. pici a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso fanno diventare il prosciutto della Dalmazia uno dei simboli riconoscibili ed eco nomicamente significativi della Croazia. A partire da quel periodo si vanno creando associazioni di produttori e nel 2006 inizia a tenersi a cadenza annuale la Fiera nazionale del prosciutto a Segna, sotto il patrocinio del Ministero delle Politiche Agricole, quello della Imprenditorialità e Mestieri, della Camera di Commercio croata e della Contea di Spalato. Nel 2007 una ricerca scientifica (condotta da IGOR JERKOVIĆ et al.) comparsa sulla rivista FOOD CHEMISTRY confermava le differenze nella combinazione di composti volatili (aldeidi ed esteri in particolare, che hanno ruolo significativo come descrittori del gusto) del prosciutto dalmata nei confronti di altri prosciutti del sud Europa. Quel particolare microclima ha fatto sì che il prosciutto storicamente si producesse tra novembre e febbraio, sempre temperato

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dall’afflusso di aria fresca dalle Alpi Bebie. «Cosa che noi continuiamo a fare regolarmente — confida DRAGO BEBIĆ, da quarant’anni produttore e affinatore di prosciutti nella Contea raguseo-narentana — poiché non utilizziamo sale di stagionatura coibentate per la stagionatura del Prosciutto della Dalmazia IGP. Il prosciutto proviene da incroci di animali di razza Landrace, Yorkshire e Duroc e il peso ideale varia tra 140 e 180 kg, peso che si raggiunge a un anno e mezzo di età o più. Dal momento della macellazione trascorrono 72 ore prima che i cosci (di almeno 11 kg) si massaggino per rendere possibile la fuoriuscita di sangue dall’arteria femorale e vengano poi salati con sale di Stagno. Durante il trasposto e lo stoccaggio i cosci non possono essere congelati. Trascorsi 7 giorni ad una temperatura che varia tra 2 °C e 6 °C, si lavano e possono essere premuti con appositi macchinari e sottoposti alla fase di affumicatura. Il fumo freddo è derivato dalla combustione di legno o segatura di

faggio, rovere o carpine e in questa fase bisogna avere particolare attenzione che la temperatura non vada mai oltre 22 °C per evitare che vi sia un trasferimento nello strato superficiale del prosciutto delle proteine, che ostacolerebbero la libera uscita dell’umidità dallo zampetto. L’affumicatura può durare sino a 45 giorni, periodo che dipende dalla dimensione della coscia. La stagionatura, come per tutti i prosciutti, li rende buoni. A fronte di un disciplinare che prevede un minimo di 12 mesi, noi adottiamo un periodo di stagionatura minimo di 16 mesi. Durante la produzione del Prosciutto di Dalmazia IGP non è consentito l’uso di conservanti e additivi». Nel processo di produzione odierno del Prosciutto della Dalmazia IGP il fumo ha perso quasi del tutto la sua funzione protettrice e battericida, utilizzato un tempo anche come elemento per riscaldare le case; tuttavia, non si può prescindere dal suo valore di tradizionale elemento che

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garantisce una speciale peculiarità al prodotto finale. Dopo la fase di affumicatura il Disciplinare di produzione prevede che si passi alla maturazione in camere con microclima costante, dotate di aperture per il ricambio d’aria e altrettanto protette da strette maglie che impediscono l’ingresso indesiderato di insetti e altri parassiti. La temperatura in questo caso rimane intorno ai 20 °C e il tasso di umidità sempre inferiore al 90%. Per la protezione della zona femorale si procede coprendola con una miscela di strutto di maiale con farina di frumento o riso con sale. Il Prosciutto della Dalmazia IGP è riconoscibile per il timbro effettuato a caldo. Immesso sul mercato deve pesare almeno 6,5 kg con un contenuto di sale (NaCl) variabile tra 4,5 e 7,5%. Il prodotto viene immesso sul mercato intero o a tranci. In quest’ultimo caso viene venduto chiuso in preimballaggi conformi alle regole sanitarie europee.

Quello di Drago Bebić acquisisce sapore dalla marezzatura e dalle infiltrazioni di grasso che sono ben presenti: a fronte di uno spessore minimo di grasso sottocutaneo secondo disciplinare di 20 mm, il suo prosciutto ne presenta almeno una volta e mezza. La pelle esterna non mostra crepe o profonde rughe e sotto compare la spessa bianca dolce coltre. La carne è di colore rosso vivo, con evidenti infiltrazioni di grasso e profumo di carne di maiale ben matura, piacevolmente affumicata. La consistenza della fetta è soda e la parte grassa non separabile da quella magra a formare un tutt’uno omogeneo e compatto. Ben masticabile e morbida, rilascia sapore moderatamente salato, talvolta piacevolmente salmastro. Ha fatto scalpore qualche mese fa, poco prima dell’ottenimento del marchio IGP da parte dei produttori, la notizia che la stagione turistica era stata funestata dalle contraffazioni di prosciutto dalmatino. L’origine

dei falsi era accertata fosse dall’Erzegovina, ma appunto nell’estate 2015 si è scatenata la guerra alla imitazione poiché una società laziale mise in commercio sulle coste al di là dell’Adriatico un apocrifo prosciutto di Dernis (località particolarmente rinomata per la produzione di prosciutto, nella Contea di Sebenico, che peraltro fu servito come antipasto durante l’incoronazione della regina Elisabetta II). Ora le cose dovrebbero andare meglio grazie al raggiungimento della tutela del marchio di tutela europeo. Oppure, visto i trascorsi di imitazione dei nostri gioielli agroalimentari, anche gli amici croati si vedranno costretti a non abbassare la guardia nei confronti dell’originale prosciutto dalmata viterbese? Riccardo Lagorio Kulina Nova Sela d.o.o. Nova Sela, Porto Narenta Telefono: +385 020 686528 E-mail: rbebic@inet.hr


ANNIVERSARI

Venti candeline per i Salumi Piacentini Dop di Silvia Saracino

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ent’anni di certificazione D OP , un fatturato di 24 milioni di euro e una produzione che in quindici anni si è decuplicata. Coppa, pancetta e salame di Piacenza spengono quest’anno venti candeline come

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prodotti a denominazione di origine protetta, conferendo alla provincia di Piacenza il primato in Europa per numero di certificazioni DOP in un unico settore. Un compleanno speciale a cui è stato dedicato, all’inizio del mese di luglio, un forum tra i

più importanti rappresentanti del settore e membri della Commissione europea che nel luglio del 1996 accolse la richiesta del Consorzio di produttori piacentini. «Era un mondo completamente nuovo e non c’erano esempi di riferimento perché le prime

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assegnazioni dei marchi di denominazione d’origine furono deliberate dalla Comunità europea proprio nell’estate del 1996 comprendendo i tre salumi tipici piacentini» spiega ANTONIO GROSSETTI, presidente del Consorzio Salumi Piacentini Dop.

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«C’era entusiasmo e convinzione di aver fatto la scelta giusta». Era il coronamento di una visione cominciata un quarto di secolo prima ma anche l’inizio di un diverso approccio ai mercati. «Non era più il tempo del salame con la goccia o di quello

fatto in casa dal contadino — spiega l’imprenditore — era il tempo della sicurezza alimentare, la grande sfida del futuro». Da quell’estate del 1996 i tre salumi hanno fatto parecchia strada, grazie alla certificazione DOP che ha esteso la loro fama oltre i con-

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fini emiliani e milanesi in cui erano fino ad allora conosciuti. Oggi sono una quindicina le aziende associate al Consorzio DOP — dalle grosse realtà fino alle aziende medio piccole — e insieme macinano un fatturato di 24 milioni di euro portando la provincia di Piacenza al sesto posto in Italia per impatto economico di prodotti DOP e IGP. Secondo i dati del Consorzio, in questi vent’anni la coppa piacentina ha aumentato la produzione del 611%, il salame del 718% e la pancetta è decollata fino a raggiungere oggi +994%. Visti i numeri, ci sono tutte le condizioni per puntare a nuovi traguardi: ottenere dalla Comunità europea la denominazione DOP anche per altri salumi iscritti all’albo delle produzioni tradizionali del Ministero delle Politiche Agricole. «Il culatello piacentino, il cappello del prete, i ciccioli, la cicciolata, il lardo piacentino, la mariola, e il salame gentile» ha spiegato Grossetti dal palco del forum nazionale. Nel frattempo le tre “glorie” della salumeria piacentina, ormai diffuse in tutta Italia anche attraverso i canali della Grande Distribuzione Organizzata, stanno tentando di attraversare l’Oceano per arrivare negli Stati Uniti. La coppa piacentina ha forma cilindrica ma leggermente più sottile alle estremità grazie al procedimento di rifilatura del grasso e di qualche sottile pezzo di carne cui viene sottoposta, consistenza compatta e omogenea e un profumo dolce e delicato con un leggero aroma speziato.

Antonio Grossetti, presidente Consorzio Salumi Piacentini Dop, Roberto Belli, presidente Consorzio Salumi Tipici Piacentini, Lorella Ferrari, responsabile Consorzio Salumi Piacentini Dop, e Simona Caselli, assessore Agricoltura Regione Emilia-Romagna (photo © Dell’Aquila Fabrizio). Per produrre la pancetta piacentina si utilizza la parte centrale del grasso di copertura della mezzena suina, che va dalla regione retrosternale a quella inguinale. Richiede una salagione rigorosamente a secco e dopo un periodo di asciugatura e una stagionatura minima di quattro mesi, è pronta per il consumo. È un prodotto straordinario, dalla consistenza morbida che si scioglie in bocca.

Da carni magre suine con una bassa aggiunta di grasso si ricava il salame piacentino: per la parte magra i tagli di carne sono tutti al di fuori della pancetta, mentre per la parte grassa vengono utilizzati lardo, gola, parti di pancetta senza grasso molle. Richiede una stagionatura minima di 45 giorni, ha un peso non superiore al chilo e non inferiore ai 400 grammi. Silvia Saracino

Dop e Igp in Emilia-Romagna: il 40% del fatturato nazionale Le Dop e le Igp sono attribuite dalla UE (la Comunità europea ha istituito i primi regimi di qualità nel 1992, ma i primi riconoscimenti risalgono al 1996) a prodotti le cui caratteristiche qualitative dipendono essenzialmente o esclusivamente dal territorio in cui sono prodotti. In particolare per le Dop è previsto che tutte le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano in un’area geografica delimitata; per le Igp questo requisito è limitato ad almeno una fase del processo produttivo. Se l’Emilia-Romagna può contare su 43 Dop e Igp (ma è in fase di istruttoria a Bruxelles un altro riconoscimento: quello per l’Anguria reggiana Igp), in Italia le Dop e Igp sono 282 e in Europa 1.352 (compresi i Paesi terzi). Si tratta di un settore che in Italia coinvolge tra aziende agricole e di trasformazione oltre 81.000 aziende per un giro di affari di 6,38 miliardi (alla produzione). In Emilia-Romagna le imprese coinvolte nelle diverse filiere Dop e Igp sono oltre 6.500 e il giro d’affari alla produzione è di 2,5 miliardi. L’Emilia-Romagna dunque pesa da sola per circa il 40% del totale nazionale. I primi quattro prodotti per valore economico sono: Parmigiano Reggiano Dop, Prosciutto di Parma Dop, Aceto Balsamico Igp e Mortadella Bologna Igp. Considerando le prime 20 province in Italia per impatto economico del settore, nei primi dieci posti ci sono Parma (1o), con 950,8 milioni di euro e 12 prodotti; Modena (2o), con 375,8 milioni e 15 prodotti; Reggio Emilia (4o), con 355 milioni e 12 prodotti; Bologna (8o), con 290 milioni e 22 prodotti.

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Produzione Culatello di Zibello DOP Spalla Cruda di Palasone Strolghino di Culatello

ASSOCIATO AL CONSORZIO DEL CULATELLO DI ZIBELLO - ABILITATO EXPORT CANADA E GIAPPONE

SalumiďŹ cio Dallatana Roncole Verdi - Busseto (PR) | Tel: 0524.935024

info@dallatana.it - www.dallatana.it


EVENTI Nuovo presidio Slow Food: i “Salumi rosa tradizionali bolognesi”

Negrini: con Bonfatti riscopriamo i salumi rosa

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iocco rosa: è nato un nuovo presidio che celebra l’eccellenza salumiera dell’EmiliaRomagna, quella di antica e consolidata memoria. Si tratta dei “Salumi rosa tradizionali bolognesi”, ovvero Mortadella classica, tutelata dall’associazione fondata da Carlin Petrini già da qualche tempo, e i nuovissimi, si fa per dire, visto la loro presenza sul territorio felsineo da centinaia di anni, salame rosa e lyon. La firma su questi insaccati tipici è ancora una volta quella del Salumificio Negrini di Renazzo, Ferrara (www.negrinisalumi.com), riconosciuto da Slow Food tra i produttori della Mortadella classica del

presidio con il marchio Bonfatti e da oggi come unico di quella dei due salumi che potrebbero essere definiti come i suoi parenti molto, molto stretti. I “fratellini” della mortadella, insomma. Gran festa sui colli Il 21 maggio scorso, presso l’azienda Azienda agricola vitivinicola Tizzano di Casalecchio di Reno, immersa nel verde dei Colli bolognesi, c’è stata la presentazione ufficiale del nuovo presidio alla stampa e agli operatori, alla presenza di PIERO SARDO, presidente della Fondazione per la Biodiversità, RAFFAELA DONATI, presidente Coordinamento

regionale Emilia-Romagna di Slow Food, ALBERTO ADOLFO FABBRI, responsabile dei presidi rosa tradizionali bolognesi e, della famiglia Negrini, titolare dell’azienda produttrice dei tre salumi tutelati. «Fino alla prima metà del Novecento — ci dicono i rappresentanti di Slow Food — questi salumi erano molto popolari nelle salumerie e gastronomie della zona del bolognese. Il nostro principale obiettivo è quindi quello di recuperarli e rilanciarne il consumo, così come è avvenuto per la mortadella classica, e spingere i pochi produttori che ancora mantengono la ricetta tradizionale e riprendere la produzione e incrementarla».

Insieme alla mortadella classica, lyon e salame rosa sono i due salumi che compongono il nuovo presidio Slow Food. 40

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Alcune immagini della bella presentazione del nuovo presidio avvenuta lo scorso maggio a Casalecchio, presso l’azienda agricola Tizzano. In basso a sinistra, Gianni Negrini con i figli Annarita, Dino e Nicoletta. Per la produzione dei salumi del presidio si utilizza esclusivamente carne di suini del tipo pesante italiano, animali che vengono alimentati senza l’utilizzo di OGM. Nella preparazione degli insaccati, inoltre, è stato ridotto ai minimi termini l’impiego di conservanti, fatta eccezione per una piccola quantità di nitriti, più precisamente due grammi mescolati a sale per 100 kg di carne. Una città tutta rosa La storia della mortadella e in generale della tradizione dei salumi cotti a Bologna affonda le radici nei secoli passati, simbolo di un’arte norcina che ha dato vita a delle vere e proprie eccellenze, alcune conosciutissime, tanto da identificare un’intera città nei menu dei ristoranti sparsi qua e là per il mondo, e altre ormai purtroppo molto rare, come il lyon e il salame rosa. Lyon, mortadella in budello gentile Il lyon è un prodotto tipico della tradizione felsinea, presente in città Premiata Salumeria Italiana, 4/16

già a partire dal Seicento. Noto come mortadella fina, il nome “lyon” nasce dall’abitudine dei Francesi di stanza a Bologna durante l’occupazione napoleonica di insaccare l’impasto della mortadella in budello gentile naturale e non solo nella vescica, dando così al prodotto la forma di un salame. Le carni utilizzate per questo salume sono spalla, gola in cubetti, magro di gola, ritagli di prosciutto e trippino, tagliate a coltello come per la preparazione di un normale salame. La consistenza del prodotto è simile alla mortadella mentre il sapore è più persistente. Le spezie principali utilizzate nell’impasto sono aglio e pepe. Insaccato nel budello gentile naturale di suino, raggiunge il peso di 1,5 kg, legato a mano con lo spago. La cottura viene fatta in stufe tradizionali ad aria calda con una temperatura dell’aria che sale gradualmente fino ad 85 °C per ottenere una temperatura al cuore di circa 75 °C. A questo punto il lyon viene confezionato sottovuoto.

Il salame rosa Sul finire dell’800 fino alla prima metà del 900, sembra che i consumi della mortadella e del salame rosa a Bologna si equivalessero. La materia prima è la stessa: spalla, sottospalla e prosciutto, e le spezie, principalmente aglio e pepe. La differenza sta nella lavorazione: mentre la mortadella viene macinata finemente per renderla omogenea, ad eccezione dei lardelli, il salame rosa viene tagliato più grossolanamente in punta di coltello e ciò fa sì che l’impasto cotto abbia un effetto “marmorizzato”. L’insacco avviene in vesciche di bovino naturali per un peso finale di 6/8 kg oppure in vesciche di suino naturali da circa 1,5 kg. Legati a mano con spago naturale, i salami rosa sono appesi sui telai. La cottura è la stessa del lyon. Il salame rosa va tagliato non troppo sottile; in bocca resta consistente, con note aromatiche speziate e sapidità accentuata. Viene confezionato anch’esso sottovuoto. 41


CONSUMI

Italiani amanti del prosciutto ma non dei maiali Gli Italiani sono grandi mangiatori e importanti esportatori di prosciutti, ma non di maiali, con produzioni di qualità che utilizzano al meglio cosce di suini nazionali e di un’importazione selezionata di Giovanni Ballarini

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econdo recenti stime dell’ANAS, l’Associazione Nazionale Allevatori Suini, e sulla base dei dati ISTAT del 2015, gli Italiani ogni anno mangiano 74 milioni di prosciutti crudi o cotti: oltre un prosciutto a testa l’anno per Italiano. Inoltre l’Italia esporta circa dieci milioni di prosciutti crudi, cotti e affumicati (speck). Da dove vengono questi prosciutti? Per rispondere a questa domanda è necessario un breve e sintetico calcolo matematico. In Italia vengono allevati otto milioni e settecentomila maiali che, considerando il loro ciclo di vita, sempre secondo ANAS e ISTAT, producono 22 milioni di cosce suine da trasformare in prosciutti; 74 milioni di prosciutti mangiati, più 10 milioni di prosciutti esportati, fanno 84 milioni; le cosce dei maiali italiani sono 22 milioni, pertanto non ci si deve meravigliare che il numero di cosce suine importate, fresche o congelate, sia di circa 70 milioni di pezzi, per un peso complessivo di circa 600.000 tonnellate. L’Italia non produce 70 milioni di cosce di maiale da trasformare in prosciutti; da qui il dilemma delle cosce mancanti. I prosciutti italiani più pregiati, come le DOP Parma e San Daniele (complessivamente poco più di 10 milioni), sono tutti di origine italiana, quindi circa la metà delle cosce italiane. Per gli altri, vi è quasi da stupirsi del ripetersi delle notizie che riguardano lo “scandalo” delle cosce suine importate e trasformate in prosciutti; questo avviene perché,

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a fronte dell’alto consumo di ottimi prosciutti, in Italia si allevano pochi maiali. Se gli Italiani amano il prosciutto non amano i maiali In Italia, ad ogni abitante corrisponde poco più di un decimo di maiale, mentre in Francia e Germania il corrispondente è un terzo, e in Spagna addirittura mezzo maiale. In Italia si allevano 28 maiali per chilometro quadrato, contro i 42 della Francia, i 52 della Spagna e gli 82 della Germania. Molti prosciutti e pochi maiali:

come risolvere il problema? Se non si vuole ricorrere alle importazioni, come oggi avviene, bisogna o ridurre i consumi o aumentare l’allevamento di maiali. Una riduzione dei consumi di prosciutti (e altre carni o prodotti carnei suini) potrebbe essere gradita a vegetariani e vegani, ma non alla gran parte della popolazione, che proprio nei prosciutti vede un alimento adatto ai propri stili alimentari e ne apprezza le numerose qualità. Assolutamente improponibile è un “razionamento” del prosciutto, come avvenuto durante il periodo di guerra!

Prosciutto e fichi, un classico sempre molto apprezzato.

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Prosciutto crudo di Parma Dop.

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Un aumento della produzione trova ostacoli nell’avversione diffusa verso l’allevamento suino, accampando diverse giustificazioni (odore, inquinamento fecale, benessere degli animali) e scatena reazioni del tipo NIMBY (Not In My Back Yard, “Non nel mio cortile”, cioè non nelle mie vicinanze). D’altra parte, l’allevamento brado o “ecologico” del maiale non può assolutamente colmare il grande divario tra le cosce di maiale prodotte e i prosciutti mangiati dagli Italiani ed esportati. Più interessante, se non obbligatorio, è chiedersi i motivi dell’indubbio, grande successo dei prosciutti italiani; un successo che risiede nella loro sicurezza, nella qualità nutrizionale, nell’adeguamento alle odierne necessità dei consumatori e, soprattutto, nella qualità gastronomica dei diversi tipi di prosciutto, crudi e cotti. Chi assicura e garantisce sicurezza e qualità? La sicurezza è garantita dal sistema sanitario che ha norme uguali o analoghe in tutta l’Unione Europea, nella quale vige la regola della “libera circolazione delle merci”. Per questo è assurdo pensare che un maiale “italiano”, nato o allevato a pochi chilometri dalla frontiera con la Francia, sia diverso da un maiale “francese” allevato a pochi chilometri oltre confine. Per le importazioni extracomunitarie di cosce suine, peraltro in pratica molto limitate se non inesistenti, vi sono gli opportuni controlli della UE. Della qualità sono garanti i produttori e, soprattutto, i consumatori, i quali, con i loro acquisti, hanno determinato e continuano ad assicurare il successo dei prosciutti italiani che hanno conquistato anche mercati difficili, come quello degli Stati Uniti d’America, superando perfino problematici pregiudizi come quello di assimilare il prodotto alla carne cruda! I produttori di prosciutti DOP usano esclusivamente cosce di maiali italiani, mentre per gli altri prosciutti IGP o con denominazione commerciale di marca, come i cotti, selezionano cosce di qualità, pena la disaffezione del consumatore. In ultima analisi, è sempre il consumatore che comanda! Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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ANALISI DEL FOOD

Una tavola priva di… Latticini senza lattosio, pasta senza glutine, prosciutto senza polifosfati, merendine senza olio di palma: la lista dei cibi a cui manca un ingrediente si fa ogni giorno più lunga. L’offerta commerciale dei prodotti privi di uno o più elementi è sempre più vasta e fa la fortuna di chi la propone. Ma siamo sicuri che sia sempre necessario mangiare così? O forse questo nuovo modo di nutrirsi, più che far bene alla salute, è soprattutto la risposta ad un’isteria collettiva dovuta ad un’informazione distorta? di Guido Guidi

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a crisi ha portato austerità, prudenza e razionalizzazione nei consumi. Uno stile di vita che siamo destinati a conservare nonostante i dati sulla situazione economica attuale del Paese mostri-

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no alcuni timidi segnali di ripresa. Gli Italiani, e non solo loro, hanno imparato un nuovo modo di stare a tavola, più orientato alla sobrietà e al risparmio: un nuovo modo di vivere il cibo, che sembrano poco propensi

a modificare nel breve termine. Ma la nuova frugalità non sarebbe unicamente dovuta alla scarsa disponibilità finanziaria. L’attenzione alla linea e alla salute costringe a fare scelte alimentari differenti rispetto a quel-

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le di alcuni decenni fa. Secondo il Rapporto dei Consumi Coop 2015, lo scorso anno si sono ridotti in maniera significativa gli acquisti di prodotti ad elevato contenuto calorico, come grassi, zuccheri o alcolici, e qualun-

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que altro alimento non coerente con stili di vita salutistici. Si rileva una progressiva estremizzazione delle pratiche alimentari, sempre piĂš riconducibile a delle scelte volontarie vere e proprie, piuttosto che ad un obbligo

dovuto a questioni terapeutiche. Alle fila di vegetariani e vegani, giĂ numerosi, si sono aggiunti i fruttariani, i crudisti ed ora anche i reducetaristi (che limitano il consumo di proteine animali ad un solo giorno la settima-

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Tabella 1 – Gli attributi salutistici: quanto sono importanti nella scelta di cosa acquistare? (% di risposte molto/abbastanza importante) 100% naturale

86%

Senza coloranti

84%

OGM free

80%

Elevato contenuto di fibre

79%

Senza aromi artificiali

78%

Senza/basso colesterolo

76%

Senza/poco zucchero

72%

Senza/poco sale

71%

Senza/poco calorie

67%

Bio

66%

Fonte: Coop Italia su dati Nielsen.

Tabella 2 – Dinamiche negli stili alimentari: come pensi che cambieranno gli acquisti dei seguenti prodotti nei prossimi sei mesi? (saldo % risposte di più/di meno) Verdura

26%

Frutta

19%

Carne

–11%

Succhi

–15%

Pane

–16%

Formaggi

–21%

Piatti pronti

–25%

Torte e gelati

–31%

Snack e patatine

–37%

Cioccolata

–38%

Fonte: Coop Italia su dati Nielsen. na), i pescetariani e i pollotariani che, adottando una variante della dieta vegetariana, consumano pesce e pollo, ma solo sporadicamente. Si tratta di regimi alimentari principalmente riconducibili a motivazioni etiche e non sempre a questioni legate alla salute. Regimi alimentari che generano una serie di rinunce, talvolta anche dure. Ma le privazioni non finiscono qui A registrare un’impennata nelle vendite ci sono infatti — oltre ai prodotti biologici, il cui successo sembra inarrestabile — quelli per intolleranti. Prodotti che forse sarebbe più corretto

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definire “senza”, visto che l’utilizzo solo per ragioni relative a intolleranze, allergie o altre patologie non è così scontato. Il prodotto “senza” è entrato ormai talmente in voga che non sempre c’è una correlazione diretta né con la salute, né con l’etica. Il “senza” è un trend che mostra di avere una vita propria e un rilievo commerciale di assoluto rispetto slegato dal portafoglio, dalle patologie e dalle credenze di ognuno. In origine era il gluten free che, nato per effettive esigenze terapeutiche, si è poi esteso a tutti coloro che, pur non essendo celiaci, mostrano una

Le noci dalle quali si ricava l’olio di palma, oggi “nemico” numero uno dei consumatori. certa sensibilità al glutine e pertanto lo evitano. Ma è oggi ricercato anche da chi, pur non avendo nessuno di questi problemi, preferisce comunque metterlo al bando. Nel contempo spopolano i latticini senza lattosio, gli alimenti OGM free. E ancora: gli alimenti “senza zuccheri aggiunti”, “senza grassi idrogenati”, “senza aromi artificiali”, “senza coloranti”, “senza conservanti”, “senza polifosfati” e ultimo, ma solo per l’ordine di arrivo, il “senza olio di palma”. Qui la contrarietà all’impiego, universalmente diffusa, non risponde tanto o solo a ragioni salutistiche, quanto a questioni etiche e ambientali. Complice anche il Regolamento UE 1169/2011 sulle informazioni al consumatore, che finalmente ha imposto ai produttori la segnalazione di un lungo elenco di ingredienti che possono provocare allergie, sempre più soggetti decidono di adottare un regime alimentare che li esclude. Questo elemento non si rileva solo intervistando i diretti interessati in merito alle proprie scelte a tavola, ma anche guardando i dati sulla diffusione di alcuni disturbi che, nonostante l’impennata nelle vendite di certi prodotti alimentari, sono in realtà rimasti stazionari nella loro incidenza sulla popolazione. Le motivazioni sono dunque correlate a questioni commerciali del prodotto che genera interesse a prescindere dal suo reale impatto sulla salute di ognuno. Certe campagne di (dis)informazione hanno un riscontro notevole in termini di consumo. Pertanto, l’impennata o la caduta di alcune

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tipologie di prodotto nelle classifiche dei più ricercati può essere semplicemente causata dalle modalità in cui quel prodotto è presentato sui media o su internet, ambito quest’ultimo in cui la teoria del complotto sulla nocività di certi cibi, le bufale e le pseudo-scienze supportate da pochi o nulli riscontri oggettivi dilagano senza freno e controllo alcuno. I dati COOP riportati nel Rapporto Consumi e Distribuzione 2015 in Tabella 1 parlano chiaro. Quattro Italiani su cinque, secondo la COOP, dichiarano di essere guidati, nell’acquisto dei prodotti alimentari, da caratteristiche che ritengono di naturalità, di salubrità e di sostenibilità. E in presenza di questi elementi più della metà dei consumatori italiani appare disposta a sostenere una maggiorazione di prezzo del prodotto. Il problema di fondo è che non sempre è chiaro e univoco ciò che sia davvero naturale, salubre e sostenibile, e anche su questi concetti la confusione spesso dilaga. Dalla Tabella 2 si rileva che anche la percezione del consumatore sul proprio consumo futuro e sul consumo generale di determinati prodotti è nella direzione di una limitazione di determinate categorie a favore di altre. Inoltre, da un’analisi dei top e bottom performer del largo consumo confezionato nell’ultimo anno, si rileva che, tra le categorie presenti a scaffale, a marcare l’incremento più consistente di vendite sono i cibi e le bevande a base di soia (quelli alla base delle diete vegane e delattosate), insieme agli integratori dietetici e ai prodotti senza glutine. L’exploit riconducibile al diffuso interesse per il benessere, la forma fisica e la salute si scontra però con il fatto che sempre più spesso ci si convince che un certo prodotto sia salutare anche laddove non ci siano elementi oggettivi per sostenerlo. Ecco che quindi la ricetta oggi più in voga diviene quella del “senza”, spesso in risposta a test che non hanno nessuna valenza scientifica dimostrata (basta andare su internet per trovarne più di uno) oppure per una lunga lista di elementi considerati velenosi secondo informazioni che girano su web da anni.

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Più che la risposta alle intolleranze e alle allergie, le nuove diete sembrano l’isterica reazione a una cultura anti-industriale che va sempre più affermandosi. Una cultura che non si fida della produzione agroalimentare e che, di volta in volta, la pone pubblicamente sotto processo. Alcuni media, senza basarsi su dati scientifici validi, pongono sul patibolo ora quel cibo, ora quell’altro, generando danni incalcolabili e creando nell’immaginario collettivo alimenti nocivi o, al contrario, benefici, o addirittura miracolosi. La preoccupazione ossessiva di ingerire cibi dannosi per la salute o la linea o l’ambiente si fa sempre più diffusa nel nostro Paese, complice un’informazione sensazionalistica che, più che trasmettere notizie, crea scoop e genera sensazionalismo fine a se stesso. Ciò che gli esperti e gli addetti ai lavori non riescono a comunicare nelle dovute sedi, e con il necessario risalto, è che siamo nel Paese dove l’attenzione all’igiene e alla sicurezza dei cibi sono tra le più elevate e rigide al mondo e che ogni infrazione che viene registrata è il risultato di indagini, di controlli e di ispezioni che vengono svolte di continuo tra le nostre imprese, soprattutto quelle della trasformazione. Ciò che spesso non si dice è che non ci sono cibi che salvano la vita o che condannano a morte, ma che qualunque alimento deve sempre essere consumato con criterio e con misura perché, in assenza di patologie specifiche, il problema non è quasi mai nel cibo in sé, ma nella misura e nelle modalità in cui lo si consuma. Siamo nell’era dell’informazione, ma è doveroso che ognuno ricerchi quella corretta, che riporta notizie vere, pubblicate da fonti davvero attendibili. Guido Guidi Nota A pagina 46 e 47 il piatto “senza”, senza glutine, senza zuccheri aggiunti, senza grassi idrogenati, ecc…, è oggi sempre più in voga “senza” che ci sia quasi mai alcuna correlazione con problemi di salute.

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TURISMO ENOGASTRONOMICO

Lago d’Iseo: enogastronomia, arte, natura, dopo Christo di Riccardo Lagorio

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rande eco mediatica ha riscosso, tra il 18 giugno e il 3 luglio, la passerella che sul lago d’Iseo ha collegato Monte Isola, l’isola più grande dei laghi europei, alla terraferma, Sulzano. Questo specchio d’acqua è il più meridionale dei laghi alpini italiani e passaggio obbligato verso la

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Val Camonica. Il progetto, avallato in pochi mesi dalle amministrazioni pubbliche locali, è stato proposto da CHRISTO VLADIMIROV YAVACHEV. Christo non è nuovo a imprese tanto ardite: nel 1968 imballò la Fontana di Piazza del Mercato a Spoleto, a cui seguì la Porta Pinciana di Roma nel 1974, poi il Reichstag di Berlino (nel 1995)

e costruì un clamoroso percorso di 37 chilometri di portici attraverso il Central Park, costituito da 7503 strutture alte 5 metri e disposte a 4 metri l’una dall’altra coperte da teli arancione (nel 2005), The Gates. Dei 59 progetti ideati, solo 22 sono stati resi possibili dalle pubbliche amministrazioni e di questi molti hanno

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dovuto attendere decenni prima che potessero vedere la luce: 25 anni The Gates, 24 anni l’imballaggio del Reichstag, 32 anni per attendere il sì da Basilea per rivestire 161 alberi di poliestere bianco e nero in un parco. Per l’autorizzazione di The Floating Piers l’attesa è stata meno di un anno. Italica efficienza…

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Monte Isola e il suo salame Il patrimonio culturale e gastronomico del comprensorio è poco noto, ma riserva interessanti sorprese, non tutte opportunamente valorizzate durante l’arrivo di quasi un milione di persone in riva al Sebino. Tra questi senz’altro il salame Monte Isola. Assai rinomato in zona e altrettanto

imitato da macellerie e salumifici, il migliore viene elaborato per autoconsumo nelle contrade di Cure, Masse e Siviano. Abbiamo attraversato il braccio di lago per intervistare MARIO ARCHETTI, impiegato comunale nella bassa bresciana. «Sino a qualche anno fa tutte le famiglie montisolane possedevano due maiali, di solito acquistati

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Salame di Monte Isola (photo © www.soloprodottiitaliani.it). nel mese di luglio, al raggiungimento del quintale di peso. L’alimentazione dell’animale è fondamentale per la buona riuscita del salame in quanto la carne e il grasso devono essere sodi. Farinaccio e crusca sono il cibo migliore sino a metà gennaio, quando il maiale avrà raggiunto almeno i 220 kg e 6 cm di lardo sulla groppa». Se le modalità di allevamento rendono unico il salame di Monte Isola, non di meno la produzione deve seguire determinati schemi. Le mezzene trascorrono una notte a temperatura ambiente, che di solito a gennaio non supera i 5 °C. Si tagliano a mano a piccoli cubetti coscia, lonza e pancetta mentre la parte anteriore, che rappresenta circa il 10% dell’insaccato, è macinata con piastra di 9 mm. Ne esce quindi un macinato dalle sembianze grossolane. Riposto in un unico contenitore, si aggiungono sale e spezie (pepe, chiodi di garofano, noce moscata e cannella) in quantità e rapporto variabile da famiglia a famiglia. A parte è macinato dell’aglio riposto in un fazzoletto su cui si fa passare del vino rosso. Si amalgama con energia a mano l’impasto e si insacca in budello

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naturale bovino legando a mano. Per due giorni il salame perde la prima umidità ad una temperatura intorno agli 8 °C, dopodiché viene spostato in locali più tiepidi. Il calore è ottenuto con fuoco e fumo derivante dalla combustione di legna. Le leggende in tal senso si sono sprecate imputando agli isolani la precisa volontà di affumicare il salume. In verità l’adozione di lente combustioni risponde alla necessità di asciugare uniformemente le carni. A queste condizioni il salame rimane da 10 giorni a due settimane. Il successivo periodo è altrettanto importante poiché si dovrà regolare il corretto ricambio d’aria nei locali di stagionatura in un microclima davvero unico di collina attorniata da una grande massa d’acqua. Il peso del singolo pezzo a inizio stagionatura è inferiore a 500 grammi e al consumo la fetta deve presentarsi compatta, dal colore rosso vivo e un profumo di carne matura. Secondo tradizione tre salami dovrebbero pesare 1 kg. Per evitare che i salami stagionino troppo e diventino troppo sodi, al giusto punto di stagionatura vengono riposti sotto grasso in contenitori

di marmo bianco (regiàt), protetti da un coperchio di legno. In questo congelatore ante litteram il salame può rimanere per più di un anno. Da qualche anno è stato aperto sull’isola un salumificio che provvede, a livello artigianale, a tramandare, per quanto possibile, alcune delle caratteristiche del salame Monte Isola come ad esempio il taglio grossolano della carne. Tinche, coregoni, sarde, cavedani… evviva il pesce d’acqua dolce Dalle profondità del lago emergono importanti risorse ittiche. Sono poco meno di una trentina i pescatori professionisti, tra cui anche alcuni in giovane età. La centralità delle risorse ittiche nell’economia del lago è ben rappresentata dall’esperienza di Clusane, località di Iseo, che ha costruito la sua immagine di accoglienza sulla tinca al forno con polenta (si veda di LAGORIO R., La tinca al forno con polenta, il piatto simbolo di Clusane, in IL PESCE n. 4/2015). Ma nel lago è anche proficua la pesca di coregoni, bottatrici, salmerini e gamberi d’acqua dolce. E poi agoni, che qui prendono il nome di sarde, e cavedani. È gennaio il mese durante il quale sulle rive

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La centralità delle risorse ittiche nell’economia del lago è ben rappresentata dall’esperienza di Clusane, località di Iseo, che ha costruito la sua immagine di accoglienza sulla tinca al forno con polenta. Ma nel lago è anche proficua la pesca di coregoni, bottatrici, salmerini e gamberi d’acqua dolce. Poi agoni, che qui prendono il nome di sarde, e cavedani

del lago compaiono rami di frassino o carpino, oggi talvolta sostituiti da strutture metalliche, dove vengono appesi i pesci eviscerati, infilzati e già salati. Per 45 giorni o anche a fino a inizio marzo i pesci rimangono sotto le reti per essere protetti dall’irruenza degli insetti e degli uccelli: perdono l’umidità interna e si rende possibile stivarli sottolio. La sardina e il cavedano raggiungono la perfezione in cucina quando si scaldano appena e fuoriescono gli umori che inondano la fetta di polenta abbrustolita accanto. Oggi si prestano anche ad altre preparazioni e del pesce non viene gettato nulla. Grazie ad ANDREA SOARDI, pescatore di Carzano, si sono realizzate le prime bottarghe di pesce d’acqua dolce: di cavedano, di luccio, di coregone, di pesce persico. Ideali per la pasta, arricchite con quel filo d’olio che le rive del Sebino sanno fornire. Oli pregiati e ottimi formaggi In effetti sotto la denominazione Olio extravergine d’oliva dei Laghi Lombardi, la sottozona Sebino è tutelata dalla DOP e 24 comuni bresciani e altrettanti bergamaschi se ne possono fregiare. In verità il bacino del lago d’Iseo si trova a una altitudine media teoricamente non adatta alla coltivazione dell’olivo, ma ancora una volta il grande serbatoio d’acqua calmiera temperatura e umidità creando un microclima particolarmente mite

anche durante l’inverno. Il Leccino è la varietà più piantata (il disciplinare di produzione impone l’utilizzo di almeno il 40% di questa cultivar), a seguire Frantoio, Casaliva, Pendolino e Sbresa (assai diffusa sul versante bergamasco). Profumo fruttato leggero, sapore che sprigiona una modesta sensazione d’amaro e piccante sono le caratteristiche riconosciute all’olio DOP. E poi i formaggi, dal Silter DOP a quelli dei monti circostanti, al rinomato stracchino del Monte Bronzone. Un’opportunità, la passerella di Christo, che servirà da biglietto da visita per la gastronomia del territorio? Tesori d’arte e architettura, paesaggi mozzafiato e sport In verità anche la cultura e la natura offrono spunti assai interessanti sulle rive del lago d’Iseo. Così si può partire dal capoluogo e fare tappa a Iseo per visitare il castello Oldofredi, del Mille e restaurato per ospitare la biblioteca, e la pieve di Sant’Andrea, romanica del XII secolo, di cui apprezzare il campanile incorporato nella facciata. Non distante il Monastero di San Pietro di Lamosa, uno dei massimi esempi di urbanistica religiosa medievale in Italia settentrionale, domina le torbiere. Dalla fermata di Sulzano, luogo dove Teofilo Folengo scrisse con tutta probabilità la terza edizione delle Maccheronee, espressione di una nuova lingua poetica che

Silter, formaggio a pasta dura e lunga stagionatura, prodotto in Val Camonica e sul versante est del lago di Iseo (photo © www.giornaledibrescia.it).

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The Floating Piers: oltre 1 milione di visitatori per l’opera di Christo Oltre 1.200.000 persone hanno visitato The Floating Piers durante i suoi 16 giorni di apertura, dal 18 giugno al 3 luglio 2016. Un’opera composta da pontili galleggianti, ricoperti di tessuto, che si estendevano per 3 chilometri di lunghezza attraversando le acque del lago d’Iseo, proseguendo lungo 2,5 chilometri di percorso pedonale a Sulzano e Peschiera Maraglio. «Ogni progetto è un pezzo delle nostre vite ed è qualcosa che non dimenticherò mai» ha dichiarato Christo. «Io e Jeanne-Claude abbiamo concepito l’idea di The Floating Piers nel 1970. Solo in seguito ho capito che il lago d’Iseo era il luogo in cui avevo davvero sentito l’ispirazione per realizzare questo progetto. L’acqua del lago, il paesaggio e le cittadine intorno ad esso. Tutto questo è stato The Floating Piers. Uno degli aspetti più importanti di questo progetto è senz’altro la sua temporaneità, un’opera momentanea, transitoria, da vivere a pieno nella brevità della sua permanenza. Questo è il motivo per cui dopo 16 giorni tutto è finito». L’accesso all’opera è stato libero e aperto al pubblico, senza eccezioni di alcun tipo. Non sono stati richiesti né biglietti né prenotazioni per entrarvi. Le autorità locali hanno richiesto che The Floating Piers chiudesse durante la notte per lo svolgimento di attività legate a necessità di natura igienico sanitaria del comune di Monte Isola. Una media di 72.000 persone al giorno, provenienti da tutto il mondo, ha vissuto The Floating Piers ed esplorato le cittadine e i comuni attorno al lago d’Iseo che li hanno accolti, offrendo loro ristoro e luoghi per passeggiate ed escursioni da cui poter cogliere l’opera secondo nuovi e diversi punti di vista. «Monte Isola è stata caput mundi per 16 giorni», ha detto il sindaco Fiorello Turla. «Io ero lì, sono stato parte di questo incredibile evento. Per la mia piccola isola è stata una sfida che tuttavia abbiamo accolto con entusiasmo e siamo grati per questa meravigliosa esperienza» (in basso, uno scorcio del camminamento sull’acqua; photo © Wolfgang Volz – 2016 Christo). >> Link: www.thefloatingpiers.com

avrebbe portato all’italiano moderno, si può percorrere la Strada Valeriana, che secondo tradizione fu tracciata da Romani alla conquista delle terre retiche. A Monte Isola deliziose le contrade di Sinchignano, ricco di cantine e un tempo rinomato per la

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produzione di vino, e Carzano, dove ancora vivono maestri d’ascia in grado di costruire la barca locale dal ventre piatto, il naét, mentre sulla cima svetta il santuario della Madonna della Ceriola da cui si dominano il lago, la pianura e la catena alpina. Di

nuovo sulla terraferma, il territorio di Zone offre un’area naturalistica protetta dove ammirare piramidi d’erosione, altissime guglie di pietrame sovrastate da un enorme masso. Un sentiero porta ai 2000 metri della vetta del Monte Guglielmo che domina e

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La denominazione Olio extravergine d’oliva Laghi Lombardi comprende le produzioni olearie dei laghi di Como e d’Iseo.

A Monte Isola deliziose le contrade di Sinchignano, ricco di cantine e un tempo rinomato per la produzione di vino, e Carzano, dove ancora vivono maestri d’ascia in grado di costruire la barca locale dal ventre piatto, il naét, mentre sulla cima svetta il santuario della Madonna della Ceriola da cui si dominano lago, pianura e catena alpina

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incornicia il lago. Proseguendo verso la Valle Camonica e il suo naturale imbocco, Pisogne, merita sosta per la pieve di Santa Maria, con affreschi di Pietro da Cemmo e la quattrocentesca chiesa di Santa Maria della Neve con affreschi esterni e, interni, assai coinvolgenti, del Romanino. Nella piazza del Comune si erge la bella torre medievale in pietra a vista scalpellata, alta 35 metri. Il fiume Oglio segna il passaggio alla provincia di Bergamo; Lovere è tra i maggiori centri che si affacciano sul Sebino con l’elegante piazza Vittorio Emanuele II, cinta dal Palazzo podestarile e da altre costruzioni d’epoca da medievale e settecentesca. L’Accademia Tadini conserva numerosi capolavori di scultura, pittura e disegno. Le particolari correnti d’aria rendono ideali per la pratica del windsurf lo specchio d’acqua antistante l’abitato di Castro. Qui il lago d’Iseo regala insenature simili a fiordi, spettacolari pareti di roccia che si gettano a picco nelle profondità del lago, come in località Gola del Tinazzo e in territorio di Riva di Solto presso l’orrido del Bogn. In questo tratto la strada litoranea concede scorci e paesaggi particolarmente appassionanti. Negli abitati si susseguono costruzioni civili di pescatori e palazzi di famiglie nobili, spesso utilizzati sin dal

Settecento come residenze estive e di svago. Dalla Chiesa della Santissima Trinità di Parzanica, in cui il cartiglio di un affresco riporta la data del 1100, si gode di un bel panorama. Anche Tavernola Bergamasca vanta luoghi di particolare interesse artistico come la Chiesa di San Pietro con affreschi del Romanino e quella di San Michele con affreschi del XIV secolo attribuiti al Maestro di Cambianica. Il centro di Predore serba un edificio termale pertinente a un’ampia villa del I secolo d. C. A Sarnico il lago d’Iseo diventa nuovamente fiume Oglio. Numerose le attività sportive che vi si possono praticare: dal canottaggio allo sci d’acqua. Sarnico è noto agli appassionati di motoscafi e barche di lusso per essere stato il quartier generale dei Motoscafi Riva dal 1842. Portali in pietra nera locale, viuzze e possenti mura degli edifici testimoniano l’antica struttura dell’abitato mentre la Pinacoteca don Gianni Bellini ospita interessanti tele dipinte dal Cinquecento al Settecento. Attraversato il fiume è di nuovo Brescia, anzi Franciacorta, nota per il suo vino. Riccardo Lagorio Note A pagina 50 e 51, Peschiera Maraglio (photo © Fotolia).

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Un’eccellenza dell’Oltrepò pavese da degustare con il pane locale

Alla scoperta del Varzi di Josette Baverez Blanco

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na gita fuori porta, nell’Oltrepò pavese, dove assaporare buon cibo e assaggiare ottimi vini: niente di meglio con la calura estiva! Meta classica per tanti milanesi appassionati di caccia, per chi ama la storia o per chi vuole percorrere la via Francigena che passa da Bobbio, questa culla della gastronomia italiana può essere rappresentata con un nome solo, Varzi, dove è nato il suo salame, uno dei

più pregiati salumi regionali italiani. Il salame di Varzi deve la sua qualità al dosaggio ottimale degli ingredienti accuratamente scelti, alle tecniche di lavorazione contadina che si sono affinate attraverso i secoli pur mantenendo la loro originalità e anche alla conformazione del territorio, favorito da quel microclima montanaro tipico della Valle Staffora, tra la brezza marina ligure e l’aria fresca di montagna (dato che siamo ad una

certa altitudine, tra i 400 e i 600 metri slm). L’insieme di queste condizioni ha permesso ai produttori di sfruttare l’instaurarsi di particolari processi enzimatici e la trasformazione biochimica del prodotto, per il quale vengono utilizzate le parti più nobili del maiale, secondo le proporzioni stabilite dal Disciplinare di produzione. Si tratta di un salame a grana grossa, compatta, con la parte grassa ben bilanciata di colore bianco, che deve

Le origini del Salame di Varzi si perdono nella notte dei tempi. Una tradizione, una pratica gastronomica, una tecnica di salumeria, che negli anni si sono consolidate e via via perfezionate (photo © www.consorziovarzi.it).

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essere tagliato a fette spesse per assaporarne appieno l’aroma fragrante, leggermente speziato, la morbidezza, la delicatezza e la dolcezza. È ottimo con il pane casereccio, il gnocco fritto emiliano, le verdure, i formaggi e un bicchiere di buon vino novello. Praticamente ci si può fare un pasto completo! Il salame di Varzi è uno dei tanti prodotti DOP italiani e la denominazione d’origine lo difende dalle imitazioni. C’è poi l’Istituto Parma Qualità che vigila, assieme al Consorzio di tutela, che garantisce la stretta osservanza delle norme di produzione. Sono 15 i comuni che fanno parte della Comunità Montana Oltrepò Pavese entro i quali si può produrre questa delizia. Li cito per stuzzicare la curiosità del lettore che potrebbe desiderare di percorrere la “via del salame di Varzi”: Bagnaria, Brallo di Pregola, Cecima, Fortunago, Godiasco Salice Terme, Menconico, Montesegale, Ponte Nizza, Rocca Susella, Romagnese, Santa Margherita di Staffora, Val di Nizza, Valverde, Varzi, Zavattarello. Ma qual è la storia di questo salame? Una necropoli trovata nei dintorni di Romagnese attesta la presenza umana in questi luoghi in epoca romana. Non esistono documenti scritti di quel periodo. Le prime fonti storiche documentate sono legate alla Chiesa e agli insediamenti monastici medievali. Romagnese era parte dei possedimenti dell’Abbazia

di San Colombano di Bobbio nel XII secolo, feudo del vescovo. Nel 1383 il feudo fu acquistato da Jacopo Dal Verme, capitano generale del duca di Milano, e rimase alla famiglia fino all’epoca sforzesca. Nella divisione della famiglia nelle due linee di Piacenza e Voghera, rimase alla prima. La tradizione orale ci tramanda con ampi dettagli notizie delle invasioni dei Longobardi, popolazioni di nomadi con la necessità di conservare i cibi e di trasportarli facilmente. Il salame sarebbe allora nato dall’integrazione tra le due culture, quella nordica degli invasori e quella autoctona della Valle Staffora, situata in una posizione privilegiata, sulla “via del sale” in direzione di Genova. Nel basso Medioevo, sfruttando un’ascesa economica, sociale e demografica, questa regione stabilì solidi rapporti con le Repubbliche marinare e con i commerci di spezie e droghe. Quindi consolidò la sua tradizione utilizzando questi prodotti nella lavorazione e conservazione degli insaccati. Il salame di Varzi divenne presto un piatto prelibato e prestigioso sulla tavola dei marchesi Malaspina, locali feudatari nel periodo medievale. Ma come si spiega il successo subito riscosso dal salame di Varzi, successo che peraltro continua tutt’oggi immutato? Come abbiamo detto, la scelta della materia prima per preparare il suo impasto aromatico è del tutto speciale e controllata. Viene lavorato con un infuso di aglio e vino

rosso (oltre alle solite spezie) e insaccato in budello naturale. Solo per il salame di Varzi destinato a tranci o affettati confezionati è permesso l’uso di budelli artificiali. Poi è essenziale la stagionatura, per la quale è fondamentale l’aria particolare della zona. Sono tre le fasi importanti: la stufatura di pochi giorni, a temperatura dai 18 ai 26 gradi, per una prima perdita d’acqua; l’asciugatura di una settimana, al massimo a 20 gradi, in locali arieggiati; e, soprattutto, l’invecchiamento, la fase più lunga, che dipende dal tipo e dalle dimensioni dell’insaccato. Il famosissimo salame di Varzi con budello cucito doppio, di peso da 1 a 2 chili e più, stagionerà per almeno 90 giorni, mentre i piccoli saranno pronti in 22 giorni. Questo è del tutto normale. La vera nota distintiva risiede nel fatto che l’invecchiamento avviene nelle antiche cantine di Varzi, ambienti naturali con un microclima unico (10-12 °C con umidità del 95%). Indispensabile è spazzolare regolarmente i salami per rimuovere le muffe superficiali e permettere al budello di traspirare. Solo così avverrà la maturazione ottimale. Per fortuna, questo salame d’eccellenza non è più prodotto esclusivo delle tavole nobiliari, e consiglio vivamente, a chi non lo conosce ancora, di scoprirlo, magari andando “sul posto”, a visitare i luoghi dove viene prodotto. Josette Baverez Blanco


TENDENZE

L’evoluzione del panino di Silvia Saracino

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ltro che fast food. Dopo un paio d’anni di rodaggio il panino si è ormai sdoganato dalla pausa pranzo mordi e fuggi per approdare nei menu à la carte dei ristoranti dove brilla di luce propria assieme a pietanze complesse. Non solo, l’offerta si è adeguata alla domanda e stanno rifiorendo in tutta Italia le botteghe di generi alimentari dove il panino trova la sua naturale collocazione ma in versione gourmet, evoluzione ricercata della classica rosetta con la mortadella. Da Bonci e Romeo nella Capitale fino a Gigione a Pomigliano d’Arco passando per lo storico Bar Schiavoni di Modena, ci si ingegna per trovare il mix di ingredienti più gustoso e innovativo da concentrare tra due fette di pane morbido o croccante.

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A Modena i turisti che arrivano da tutto il mondo per visitare il museo Ferrari o la casa dove ha vissuto il tenore Luciano Pavarotti si fermano a mangiare un panino da Schiavoni nel cuore del centro storico. Qui il panino non è una moda ma una tradizione che si tramanda dagli anni Settanta con circa cento varianti disponibili, dal pane farcito con pesce spada, pesche, capperi, olive e pomodori al petto d’oca con le fragole. Per celebrare la propria terra, in un agosto assolato e rovente, le titolari del minuscolo bar che si trova all’ingresso del Mercato Albinelli propongono ai clienti un panino ripieno di cotechino, un must delle feste natalizie. Nato come trovata goliardica, questo è diventato il panino venduto e la sua fama è arrivata oltre oceano. «I turisti stranieri

che vengono da noi cercano il panino con il cotechino — racconta SARA FANTONI, che assieme a CHIARA ha raccolto l’eredità lasciata dallo storico GIANCARLO RUBALDI — lo abbiniamo a salsa verde o Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP, oppure crema di Parmigiano Reggiano DOP con pere e Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP». Se invece si passa da Firenze è tappa obbligata la bottega di alimentari Ino, inaugurata nel 2006 dietro la galleria degli Uffizi. Grazie ad ALESSANDRO FRASSICA, il quale si definisce “chef di panini”, Ino si è affermato a livello italiano ed internazionale come una delle più riconosciute gastronomie dove acquistare materie prime e panini di grande qualità ed originalità. Il panino più venduto

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I bocadillos, bocconcini di pane imbottito presentati in 100 varianti dalla catena multinazionale spagnola 100 Montaditos, che conta almeno 400 ristoranti gestiti in modalità franchising (photo © www.agrodolce.it).

Stanno rifiorendo in tutta Italia le botteghe di generi alimentari dove il panino trova la sua naturale collocazione ma in versione “gourmet”, evoluzione ricercata della classica rosetta con la mortadella

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porta il suo nome, Ale: finocchiona della Macelleria Fracassi, pecorino alle erbe aromatiche del Caseificio Busti e mostarda di peperoni dell’Osteria de’ Ciotti. Milano è stata sicuramente città pioniera del panino d’autore con nomi quali Il Panino Giusto, De Santis e Chic & Go, ma la Capitale può vantare nomi quali CRISTINA BOWERMAN, all’opera da Romeo, chef & baker in zona Prati. Tra le proposte più conosciute di Bowerman, il panino con pastrami di lingua, salsa senapata, giardiniera di verdure e ciauscolo. A Roma sono conosciutissimi anche i panini di Tricolore, Roscioli Caffè e di Open Baladin, dove il panino si sposa benissimo con oltre cento etichette di birra artigianale italiana e viene servito nella versione burger con carne di Fassona piemontese e salse fatte in casa. Anche l’Abruzzo si è lasciato conquistare e ha aperto le porte alla catena multinazionale spagnola 100 Montaditos, del gruppo Restalia e famosissima nel suo Paese per i bocconcini di pane in 100 varianti. Dopo l’apertura a L’Aquila nel 2015,

all’inizio di maggio il brand ha inaugurato un locale anche a Pescara, con ben 1.655 Montaditos consumati nel primo week-end. Tra i panini più apprezzati dagli abruzzesi il numero 77, pollo cajun, formaggio iberico, pancetta, salsa BBQ, il tutto racchiuso nel croccante pane ai cereali. Forte di un’esperienza maturata in 15 anni di vita, 100 Montaditos vanta oggi oltre 400 ristoranti gestiti in modalità franchising in Spagna ed altri 42 all’estero. Proseguendo verso Sud ha sicuramente voce in capitolo anche Gigione, a Pomigliano d’Arco, nel Napoletano. Qui, dove regnano sovrani pizza e pasta al forno, i giovani titolari sono riusciti a far apprezzare al pubblico anche il panino gourmet con carne di razza Chianina abbinata di volta in volta ai sapori mediterranei: dalla cipolla ramata di Montoro ai broccoli sottolio passando per la provola di bufala e i filetti di acciughe. Silvia Saracino Nota A pagina 58 il panino nero firmato da Tricolore (photo © Andrea Di Lorenzo, www.iblend.it).

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Dalla ricetta scritta alla cucina registrata di Giovanni Ballarini

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icette, ricette e ancora ricette; una vera invasione di libri, riviste, trasmissioni televisive specializzate sull’argomento, e poi rubriche, inserti di giornali, romanzi, film di ogni tipo e genere, che poco hanno a che fare con la cucina. Tutti oggi scrivono e declamano ricette: cantanti, attori, scrittori, politici, che ricorrono ai ricordi (non si sa se veri o presunti) della cucina di mamma e nonna e si improvvisano cuochi, mentre, il più delle volte, sono soltanto maldestri spadellatori. In una simile orgia culinaria di ricette, comprese le più inverosimili, la “ricetta” in sé sembra perdere il suo significato

originale, divenendo lo strumento di una nuova comunicazione, al tempo stesso vuota e spettacolare, simbolo di una cucina sempre più fatua. Inoltre, sempre più di frequente le ricette scritte sono affiancate o soppiantate da una “registrazione” visiva e uditiva del procedimento culinario. Basta guardare intorno per rendersi conto che una gran quantità di persone oggi cucina dando un’occhiata veloce a Youtube o semplicemente al web attraverso il computer, il tablet, lo smartphone. Volenti o nolenti, insomma, dobbiamo riconoscere che stiamo passando da una cucina “scritta” a una cucina “informatica” registrata o preregistrata.

Quando è nata la ricetta scritta Anche la ricetta ha una sua “antenata”, la tradizione orale. Era così infatti che in passato si tramandavano le preparazioni da una generazione all’altra. Tutt’al più si poteva trovare una rapida e sintetica descrizione, come nel trattato romano attribuito ad APICIO. Il termine “ricetta” è comunque di origine medievale: più precisamente è legato al momento in cui il medico o magister indicava al farmacista quale farmaco o farmaci prendere (e le istruzioni iniziavano appunto con l’imperativo recipe = prendi!), per preparare, secondo arte, una pozione, un unguento, un elettuario o altra forma di medicina.

L’uso del tablet in cucina permette di seguire passo passo l’esecuzione di una particolare ricetta, anche la più insolita.

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L’abbandono dei tradizionali ricettari a favore del tablet ha portato in cucina preparazioni sempre più precise ma anche sempre più uniformi, indebolendo l’attività interpretativa di un piatto da parte di chi lo esegue. Molto spesso il dottore terminava la ricetta con la sigla S.A., che significava Secondo Arte, intendendo quella del farmacista, che sapeva appunto come miscelare gli ingredienti. In modo analogo la gran parte, se non tutte le ricette di cucina di un lontano passato, indicavano soltanto gli ingredienti e quasi mai le quantità e i procedimenti di esecuzione, se non vagamente, ad esempio “per fare pasticcio”, “per intingolo”…, lasciando quindi all’operatore grande libertà d’interpretazione. Raramente erano indicati i tempi, spesso prendendo come riferimento la durata di una preghiera: un paternostro, due credo e simili. Da qui la grande difficoltà, se non l’impossibilità, di individuare la ricetta “originale”, che nella quasi totalità dei casi era solo un modello generico, soggetto ad infinite varianti, come un mito che ha sempre una quasi infinita diversità d’espressione. La ricetta di cucina diviene via via più precisa man mano che la società diventa più tecnica e scientifica e soprattutto diminuisce la capacità “artistica” di chi la esegue, non solo per quanto riguarda i pesi, ma anche per le modalità di esecuzione. Le ricette moderne sono più precise: riportano

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le dosi e i tempi di cottura, descrivono dettagliatamente i procedimenti, quasi sempre sono corredate da consigli su come presentare il piatto finito e dalle calorie che esso fornisce, sicché anche colui che non ha competenza tecnica in materia difficilmente sbaglia. A tutte queste indicazioni oggi si aggiunge addirittura la visione dei vari passaggi, che possono essere seguiti sullo schermo del televisore o del tablet. Un progresso o un regresso? A parere di chi scrive, entrambi. Avere preparazioni sempre più precise e uniformi, tecnicamente corrette, è senza dubbio un progresso. Un regresso è, invece, la perdita di una certa capacità di interpretare gli ingredienti, che non sono mai uguali. Altro regresso può essere la perdita d’inventiva e creatività, e soprattutto molto grave è la scomparsa della varietà delle esecuzioni, spesso locali e familiari, sviluppatesi partendo da un unico modello. Non vi saranno più “tanti” sughi, leggermente diversi da luogo a luogo e identitari di ogni famiglia, ma solo quello registrato e uguale in tutto il mondo, conseguenza di una mondializzazione e informatica e non degli alimenti bensì della cucina.

La ricetta del futuro Tra vantaggi e svantaggi, l’uso delle ricette registrate va considerato nel contesto generale dei mezzi d’informazione presenti e soprattutto futuri. Ma quale sarà il rapporto con le ricette scritte della tradizione? Più che fare previsioni, comunque, è importante è aver preso atto di quanto sta avvenendo e di quanto ne consegue. L’atteggiamento più razionale è quindi quello di seguire con attenzione il fenomeno, auspicando che si mantenga la memoria della tradizione, che va comunque conservata, favorendone la permanenza e al tempo stesso il miglioramento. Auguriamoci che si verifichi per la cucina quello che è accaduto, ad esempio, in campo musicale. Dopo un lungo periodo di tradizione imitativa, seguito da una fase nella quale dominava la musica scritta con gli spartiti, in tempi più recenti si sono affiancate le registrazioni dal vivo, che convivono molto bene con le musiche scritte, ma che diversamente da queste possono con facilità documentare, trasmettere e diffondere le improvvisazioni creative. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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MERCATI

L’Italia trova all’estero la sua salvezza In questi anni di crisi il comparto agroalimentare ha tenuto di più e meglio di altri settori, soprattutto grazie alle esportazioni. Ma, nonostante le enormi potenzialità, ci sono Paesi che vantano numeri e propensione all’export ben superiori al nostro. Sui mercati internazionali, insomma, resta ancora molto da fare di Sebastiano Corona

L’

agroalimentare nazionale non è solo sinonimo di qualità, ma è soprattutto il comparto che, anche nella fase più buia della crisi degli ultimi anni, ha tenuto. Dopo il +0,6% (a parità di giornate lavorative) con cui la produzione di settore aveva chiuso il 2014 — secondo FEDERA-

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— il consuntivo 2015 ha avuto esito differente e con un –0,6% ha ribaltato il risultato senza raggiungere gli obiettivi previsti. Il 2015 non ha quindi assecondato la ripresina emersa l’anno precedente. Dopo il passo falso di gennaio, il mese di febbraio 2016 ha però registrato un buon rimbalzo. Così il trend del

LIMENTARE

primo bimestre di quest’anno mostra un +0,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il fatturato 2015 del settore è rimasto, per il terzo anno consecutivo, sulla soglia di 132 miliardi di euro, ai quali si devono aggiungere 55 miliardi stimati per il mero primario agrozootecnico. La stagnazione dei

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


Sui mercati esteri il prodotto italiano è molto apprezzato e vende bene perché propone una qualità che è legata all’eccellente capacità di trasformazione del prodotto che è tutta italiana. prezzi alla produzione, unita ad un andamento complessivamente piatto della stessa, ha reso difficili le dinamiche espansive. Nonostante questi dati un po’ altalenanti, si rileva un vistoso vantaggio della produzione alimentare rispetto al totale industria sul lungo periodo. Un dato per tutti, che conferma questa controtendenza, è il fatto che dal 2007 al 2015 l’agroalimentare abbia ceduto solo 3,3 punti percentuali mentre, a fianco, il livello di produzione 2015 dell’industria italiana nel suo complesso abbia perso sullo stesso periodo ben 23,1 punti. Nella comparazione tra i due aggregati, emerge quindi una forbice di circa 20 punti che sottolinea le doti anticicliche del settore. A questo si aggiunge il fatto che sul fronte dell’occupazione, in una fase di crescente perdita di posti di lavoro come quella recente, la forza lavoro del comparto sia rimasta nel complesso stabile a quota 385.000 addetti, segnando erosioni legate essenzialmente al blocco del turnover ed in ogni caso sensibilmente al di sotto di quelle sofferte da altri settori. Anzi, se si effettuano i confronti sul decennio

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2005–2015, emerge che gli occupati nell’alimentare hanno guadagnato 2,5 punti, mentre il totale manifattura ne ha persi 15. Diversi sono invece i dati sui consumi che mostrano che, sebbene si possa essere ottimisti, la ripresa vera e propria per ora sia stata rinviata. L’austerità sembra infatti perpetuarsi. Il consumatore esce dalla crisi spossato e impaurito e sembra non voler abbandonare, soprattutto a tavola, quei modelli alimentari di sobrietà e prudenza che a suo tempo aveva adottato per necessità. Rimane la forte attenzione agli sprechi, il fatto di puntare più alla qualità che alla quantità e una serie di modifiche al carrello che per ora non si evolvono. Esaminando i consumi 2015 emergono, infatti, variazioni in valuta corrente solo del +0,2% per l’ISTAT e del +0,3% per NIELSEN. È quindi anche in linea con questo dato il fatto che il segmento distributivo che ha segnato un trend positivo sia quello del discount alimentare, che nel 2015 ha accelerato con variazioni tendenziali delle vendite in valori correnti superiori al 3%.

Esistono segnali positivi: è emersa, per esempio, una nuova attenzione per la qualità testimoniata dalla diminuzione del white label a favore dei prodotti di marca e da una minore richiesta del primo e primissimo prezzo. Tutto conferma però che il mercato non si sia tirato fuori dalle secche e nel tempo la flessione dei consumi alimentari si è rivelata costante, al punto da superare nettamente quella dei consumi totali del Paese. Sull’arco specifico della crisi 2007-2015, la discesa in valori concatenati dei consumi alimentari è stata pari infatti al –15%, contro la discesa parallela dei consumi totali concatenati del –11%. Come se si fosse più propensi a privarsi del cibo piuttosto che di altri beni. Cosa dunque ha permesso e tuttora permette all’agroalimentare di reggere? Sono soprattutto i mercati esteri dove il nostro prodotto locale è particolarmente apprezzato e dove si possono, e si sono potuti negli ultimi anni — con una acuta diversificazione delle

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destinazioni —, attenuare i rischi e reggere meglio l’urto della crisi. Nel 2015 le esportazioni dell’industria alimentare hanno raggiunto i 28.966 milioni di euro, con un aumento di +6,7% sul 2014, mentre l’incremento dell’export nazionale complessivo si è fermato al +3,9%. Non solo: l’export alimentare mostra un andamento premiante su quello del Paese, sia nel 2015 sia sul lungo termine. Nel periodo 2000-2015 le esportazioni alimentari hanno fatto registrare una crescita del +135% con oltre 77 punti di vantaggio rispetto al +57,6% dell’export totale del Paese e con valori percentuali nel periodo della crisi, dal 2007 al 2015, del 59,6% del comparto, rispetto al 14,5% complessivo del Belpaese. Alcuni mercati più di altri hanno dato un contribuito nell’ultimo anno. Tra questi gli Stati Uniti, con un incremento sulle importazioni di cibo made in Italy del 19,5%. Hanno inoltre consolidato o rafforzato i propri trend il Canada, con un +8,2%, e il Giappone, con un +1,8%. Ha invece subito una brusca caduta

il mercato russo (–33,3%), dovuta all’embargo e alla crisi economica locale (il PIL 2015 russo ha perso 3,7 punti), ma è stata fortunatamente in buona parte ammortizzata, soprattutto dagli USA. A queste dinamiche positive si sono aggiunti altri elementi incoraggianti, come la forte espansione verso mercati emergenti come l’Arabia Saudita (38,7%), gli Emirati Arabi Uniti (28,9), la Cina (23,8), la Tailandia (21,4), la Bulgaria (19,9), l’Ungheria (19,5) Hong-Kong (16), il sud Africa (12,2) Israele (11,6) e la Romania (11). In avvio del 2016 l’export si mostra invece stagnante, ma comunque su un passo migliore, come di consueto, rispetto al totale del Paese, apparso in leggero arretramento. Si confida quindi sul trend del secondo trimestre e di quelli successivi, anche motivati dagli ambiziosi obiettivi posti dal Governo di raggiungere quota 50 miliardi di export agroalimentare nei prossimi anni, grazie ad una serie di provvedimenti e di agevolazioni per il settore.

Ma le esportazioni non sono solo aumentate, hanno anche cambiato la propria mappa geografica Gli Stati Uniti hanno superato la Francia come mercato di sbocco e ora occupano la seconda posizione, dietro la Germania. E si sta confermando quel trend di crescita dei mercati del Middle East (Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita) e di quelli asiatici che già si era evidenziato nel 2014. Sulla Cina, invece, l’Italia deve ancora recuperare i ritardi accumulati negli ultimi anni. Anni in cui invece si sono introdotti bene Paesi come la Germania e la Francia, godendo ora di una posizione di vantaggio. Tuttavia, l’Italia dovrebbe registrare anche nel prossimo anno in Cina un tasso di espansione a due cifre, con tendenze pressoché analoghe per i mercati mediorientali come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Si spera, infine, nella Russia, il cui embargo potrebbe vedere la fine a breve. Una nuova apertura a questo mercato — che nel 2013 rappresentava 562 milioni poi crollati a 330 milioni nel 2015 — sarebbe un’occasione

Nel 2015 il discount è il segmento distributivo che ha segnato un trend positivo, in linea con l’atteggiamento prudente del consumatore maturato in tempi di crisi.

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Il Parmigiano Reggiano è uno dei prodotto maggiormente oggetto del fenomeno dell’Italian sounding negli Stati Uniti. enorme per il nostro agroalimentare. Se si considera inoltre che secondo le stime il valore dell’Italian sounding è di 60 miliardi di euro circa, si può ragionevolmente pensare che quel mercato che sinora ci è sfuggito possa ancora per noi rappresentare una potenzialità enorme, se solo fossimo capaci di sfruttarla. È infatti pacifico che se quegli spazi non sono stati ancora coperti da prodotti nazionali non è tanto o solo perché manca una tutela giuridica, ma anche e soprattutto per nostra oggettiva mancanza di forza produttiva. Capacità, questa, che non può essere costruita né organizzata sul breve termine. I risultati lusinghieri non devono però farci cullare sugli allori I 50 miliardi di euro di obiettivo per la fine del decennio sono un traguardo a cui tutti, istituzioni e imprese, devono lavorare. Questa crescita garantirebbe un aumento degli occupati diretti ed indiretti di circa 10.000 unità. E permetterebbe al made in Italy alimentare di colmare almeno in parte quell’importante gap con Germania e Francia che non rende

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giustizia alle nostre produzioni di alto profilo qualitativo. Questi due Paesi hanno infatti registrato nel 2015 un valore dell’export sul comparto pari a, rispettivamente, 71,1 e 60,5 miliardi di euro. La propensione all’export dell’industria alimentare tedesca supera il 30%, contro il 20% dell’Italia, ma nei valori assoluti il divario è abissale: 55 miliardi di euro contro 26. Anche la Francia ci supera abbondantemente con 42 miliardi di euro, mentre la Spagna ci sta per raggiungere con 22 miliardi. Eppure ci sono elementi positivi che fanno ben sperare: rispetto alla Germania, per esempio, produciamo più valore aggiunto. Il valore aggiunto italiano è di 24 miliardi contro 11 dei tedeschi ed è superiore al doppio nonostante l’abissale differenza nel fatturato. Questo dato, che non è da sottovalutare, va rafforzato ed enfatizzato perché è dal valore aggiunto che si rileva quanto un settore sia importante per l’economia di un Paese e se questo dato è così significativo in Italia è perché il prodotto alimentare nostrano è mediamente meglio posizionato in termini di prezzo.

L’Italia riesce quindi a vendere straordinariamente bene all’estero il proprio brand e propone una qualità che è legata soprattutto alle eccezionali capacità di trasformazione del prodotto. Capacità, ma anche manualità ed arte che si perpetua e rinnova nel tempo. «Il made in Italy alimentare — sottolineano da FEDERALIMENTARE — non è immune da pericoli, tra i quali la concezione di un prodotto strettamente legato alla filiera locale, con riferimento all’origine della materia prima. La globalizzazione dei mercati e la strutturale carenza di materie prime nazionali sul fronte agrozootecnico rendono certi integralismi del tutto irrealistici. Questi atteggiamenti di chiusura danneggiano le nostre grandi tradizioni di trasformatori e l’immagine del food & beverage italiano nel mondo». Insomma, per vincere la sfida dei 50 miliardi di export entro la fine del decennio, dovremmo prima di tutto evitare di farci la guerra in casa. Dobbiamo quindi lottare per raggiungere i risultati e dobbiamo farlo uniti. Sebastiano Corona

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CARN AMB IDEES - CALL SEBALLUT - CARNE & IDEE


PREMIATE SALUMERIE ITALIANE

Boudin, mocette, salsicce e violini: coi Segor scopriamo i salumi della Val d’Aosta di Riccardo Lagorio

I

n salumeria, ogni angolo d’Italia sa trasformare la quotidianità in scoperta. Non nella grassa Emilia-Romagna o nell’opulenta Lombardia, dove le estreme valli garantiscono continue rivelazioni.

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Ma anche in quei francobolli di terra stretti tra monti e fiumi come la Valle d’Aosta. A distinzione di quella tradizione gastronomica innanzitutto i boudin, che altrove potremmo

definire sanguinacci, ma che sulle rive della Dora Baltea acquistano particolare prestigio e assumono più varianti produttive. Quella più diffusa viene elaborata con patate e rape rosse bollite, sangue (nella

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Boudin, mocette anche di selvaggina, salsicce, violini di capriolo, lardo, salame e coppa: i Segor hanno saputo conferire ai salumi valdostani un’aura di deterministica artigianalità pur mantenendosi paladini della tradizione e dell’autenticità. percentuale che va dal 3% al 5%) e parti grasse del suino (pancetta, lardo e guanciale). Le patate possono rappresentare il 50% della preparazione; le barbabietole il 20%. L’insacco avviene in baggetta suina (budello torto) o dritto bovino. L’esaustiva e coerente spiegazione viene fatta da DIEGO SEGOR, ultima generazione di una famiglia che dal 1959 ha aperto macelleria e spaccio nel centro del minuscolo villaggio di Villeneuve, ad una decina di chilometri dal capoluogo. «Per due giorni il salume perde parte del proprio liquido con temperatura abbastanza elevata. Il sangue serve da legante del salume, che può venire messo in vendita poche ore dopo la produzione e consumato preferibilmente entro 5 giorni se si vuole bollire, oppure si stagiona e si affetta come un salame trascorsi 40 giorni dalla preparazione. Ma oggi è possibile mettere il boudin sottovuoto e in questo caso può durare 50

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giorni per il consumo fresco. Il boudin viene utilizzato anche come ripieno di ravioli, la pasticceria del paese lo sta sperimentando come condimento per i salatini e le pizzette», spiega. Il sapore è ferroso, il sangue corroborante, la barbabietola dà colore e conservazione, la speziatura — calcolata a mano e fatta al momento di essere usata — è gradevole (un po’ eccessiva forse la presenza d’aglio): come accade in altre esperienze, il cibo per secoli reietto diventa ghiottoneria. Al pari di tutti i salumi, sino a qualche decennio fa la produzione si concentrava in inverno, ma le nuove tecnologie applicate alla produzione e conservazione dei salumi permettono la preparazione anche durante il periodo primaverile ed estivo. Certo, non erano questi i sistemi di produzione dei salumi nel 1959 quando Arturo Segor rilevava una vecchia macelleria sull’acciottolato

accanto al corso del fiume e tanti altri negozi. Oggi le poche botteghe rimaste non danno certo sfoggio di contemporaneità e la macelleria aderisce alla regola, ma questa è la roccaforte della tradizione tramandata da Ernesto e realizzata da Corrado (dietro il bancone) e Diego (in laboratorio). Pertanto accanto ai boudin ecco le mocette: tagli bovini di razza Valdostana, sottofesa e noce, sezionati in forma di parallelepipedo e messi in zangola insieme a sale, pepe, salvia, rosmarino e aglio per 3 o 4 giorni a seconda della dimensione. «Tolti dalla zangola, mettiamo i tagli a maturare appesi per 24 ore a temperatura intorno ai 22 °C e poi in cella a temperatura che varia tra 2 e 4 °C. Qui ci stanno per un periodo che va da 40 a 60 giorni, sempre in base alle dimensioni», racconta Diego Segor. Il peso finale di ciascun pezzo va dai 300 gr ai 3 kg e i pezzi di maggior volume

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I boudin, sorta di sanguinacci, sulle rive della Dora Baltea acquistano particolare prestigio e assumono più varianti produttive. Quella più diffusa viene elaborata con patate e rape rosse bollite, sangue e parti grasse del suino. Il boudin entra anche come ripieno dei ravioli e la pasticceria del paese lo sta provando come condimento per salatini e pizzette

La salsiccia, con mocetta e boudin, racchiude l’essenza della salumiera valligiana. «La valorizzazione della carne di vacche a fine carriera attraverso le mocette, trova nella salsiccia, dove la carne di bovino è pari al 40% dell’impasto, il suo perfezionamento ideale» dice Diego Segor

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Mocetta e coppa Villeneuve. vengono inseriti in tessuti a maglia elastica simili a collant. Non solo bovino. La tradizione vuole infatti che la mocetta originale sia di camoscio e si sia trasformata poi in base alla disponibilità di polpa: cervo, cinghiale, ma soprattutto, appunto bovino. È anche così che i Segor hanno saputo conferire ai salumi valdostani un’aura di deterministica artigianalità pur mantenendosi paladini della tradizione e dell’autenticità. Hanno ottenuto una mocetta dalla speziatura esuberante, masticabile e ben marezzata; in complesso un salume in linea con i costumi locali d’un tempo eppure adatto all’oggi. Le salsicce rappresentano il terzo lato della compiutezza salumiera valligiana. «La valorizzazione della carne di vacche a fine carriera attraverso la creazione di mocette, trova nella salsiccia, dove la carne di bovino è pari al 40% dell’impasto, il suo perfezionamento ideale», ricorda Segor. Infatti, per questo risultato della sapienza norcina si utilizzano la pancetta e le rifilature di muscoli suini e la copertina di fesa o l’anteriore bovino. La macinatura fine di 6 mm consente che la salsiccia possa essere consumata, oltre che affettata dopo un adeguato periodo di stagionatura, anche alla griglia. Le spezie aggiunte, che conferiscono un gusto assai caratteristico al risultato finale, sono pepe, cannella e noce moscata. Legatura a

mano come per tutti gli altri salumi che nascono nel piccolo laboratorio. La missione è proprio conciliare i gusti arcigni della carne locale con le usanze odierne, spesso abituate a un palato insipido e monotono. E la sfida è vinta anche per i violini di capriolo, odorosi di erbe al naso, selvatici e arcaici, delicati e moderni al contempo. Malgrado la profonda aria di memorie che si respira nella bottega la produzione si è differenziata. Con il salame campagnard per esempio, di carne di sole cosce suine, sale, pepe e vino Torrette (frutto di vitigni autoctoni), o la coppa Villeneuve massaggiata manualmente e innaffiata da Petite Arvine. O il lardo, altro protagonista della cultura valdostana, che i Segor preparano secondo ricetta ripetuta inalterata da metà Novecento tale come era giunta da epoche ancor più remote. Sarà solo il sottovuoto a marcare le differenze tra allora e oggi, una volta raggiunta la stagionatura ideale. Perché si possa allungare nel tempo la fragranza e trasformare la quotidianità in scoperta. Riccardo Lagorio Macelleria Salumificio Segor Via Abbé Cerlogne 4 11018 Villeneuve (AO) Telefono: 0165 95479 E-mail: segorsnc@gmail.com Web: www.salumificiosegor.it

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Salone delle Tecnologie per l’Industria Alimentare

25-28 OTTOBRE 2016

PARMA - ITALIA www.cibustec.it


NUTRIZIONE

Cibo o alimentazione spazzatura? di Giovanni Ballarini

I

l cibo spazzatura, espressione ricalcata dall’inglese junk food, è un tipo di cibo considerato malsano per il basso valore nutrizionale o, meglio, per lo squilibrio compositivo dovuto alla presenza di poche proteine e/o ricchezza di grassi o zuccheri. Riconducibili a questa tipologia di alimenti troviamo gli hamburger e gli hot dog, le patatine fritte, i soft drink preparati e distribuiti dall’industria, ecc… Le malattie più comuni verso cui conduce l’uso esagerato di questi cibi sono l’obesità, il diabete, le patologie cardiovascolari, alcuni tipi di cancro, depressione, alterazione dei normali parametri negli esami del sangue, ecc… Fino a che punto tutto questo risponde a realtà? Un cibo può essere più o meno completo, più o meno equilibrato e non va giudicato in sé, ma riguardo all’uso che se ne fa e al suo inserimento nella dieta. Lo stesso latte, forse il cibo più naturale che esista, se usato da solo e per lungo tempo risulta deleterio. Nel passato possiamo ricordare come molti nobili inglesi abbiano

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contratto la gotta alimentandosi quasi esclusivamente di carne. Forse, allo stesso modo di hamburger e patatine, dovrebbero essere giudicati, se non proprio cibi spazzatura, per lo meno dannosi sotto molti aspetti, anche tanti cibi tradizionali italiani, come i crostini o la polenta fritta con il lardo pestato mantovani, la torta e il gnocco fritto parmigiani, reggiani e modenese accompagnati da salumi, e altri alimenti fritti e grassi, molto scarsi di proteine. In passato questi cibi non costituivano un pericolo perché usati sempre con moderazione, da chi possedeva uno stile di vita molto attivo. Cibi mangiati inoltre di preferenza in inverno, quando era necessaria avere una dieta molto calorica. Oggi i cibi grassi e ipercalorici diventano dannosi per i giovani e i giovanissimi perché ne fanno un uso smodato; e ci riferiamo soprattutto a merendine, bevande gassate, snack salati, dei quali spesso si ignorano le quantità di grassi e zuccheri che contengono. Per di più, a questo tipo di alimentazione squilibrata si associa una vita sedentaria sia per il tempo riservato allo studio o

al lavoro che per quello dedicato allo svago e al divertimento. Il divano di casa davanti al televisore e i videogiochi hanno sostituito i giochi, lo sport e anche le semplici e sane passeggiate, e sono spesso accompagnati da un incontrollato consumo di caramelle, cioccolatini, noccioline e bevande analcoliche o moderatamente alcoliche molto zuccherate. Non sono gli alimenti in sé, ma questi stili di vita i responsabili dell’obesità e del sovrappeso di molti giovani e meno giovani e dell’aumento di tante patologie ad essi collegati. Uno studio condotto da PAUL JOHNSON e PAUL KENNY dello Scripps

Un cibo deve essere sano. Se non lo è, non è cibo. Non esistono cibi spazzatura, ma solo cibi resi buoni o cattivi da come sono usati

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Research Institute suggerisce che il consumo di junk food altera l’attività cerebrale, in modo simile alle sostanze stupefacenti quali cocaina o eroina. Esperimenti condotti sulle cavie hanno rilevato che, se l’uso abbondante si protrae per molte settimane, la parte del cervello destinata alle stimolazioni del piacere diventa insensibile e richiede quantità sempre maggiori di cibo per ritornare sensibile. Nel 2007 il British Journal of Nutrition ha pubblicato uno studio secondo il quale le madri che mangiano junk food durante la gravidanza aumentano la probabilità di malattia nei figli e un articolo simile del 2008 suggerisce che questi bambini sarebbero più inclini all’obesità, al diabete, all’ipercolesterolemia e alle problematiche riguardanti la circolazione del sangue. Va poi precisato che spesso vengono criminalizzati (fino ad arrivare alla creazione di vere e proprie leggende metropolitane) degli alimenti senza conoscere le condizioni e le tecnologie di preparazione che stanno alla loro base. Così un hamburger preparato con carne fresca macinata e cotta alla piastra è certamente più salutare di certi fritti misti e di certe polpette preparate con gli avanzi di carne lessata e fritta in tegame! Anche se ad alcuni può sembrare paradossale, molti prodotti industriali sono più sicuri di quelli tradizionali perché preparati nel rispetto di norme igieniche rigorose, e non è un caso se gran parte delle infezioni e intossicazioni alimentari, anche in Italia, avvengono nell’ombra delle cucine di casa. Un altro fattore importante è costituito dall’apporto nutrizionale degli alimenti. Per ridurre l’uso di quelli con elevato contenuto di calorie (ad esempio, anche oltre 400-500 Kcal/g 100) l’Unione Europea, con il Regolamento 1165 del 2012, ha affermato la necessità di informare e di educare i cittadini ad un consumo consapevole degli alimenti, suggerendo loro di leggere con attenzione le etichette dove sono riportati micronutrienti, grassi, proteine ed energia dei vari prodotti. Questo avvertimento è spesso ignorato dai consumatori; così, per

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L’hamburger è una sorta di polpetta di carne macinata, schiacciata in modo da dargli una forma tondeggiante o ovale; solitamente è preparato con carne bovina, ma può essere anche di pollame, maiale, selvaggina, ecc…. È un alimento diffuso pressoché in tutto il mondo, specialmente dalle catene di fast food. La composizione varia secondo le diverse insegne, ma in generale gli apporti nutrizionali contenuti in 100 g di prodotto sono i seguenti. Energia (kcal)

240-265

Proteine (g)

12-15

Carboidrati (g)

15-30

Grassi (g)

8-16

Fibre (g)

0,8-1,0

Sodio (mg)

160-490

attirare la loro attenzione sul problema, si tentano soluzioni più o meno bizzarre e discutibili, che vanno dai semafori proposti dagli inglesi alla tassazione delle bevande zuccherate proposta dai francesi. In Italia si preferisce evocare una “dieta mediterranea”, senza però considerare che questa dieta, assolutamente ipercalorica, deve essere accompagnata da una buona attività fisica. Se esaminiamo, infatti, quella che era la dieta mediterranea giornaliera dei nostri nonni o bisnonni, più o meno comprendeva circa mezzo chilo di pane, due etti di pasta ben condita, un pezzo di formaggio, un chilo di frutta matura e almeno mezzo litro di buon vino rosso, per un totale di oltre quattromila kcal. Quasi sempre mancava la carne, per il semplice motivo che non era disponibile ai più. Una dieta che, se seguita alla lettera, oggi provocherebbe percentuali di persone obese molto superiori a quelle esistenti. Una soluzione semplice Salvo rare eccezioni non esistono “cibi spazzatura”, ma soltanto “comportamenti alimentari spazzatura” o quanto meno non equilibrati e corretti. Eppure non dovrebbe essere difficile seguire un’alimentazione corretta. La soluzione c’è, infatti, ed è molto semplice. Basta mangiare e bere moderatamente i tanti alimenti di origine vegetale e animale a nostra disposizione nei limiti delle

1.800-2.000 kcal giornaliere e fare un adeguato movimento fisico. Per il calcolo delle calorie si possono leggere le etichette che accompagnano gli alimenti trasformati. Per gli altri (frutta, verdura, carne, pane, pesce) si può ricorrere alle informazioni facilmente reperibili dai tanti siti istituzionali, come quello dell’ex INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione), soppresso e assimilato al CRA (Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura). Senza dimenticare la regola validissima di mangiare solo ai pasti principali, evitando la sequela di spuntini, merende e merendine, e soprattutto adottare la saggia norma di alzarsi da tavola… con un poco di fame! Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma Cenni bibliografici • JOHNSON P.M., KENNY P.J. (2010), Addiction-like reward dysfunction and compulsive eating in obese rats: Role for dopamine D2 receptors, in NATURE NEUROSCIENCE, 13(5): 635-641. • GOODWIN J. (2010), Junk food “addiction” may be real, Business Week (www.businessweek.com). • Craving for junk food “inherited” (2007), BBC News (news. bbc.co.uk). • DENOON D.J., Moms Eat Junk Food, Kids Get Fat (2008), in CBS News (www.webmd.com).

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La nuova Piramide: dalla salute dell’uomo a quella del pianeta Si è conclusa con successo “Revitalizing the Mediterranean Diet”, la prima conferenza mondiale sulla Dieta Mediterranea che si è svolta dal 6 all’8 luglio a Milano, presso Palazzo Lombardia. L’obiettivo principale dell’importante appuntamento era quello di spostare la percezione dei benefici di questo modello nutrizionale da una particolare attenzione per l’uomo, ad un focus sui benefici per il pianeta e le sue popolazioni. Questo suggerimento ha favorito un dialogo interdisciplinare tra scienziati ed esperti in nutrizione, salute pubblica, scienze alimentari, antropologia sociale, sociologia, economia domestica, agricoltura, ambiente e patrimonio culturale, al fine di giungere ad una rappresentazione unitaria della Dieta Mediterranea come modello alimentare sostenibile e rappresentativo di tutta l’area del Mediterraneo, da adattare poi per ogni Paese ai propri contesti e alla propria cucina tradizionale. «Questa nuova proposta di Piramide si basa su un consenso scientifico tra gli esperti e si fonda sulla ricerca e sulle evidenze scientifiche nel campo della nutrizione e della salute, derivate da grandi studi epidemiologici pubblicati in riviste peer reviewed negli ultimi decenni» ha dichiarato il presidente IFMeD-International Foundation of Mediterranean Diet, Lluís Serra Majem. Med Diet 4.0 Il nuovo modello di Dieta Mediterranea che ha dato vita alla Piramide, la Med Diet 4.0, tiene conto di 4 dimensioni: alla valenza nutrizionale, infatti, si integrano gli aspetti culturali, ambientali ed economici. Perché la dieta non è solo “regola alimentare”, ma “regola di vita” che ha un impatto sulla salute, sull’ambiente e sulla società. Quali alimenti? Facciamo chiarezza sul ruolo di pesce e carne Troppo poco pesce nella dieta a livello globale: secondo le stime, infatti, nel nostro Paese, l’effettivo consumo di proteine di pesce si attesterebbe su 40 g a settimana rispetto ai 60 g settimanali raccomandati, mentre i consumi medi negli Stati Uniti e in Europa sono persino inferiori. L’unico esempio virtuoso ci arriva dalla Spagna, che peraltro è il maggiore consumatore al mondo di pesce in conserva. «In un contesto in cui la Dieta Mediterranea si rinnova, con la messa in risalto di una cruciale componente socio-culturale, diventa fondamentale prendere in considerazione da un lato l’importanza di recuperare le nostre radici alimentari, dall’altro il mutamento degli stili di vita, sempre più frenetici. Per questo, relativamente ai consumi di pesce da incentivare, possiamo considerare il pesce in scatola un valido alleato della Dieta Mediterranea: infatti, unisce la praticità di consumo ai benefici di una composizione nutrizionale paragonabile al fresco», ha affermato la professoressa SILVIA MIGLIACCIO, del Dipartimento di Scienze dello Sport e della Salute Umana dell’Università “Foro Italico” di Roma. Per quanto riguarda la carne, «non dimentichiamo che l’uomo è onnivoro da 10.000 anni e la carne, nelle giuste quantità, fa parte della Dieta Mediterranea» ha spiegato la dottoressa ELISABETTA BERNARDI, nutrizionista dell’Università di Bari. «Ricca di nutrienti importanti e componenti bioattivi, la carne è particolarmente importante in alcune fasi della vita: durante la gravidanza e l’infanzia ad esempio, per garantire lo sviluppo cognitivo e la crescita del bambino. Ma è anche preziosa per chi pratica sport o è in età avanzata: è infatti un’eccezionale fonte di proteine utili per lo sviluppo e per preservare i muscoli».

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FIERE L’appuntamento è a Parma dal 25 al 28 ottobre

Cibus Tec 2016: si annuncia un’edizione da record

«C

ibus Tec si riconferma l’appuntamento fieristico verticale ad altissima specializzazione che vedrà protagoniste le tecnologie per le principali filiere alimentari. Un’offerta espositiva unica capace di soddisfare le esigenze degli operatori internazionali che potranno trovare le migliori soluzioni tecnologiche che proprio in Italia, e in particolar modo a Parma trovano le applicazioni più innovative e raffinate conosciute in tutto il mondo. Attraverso Cibus Tec, le eccellenze italiane del food processing & packaging avranno la

possibilità di dimostrare la capacità di offrire innovazione tecnologica e qualità taylor made, facendo leva su specializzazione, sostenibilità ed elevata automazione». Con questa riflessione di ANTONIO CELLIE, AD di Fiere di Parma, lo scorso 13 luglio si

è aperto a Milano l’incontro di presentazione di Cibus Tec, che vede ora il polo fieristico di Parma alleato del colosso tedesco Koelnmesse. A tre mesi dall’apertura dei cancelli, la manifestazione si conferma punto di riferimento italiano per la

Attesi a Parma 1.200 espositori e oltre 30.000 visitatori. Cresce del 20% il grado di internazionalizzazione di espositori e visitatori anche grazie al partner tedesco Koelnmesse

«Attraverso Cibus Tec, le eccellenze italiane del food processing & packaging avranno la possibilità di dimostrare la capacità di offrire innovazione tecnologica e qualità taylor made, facendo leva su specializzazione, sostenibilità ed elevata automazione» sostiene l’AD di Fiere di Parma Antonio Cellie.

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Con un fatturato 2016 di 134 miliardi di euro (di cui quasi 29 derivanti dall’export), l’industria alimentare è il secondo comparto manifatturiero italiano. community del meccano-alimentare con un grado di riconferme da parte degli espositori 2014 del 95% cui si aggiungono 200 nuove adesioni e l’ampliamento significativo (+30%) dell’area dedicata alle tecnologie ed ai materiali per il confezionamento. Cibus Tec esprime la forza attrattiva di tutte le tecnologie (selezione, trasformazione, confezionamento, fine linea e logistica) per le principali filiere agroindustriali (Frutta&Vegetali, Carni, Latte&Derivati, Prodotti da forno, Dolci e Caffè), cui si affiancano nuove aree dedicate a Gelato, Dessert e Ingredienti. Lo sviluppo della manifestazione ha portato all’apertura del nuovo e più capiente padiglione 2. Nel complesso un format di successo che catalizzerà 1.200 espositori e che da quest’anno, grazie a Koelnmesse, con la quale Fiere di Parma ha recentemente creato la Koeln Parma Exhibitions Srl (KPE), potrà avvantaggiarsi di un’importante spinta propulsiva all’internazionalizzazione propria e delle aziende italiane. Le tecnologie sono un indispensabile compagno di viaggio per le imprese dell’agroalimentare che vogliono aggredire nuovi mercati. Solo grazie alla ricerca e all’innovazione espresse nei macchinari il food made in Italy è in grado di arrivare

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ovunque, mantenendo inalterate le proprie caratteristiche di qualità e salubrità e puntando a raggiungere, in questo modo, il traguardo dei 50 milioni di euro di export indicato dal ministro dell’Agricoltura Martina durante Cibus. Con un fatturato 2016 stimato in 134 miliardi di euro (di cui quasi 29 derivanti dall’export), l’industria alimentare è il secondo comparto manifatturiero italiano; oltre 1,2 miliardi di consumatori mondiali, ogni anno comprano un prodotto made in Italy; prodotti evoluti ad alto contenuto di servizio (sughi pronti, condimenti freschi, surgelati, ecc…) si affermano sempre più nelle abitudini, rappresentando oggi il 25% del fatturato dell’agroalimentare. Se le eccellenze italiane, vogliono sfidare il mondo colmando in parte il gap con Germania e Francia (che nel 2015 hanno registrato, rispettivamente, export agroalimentari di 71,1 e 60,5 miliardi), hanno però bisogno di essere sostenute da tecnologie capaci di custodire sapore, freschezza e fantasia: quelle che saranno esposte a Cibus Tec dal 25 al 28 ottobre.

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FORMAGGIO

La nuova arte casearia altoatesina 3.0 nasce da patrioti della miglior specie di Riccardo Lagorio

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on si pensi ad un’apologia di reato. Piuttosto sia il riscontro che non tutto ciò che è commesso (od omesso) in sfregio alle regole vigenti è negativo in sé o sia causa di conseguenze riprovevoli. È la storia di un contadino dell’Alpe di Siusi che per una propria idea di libertà decise di non combattere la seconda guerra mondiale. Fu così costretto a vivere latitante nei boschi per due anni, al

termine dei quali aveva imparato a riconoscere le erbe, le radici, i fiori ed i licheni commestibili per sopravvivere. Di lì a qualche anno Michl si sposò, la guerra fu un brutto ricordo e arrivarono anche i nipoti. Uno di questi fu folgorato dalla competenza del nonno nei confronti di questi vegetali spontanei: è FRANZ MULSER. Franz scoprì presto la passione per il loro utilizzo in cucina grazie allo zio

che gestiva un albergo e alla madre, che preparava un cibo semplice, da ingredienti provenienti dal maso di famiglia. Dopo l’apprendistato in Alto Adige, la sosta in locali come Tantris di Monaco di Baviera sotto le buone pratiche di Hans Haas («mi ha insegnato a cucinare con pochi e semplici ingredienti, enfatizzando il gusto di ciascuno», ci ha confidato Franz) e dai fratelli Karl e Rudolf Obauer a

Franz Mulser al lavoro. All’attività di ristoratore nella malga che gestisce sull’Alpe di Siusi affianca quella di casaro.

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Il formaggio di erbe e fieno ottenuto da latte vaccino crudo, è arricchito dall’aggiunta di fiori essiccati.

Nel mini-caseificio vedono la luce formaggi primo sale, d’alpeggio che ricorda la pasta del Taleggio, oppure ricoperto da una soffice muffa biancastra come presenta il Camembert. Tutti tassativamente a latte crudo. Quello più riconoscibile è il formaggio di erbe e fieno, coloratissimo, profumato, morbido

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Werfen nella zona di Salisburgo («mi sorpresero lavorando animali interi. Ne facevano piatti, ma anche salumi e capii che in questa capacità di trasformare la materia prima risiede l’importanza di un ristoratore», aggiunge). Nel 2000, a soli 21 anni, Franz torna sull’Alpe di Siusi: l’attrazione fatale verso le montagne altoatesine vince sul peregrinare affinando la propria arte in cucina in una baita di famiglia ristrutturata per l’occasione. Gli insegnamenti del nonno vengono subito applicati alle erbe officinali spontanee per farne piatti scenografici e gustosi, ma soprattutto tisane, sciroppi e infusi. Di lì a poco il ristorante di montagna (a 1930 metri) avrebbe conquistato i palati degli sciatori e degli escursionisti e sarebbe diventato un punto di riferimento della ristorazione altoatesina. «Tutto andava per il meglio, ma la mia sfida era quella di utilizzare il latte della malga dei miei genitori, Außergostnerhof», dice. È così che nasce la nuova arte casearia altoatesina, mediando fra

la tradizione dei formaggi di montagna con l’innovazione dell’uso della flora spontanea dell’altipiano come elemento di arricchimento sensoriale (alla vista e al gusto) a cui si aggiunge la risorsa arborea coltivata dalla madre di Franz: porri, nasturzi, lavanda, fiordalisi, serpentaria, viole del pensiero, finocchio selvatico, rose canine e gerani. Dalla metà di maggio alla metà di novembre le vacche Simmenthal del maso hanno la fortuna di vivere all’aperto, si nutrono solo di erba e fieno e producono circa un quintale di latte al giorno. Nel mini-caseificio del seminterrato vedono la luce formaggi primo sale, d’alpeggio che ricorda la pasta del Taleggio, oppure ricoperto da una soffice muffa biancastra come presenta il Camembert. Tutti tassativamente a latte crudo. Certamente quello più riconoscibile è il formaggio di erbe e fieno, coloratissimo, profumato, morbido. Per la sua produzione il latte viene portato a 26 °C, vi si aggiunge un siero acido di latte completamente natu-

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Alla malga Gostner Schwaige da non perdere è la minestra di 25 erbe servita in una pagnotta di pane cotta in un nido di fieno (photo Š David De Vleeschauwer). 80

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rale (siero-innesto) e dopo 30 minuti il caglio di vitello. Lasciato lavorare il caglio per circa 40 minuti a 34 °C, si spacca la cagliata a cubi di circa 1 cm di lato. È durante la rimescolatura della cagliata, quando buona parte del siero è ormai fuoriuscito dalla stessa, che vengono aggiunti i fiori essiccati. Trascorsi pochi minuti, dalla caldaia si estrae una piccola quantità di siero e vi si aggiunge la medesima quantità d’acqua (che ha la stessa temperatura del siero, al fine di riequilibrare l’acidità del liquido) insieme ad una virgola di fieno d’alpe. Quando la consistenza della cagliata è ritenuta corretta, la massa è pronta per essere plasmata in forme da 2 hg a circa 1 kg. Queste rimangono in soluzione salina per un periodo conforme alle dimensioni affinché assorbano la giusta dose di sale. All’inizio dell’asciugatura il formaggio è adagiato su una rete di acciaio per un paio d’ore; al termine verrà riposto su assi di legno e lavato

con una spugna inumidita quotidianamente per i primi giorni e poi a giorni alterni sino alla completa scomparsa dell’operazione. La decorazione con fiori essiccati (edibili) avviene al momento del consumo, dando inaspettatamente vivacità alla materia casearia. Ma l’abilità di Franz emerge nel conferimento di rinnovata dignità al burro, al formaggio di monte, allo yogurt che diventano sostanzialmente altro grazie all’apporto di fiori ed essenze alpestri. A rendere giustizia alla sua abilità sono, in verità, le proposte del ristorante su cui non ci soffermeremo se non per citare i piatti simbolo: speck, salsiccia affumicata e formaggi di malga; fettuccine alle erbe alpine, ortica e salsa al cirmolo; Kaiserschmarren con mirtilli rossi e composta di rosa canina. Ma soprattutto la minestra di 25 erbe (tra cui alchemilla, achillea e finocchio di montagna selvatico dai terreni circostanti): vi infonde brodo e panna provenienti dai suoi

stessi bovini che si nutrono delle medesime erbe. La zuppa è infine servita in una pagnotta di pane cotta in un nido di fieno e arricchita da fiori di montagna come se fossero fuochi d’artificio: insomma una miscela di prodotti ancestrali e comunicati in maniera attuale e moderna. La tradizione tirolese 3.0 di Franz è un monito: mai avremmo avuto questo felice incontro tra le rudezze dell’alpeggio e l’approccio esteticogustativo dei fiori e delle erbe se non avessimo avuto un disertore, un cosiddetto nemico della Patria. Ma la patria è ciò che si capisce e si conosce. Michl e Franz sono, ça va sans dire, patrioti della miglior specie. Riccardo Lagorio Gostner Schwaige Via Saltria, sentiero 3 Alpe di Siusi 39040 Castelrotto (BZ) Telefono: 347 8368154 E-mail: gostnerschwaige@rolmail.net

Al Salone del Gusto con le bontà firmate Occelli Salone del Gusto Terra Madre, uno dei più importanti eventi nazionali dedicati al cibo e alla gastronomia, si terrà a Torino dal 22 al 26 settembre. Il centro della manifestazione sarà il Parco del Valentino con il borgo medievale, cuore dell’appuntamento dove poter incontrare i produttori, assaggiare i cibi e scoprire i modi di in cui vengono prodotti, assistere alle conferenze e partecipare agli appuntamenti pensati principalmente per le famiglie. Per questo importante evento l’azienda Occelli di Farigliano, Cuneo, riserverà per i suoi clienti uno spazio esclusivo accessibile solamente su invito: Casa Beppino Occelli, nello storico club “Canottieri Armida”. Qui, in tutta tranquillità, si potrà assaporare l’assoluta qualità del burro e dei formaggi firmati Beppino Occelli accompagnati da piatti classici della tradizione proposti ed interpretati da importanti chef. Per info: ufficio.stampa@occelli.it

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Tradizioni britanniche a marchio Dop

King Stilton di Nunzia Manicardi

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Il nome Blue Stilton deriva dalle caratteristiche striature del formaggio (photo © Fotolia).

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Per essere definito Stilton questo erborinato di lusso, delicato e cremoso, deve essere prodotto esclusivamente nelle tre regioni britanniche del Derbyshire, Leicestershire e Nottinghamshire

li Inglesi lo considerano il Re dei formaggi. Anche se altri popoli — sia i Francesi con il loro Roquefort che soprattutto noi Italiani con il nostro Parmigiano Reggiano — hanno valide ragioni per contendere loro questo primato, ciò non toglie che lo Stilton sia un formaggio tra i più famosi, pregiati e costosi del globo. Non a caso il Blue Stilton (il nome completo deriva dalle caratteristiche striature di questo colore provocate dalle muffe) è uno dei pochi formaggi tradizionali britannici a potersi fregiare del marchio di Denominazione d’Origine Protetta (PDO – Protected Designation of Origin in inglese) della Commissione europea ed è senz’altro quello che meglio rappresenta a livello mondiale la tradizione casearia nazionale. I requisiti per la denominazione Per essere definito Stilton questo erborinato di lusso, delicato e cremoso, deve essere prodotto esclusivamente nelle tre regioni britanniche del Derbyshire, Leicestershire e Nottinghamshire ed essere preparato seguendo

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alcune precise regole la cui osservanza, al momento, viene riconosciuta soltanto a sei caseifici al mondo, in base a ispezioni periodiche effettuate da un’agenzia indipendente accreditata dallo standard europeo EN 450011. C’è anche un’associazione, la Stilton Cheese Makers’ Association (SCMA), che vigila attentamente su tutto ciò che riguarda questo formaggio. Da essa abbiamo tratto la maggior parte delle notizie che seguono. Per essere denominato Stilton il formaggio deve: 1. essere prodotto nelle regioni menzionate con latte locale pastorizzato prima dell’uso; 2. avere la tradizionale forma cilindrica; 3. avere l’involucro esterno formatosi naturalmente; 4. non essere pressato; 5. avere le delicate venature blu che si irradiano dal centro della forma; 6. avere il gusto tipico dello Stilton. Da “Robinson Crusoe” allo Stilton Fu DANIEL DEFOE, lo scrittore autore del celeberrimo “Robinson Crusoe”, a dargli il nome annotando nel 1727

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che successivamente prese il nome della città. È stato anche possibile assodare che Thornhill comprava questo formaggio dalla moglie di un agricoltore di nome Frances Pawlett che viveva vicino a Melton Mowbray, localizzando così con certezza la zona di produzione.

Blue Stilton a Cheese 2013 (photo © cheese.slowfood.com). nel suo “Viaggio attraverso Inghilterra e Galles” che stava passando «attraverso Stilton, la città famosa per il formaggio». In realtà, si trattava di una grave inesattezza poiché a Stilton, che è nella regione del Cambridgeshire, non si è mai prodotto lo Stilton! È vero però che fu proprio in questa cittadina situata circa 80 miglia a nord di Londra che Defoe gustò questo formaggio, cadendo così nell’errore di attribuzione che poi si è propagato con tanto successo. L’antefatto

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è il seguente: Stilton, che si trova sull’antica Strada Great North Road, nel Settecento — cioè all’epoca di Defoe — divenne posto di sosta per le carrozze che viaggiavano tra Londra e York. I cavalli potevano essere cambiati e i viaggiatori rifocillarsi in una delle osterie della città. Fu un certo COOPER THORNHILL, imprenditore dell’Est Midlands, proprietario del famoso pub The Bell Inn, che fece assaggiare a Defoe e agli altri suoi compagni di viaggio il tenero e cremoso formaggio venato di blu,

Soltanto sei i caseifici autorizzati Lo Stilton è ancora prodotto nello stesso modo in cui veniva prodotto quando Daniel Defoe scriveva nel suo diario di viaggio e, lo ricordiamo, soltanto in sei caseifici appositamente autorizzati. Occorrono 78 litri di latte per produrre, dopo una lunga lavorazione, una forma di Stilton del peso tradizionale di 8 chilogrammi. Il risultato è un formaggio cremoso ma friabile che oggi è spesso utilizzato come ingrediente, insieme ad albicocche, ginger, limone o uva, per creare un inconfondibile cheesecake. Ogni mattina di buon’ora il latte fresco appena pastorizzato viene versato in una vasca aperta in cui vengono aggiunti alcuni batteri specifici e il Penicillium roqueforti. Una volta che il caglio si è formato, il siero rimanente viene rimosso e lasciato ad asciugare per tutta la notte. Il mattino seguente il caglio viene tagliati in blocchi per permettere un ulteriore drenaggio prima di essere macinato e salato. Ogni formaggio richiede circa 11 kg di caglio salato messo dentro a una forma cilindrica. Le forme, dopo essere state riposte, vengono girate ogni giorno per 5 o 6 giorni al fine di permettere un ulteriore naturale drenaggio. Questo assicura la regolare distribuzione del morbido contenuto e fa sì che, senza che il formaggio venga mai pressato, si formi la tipica “pasta sbriciolata”, requisito importante per la fondamentale fase di “imbluimento”. Dopo 5 o 6 giorni i cilindri vengono rimossi e l’involucro di ogni formaggio sigillato mediante levigatura o avvolgimento in modo da prevenire che l’aria possa entrare nel formaggio. Gli Stilton sono poi trasferiti in speciale ambienti per la maturazione dove la temperatura e il livello di umidità sono attentamente controllati. Inoltre, durante tutto il periodo di riposo, ogni formaggio viene regolarmente girato.

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Dopo circa 6 settimane il formaggio ha formato la caratteristica crosta dello Stilton ed è pronto per essere bucato con speciali puntine di acciaio inossidabile. Questo procedimento permette all’aria di penetrare all’interno del formaggio formando le tipiche venature blu. Dopo 9 settimane di maturazione ogni formaggio pesa circa 8 kg ed è pronto per essere venduto. Prima, però, ognuno di essi è testato con uno speciale “ferro” che serve per sondarlo ed estrarne un campione. Dall’ispezione visiva e olfattiva il controllore è in grado di determinare se il formaggio è pronto per essere marcato e venduto come Stilton. Soltanto il formaggio della più alta qualità viene marcato con questo nome; quelli giudicati non idonei alla marcatura sono commercializzati come “formaggi blu”. A questo stadio di maturazione lo Stilton è abbastanza friabile e ha un sapore leggermente acido. Alcuni consumatori preferiscono formaggi più maturi in quanto dopo altre 5 o 6 settimane il formaggio diviene di pasta più liscia e quasi burrosa con un aroma più rotondo e maturo. Diversamente dalla maggior parte dei formaggi il Blue Stilton può essere surgelato con successo. Se avvolto con il foglio di alluminio o nella pellicola trasparente può essere conservato in freezer fino a 3 mesi. Per scongelarlo si consiglia di riporlo una notte nel frigo e poi lasciare che raggiunga la temperatura ambiente prima di servirlo. Il White Stilton non ha la muffa Esiste anche lo Stilton bianco che, come il classico, è una denominazio-

Lo Stilton è prodotto nello stesso modo in cui veniva prodotto quando Daniel Defoe scriveva nel suo diario di viaggio e, lo ricordiamo, solo in sei caseifici appositamente autorizzati

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ne protetta; questo formaggio viene prodotto come il tradizionale Stilton blu con l’unica eccezione che non vengono aggiunte le spore di muffa e che la commercializzazione inizia dopo appena circa quattro settimane di maturazione. Il Gold Stilton riluce d’oro Dello Stilton è stata realizzata perfino una versione (moderna) contenente scaglie di vero oro. Adatto come dessert, è cremoso come il White mentre il prezzo… va alle stelle! Tanto che è considerato fra i più costosi al mondo (insieme, per la cronaca, con alcuni formaggi italiani di antichissima tradizione). Anche lo Stilton “normale” è comunque molto costoso: almeno 40 euro al chilogrammo. The Stilton Cheese Makers Association La SCMA (Stilton Cheese Makers Association) è stata fondata nel 1936 per rappresentare gli interessi delle aziende di produzione dello Stilton e per elevarne gli standard qualitativi. Oggi mantiene gli stessi obiettivi ma è anche responsabile della promozione nel mondo del prodotto, la gestione del marchio commerciale e la verifica degli standard qualitativi di produzione. La SCMA è diventata garante della certificazione d’origine dello Stilton nel 1966. Ancora oggi esso è l’unico formaggio britannico così accreditato. Ciò ha fatto sì che il suo buon nome venisse protetto e che le imitazioni prodotte in altre regioni, al di fuori di quelle accreditate, non potessero essere vendute sotto il marchio Stilton. Inoltre, la SCMA si è occupata, o si sta occupando, delle certificazione del marchio in numerosi Paesi extra comunitari come gli USA, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Sud Africa. Recentemente, la SCMA ha investito molto per promuovere lo Stilton sia in UK che negli Stati Uniti. Lo Stilton in cucina In Gran Bretagna lo Stilton è posizionato sul mercato come prodotto artigianale di grande qualità e adatto ad essere gustato in numerosi modi durante tutto l’anno sia al naturale che come ingrediente per la prepa-

razione dei più svariati piatti. La sua versatilità gli consente di essere impiegato con facilità per numerosi antipasti e primi piatti nei quali costituisce l’ingrediente che arricchisce e dona personalità rendendo inconfondibile la preparazione. Il Blue Stilton deve sempre essere presente sui vassoi dei formaggi, servito con cracker o in sostituzione col tradizionale plum loaf (simile al plum cake). Come tutti i formaggi di qualità deve essere servito a temperatura ambiente (circa 20 °C). Si accompagna ottimamente con qualsiasi vino. Tra le ricette tradizionali britanniche di maggior gradimento ricordiamo la patata stufata e l’insalata verde con Stilton; il dolce a base di White Stilton, mele, pere e noci pecan; funghi e Stilton con burro alle erbe; risotto allo Stilton, zucca, salvia e noci; la già menzionata cheesecake. Il topo che gli ha rubato il nome Allo Stilton si è ispirata anche la scrittrice italiana ELISABETTA DAMI per la creazione, sedici anni fa, dell’omonimo personaggio dei fumetti, Geronimo Stilton, il topo intellettuale protagonista di una serie di libri per bambini dalla grande fortuna editoriale (tradotti in 45 lingue, hanno venduto più di 30 milioni di copie soltanto in Italia e più di 115 milioni in tutto il mondo). Nato a Topazia, capitale dell’Isola dei Topi, laureato in Topologia della Letteratura Rattica e in Filosofia Archeotopica Comparata, direttore de “L’ECO DEL RODITORE”, Geronimo Stilton adora scrivere libri e, nel tempo libero, ascoltare musica classica e collezionare antiche croste di formaggio del Settecento (da cui il riferimento al formaggio del quale, all’epoca, aveva parlato Defoe). Anche questo personaggio ha, sia pure indirettamente, contribuito a tenere desta l’attenzione sul nome e, di conseguenza, anche sul prodotto che infatti attualmente, per l’insieme di tutti questi fattori positivi, continua a godere di grande considerazione e fortuna commerciale. Nunzia Manicardi Nota A pagina 82 il Blue Stilton (photo © Fotolia).

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Salvagn e la nascita del formaggio di Raffaele Bertolini

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icordo quando, bambino, le sere d’estate mio nonno mi faceva sedere accanto a lui, alla luce lunare, davanti a casa, e mi raccontava le vicende di SALVAGN, quell’omino che si era arrampicato sin sulla Luna per raggiungere la sua amata, ma che poi non era più riuscito a scendere. A distanza di molti anni vorrei far luce su questa figura presente in molte narrazioni regionali italiane e straniere. Perché la figura di Salvagn, da quando prese forma nella mente di un nostro antenato, ha assorbito all’interno del proprio mondo simbolico una compagine variegata di caratteri e significati, con i quali ha accompagnato generazioni di uomini nel cammino verso l’età adulta e oltre. Nella sua molteplice ricchezza di simboli ve n’è uno che lo rimbalza all’interno della narrazione casearia, di mio interesse, ed è quello relativo alla nascita della caseificazione. Il folclore, difatti, utilizza la figura mitica di Salvagn, altrimenti conosciuto come Homo selvaticus o Selvadego, o Om di Bosch o Ommo sarvadzo (a seconda di dove ci si trovi, al Nord

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o al Sud dell’Italia) per giustificare il possesso di alcune capacità umane (saper fare il formaggio, saper ricavare olio o, addirittura, cera dal formaggio) altrimenti inspiegabili. Secondo narrazioni più consuete, Salvagn veniva acciuffato da un manipolo di uomini e portato all’esterno del bosco con un trabocchetto, per lo più utilizzando delle cavie umane, giovani vergini di cui il selvaticus sembrasse invaghirsi assai facilmente. Nelle mani dei villici, il selvaticus sciorinava tutta una serie di segreti sull’arte di fare il formaggio e su altre abilità tecniche, lasciando allibiti, ancor prima che grati, gli uomini del villaggio. Pensando di aver ottenuto il massimo da lui, lo rilasciavano, non prima di giocargli qualche altro tiro mancino. Allontanandosi, Salvagn si godeva la propria magra rivincita urlando loro che molto altro sapere celava agli uomini, troppo frettolosi e avidi. Il bosco era la sua casa e il suo nascondiglio. Si diceva dimorasse nel tronco cavo di un albero, piuttosto che in una grotta. Alcuni sostenevano che avesse preso per moglie quella tal ragazza del villaggio vicino, altri giu-

ravano di averlo visto in compagnia di una donna e di alcuni bambini. L’immaginazione umana ha tentato il possibile per farlo assomigliare agli uomini e altrettanto per allontanarlo. Il suo carattere precipuo è infatti l’ambivalenza, lo stare sul limite, tra l’umano e l’animale. Perché soltanto in questo spazio simbolico la sua figura si arricchisce di significati e si presta ad essere usata a vari scopi. Se vogliamo avere un’idea del suo aspetto dovremo andare a Sacco, in Valtellina. In quel remoto paesino montano si erge una casupola, di qualche secolo ormai, all’interno della quale ci si immerge in questo mondo fantastico. Sulle pareti affrescate troviamo varie figure mitologiche e fantastiche, tra cui quella di Silvanus. La sua figura possente, di uomo irsuto, con in mano una clava, dall’aspetto bonario nonostante il folto pelame che lo fa rassomigliare più a un lupo che a un uomo, viene accompagnata da un’iscrizione: “E sonto un hom salvadego per natura, chi me ofende ge fo pagura”. In un affresco di un’altra casa, in provincia di Bergamo, lo stesso uomo-lupo mette in guardia

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L’Uomo selvatico è un essere umano leggendario presente in molte tradizioni popolari italiane, soprattutto alpine e appenniniche, dove assume nomi diversi a seconda del dialetto locale. Le storie che riguardano questo essere, comunemente descritto come irsuto e con capelli e barba lunghi, si tramandano da tempo immemore nella tradizione orale

A contatto con la natura ha esaltato al massimo le sue caratteristiche fisiche che gli assicurano la vita: forza, robustezza, fiuto eccezionale… A volte sente il bisogno di fraternizzare con gli uomini: allora si ferma insegnando loro i mestieri della malgazione, della lavorazione dei latticini di cui è maestro

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Uomo selvaggio con verga e testa di leone su scudo, Chiesa di San Martino, Ambierle, XV sec. (photo © allependicidelmontemeru.blogspot.it). chi voglia varcare la soglia dall’avere intenti poco pacifici. La sua funzione, in questi casi, è quella di spauracchio contro possibili malintenzionati che volessero entrare nell’abitazione per recare offesa. Per ovvi motivi venne utilizzata la sua figura, primo fra tutti perché era un’immagine condivisa e, secondariamente, perché era al tempo stesso ricettacolo di caratteri positivi e negativi, di bestialità, forza disumana e istinto annientatore. Possiamo dire che il nostro Silvanus, o Homo

selvaticus secondo alcuni studiosi, venisse utilizzato dai nostri avi in base alle esigenze. La sua figura silvestre difatti ben si prestava a fare da guest star durante il carnevale che preannunciava l’arrivo della primavera: le civiltà europee ed extraeuropee erano legate al culto della fertilità, e quindi delle stagioni. L’uscita dall’inverno e l’entrata nella stagione della fioritura, della semina e poi della raccolta, per una civiltà non più cacciatrice ma agricola, rappresentava il senso stesso della vita. L’Homo selvaticus, con il

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L’uomo selvatico dipinto in un edificio di Sacco in Valtellina (photo © ufoonline.freeforumzone.com). suo legame “naturale” con l’ambiente, la Natura, intesa sia come Madre che come Sposa, simboleggiava al meglio il nesso uomo-natura. La sua presenza nei carnevali ne metteva in scena la goffaggine, il lato oscuro del male, la bramosia, in poche parole il lato negativo umano; dall’altro, a fare da contraltare, la comunità che difendeva le proprie vergini, i propri possedimenti e che raggiungeva un happy end con l’eliminazione fisica del selvaticus. In questi casi la figura di Silvanus si riallaccia alla figura del re sacrificato, tanto diffusa in ambiente europeo. La prima traccia di un re sacrificato la troviamo nel culto di Diana cacciatrice. Il suo sacerdote, un ex-schiavo resosi libero, diviene, suo malgrado, il suo re sacerdotale, il difensore del suo fuoco sacro. Vive all’interno di un bosco, posto nei pressi della odierna Ariccia, non lontano dal lago di Nemi, ai piedi del monte Albano. Rami, fronde, foglie e rivoli sono i suoi unici compagni, fin quando il fato vuole che un altro uomo valichi il limite tra sociale e naturale, entrando nel bosco, riuscendo a spezzare il ramo d’oro — il ramo sacro alla dea — ponendo così fine al regno del sacerdote e caricando su di sé tutta la responsabilità insita nella difesa di un culto pagano. Da quel momento il bosco avrà un nuovo difensore, un nuovo re, sempre in bilico tra la vita e la morte e sempre all’erta.

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La figura dell’Homo selvaticus, poi ripresa da narratori di tutte le epoche, confusa e mischiata con altre figure allegoriche della tradizione popolare (il Licantropo, l’Orso, il Diavolo, lo Yeti, Mago Merlino...) affonda le radici nei miti greci e romani rispettivamente di Fauno e Silvano. Ai nostri avi piaceva, e in qualche misura, rassicurava, il fatto di poter credere di avere una certa influenza non solo sulla vita quotidiana, svolta all’interno della società o delle mura domestiche, ma anche sugli eventi naturali, soprattutto quelli da cui poteva dipendere un guadagno, la riuscita di un’impresa o, addirittura, la propria stessa esistenza. Ecco allora la creazione di figure mitologiche che, raccontate a grandi e bambini, consentiva da un lato di dare delle risposte alle varie domande sulla consistenza di certi fenomeni naturali e, dall’altra, di rendere questi stessi fenomeni in un certo modo governabili o, alla meno peggio, prevedibili. Silvano era per i Romani il dio dei boschi, avendo i boschi questa aura di mistero. Governava tutto ciò che all’interno del bosco accadeva e, debitamente ingraziato, poteva dispensare buona fortuna durante un viaggio o prosperità familiare. Il nome di Silvano viene poi, nel corso delle generazioni umane, storpiato in Salvadegh, Salvagn, Om salvei, Ommo sarvadzo, Salvanel, Selvadego in base al dialetto locale. Non solo

il suo nome subisce una trasformazione fonica ma le sue sembianze e i caratteri che lo contraddistinguono mutano, come ovvio, al mutare della sensibilità e delle circostanze umane. Il Silvano o Selvaticus di cui ci occupiamo oggi assume, nel corso dell’Alto e poi del Basso Medioevo delle caratteristiche che lo pongono, a livello antropologico, tra l’uomo e l’animale: dell’uomo conserva le sembianze, lo sguardo, la parola, la saggezza ottenuta dalla conoscenza; dell’animale il manto villoso, la vita asociale, la forza, l’istinto. La società umana che partorì l’immagine che troviamo sui muri affrescati delle nostre montagne recuperava un folclore antico, sgombro di ogni patina religiosa, riutilizzandolo per la sua carica narrativa e immaginifica. La sua poliedricità fa sì che possiamo ritrovarlo anche su testi scritti, vetrate di chiese, complessi architettonici, come il Duomo di Milano, scolpito nella pietra a suggello di lignaggi familiari, intagliato nel legno. Addirittura assume le sembianze di santi (come Sant’Onofrio, nel chiostro del convento di Santa Brigida ad Averara, Bergamo) e di re (Nabucodonosor, in alcuni testi biblici). Il suo atteggiamento però è sempre coerente: la clava, la folta peluria e il suo stare in piedi bastano a trasmettere all’osservatore tutto un insieme di significati che noi, oggi, abbiamo parzialmente perduto. Raffaele Bertolini Tagliato per il Gusto di Bertolini Raffaele Lazise (VR) Telefono: 328 8268743 E-mail: info@tagliatoperilgusto.it Web: www.tagliatoperilgusto.it

Nota A pag. 86 photo © Grafvision - Fotolia.

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Mandrie in quota, inizia la stagione del Bitto Dop

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ono ormai quasi tutte in quota le mandrie che, fino a metà settembre, saranno impegnate nella produzione del latte che darà origine al pregiatissimo Bitto DOP. Quasi tutti i 60 alpeggi in provincia di Sondrio, da Livigno a Madesimo, sono stati caricati, come si dice in gergo tecnico, e dunque i 3.500 capi, bovine in lattazione, possono pascolare nutrendosi dei profumati foraggi che si trovano nella fascia compresa fra i 1.800 e i 2.000 metri di quota. Il Disciplinare

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di produzione detta, infatti, anche i tempi per la produzione dell’eccellenza casearia valtellinese stabilendo che può avere inizio a partire dal 10 di giugno. Quest’anno vi è stato un lievissimo ritardo, soprattutto per quanto riguarda gli alpeggi più alti in quota a causa delle condizioni meteorologiche caratterizzate da persistenti piogge. Ora, però, si festeggia l’inizio della stagione così come un tempo di nuovo favorevole con la fine delle precipitazioni e l’innalzamento delle temperature.

Tempi e modi, precisi e codificati, consentono di produrre un formaggio garantito, fatto solo di latte fresco munto e lavorato in quota: il Bitto DOP è infatti un formaggio a pasta cotta e semi-dura, prodotto lavorando, due volte al giorno, la mattina e la sera, subito dopo la mungitura, il latte vaccino crudo intero. Al latte vaccino, inoltre, può essere aggiunto latte caprino crudo in misura non superiore al 10%. Questo formaggio deve essere sottoposto a stagionatura per almeno 70 giorni. A decorrere

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dal settantesimo giorno dalla data di produzione il Consorzio di tutela incaricato, previo controllo effettuato da un apposito organismo di verifica con esito positivo, appone sulle forme il contrassegno e il marchio a fuoco. Ogni stagione in media vengono prodotte e marchiate quasi 18.500 forme di Bitto DOP con l’impiego di 2.400 tonnellate di latte. Fino alla fine di settembre, dunque, le mandrie saranno libere negli oltre 17.000 ettari di pascolo ancora utilizzati e dunque

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mantenuti dagli alpeggiatori valtellinesi, a beneficio dell’intero territorio. Tutti in alpeggio Un dato interessante dal punto di vista del comparto è quello che riguarda il numero di persone che ogni anno scelgono di vivere i mesi estivi in alpeggio, portando così avanti un’antica tradizione. Si stima che per i prossimi 4 mesi saranno oltre 300 le persone impegnate in quota nella produzione del Bitto DOP. Gli alpeggiatori, infatti, vengono accompagnati in malga dai

famigliari. Nelle stalle del fondovalle invece prosegue la produzione dell’altra DOP, quella del Valtellina Casera, che può contare mediamente su un quantitativo di quasi 180.000 forme marchiate ogni anno. Nota Il Bitto è prodotto esclusivamente con il latte proveniente dagli alpeggi della provincia di Sondrio e di alcuni comuni limitrofi nell’Alta Valle Brembana e in provincia di Lecco (photo © Silvia Poli).

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I VINI DI PREMIATA SALUMERIA ITALIANA

Degustazione: di Laura

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state, caldo, tanta voglia di andare al mare, in piscina, al fresco e poca, pochissima voglia di cucinare, di accendere un fornello o di attivare anche solo per pochi secondi il microonde. Molto meglio qualcosa di fresco, magari comodo da

portare con sé durante la gita, un bel panino sfizioso è quello che ci vuole e una bottiglia ghiacciata nel paniere. Vi abbiamo selezionato alcune ricette gustose ma non banali, fateci pervenire dai nostri lettori attraverso la pagina Facebook dell’autrice dell’articolo,

Salmone, robiola, menta, limone e Bardolino Chiaretto Spumante

Ricci di mare e Zibibbo, la Sicilia trionfa

Caprino, spinaci, miele e mandorle: Alto Adige Doc Gewürztraminer

Panino al latte con salmone affumicato, robiola fresca, foglie di menta e fettine di limone: dal fornaio di fiducia fatevi preparare alcuni morbidi panini al latte, rotondi. Per tagliarli, utilizzate il coltello da pane e procedete con lentezza, per evitare di romperli. Spalmate, sempre con delicatezza, la robiola, che deve essere freschissima. Adagiatevi un paio di fette di salmone affumicato, di primissima qualità, che avrete adattato alla misura del panino. Aggiungete ora una sottilissima fetta di limone non trattato, con la buccia e alcune foglie di menta. L’abbinamento con il vino è arduo: la forte acidità della fetta di limone blocca parecchie strade, ma dopo lunghe riflessioni abbiamo optato per un Bardolino Chiaretto Spumante Femme Fatale dell’azienda BENAZZOLI. Prodotto con uve Corvina per l’80%, 20% Rondinella, è intenso di frutti freschi e leggera speziatura, perfetto a tutto pasto, reggerà il tenzone con questo panino gustoso e articolato. Ricetta di GIANLUCA STEFANINI.

Bruschetta ai ricci di mare: obbligatorio il pane di semola di grano duro, meglio se di Altamura, tagliato a fette spesse e abbrustolite, sulle quali strofinerete l’aglio, rigorosamente italiano, e condirete con un pizzico di sale, pepe e olio extravergine d’oliva. Ora adagiatevi il corallino riccio di mare crudo, ovviamente più che fresco, e lasciatevi trasportare dal sapore intenso del mare. Una bruschetta che sa di mare e di Italia del gusto, di Sud e di caldo, di gusti unici e di prodotti eccellenti. In abbinamento un vino da uve Zibibbo o Moscato d’Alessandria, il Terre Siciliane Zibibbo di BARRACO, sapido quanto serve a contrastare l’intensità del riccio e i ricordi salmastri del mare, aromatico di albicocca, zeste di bergamotto e limone di Sicilia, freschezza adeguata, lungo e assolutamente convincente. Con la bruschetta ai ricci di mare il matrimonio è perfetto, una calda sera in Sicilia renderebbe il tutto indimenticabile. Grazie a MARCO LANDINI.

Pane ai cereali, formaggio di capra, spinaci, miele e mandorle: da alcuni anni i fornai hanno ampliato le produzioni, offrendo pani sempre più particolari e ricette curiose. Il pane ai cereali in realtà in alcune zone del nostro paese è sempre stato di tradizione, come l’Alto Adige, ma ora lo si trova con facilità in tutta Italia. Prendete un morbido panino ai cereali, tagliatelo a metà e spalmate il formaggio di capra fresco. Gli spinaci, freschi, li avrete fatti cuocere per alcuni minuti in poca acqua, strizzati, salati e pepati, se li passate al tritatutto formeranno una morbida salsina che unirete al formaggio. Fate cadere sopra un cucchiaino di miele, preferibilmente di castagno, e una manciata di mandorle tritate. In abbinamento un vino di spiccata freschezza, con un leggero residuo zuccherino che lo rende adatto alla nota dolce del miele. Si tratta di un vino della cantina RITTERHOF di Caldaro: Alto Adige Doc Gewürztraminer Auratus Crescendo 2014, rotondo, intenso, aromatico e lungo. Si ringrazia PAOLA FERRARI.

Azienda Agricola Benazzoli Fulvio Loc. Costiere 25 37010 Pastrengo (VR) Telefono: 045 7170395 info@benazzoli.com

Barraco Contrada Fontanelle 252 91025 Marsala (TP) Telefono: 329 2073935 info@vinibarraco.it

Cantina Ritterhof Strada del Vino 1 39052 Caldaro (BZ) Telefono: 0471 963 298 info@ritterhof.it

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ad ogni vino il suo panino Franchini

che vi ha abbinato il vino. Eccole: panino al latte con salmone affumicato, robiola fresca, foglie di menta e fettine di limone; bruschetta ai ricci di mare; pane ai cereali, formaggio di capra, spinaci, miele e mandorle; pane toscano con burrata, peperoni alla brace, cipolla

di Acquaviva appassita, pesto di rucola e fiori di zucca; panino al sesamo con panelle di ceci, pomodoro cuore di bue, tahina e rucola; pane integrale con mozzarella di bufala, acciughe del Cantabrico e olio extravergine di oliva. Buon appetito!

Burrata, peperoni, cipolla, pesto di rucola, fiori di zucca e Forlì rosso

Panelle di ceci, cuore di bue, tahina e rucola con la Nosiola

Mozzarella di bufala, acciughe del Cantabrico e Trento Doc

Pane toscano con burrata, peperoni alla brace, cipolla di Acquaviva appassita, pesto di rucola e fiori di zucca: panino gourmet, ricetta regalatoci dalla chef NADIA MORANDI del Principe di Savoia di Milano, che ringraziamo. Grigliate e successivamente pelate un peperone croccante, che lascerete raffreddare. Fate appassite in pochissima acqua la cipolla, salate e pepate. Preparate a freddo, con il frullatore ad immersione, un pesto con rucola, olio extravergine d’oliva e un pizzico di sale. Fate appassire in una padella antiaderente i fiori di zucca per pochi secondi a fuoco vivo, con un filo d’olio d’oliva, salate leggermente. Componete ora il panino: sulle fette di pane spalmare prima il pesto di rucola, adagiare la cipolla, la burrata, i peperoni e i fiori di zucca. In abbinamento un vino dei colli di Castrocaro, Alloro, un Forlì rosso della cantina VILLA BAGNOLO, prodotto con uve Sangiovese per il 70%, Cabernet Franc 15%,Cabernet Sauvignon 15%. Buona e certamente equilibrata con il ricco panino la nota olfattiva e speziata, in armonia.

Panino al sesamo con panelle di ceci, pomodoro cuore di bue, tahina e rucola: per prima cosa preparate le panelle, seguendo la ricetta tradizionale palermitana, oppure, se avete la fortuna di trovarvi proprio in questa bellissima città, potete acquistarle già pronte. Si tratta infatti di un cibo di strada molto noto e gustosissimo, il cui ingrediente principale è la farina di ceci,spesso condito con semi di sesamo, che in questa ricetta troviamo invece sul pane. Tagliare il panino e spalmarvi un cucchiaino di tahina, salsa ai ceci che potete trovare nei negozi specializzati. Adagiarvi una panella, una fetta di pomodoro cuore di bue, qualche foglia di rucola e un filo d’olio d’oliva extravergine. Salate leggermente. A questo gustoso panino abbiamo abbinato un calice di Nosiola, per la precisione un vino della cantina LA VIS della linea Simboli, dalle piacevoli note aromatiche e fiorite di gelsomino, con ricordi netti di nocciola, fresco e equilibrato, servire ben freddo. Per la ricetta si ringrazia ANTONELLA LAO.

Pane integrale con mozzarella di bufala, acciughe del Cantabrico e olio extravergine di oliva: nella semplicità spesso troviamo la chiave del successo. In questo panino, così semplice quanto gustoso, la pienezza dei sapori e della soddisfazione del palato. Certo, è ovvio che le materie prime devo essere più che eccellenti, senza eccezioni. A partire dal pane integrale che deve essere freschissimo e prodotto da un fornaio sapiente, con farine macinate a pietra e lievito madre. Solo così conserverà fragranza e intensità. Lo stesso per la mozzarella di bufala, freschissima e tagliata con un coltello affilato e con perizia, ma soprattutto a temperatura ambiante e non di frigo. Continuate con un paio di acciughe del Cantabrico e un filo di olio extravergine. A questo panino, saporito ed intenso, abbiniamo un Trento Doc della cantina FERRARI FRATELLI LUNELLI, il Brut Maximum, servito freddissimo. Un connubio vincente di grassezza e freschezza, morbidezza ed effervescenza, che soddisferà anche i palati più esigenti. Ricetta fornita da ALESSANDRA RACHINI.

Villa Bagnolo Via Bagnolo 160 47011 Castrocaro Terme (FC) Telefono: 0543 769047 gibaspa@libero.it

La Vis Via Carmine 7 38015 Lavis (TN) Telefono: 0461 440111 cantina@la-vis.com

Ferrari Fratelli Lunelli Via Ponte di Ravina 15 38129 Trento Telefono: 0461 972311 info@cantinaferrari.it

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L’estate emiliana al sapor di Lambrusco alla Cantina Garuti Lo scorso 16 giugno ha fatto tappa a Sorbara, presso la Cantina Garuti, la rassegna Rosso Rubino, patrocinata dal Comune di Bomporto (MO). La manifestazione, che ha oramai raggiunto la sua 11a edizione, anche quest’anno ha riscosso un enorme successo. Tra sommelier, appassionati del settore, buongustai, sono state circa 500 le persone che hanno raggiunto la cantina. La serata ha avuto inizio con la cena preparata dall’omonimo agriturismo attiguo, dove circa 80 persone prenotate hanno avuto modo di degustare un menu di piatti tipici modenesi accompagnati con i migliori vini della Cantina. Gli altri ospiti hanno invece avuto modo di degustare tutti i Lambruschi accompagnati da un ricco buffet, nel quale si è avuto modo anche di assaggiare i migliori prodotti offerti del Caseificio Santa Lucia di Sestola. Il sottofondo musicale della serata è stato firmato da “Pino & Massimo” con un repertorio di canzoni italiane dal 1970 ad oggi. Qualche giorno dopo, il 19, si è tenuto sempre presso la Cantina Garuti l’evento Bomporto Capitanata di Puglia. Organizzato dall’auser locale (associazione di volontariato impegnata a promuovere l’invecchiamento attivo degli anziani e la crescita del loro ruolo nella società) con lo scopo di raccogliere fondi a sostegno dell’allestimento di un FABLAB per la scuola primaria di Sorbara, grazie alla collaborazione di cantine e produttori sia modenesi che pugliesi che hanno offerto i loro prodotti, è stato possibile allestire un pranzo a buffet ricco di eccellenze gastronomiche e buon vino. Prosit! >> Link: garutivini.it

A Roma in autunno con “Alto Adige, storie di piccoli produttori e grandi vini” A maggio in tantissimi hanno risposto con grande entusiasmo e calore al nuovo evento organizzato dal Consorzio Vini Alto Adige a Milano. Un grande banco di assaggio che ha conquistato sommelier, giornalisti, operatori del settore e semplici appassionati che hanno potuto non solo degustare le tante sfaccettature che contraddistinguono i vini di questo angolo d’Italia, ma anche conoscere le molteplici storie che si celano dietro i calici di vino. Un evento che ben interpreta, dunque, lo spirito che anima le 150 cantine associate al Consorzio Vini Alto Adige: raccontare le grandi caratteristiche racchiuse nei vini dei produttori altoatesini, ma allo stesso tempo coinvolgere il pubblico con le tradizioni delle cantine che animano questo territorio, un mix di storie ed esperienze che danno vita ad etichette uniche, originali e di grande carattere. L’Alto Adige è un territorio dotato di indiscusso fascino, punto di incontro tra natura, uomo e antiche tradizioni. Un angolo vitato che si snoda tra l’Italia e l’Austria, caratterizzato da condizioni pedoclimatiche e culturali uniche che si riflettono anche nei prodotti della terra. Le storie dei vini e dei piccoli produttori rappresenteranno il cuore pulsante del banco di assaggio “Alto Adige: storie di piccoli produttori e grandi vini”, organizzato dal Consorzio Vini Alto Adige in collaborazione con la Delegazione AIS Lazio. L’appuntamento, in programma per lunedì 17 ottobre nelle sale dell’A.Roma Lifestyle Hotel di Roma, consentirà di degustare una rosa di circa 50 vini che ben rappresentano la produzione vitivinicola altoatesina e di conoscere da vicino le tante storie che li hanno poi fatti nascere. La degustazione è aperta gratuitamente a stampa, operatori e soci AIS. Anche il pubblico di appassionati potrà accedere al banco di assaggio, acquistando un biglietto di ingresso al prezzo di € 15,00 (photo © EOS e IDM/Florian Andergassen). >> Link: www.vinialtoadige.com

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TECNOLOGIE Per una gestione agile di attività diversificate

Salumificio Valpolicella e CSB-System, collaborazione vincente

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ella splendida cornice delle omonime colline, il Salumificio Valpolicella è depositario della storia, della cultura e dell’economia prevalentemente agricola della Lessinia, suggestiva zona geografica delle Prealpi venete nonché sua terra d’origine, in cui iniziò ad operare all’inizio del ‘900 prima di spostarsi, negli anni Ottanta, nell’attuale stabilimento di San Pietro in Cariano, vicino a Verona. La famiglia Lavarini, composta dai fratelli Marco, Piero, Costantina, Valentino e Rita, conduce ancora oggi il salumificio, dedicandosi di generazione in generazione alla crescita e allo sviluppo dell’attività di norcineria e restando saldamente ancorata alle tradizioni e ai sistemi di allevamento e lavorazione artigianale della carne suina. I prodotti rispecchiano tutta la gamma tipica della tradizione gastronomica veneta e non solo: prosciutto cotto, salame, pancetta, mortadella, salamelle, speck, e così via fino al Grana Padano. «Noi — spiega MARCO LAVARINI — poniamo molta attenzione alla genuinità di ogni prodotto. Nella pratica significa impegnarsi a monte della filiera produttiva gestendo direttamente gli allevamenti dei suini, che alimentiamo in modo sano ed equilibrato nel rispetto del benessere animale». Oltre agli allevamenti, che fanno capo alla F.lli Lavarini, nel corso degli anni la famiglia ha diversificato e ampliato le sue competenze, aggiungendovi la produzione e commercializzazione di Grana Padano. Quest’ultime attività sono svolte dal Caseificio Ballottara e dalla Rodigina Latte, aziende situate

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Marco Lavarini con i fratelli gestisce il Salumificio Valpolicella. nella provincia di Rovigo, territorio idoneo alle produzioni di Grana Padano DOP come previsto dal relativo disciplinare di produzione. «La gestione di attività diverse ma pur sempre interdipendenti — continua Marco Lavarini — la necessità di garantire la sicurezza e l’alto standard qualitativo dei nostri prodotti, l’evoluzione del mercato, che ci richiedeva sempre maggiore velocità e flessibilità, e perché no, anche la mia lungimiranza, ci hanno convinti a cercare un software gestionale integrato “tagliato su misura” per dell’industria della lavorazione della carne e del latte, in grado di semplificare il nostro lavoro». E aggiunge, «avevamo già conosciuto la CSB-System in occasione di alcune fiere. Ho partecipato anche ai loro seminari nazionali ed internazionali prima di convincermi

ad implementare il software nel salumificio di San Pietro in Cariano. Il fatto che il CSB-System disponga di soluzioni preconfigurate per tutti i settori dell’industria alimentare in generale, si è rivelato per me un grosso vantaggio». I vantaggi di un gestionale intercompany Con un unico software si possono gestire più aziende dislocate in zone diverse e innumerevoli utenti, coprendo tutte le esigenze tipiche di qualsiasi azienda: Acquisti, Magazzino ed Allevamenti, Produzione, Tracciabilità, Vendite, Logistica interna e Gestione Giri, Peso-prezzatura, scambio dati EDI, Contabilità Generale e con cespiti, Contabilità Industriale fino alla possibilità per gli agenti, tramite strumento idoneo,

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di inserire direttamente gli ordini nel CSB-System. Pertanto il CSBSystem è oggi adottato per gestire contemporaneamente il Salumificio Valpolicella, il Caseificio Ballottara, la Rodigina Latte e la F.lli Lavarini senza necessità di trasferire dati e informazioni da uno stabilimento all’altro. Il progetto un po’ più nel dettaglio: la produzione Il reparto di produzione è sicuramente il cuore pulsante di quest’azienda. Per mezzo del CSB-Rack, PC industriale multifunzione, il CSB-System registra gli ingressi della materia prima e i risultati della lavorazione, controllando in tempo reale efficienza e rese di reparto perché comparate con quelle attese sulla base della pianificazione e degli ordini di produzione. Attraverso l’utilizzo delle distinte base e ricette presenti nel modulo Produzione del CSB-System «siamo riusciti a valorizzare ed ottimizzare il sistema di lavorazione artigianale delle materie prime, per un risultato di qualità e tutela del sapore tradizionale» spiega Marco Lavarini. Grazie alle possibilità di pianificazione offerte dal modulo di produzione, che tiene conto delle informazioni provenienti da altri settori aziendali interni, quali i dati storici sulle vendite e le giacenze di magazzino, il Salumificio Valpolicella può contare sulla pianificazione ottimale degli approvvigionamenti con conseguente eliminazione delle situazioni critiche e relativo aumento della produttività a medio termine. L’importanza di un servizio efficiente verso clienti e fornitori L’abilità e affidabilità del Salumificio Valpolicella si ritrovano puntuali anche nella sua capacità di soddisfare in

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maniera flessibile e veloce le diverse esigenze di una clientela piuttosto eterogenea: si va dalla DO, all’industria della carne, dalle macellerie fino al settore HORECA, sia in Italia che all’estero. «Con il CSB-System noi processiamo fino a settanta ordini al giorno, con una media di dieci righe per ordine, garantendo un ricco assortimento di prodotti» ci dice Costantina, che segue principalmente la parte amministrativa e contabile dell’azienda. «Il CSB-System ci permette di ottimizzare i tempi minimi tra accettazione dell’ordine ed evasione dello stesso perché possiamo consultare a video le informazioni relative ad ogni reparto, inclusa contabilità con partite aperte, ultimi prezzi concessi, e così via. Questo consente, ad esempio, di proporre al cliente in fase d’ordine anche eventuali alternative di acquisto basate sulla disponibilità corrente». La gestione integrata dell’inserimento a sistema dei listini al pubblico personalizzati, garantisce, inoltre, massima flessibilità nella gestione di offerte e promozioni senza doppi inserimenti o possibilità di errore da parte del personale. Anche il rapporto con clienti, fornitori di materie prime e trasportatori è estremamente facilitato tramite l’EDI (Electronic Data Interchange) del CSB-System. Per tutti coloro che lo richiedano, viene creato un tracciato individuale che consente la trasmissione veloce di dati, sia come ricevimento di ordini che come invio di bolle di accompagnamento e fatture, senza necessità di supporto cartaceo. «Nostro obiettivo nell’immediato futuro — interviene Marco — è ottimizzare la comunicazione interaziendale del CSB-System. Qualsiasi documento di fornitura in entrata e in uscita relativo alla F.lli Lavarini, Caseificio Ballottara e Rodigina Latte, dovrà essere archiviato elettronicamente nel CSB-System per essere immediatamente disponibile sia per la contabilità sia per la sede in San Pietro in Cariano». Contemporaneamente verranno protocollate tutte le fasi di archiviazione. Etichette personalizzate Il salumificio veneto dispone di una linea di peso-prezzatura CSB-System

collegata a bilance e CSB-Rack, utilizzata per il confezionamento e la gestione di etichette personalizzate e multilingua. Così facendo la preparazione ordini, la pesatura e l’etichettatura diventano un unico processo operativo e si evitano le doppie gestioni dei dati, nel rispetto di una rintracciabilità completa e trasparente. Questi dati, inoltre, sono trasmessi in tempo reale e direttamente al gestionale. Gestione Magazzino e Controllo Qualità La gestione del magazzino è efficiente ed altamente flessibile grazie alle funzioni offerte dal modulo Magazzino del CSB-System, come, ad esempio, rappresentazione flessibile di diverse metodologie di inventario e statistica dettagliata delle giacenze di magazzino con diversi modelli di valorizzazione. Il sistema di Controllo Qualità, che consente la concreta applicazione delle norme ISO, IFS, HACCP, in materia di certificazione, rappresenta, infine, in un sistema di gestione aziendale completo, un’area di integrazione necessaria per una gestione della qualità totale e affidabile. «Negli ultimi anni si è registrato, in generale, un costante calo del consumo di carne. Noi però andiamo avanti fiduciosi perché consapevoli della bontà dei nostri prodotti. I riscontri positivi della nostra clientela ne sono una conferma» conclude Marco Lavarini, aggiungendo «la maggiore efficienza e flessibilità dei processi di filiera, introdotte dal CSB-System, hanno portato ad una riduzione dei costi e a un’ottimizzazione dell’impiego di risorse umane e materie prime, che erano per noi necessarie per continuare ad essere competitivi sul mercato… perché sulla qualità dei nostri prodotti non siamo disposti a trattare!». Referente Italia: • Dott. A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (VR) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb.com

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Sottovuoto, nuovo protagonista dell’industria salumiera di Giovanni Ballarini

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a via del successo dei salumi italiani, non ultimi i prosciutti, è tracciata dai continui miglioramenti che nel corso dei secoli hanno riguardato le razze e l’alimentazione dei maiali e le procedure di lavorazione in tutte le loro fasi, comprendenti anche la scelta dei territori e degli ambienti di stagionatura. L’insieme di queste componenti ha portato i salumi italiani a livelli salutistici e gastronomici sempre più alti, consentendo loro di conquistare mercati sempre più ampi e divenendo degli “unicum” che scatenano le imitazioni della concorrenza straniera. I miglioramenti dei salumi italiani riguardano la loro sicurezza, la nutrizionalità, il soddisfacimento delle moderne esigenze salutistiche dei consumatori, e sono il frutto di

attente osservazioni, prima grossolanamente empiriche, poi sempre più fini e raffinate, ottenute sfruttando tutte le risorse fornite dalla tecnica e dalla ricerca scientifica, in un processo senza fine che privilegia le condizioni e i processi fisici a favore di quelli chimici. La qualità dei salumi viene protetta grazie ai progressi che sono stati realizzati nel loro confezionamento e, soprattutto, nell’uso di atmosfere modificate e imballaggi intelligenti. Senza tradire le tradizioni del passato, una particolare attenzione è stata e continua ad essere dedicata alle condizioni ambientali, che determinano e influiscono sui processi che trasformano un taglio di carne di maiale in un prosciutto o in una coppa di alta qualità, o una miscela

di carni tritate in un salame o altro salume. Una speciale considerazione è oggi rivolta ai requisiti ambientali delle prime fasi di lavorazione del prodotto salumiero, soprattutto la fase di “asciugatura”, nella quale si compiono processi che determinano la qualità del prodotto finito, anche dopo molti mesi se non anni. Tra le innovazioni che oggi stanno entrando con successo nel miglioramento della produzione salumiera vi è l’uso del sottovuoto, soprattutto nelle prime fasi di lavorazione, con tecniche che sono da ricollegare a quelle che hanno molto successo nella nuova cucina dei grandi cuochi e nell’industria alimentare. È questa un’indubbia novità nell’utilizzo del vuoto, fino ad ora usato in cucina come condizione di conservazione degli alimenti.

Mortadella confezionata in atmosfera modificata. Il progresso tecnologico raggiunto nell’ambito della conservazione degli alimenti ci consente oggi di preservarne sempre più le qualità organolettiche (photo © Studio Gi).

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Haripro, leader in Italia nella produzione di proteine e aromi naturali, fornisce le piĂš importanti aziende produttrici di ingredienti per la salumeria. Haripro grazie ad una continua ricerca, ha sviluppato negl'anni prodotti sempre piĂš all'avanguardia, come proteine funzionali ed aromi naturali anallergici ad alto valore nutrizionale. Haripro is a leading producer of proteins and natural flavours in Italy. It supplies the most important Companies which blend ingredients for the meat industry. Haripro, thanks to a continuous research, had developed through years more advanced products like functional proteins and hypoallergenic natural flavours with high nutritional value.

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Cottura sottovuoto di carne d’agnello in ambito domestico. Questa tecnica consente di ottenere cibi più sani e saporiti, offrendo l’ulteriore vantaggio di poter preparare in anticipo le vivande per un consumo differito (photo © Melissa Lehuta, modernistcuisine.com). Il vuoto in cucina La cucina sottovuoto permette di ottenere cibi molto più sani e saporiti, col vantaggio di poter preparare vivande in anticipo e farne un consumo differito, anche di quindici giorni, perché l’assenza di ossigeno rallenta moltissimo la proliferazione batterica e l’ossidazione degli alimenti, che risultano come appena fatti, e consente di prolungare fino a tre volte la durata di conservazione del prodotto. Molto importante è che l’alimento non perde peso e principi nutritivi. Il sottovuoto è pratico perché sporca poco, permette di unire tutti gli ingredienti e, per il tempo di cottura, fare altro. La tecnica del sottovuoto è molto utilizzata nei ristoranti e sta per arrivare anche nelle cucine domestiche, realizzando una rivoluzione che si affianca ai piani cottura a induzione presenti nelle cucine hi-tech. In un futuro non lontano non serviranno più fornelli roventi o forni a 220 gradi centigradi per cucinare, con grande alleggerimento della bolletta energetica, ma soprattutto miglioramento

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del gusto e dell’aspetto degli alimenti, ed effetti positivi per la salute. Il funzionamento della cottura sottovuoto è tutto sommato facile: nei più importanti ristoranti si pratica da anni e necessita di una particolare macchina che genera il vuoto. Quelle di uso casalingo sono di ridotta dimensione e possono essere sistemate in un cassettone da collocare, per esempio, sotto un forno. In un apposito sacchetto di plastica per alimenti si mettono gli ingredienti, i cibi e i condimenti. Per un arrosto, ad esempio, la carne e i suoi aromi. Per un piatto di verdure cotte, ai vegetali si aggiungono il sale, il pepe e le spezie. In altre parole, quello che di solito viene messo al forno o in padella. Tutti i cibi possono essere cotti sottovuoto: dalle verdure alla carne, al pesce. Servono solo un apparecchio per il sottovuoto e le buste da cottura che ormai si trovano anche nei supermercati. Il sacchetto, che può contenere anche liquidi, è posto nella macchina che raggiunge valori di vuoto del 99%

e più. In questa fase sembra che gli alimenti comincino a “bollire”. Si tratta di una reazione normale perché, in assenza di pressione, l’acqua esce dai cibi, mentre gli alimenti cedono parte dei loro liquidi e succhi: per questo il cibo all’interno della busta sembra sudare. Quando la macchina ha fatto il vuoto, salda il sacchetto, che una volta portato all’esterno, nella normale pressione atmosferica, ha un aspetto strizzato, simile a quello di tutti gli alimenti imbustati sottovuoto. Questo processo fa sì che i liquidi e i condimenti siano reiniettati all’interno degli alimenti: in pochi secondi i cibi sono come marinati, ma molto meglio di quanto avviene con i lunghi metodi tradizionali. Nel confezionamento sottovuoto la mancanza di ossigeno fa sì che gli alimenti non si ossidino, annerendo: le foglie della verdura restano verdi e la frutta conserva i propri colori brillanti e naturali. Il sacchetto con gli alimenti sottovuoto può essere subito cotto, oppure conservato in frigo e cotto in seguito. La cottura migliore è tra i 50 e i 70 gradi centigradi in un forno a vapore oppure ibrido con funzione vapore. A bassa pressione e in un sacchetto sigillato gli alimenti non perdono liquidi e aromi e la cottura avviene in maniera uniforme. Tutti gli aromi rimangono all’interno della busta e per il citato processo di reiniezione sono uniformemente distribuiti all’interno dei cibi. Ad esempio, per aromatizzare un alimento con olio e rosmarino o basilico è di norma necessario un contatto prolungato di una notte o di molti giorni; sottovuoto il processo avviene molto rapidamente, in poche ore di permanenza nel sacchetto. Alla fine della cottura il cibo è cotto alla perfezione, morbido e succoso, mai secco, saporitissimo. Il procedimento di cottura è ideale soprattutto per le persone distratte perché, se si dimentica il sacchetto in forno, la cottura non va oltre la temperatura prefissata, i liquidi, imprigionati nel sacchetto, non sono persi, e così non è possibile bruciare le pietanze. In cucina e in casa, durante la cottura, non si percepisce alcun odore o profumo. Inoltre, nel forno è pos-

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La conservazione sottovuoto della carne permette ai ristoratori e alla Grande Distribuzione di ottimizzare gli acquisti, programmare il lavoro settimanale, evitare gli sprechi, ampliare la proposta di prodotti alla clientela, razionalizzare gli spazi nei frigoriferi, disporre di prodotti conservati igienicamente, quindi qualitativamente migliori

sibile cuocere contemporaneamente molte pietanze, ognuna sigillata nel suo sacchetto, perché nessun aroma si mischia agli altri. In questo modo anche i tempi di preparazione di un pranzo o di una cena diminuiscono notevolmente. Quasi impagabile è la possibilità di cucinare in due o tre ore tutto il menù della settimana. Il cibo preparato e cotto sottovuoto può essere mangiato direttamente o conservato. Nel secondo caso è bene raffreddare velocemente il sacchetto, per inibire al massimo la carica batterica e consentire una più lunga conservazione in condizioni perfette. Se non si ha un abbattitore, basta un lavandino con acqua molto fredda, anche con qualche cubetto di ghiaccio; appena il sacchetto raggiunge interamente la temperatura dell’acqua, lo si ripone in frigorifero. Il cibo così preparato può rimanere, senza alcun problema, anche quindici giorni in frigorifero, mantenendo tutte le sue proprietà organolettiche, come se fosse appena cotto. Secondo le pietanze, al momento dell’apertura della busta, nelle carni o in alcuni

pesci si può eseguire una ripassata in padella per creare una crosticina superficiale. In tutti gli altri casi basta una scaldata nel forno a microonde. Conservazione in casa di alimenti sottovuoto Mentre l’industria, per la conservazione dei salumi affettati, usa le atmosfere modificate (miscele ben calibrate di diversi gas), in casa, per aumentare la durata di conservazione di un cibo, si ricorre a diversi espedienti: tra questi il congelamento o il sottovuoto. Questi due metodi si possono anche unire, sebbene il sottovuoto non sia un vero e proprio metodo di conservazione, perché i cibi da conservare a temperature controllate dovranno sempre essere mantenuti in tali condizioni. Il confezionamento sottovuoto nacque qualche decina di anni fa come metodo utilizzato dalle industrie per la conservazione degli alimenti da distribuire ai supermercati, in modo da far arrivare al consumatore un prodotto fresco. Per l’utente il confezionamento sottovuoto degli alimenti può

L’introduzione del vuoto in alcune fasi della produzione salumiera è un importante passo avanti, non solo sotto l’aspetto economico, ma anche e soprattutto qualitativo della salumeria italiana e salutistico del consumatore per la possibilità di ridurre le quantità di sale mantenendo, anzi aumentando la qualità.

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Stagionatura di prosciutti crudi (photo © Francesco De Marco). essere un vantaggio, ad esempio per sfruttare maxi-offerte al supermercato o per comprare confezioni grandi più convenienti, oppure per conservare gli avanzi del pranzo che, se può sembrare un’operazione quotidiana semplicissima, diventa qualcosa di ben più complicato nelle festività. Oltre a questi tipi di risparmio, vi possono essere anche effetti positivi sulla salute perché, eliminando l’aria, si bloccano molte delle attività biologiche ed enzimatiche sul cibo, rendendo possibile un allungamento notevole della data di scadenza. Eliminando l’ossigeno, si rimuove la principale fonte di sostentamento della maggior parte dei batteri che causano il deterioramento del cibo e si elimina anche la causa dell’ossidazione, quindi dell’irrancidimento dei grassi, che invece si manterranno inalterati. Un altro vantaggio, al quale non si pensa spesso, è che le buste e i contenitori sono impermeabili; per questo il cibo non acquista o perde umidità e si mantiene pressoché inalterato. Altro beneficio è la possibilità di congelare i cibi che sono stati messi sottovuoto, mantenendo per moltissimo tempo la struttura del

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cibo inalterata ed evitando il cosiddetto freezer burning. I formaggi molli, anche sottovuoto, vanno conservati eliminando la crosta e dai 6-7 giorni di durata si passa ai 15-20. Per i formaggi stagionati la durata varia da 15-20 giorni a 25-60. Per la carne a fette e la carne bianca, eliminate le parti più appuntite delle ossa, la durata passa da 2-3 giorni a 7-9; per la carne macinata la durata, da 1-2 giorni, arriva a 4-5. Stesso discorso vale per il pesce che, conservato sottovuoto, da 1-2 giorni arriva a 4-5. Sottovuoto nel mantenimento dei salumi affettati Per quanto riguarda i salumi affettati, conservandoli sottovuoto, si passa da una durata comune di 3-4 giorni a 8-12; è però necessario precisare meglio. Bisogna infatti ricordare che la struttura aromatica e sensoriale degli insaccati stagionati è il risultato di combinazioni di composti volatili (come aldeidi, chetoni, esteri e alcoli) e di composti non volatili (come ammine, amminoacidi e piccoli peptidi). Queste molecole si formano durante la maturazione e la stagionatura della carne insaccata, in seguito a reazioni

di lipolisi delle sostanze grasse e proteolisi di quelle proteiche. Durante la stagionatura, a influenzare il profilo sensoriale è anche la tecnologia di produzione utilizzata (tipo di macinazione, utilizzo di starter, ecc…), oltre agli aromi aggiunti e ai vari processi ossidativi dovuti alla presenza di ossigeno (quindi non in condizioni di vuoto). Durante la stagionatura non vi è una sostanziale modificazione degli acidi grassi, dei quali i più rappresentativi risultano essere l’acido oleico, lo stearico, il palmitico. Vi sono invece significative variazioni di carattere sensoriale durante la conservazione sottovuoto. Per esempio, i test sensoriali, dopo due mesi di conservazione, danno una diminuzione dei descrittori “odore” e flavour complessivo, e un aumento dei difetti come “gusto acido”, flavour rancido e di muffa, dovuti principalmente a reazioni ossidative nei confronti dei grassi. Oltre i tre, quattro mesi vi è un ulteriore peggioramento di alcuni difetti quali gusto acido e amaro e flavour pungente. Per una migliore conservazione dei salumi, soprattutto degli affettati, sono più appropriate le atmosfere modificate.

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Il vuoto, nuovo strumento di produzione nell’industria salumiera Una vera novità è l’uso del vuoto come strumento tecnologico nella produzione salumiera. Un metodo esclusivamente fisico di condizionamento che dimostra molti, importanti vantaggi, soprattutto nella produzione di prosciutti crudi, bresaole e altri prodotti salumieri, e che sfrutta particolari camere di asciugatura dove è praticato il vuoto in sostituzione dei tradizionali essiccatoi. La modalità sottovuoto non altera la carica batteriologica naturale del prodotto salumiero in lavorazione nella fase di asciugatura e salatura, durante la quale compie una sua regolare e soprattutto uniforme deumidificazione, che comporta anche una regolare distribuzione del sale (diversamente dai sistemi tradizionali, dove quest’ultimo ingrediente è irregolarmente distribuito) e la possibilità di ridurne la quantità (con indubbi vantaggi salutistici per il consumatore). Ne consegue che le successive fasi

di pre-stagionatura e stagionatura si possono svolgere nelle migliori condizioni per arrivare a prodotti uniformi e di alta qualità. Una regolare e corretta deumidificazione e una regolare distribuzione del sale sono infatti alla base di un altrettanto regolare e ottimale processo di maturazione enzimatico e microbiologico del prodotto, con riduzione delle anomalie e degli scarti. Queste caratteristiche giustificano anche l’accertata riduzione degli scarti di affettatura e l’aumento del tempo di conservazione (shelf-life) del prodotto affettato in vaschette. Non trascurabili, rispetto ai metodi tradizionali, sono i vantaggi industriali; tra questi una riduzione dei costi da ricondurre a una maggiore velocità di produzione (fino a cinque volte rispetto alle camere di salatura e asciugatura tradizionali), un minor consumo energetico, più facile e veloce lavorazione, minori rischi di contaminazione. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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Il vuoto nell’industria alimentare Nell’industria alimentare dei prodotti d’origine animali il sottovuoto ha una particolare importanza nel settore delle carni, dove non si rinuncia alla qualità scegliendo carne fresca opportunamente selezionata, a cominciare dagli allevamenti, lavorata con maestria e confezionata nel giro di 48 ore dalla macellazione. In questo settore il confezionamento sottovuoto ha rivoluzionato la conservazione della carne, prodotto deperibile per eccellenza, permettendo di mantenerne inalterate le caratteristiche e di farla durare fresca per più giorni. La conservazione sottovuoto della carne permette ai ristoratori e alla Grande Distribuzione di ot timizzare gli acquisti, program mare il lavoro settimanale, evitare gli sprechi, ampliare la proposta di prodotti alla clientela, razionalizzare gli spazi nei frigoriferi, disporre di prodotti conservati igienicamente, quindi qualitativamente migliori.

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STORIA E CULTURA

Metti una sera a cena con gli antichi Romani Certe pietanze venivano servite a tavola già millenni fa, mentre altre oggi sono del tutto — e in certi casi fortunatamente — scomparse. Ma le differenze non erano solo nel menu. Era diverso il modo di cucinare, di conservare i cibi e, soprattutto, era diversa l’etichetta di Sebastiano Corona

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a dove arriva la cucina italiana? Si dirà che la nostra cultura gastronomica è il risultato di contaminazioni che si sono registrate in secoli di storia. Contaminazioni che non si sono avute solo nella trasformazione dei cibi, ma anche sul piano produttivo vero e proprio. Si pensi all’introdu-

zione della patata, del pomodoro e di una serie di altre cultivar che in passato non popolavano le nostre campagne, ma che con il tempo si sono ricavate uno spazio sempre più ampio. Alcuni piatti sono giunti a noi quasi inalterati e quindi hanno dominato la nostra gastronomia nei millenni, mentre altri non sono che il frutto di

evoluzioni moderne che tuttora continuano. In fondo la cucina è come il linguaggio, che non è mai uguale a sé stesso e si modifica nel tempo anche al mutare degli stili di vita. Di come e cosa mangiassero i Romani all’epoca dell’impero abbiamo svariate testimonianze, sia dirette, con documenti veri e propri,

Mosaico con scena di banchetto, V sec. d.C., Château de Boudry (photo © studiahumanitatispaideia.wordpress.com).

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Uova, selvaggina, frutta e vasellame. Pittura parietale, Pompei, Casa di Giulia Felice, 79 d.C., Museo Archeologico Nazionale, Napoli (photo © wikimedia.org).

Nelle tavole degli antichi Romani molte pietanze venivano servite crude e senza elaborazioni particolari. Il latte veniva bevuto in giornata, il burro conservato per qualche giorno in una scatola di legno posta fuori dall’abitazione, dove le temperature d’inverno erano più basse

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sia indirette, che ci sono giunte con la raffigurazione di immagini di banchetti o di ambienti domestici in cui si cucinava o si consumava del cibo. La rappresentazione che abbiamo è in realtà prevalentemente quella delle case patrizie e dei luoghi — pochi — in cui si mangiava a sufficienza e in qualità, buttando un occhio ai piaceri della gola, oltre che alla necessità di sostentamento. «Un avvenimento storico, che ha permesso di ricostruire con grande precisione cosa regnasse nelle cucine di alcuni millenni fa nella Penisola, è l’eruzione del Vesuvio che a Pompei ed Ercolano non solo ha consentito di rinvenire utensili, stoviglie o cibi perfettamente conservati, ma anche di verificare come fossero allestite le cucine, le dispense e gli ambienti destinati al consumo del cibo», dichiara l’archeologo CARLO TRONCHETTI, ex direttore del Museo Archeologico di Cagliari e della Soprintendenza Archeologica di Cagliari e Oristano. «I vasellami, i contenitori, le anfore e i recipienti, che si sono ritrovati anche pieni, hanno aperto una finestra sul modo di cucinare e di mangiare di

qualche millennio fa. Una finestra che ha consentito di comprendere meglio quale sia l’origine di piatti contemporanei che tuttora regnano sulle nostre tavole», ha precisato Tronchetti durante un’iniziativa tenutasi di recente nel capoluogo sardo. La cosa interessante è che, al di là della qualità degli alimenti, la cucina — intesa come ambiente domestico vero e proprio — e il modo di cuocere i cibi sono rimasti invariati sino ai tempi moderni senza particolari differenze. La rivoluzione si è registrata solo nel secolo scorso, quando l’avvento degli elettrodomestici ha completamente stravolto il modo di muoversi ed operare i cucina, semplificando il lavoro di preparazione e di cottura degli alimenti, facilitando una serie di operazioni, riducendo i tempi e aumentando la sicurezza e l’igiene. Non avendo a disposizione sistemi di conservazione del cibo al di fuori di alcune sostanze, come per esempio il sale, le pietanze andavano consumate subito. L’assenza di frigoriferi e congelatori costringeva ad accelerare i tempi

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e ad escogitare modalità perché ciò che era a disposizione non andasse perso. Inutile dire che la stagionalità dei prodotti era un diktat. La natura offriva i suoi frutti solo a scadenza. Frutti che andavano consumati entro i termini e che non sempre si era in grado di trasformare per allungarne la vita e posticiparne l’uso. Nelle tavole degli antichi romani molte pietanze venivano dunque servite crude e senza elaborazioni particolari. Il latte veniva bevuto in giornata, il burro conservato per qualche giorno in una scatola di legno posta fuori dall’abitazione, dove le temperature d’inverno erano più basse. L’apporto proteico era garantito da uova e formaggio, considerato che la carne scarseggiava. Le uova venivano cucinate in diverse modalità, non differenti da quelle moderne. Si mangiavano crude, ma anche strapazzate, lesse o miscelate con altri cibi per farli meglio legare tra loro, soprattutto quando si trattava di verdure. I formaggi non erano generati da procedimenti produttivi differenti da quelli attuali ed erano disponibili soprattutto freschi o in salamoia. La carne non regnava in ogni tavola, ma era più che altro prerogativa delle case patrizie, dove si faceva precedere la cottura e il consumo da un cerimonia sacrificale agli Dei. A questi ultimi veniva dedicato il rito votivo, ma per non buttare via nulla l’animale finiva poi in pentola. La carne consumata era soprattutto di maiale. Talvolta veniva affumicata, tal altra si trasformava in salsicce o rudimentali prosciutti o semplicemente la si conservava nel sale, per un utilizzo successivo nel

tempo. Difficilmente finiva in tavola il manzo, la vitella o il bue. Le specie bovine erano indispensabili per la coltivazione nei campi e per fornire latte, e a questo venivano principalmente destinate. Beccacce, pavoni, ghiri, selvaggina varia venivano consumati frequentemente. I ghiri, considerati piatti prelibatissimi, soccombevano in un destino crudele: venivano posti ancora piccoli e magri in un vaso da cui non potevano uscire e in cui ricevevano cibo fino ad ingrassare al punto di non poter stare più dentro. Vivevano in quella condizione sino al momento in cui il vaso veniva rotto e potevano concludere il loro viaggio terreno in pentola. Al fine di ottenere del brodo per più giorni, la carne veniva talvolta bollita e ribollita quotidianamente, per essere poi consumata solo a fine periodo. Il pesce era ovviamente diffuso soprattutto nei pressi delle località costiere o degli specchi d’acqua delle zone interne. La frutta era particolarmente gradita e normalmente si consumava tal quale quando era in stagione. L’espansione dell’impero romano ha consentito però nei secoli di ampliare di molto l’offerta. L’intensificarsi degli scambi commerciali, a seguito dell’ampliarsi dei confini, ha infatti permesso di far conoscere ai Romani frutti e prodotti del tutto esotici e sconosciuti sino a quel momento. Le erbe e le spezie venivano ampiamente utilizzate non solo per condire cibi, ma anche per insaporire le salse. Zafferano, zenzero, pepe, semi di papavero, anice non mancavano mai

Un avvenimento storico, che ha permesso di ricostruire con grande precisione cosa regnasse nelle cucine di alcuni millenni fa nella Penisola, è l’eruzione del Vesuvio che a Pompei ed Ercolano non solo ha consentito di rinvenire utensili, stoviglie o cibi perfettamente conservati, ma anche di verificare come fossero allestite le cucine, le dispense e gli ambienti destinati al consumo del cibo

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nelle case degli antichi Romani. Ma c’erano anche prodotti come il serpillo o il levistico. Le salse erano molto diffuse all’epoca e in particolare veniva utilizzato il garum: un intingolo a base di pesce salato, teste di acciughe ed erbe aromatiche che i Patrizi dosavano a gocce come aromatizzante delle più svariate pietanze. Era una prelibatezza che nella sua versione più economica — cioè quella ottenuta semplicemente dalle interiora del pesce — poteva essere alla portata di tutti. Veniva quindi gustata da servitori, soldati e contadini che usavano spalmarla sul pane per insaporirlo. Per far legare le salse veniva impiegata la fecola. Il fritto era fatto con lo strutto, mentre non esisteva lo zucchero. Quando si intendeva dolcificare qualcosa si utilizzava il miele. Quest’ultimo e la sapa erano spesso impiegati anche con il vino che, lungi dall’essere anche lontanamente rassomigliante a quello attuale, si presentava come una sorta di mosto consumato tal quale, spesso allungato con acqua di mare e ancor più frequentemente spunto! Normalmente veniva conservato in cisterne che dimoravano nelle dispense dei Patrizi. La birra, all’epoca già presente sulle tavole, era considerata una bevanda poco degna e per questo veniva consumata soprattutto dalla plebe. Il riso era ancora sconosciuto come lo erano gli infusi che sono giunti in tempi successivi. I frutti dell’ulivo e della vite venivano apprezzati nelle modalità di consumo che se ne fanno oggi, soprattutto a seguito dei contatti con la Magna Grecia che consentirono ai Romani di conoscerne tutte le effettive potenzialità. Non mancavano legumi, farro, verdure di diverso tipo, ma il cibo che regnava nelle tavole, anche in quelle dei meno abbienti, era il grano, impiegato in modalità ora prevalentemente abbandonate. Era infatti consumato cotto, magari con le verdure e talvolta ridotto in farina. Il suo utilizzo nel senso classico si è avuto soprattutto in seguito, quando l’arrivo dei lieviti ha rivoluzionato il modo di consumare i cereali.

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Coppiette di cinghiale. Per la loro preparazione viene praticata l’essiccazione, usata anche in epoca romana, quando la carne scarseggiava ed era privilegio soprattutto dei Patrizi. Dal secondo secolo a.C. la produzione del pane si divise in tre qualità principali: quello candidus, fatto di farina bianca finissima; quello secundarius, sempre bianco ma con farina miscelata; infine, quello plebeius o rusticus, una specie di pane integrale, destinata ai più poveri. I pasti dei Romani, che usavano molto mangiare fuori casa, per esempio nelle tabernae o nei mercati, erano tre: la prima colazione, il pranzo e la cena. Di primissima mattina, chi se lo poteva permettere pasteggiava con latte, acqua calda, formaggio, olive, un biscotto e/o gli avanzi della cena della sera precedente, che in alternativa venivano utilizzati per il pranzo, dalle ore 13:00 in poi. Il pasto principale, infatti, era solo al tramonto e dopo aver passato del tempo alle terme. Sul tavolo imbandito per la cena regnavano soprattutto i cibi liquidi, i legumi, le uova. I Romani mangiavano seduti attorno ad un tavolo, in particolar modo quando non erano ricchi e nobili. C’era però una certa fascia, seppur ridottissima, della popolazione, rappresentata da agiati, potenti o

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intellettuali, che consumava il pasto attorno ad un tavolo, su lussuose panche, completamente distesi sul fianco sinistro. Durante i banchetti, l’assegnazione dei posti nei letti seguiva una rigorosa etichetta che, come prima regola, aveva quella di far accomodare l’ospite più illustre nel lectus medius, al posto consularis, il più importante. Quando si ricevevano ospiti, venivano normalmente ingaggiati cuochi ad hoc, a cui però venivano stranamente commissionati soprattutto piatti a base di verdure. Con l’impiego delle verdure, gli antichi chef mostravano le proprie competenze in cucina e i padroni di casa facevano vanto di sé. Le forchette non erano ancora in uso e i commensali utilizzavano coltelli, cucchiai, stuzzicadenti dal doppio uso: cucchiaino semplice da una parte e cucchiaino a forma di manina all’altra estremità. Quest’ultimo veniva utilizzato per pulirsi le orecchie e per espletare altri tipi di pulizia personale. Ma per afferrare il cibo ci si aiutava con tre dita (cinque non erano previste dall’etichetta, so-

prattutto se si trattava di una donna). L’uso delle mani imponeva di lavarsele frequentemente e soprattutto tra una portata e l’altra. A questo fine correva fortunatamente in aiuto la servitù, che versava acqua profumata dalle anfore e forniva un tovagliolo per asciugarsi le mani. Tovagliolo che veniva impiegato a fine pasto per portarsi via gli avanzi. Ciò che però finiva inavvertitamente sul pavimento era degno nutrimento dei ratti, che non mancavano di certo. La cena aveva un epilogo singolare, che oggi sarebbe impensabile, ma che ai tempi non solo era la norma, si considerava forse come segno di apprezzamento dell’ospitalità. Nella migliore delle ipotesi ci si abbandonava a rutti e ad altri tipi di comportamenti molto poco nobili a tavola; nella peggiore, a fine cena, ci si spostava tutti in massa nelle latrine per espletare i propri bisogni fisiologici incoraggiati dal consumo di cibo in abbondanza. La serata si chiudeva così, in questo modo discutibile, ma sempre e rigorosamente in compagnia. Sebastiano Corona

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LIBRI

Un libro ancora attuale di Giovanni Ballarini

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olto si parla ai giorni nostri della lotta contro gli sprechi alimentari, ma il problema è antico, come dimostra il libro intitolato L’Arte di utilizzare gli avanzi della mensa, raccolta da Olindo Guerrini, che nel 2016 compie un secolo. “Ed ecco siamo al fine… Venuta l’ora, dico fine anche a me e buona fortuna a chi legge. Addio! Bologna, 5 ottobre 1916”. Così OLINDO GUERRINI (“che compì gli anni ieri, entrando nel settantaduesimo”) chiude il suo libro. Pubblicato dall’editore Angelo Fortunato Formiggini nel 1918, il volume è ancora oggi degno di valutazione e merita alcune considerazioni, iniziando dalla denominazione dell’autore e dal titolo. Olindo Guerrini usò il proprio nome e nessun altro dei suoi numerosi pseudonimi con i quali spesso si firmava, molti dei quali chiaramente provocatori (ricordiamo Argia Sbolenfi, Marco Balossardi, Giovanni Dareni, Pulinera, Bepi o Mercurio). Nel caso di questo libro, però, viene citato — e solo tra parentesi, in costa, luogo poco visibile — lo pseudonimo L. Stecchetti, che non compare in nessun’altra parte della pubblicazione originale. LORENZO STECCHETTI era un ipotetico se non fantomatico cugino, morto per tisi, con il quale nel 1878 Guerrini aveva pubblicato due volumetti, Postuma e Nova Polemica. Soprattutto il primo dei due libri, una raccolta di poesie, ebbe un grande successo commerciale superando in vendite persino le Odi barbare di Giosuè Carducci. Con il suo nome, Olindo Guerrini pubblicò diversi studi, tra i quali, nel 1884, La tavola e la cucina nei secoli XIV e XV, un saggio che costituisce la prima, rigorosa indagine sulla cucina italiana del Medioevo. Non resta che concludere che Guerrini ritenesse L’Arte di utilizzare gli avanzi della

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Il libro di Olindo Guerrini pubblicato da A. F. Formiggini, editore in Roma. mensa un’opera profonda e riflessiva, degna del proprio nome e non di un nome fittizio. Forse fu l’editore Formiggini che, per quell’opera di cucina, volle usare lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, pensando ai precedenti successi editoriali e probabilmente anche ad una certa

magrezza e povertà alimentare che quel cognome poteva evocare. Il libro ha un titolo chiaro e preciso — cosa che oggi avviene sempre più raramente — dove ogni parola ha il suo peso e merita un breve cenno. Che la cucina sia un’arte oggi non vi è dubbio, ma non era così un secolo fa. È pur

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vero che la parola “arteâ€? compare nel titolo del libro di PELLEGRINO ARTUSI, La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene, ma è altrettanto vero che, come Guerrini ricorda nell’Esordio, il libro nasce “su consiglio del buon Artusiâ€?. Dubbioso, ma non tanto, è per l’uso del termine “utilizzareâ€?. “Noto anche la smorfia — sempre nell’Esordio — che fanno certi bigotti del purismo al verbo utilizzare, ma non ne ho saputo trovare uno piĂš adatto al mio caso. Del resto anche Santa Madre Crusca lo ammette nel suo grembo‌ ma trattandosi di avanzi di cucina spero di essere facilmente assoltoâ€?. Importante è la precisazione, sempre nel titolo, del termine “raccoltaâ€?, in quanto l’autore precisa che “sarebbe stata opera buona raccogliere le ricette italiane sparse pei libri (passim) e non avevo agio nĂŠ qualche cosa d’altro per provare e riprovareâ€?. Olindo Guerrini è un letterato e non un cuoco, diversamente da Artusi aiutato dalla fedele Marietta, e di questo bisogna tenere presente leggendo, interpretando e soprattutto cercando di applicare le ricette del libro. Indicativo è l’uso del termine solenne e raffinato di “mensaâ€? riferito agli “avanziâ€?, non di tavola e tanto meno di cucina, che si spiega tenendo conto dell’allora imperante cucina borghese. Gli avanzi di una mensa borghese sono sempre di alto livello, come pure i suggerimenti per utilizzarli. A questo riguardo, Guerrini ricorda che “secondo un detto genovese un buon pasto dĂťa (dura) trei giorni e una mia nipote afferma che è misura di buona economia l’imbandire pranzi lauti e sontuosi poichĂŠ cogli avanzi si sbarca il lunario per una settimanaâ€?. Per gli stessi motivi non ci si deve meravigliare di utilizzare anche il caviale (sic!) e i tartufi (sic!). In sintesi, Guerrini a tavola si rivela tradizionalista: “preferisco di attenermi all’uso vecchio perchĂŠ, se c’è un’arte refrattaria al futurismo, è l’arte del cucinareâ€?; e aggiunge che “l’arte della cucina è conservatrice e passatistaâ€?, dandone poi qualche esempio. Anche se il Manifesto della cucina futurista, scritto interamente da FILIPPO TOMMASO MARINETTI ma firmato anche da FILLIA, sarĂ pubblicato

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nel 1931, il futurismo al quale Olindo Guerrini accenna è del 1909. Il tradizionalismo gastronomico e di tipo borghese, che ben traspare da tutte le pagine del libro, in un certo senso contrasta con l’insofferenza nei confronti delle regole troppo rigide e delle costrizioni piĂš soffocanti che soprattutto nella giovinezza dell’autore determinano in lui atteggiamenti di vita scapigliata. L’oscillazione fra le due componenti rivoluzionaria e oltranzista in letteratura ma conservatrice e tradizionalista a tavola non dĂ luogo in Olindo Guerrini a drammatici conflitti o insanabili lacerazioni, ma, smussando ogni eccesso o punta estrema, si compenetra in una piĂš tranquilla adesione ai piaceri e ai doveri della vita, anche quando sembra prevalere l’oltranza provocatoria o polemica. Questa oscillazione, tipica di molti uomini della sua terra di Romagna, forse stemperata da una lunga permanenza nella Dotta Bologna, è anche la matrice di un umorismo solo in apparenza problematico, che si attenua nella bonomia scherzosa che traspare qua e lĂ nel libro, riconducibile spesso a una dimensione piĂš propriamente provinciale e cittadina, e in un gusto della buona tavola, ricca e borghese, della Grassa Bologna, che appare a tutto tondo ne L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa. Venendo al contenuto del libro ed esaminando le oltre ottocento ricette, tra le quali prevalgono quelle di carni e pesci, si ha l’impressione di una buona e grassa cucina borghese che non disdegna la cacciagione e parti ora dimenticate come, ad esempio, gli avanzi di palato di manzo che, se sono abbastanza larghi, vanno aggiunti ad altri avanzi e poi fritti, trasformati in frittelle o in filetti, o messi in gratella, o sobbolliti in salsa. Lo stesso vale per la zuppa d’osso di prosciutto o per le diverse ricette di avanzi di trippe. Un libro che è stato piĂš volte ristampato e ancora disponibile, che invita a ricordare una cucina in gran parte perduta, ma che è anche uno stimolo a studiare nuove ricette su alimenti ingiustamente dimenticati. Prof. Em. Giovanni Ballarini UniversitĂ degli Studi di Parma

Da sinistra: Carlo, Antonio, Giuseppe e Arturo Falcone nello stand aziendale durante il Cibus 2016.

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Tre donne e un libro per raccontare la rivoluzione dei pizzaioli gourmet

La buona pizza

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el mondo della pizza sta succedendo ciò che in quello della cucina è in atto già da tempo: un’evoluzione — quasi una rivoluzione — che pone al centro del mestiere di pizzaiolo la ricerca, l’attenzione agli ingredienti, la conoscenza del territorio. GINO SORBILLO, SIMONE PADOAN, GABRIELE BONCI sono solo alcuni degli chef-pizzaioli di cui si sente parlare da qualche tempo. Ecco allora una pubblicazione scritta e raccontata nelle immagini da tre donne, sempre in giro a caccia di eccellenze e tendenze legate al cibo in quanto fenomeno culturale del nostro tempo. Da street food a superstar democratica: ogni pizza racconta un pezzetto del nostro Paese Con il loro nuovo libro, TANIA MAURI e LUCIANA SQUADRILLI fanno il punto sul percorso di crescita della pizza e rendono ufficiale la forte presenza che questo piatto della tradizione ha nel panorama della cucina d’autore, anche attraverso le immagini scattate da ALESSANDRA FARINELLI. Dal Piemonte alla Sardegna, le autrici hanno individuato le dieci realtà più rappresentative, quelle in cui, grazie al lavoro del pizzaiolo, la pizza sa farsi ambasciatrice delle eccellenze gastronomiche e del lavoro degli artigiani del luogo. Per ciascuna hanno raccontato la storia del locale e del contesto

in cui si inserisce, mostrato i gesti e dato spazio alle idee del pizzaioli e alla rete che hanno saputo creare con altre realtà locali, raccolto la ricetta di una pizza emblematica. Bella l’analisi della pizza, con la sua origine popolare come street food tra le bancarelle ambulanti o fuori dai forni nelle vie di Napoli a piatto superstar dei nostri giorni, impreziosito da “rarità gastronomiche”: «democratica anche in questo, la pizza si presta ad essere declinata in tante differenti tipologie, ognuna con le sue specificità e le sue ragioni: dalla classica pizza napoletana, soffice e sottile ma con il cornicione pronunciato, alla romana non più solo scrocchiarella, dalle nuove pizze in stile focaccia, alte e ariose, che si prestano ad accogliere condimenti elaborati e innovativi, alla pizza al taglio che ha saputo rinnovarsi in chiave gourmet. Ogni pizza è capace di raccontare un pezzo d’Italia, senza alcuna rivalità, né sciocche prese di posizione». Dal Piemonte alla Sardegna, le dieci pizzerie protagoniste • Bontà per Tutti di Stefano Vola, Santo Stefano Belbo (CN); • I Tigli di Simone Padoan, San Bonifacio (VR); • ‘O Fiore Mio di Matteo Tambini e Davide Fiorentini, Faenza; • Percorsi di Gusto di Marzia Buzzanca, L’Aquila;

TANIA MAURI LUCIANA SQUADRILLI (A CURA DI) La buona pizza. Storie di ingredienti, territori e pizzaioli Prefazione di Daniele De Michele “DonPasta” Fotografie di Alessandra Farinelli Giunti Editore pagg. 244 – € 22,00 • • • • • •

Tonda di Stefano Callegari, Roma; Pepe in Grani di Franco Pepe, Caiazzo (CE); La Notizia di Enzo Coccia, Napoli; Grotto Pizzeria Castello di Angelo Rumolo, Caggiano (SA); Fandango di Salvatore Gatta, Scalera (PZ); Pizzeria Bosco di Massimo Bosco, Tempio Pausania (OT).

Le autrici sono due esperte giornaliste e una fotografa dell’agroalimentare. Insieme curano il blog pizzaontheroad.eu, dove raccontano tutto ciò che succede nel mondo della pizza, in Italia e non solo. • Tania Mauri – Food writer e traveller, torinese, da sempre nel mondo della comunicazione, scrive di enogastronomia per caso e per passione su diverse testate nazionali. • Luciana Squadrilli – Napoletana, giornalista specializzata in gastronomia e viaggi, racconta l’Italia — gastronomica e non — collaborando con diverse testate e guide italiane e straniere. • Alessandra Farinelli – Fotografa e graphic designer con una passione per il cibo e i viaggi, vive e lavora a Napoli a pochi passi dal mare. Si occupa prevalentemente di realtà legate al modo del food e dell’ospitalità. Il suo sito è: www.alessandrafarinelli.com

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