Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXV N. 5 Settembre-Ottobre 2013
Premiata Salumeria Italiana, 5/13
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dal 1986
DELICATO PROSCIUTTO DI MANZO
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Premiata Salumeria Italiana, 5/13
Premiata Salumeria Italiana, 5/13
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N. 5 Anno XXV Settembre-Ottobre 2013
€ 6,70 EUROCARNI – PREMIATA SALUMERIA ITALIANA – IL PESCE – EURO ANNUARIO CARNE – EURO GENUINE FOOD ANNUARIO DEL PESCE E DELLA PESCA – US ANNUARIO DEI FORNITORI DELLA SANITÀ IN ITALIA Stampa
Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910 In esclusiva gli articoli di Euposia
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Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Renato Bergonzini – Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni – Alessandra Rotondi P.O. Box 569, New York, NY 10101-0569 Tel./Fax +1 212 956 8566 E-mail: stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Carlo Cantoni (Milano) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Aldo Focacci – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia) Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CS5.5. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CS5.1.
Premiata Salumeria Italiana, 5/13
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N. 5
In questo numero: Anteprima
10
Immagini
12
Tendenze
Dolcetto o scherzetto?
Il food in rete
Il meglio del web e delle app
Elena Benedetti
16
Comunichiamo
Parola d’ordine: strategia!
Chiara Russotto
18
Aziende
Autentico formaggio crotonese
Massimiliano Rella
22
Chi si sposa è contento un giorno, ma se mangia salsiccia…
Riccardo Lagorio
26
Italia vendesi
Sebastiano Corona
29
Globalizzazione e salumeria italiana
Giovanni Ballarini
34
Attualità
Eventi
14
Emozione, orgoglio emiliano e passione: la Favola continua
38
Il prosciutto al Sale Dolce di Cervia finisce in vetrina
40
Marketing
Raspini mette d’accordo tutta la famiglia…
44
Interviste
007 agente speciale di commercio
Federica Cornia
48
Prodotti tipici
Oltrepò pavese, pancette e cavalieri
Gaia Borghi
50
Šokol, capocollo di Martina Franca e coppa romagnola…
Riccardo Lagorio
53
Il salame con le rape: quant’è buona la ciuìga del Banale
Nunzia Manicardi
56
Coppiette di Bassiano, la liquirizia dei poveri
Antonella Malaguti
58
Muletta, del Monferrato la prediletta
Riccardo Lagorio
61
Fromage de tête: occhio all’inganno nascosto nel nome
Josette Baverez Blanco 64
Premiata Salumeria Italiana, 5/13
7
Premiate Salumerie Italiane
La salumeria fa le ore piccole
Luciana Squadrilli
69
Sapori mediterranei
Rucola, non solo con la bresaola
Giorgia Fieni
74
Arti e mestieri
L’affilata “arte con iberico”
Raffaele Bertolini
77
Fiere
Nasce Food Pack, la grande fiera italiana del food processing…
Formaggio
1936-2013: la provvista casearia italiana
Corrado Barberis
85
La creatività dei casari svizzeri non conosce limiti
Raffaele Bertolini
90
Causeway Cheese Company, un mini-caseificio irlandese che fa passi da gigante
Riccardo Lagorio
94
I vini di Premiata Salumeria Italiana
Degustazione: vini in abbinamento alla Coppa piacentina Dop
Laura Franchini
96
Olio
Parola d’ordine: assaggiare
Stefania Monaco
98
Dolci
Bavaresi, parfait, soufflé…
Clara Scaglioni
100
Il topino d’Ognissanti e le ossa dei morti
Nunzia Manicardi
102
Il biscotto a regola d’arte
Riccardo Lagorio
106
80
Tecnologie
Francia, automatizzazione della gestione dei macelli e dei processi di classificazione dei suini
Storia e cultura
L’arte di dar da pranzo
Lorena Gallina
112
Nei cieli non esistono galere
Angelo Valentini
116
Napule è mille culure, anche in cucina
Clara Scaglioni
118
Tango in scatola, manuale tattico culinario di sopravvivenza tanguera
Nunzia Manicardi
120
Libri
Una famiglia, una storia, un sapere e i suoi sapori Nuova vita per l’Almanacco dei Buongustai di Grimod de La Reynière, bibbia dei gourmands Pinchiorri a due voci
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122 Josette Baverez Blanco 124 126
In copertina: autunno in tavola con le pancette, Pancetta piacentina Dop e pancetta stesa (photo © Massimiliano Rella).
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Anteprima
La crescita delle esportazioni nell’agroalimentare conferma un trend estremamente positivo, con un aumento del 7% registrato dall’Istat nel primo semestre 2013. Un appuntamento da non mancare per chi guarda all’estero è sicuramente l’Anuga di Colonia (www.anuga.com), in programma dal 5 al 9 ottobre 2013. Sul prossimo numero troverete un ampio reportage delle novità e degli espositori più interessanti.
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Premiata Salumeria Italiana, 5/13
Immagini
Il panino è probabilmente lo street food per eccellenza o, quanto meno, quello più noto. Un pasto veloce, da mangiare anche fuori casa e da preparare al volo. Ma l’Italia del mangiare di strada non è fatta solo panini, anzi! Gli appassionati della cucina di strada potranno contare anche quest’anno su un ghiotto appuntamento, nella città del Festival Internazionale del Cibo di Strada, che qui si tiene dal 2000. Nelle giornate del 4, 5 e 6 ottobre prossimi si terrà infatti nel centro storico di Cesena “Saporìe – Il Festival del Cibo di Strada”. Per informazioni: www.cibodistrada.com
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Per ricevere i prodotti DOP e IGP prova lo Shop Online: www.piaceremodena.it
Tendenze
Dolcetto o scherzetto?
Stanchi dei dolci tradizionali? Volete davvero stupire i vostri ospiti con un dessert sorprendente? Vi incuriosiscono gli abbinamenti azzardati? La pancetta è la soluzione. Oggi sul web impazzano ricette in cui bacon e pancetta abbandonano i tradizionali “compagni” gastronomici e vengono riproposti in versione sweet. Sul sito www.vosgeschocolate. com, ad esempio, potrete trovare la Mo’s Bacon Bar, una tavoletta di cioccolato al latte realizzata con bacon affumicato al legno di melo e sale affumicato al legno di ontano. Per un dopo cena da brivido, invece, cimentatevi con i lecca-lecca alla pancetta e cioccolato al peperoncino di Ernst Knam, il re del cioccolato. Se lo dice lui…
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Premiata Salumeria Italiana, 5/13
Il food in rete
Il meglio del web e delle app di Elena Benedetti
www.piaceremodena.it
www.casartusi.it
www.roccadelvino.com
Dop e Igp modenesi nell’e-commerce di Palatipico Il brand “Piacere Modena” di Palatipico, a cui aderiscono tutti i Consorzi di tutela dei prodotti tipici DOP e IGP della provincia modenese, è presente sul web con un portale dedicato e organizzato anche con l’e-commerce, attività iniziata a giugno 2013. Sul sito è possibile acquistare una selezione di prodotti di altissima qualità, tra i quali ovviamente il Prosciutto di Modena DOP che sta incontrando i gusti e le preferenze del pubblico. Dalla homepage è possibile accedere direttamente alle pagine web dei vari consorzi, scorrere l’agenda degli eventi enogastronomici in Italia e all’estero, visionare filmati sui produttori e accedere a informazioni di carattere turistico. info@piaceremodena.it
Artusi, arte e pratica della cucina anche nel web È on-line il primo numero della rivista web di Casa Artusi. Autori ed editorialisti di spicco raccontano aneddoti, segreti e pensieri sulla scienza della cucina e l’arte del mangiar bene. Lo potete leggere nella sezione “La Rivista” a cui si accede dalla homepage. All’interno del sito ci sono anche informazioni utili per visitare la Biblioteca di Casa Artusi, con sede a Forlimpopoli, che ospita la Collezione Artusiana (archivio e libreria dell’Artusi, tutte le edizioni de “La Scienza in cucina” e la letteratura sull’Artusi) e la Raccolta di gastronomia italiana (una collezione storica e moderna di libri, riviste, documenti multimediali di argomento gastronomico). Attiva anche la pagina Facebook: facebook.com/LeRicetteDiArtusi info@casartusi.it
Per acquistare i vini dell’Emilia-Romagna basta un click! Il wine shop dedicato ai prodotti della regione, quello di Enoteca Regionale Emilia-Romagna, ha conquistato il web. Grazie al portale www.roccadelvino.com si possono acquistare circa 200 etichette, selezionate tra quelle in vendita a Dozza, dove l’assortimento è frutto della valutazione alla cieca di una commissione di esperti. Insomma, il meglio dell’enologia del territorio sarà a portata di mouse e si potrà contare anche sui consigli di un sommelier che sarà a disposizione via chat e selezioni speciali per scoprire o approfondire le varie aree di produzione. «L’apertura di un negozio in rete che affianchi quello fisico — spiega il responsabile del progetto Maurizio Manzoni — è stata una naturale risposta ad un’esigenza espressa da tanti appassionati e turisti in visita alla nostra sede nelle cantine della Rocca di Dozza: dove posso trovare questo vino nella mia città? Poiché il settore vinicolo in Emilia-Romagna è molto polarizzato tra poche aziende grandi e organizzate e tante cantine piccole con una rete di vendita meno capillare, abbiamo deciso di utilizzare internet per portare la nostra enoteca in tutte le città italiane». Form on-line
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Volete mettere in luce la vostra attività sul mercato russo? La società di consulenza e servizi 5 Sensi, in collaborazione con PREMIATA SALUMERIA ITALIANA, organizza dei press tour personalizzati con giornalisti russi specializzati nel settori vino ed enogastronomia, che collaborano con quotidiani e riviste moscovite di grossa tiratura. Se il mercato russo è tra i vostri target commerciali e se vi interessa saperne di più e conoscere i servizi di follow-up alla visita stampa contattate info@5sensiluxury.com
Italy Augmented: l’Italia, nella realtà aumentata, è ancora più bella e buona! Realizzata da 5 Sensi, con il supporto della Camera di Commercio Italo-Russa, Italy Augmented è una bella applicazione gratuita, di facile e immediata consultazione, disponibile in tre lingue (italiano, russo e inglese), che consente di localizzare in un attimo le migliori eccellenze commerciali e culturali dell’Italia e le proposte (in termini di notizie, eventi, offerte) più vicine ed interessanti. Disponibile nel mondo Android e IOS (iPad e iPhone), questa applicazione è stata pensata e sviluppata per i turisti di lingua russa e inglese in arrivo in Italia. Il suo funzionamento si basa sulla Realtà Aumentata (in inglese augmented reality, AR). Si tratta di una tecnologia che arricchisce la percezione sensoriale con informazioni che non sarebbe percepibili con i cinque sensi. «Oggi è infatti possibile con la realtà aumentata trovare informazioni rispetto al luogo in cui ci si trova (come alberghi, bar, ristoranti, negozi) ma anche visualizzare le foto dai social network come Flickr o voci Wikipedia sovrapposte alla realtà; trovare i Twitters vicini; ritrovare la macchina parcheggiata; giocare a catturare fantasmi e fate invisibili usando una intera città come campo di gioco; taggare luoghi, inserire dei messaggini in realtà aumentata in un luogo specifico» (Wikipedia). All’interno della app è possibile selezionare la categoria di ricerca tra alloggio, wellness, cultura, shopping, divertimento, utilità e gourmet (con ulteriore selezione tra ristoranti, enoteche, negozi specializzati e bar). Il motore di ricerca propose quindi tutti i risultati tra la postazione dell’utilizzatore e un raggio di chilometri che può essere settato da 0 a 500 km. Italy Augmented può essere uno strumento interessante anche per le imprese, sia pubbliche che private. Sfruttare al massimo le potenzialità di Italy Augmented è semplice: basta andare sul sito www.5sensiluxury.com, registrarsi nell’Area Riservata e creare il proprio profilo. Il tutto a costo zero. >> Link: www.5sensiluxury.com
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Comunichiamo
Parola d’ordine: strategia! di Chiara Russotto
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ia zia ha 91 anni. Pochi giorni fa, parlando, mi chiede: «In cosa consiste esattamente il tuo lavoro?». «Trovo soluzioni per aiutare le aziende a guadagnare un po’ di più». «Come?»… Come Il lavoro generalmente arriva in due modi: le aziende vedono come mi sono occupata di un’azienda partner e mi contattano direttamente, oppure le contatto io perché scopro che hanno tutte le carte in regola per crescere enormemente, ma non sanno come comunicare efficacemente. Sono bravissime ma devono imparare a valorizzarsi. Il fatto che sia convinta della loro bravura mi semplifica molto le cose: non devo prendere in giro nessun cliente dell’azienda promuovendo “qualcosa che non esiste”, e mi devo occupare solo di studiarle a
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fondo per capire quali siano i punti di forza e i punti di debolezza, anche rispetto alle aziende concorrenti. Da cosa parto per studiare una buona strategia? 1. Chiamo l’attività o l’azienda e chiedo materiale informativo o informazioni. È fondamentale il come si gestisce il rapporto con la clientela. La disponibilità e la gentilezza fidelizzano più di mille slogan pubblicitari. E non bisogna mai avere la supponenza di capire con chi ci si sta relazionando, voi siete lì per offrire, a qualunque persona sia interessata, i vostri prodotti. Quando vado a fare compere vado sempre vestita come “peggio non si può immaginare”, perché non è il mio abbigliamento che determina che tipo di acquirente io sia, lo è il mio interesse al prodotto. Ed è giusto che guadagni chi è gentile per natura. Nel caso della vostra azienda, se chiamo e
non avete materiale, non siete gentili o “mi lasciate andare” senza avere cercato di acquisirmi come cliente, definisco il primo punto dal quale partire per far crescere la vostra attività. 2. Valuto l’immagine aziendale, il materiale di presentazione cartaceo e il sito. Una bella grafica aiuta moltissimo a promuovere i vostri prodotti e servizi. Le belle fotografie fanno capire perfettamente la qualità offerta. Le parole scritte in positivo parlano all’inconscio come una melodia. Se scrivo “non dovete comunicare male, perché allontanate i clienti” ottengo un risultato differente da “fatevi conoscere per la qualità che proponete!”. 3. Cerco di capire chi sia il pubblico di riferimento — il target — e se si stia parlando proprio a loro! Il vostro cliente è donna/uomo 30-70 anni e voi
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Chiara Russotto ha 36 anni, è consulente di comunicazione e titolare insieme a Federico Roveda di Smarti Editrice. Si occupa prevalentemente di food, adora i suoi clienti, cede al cibo per amore, lotta con la dieta, ride, ha due cani ed una passione per i libri che trattano argomenti dei quali, lei, non capisce assolutamente nulla.
avete una gastronomia. Come potete acquisire o fidelizzare ancora di più i vostri clienti? Magari raccontando perché avete deciso di provare i prodotti di “questa nuova azienda” e facendoglieli assaggiare! Ho passato le mie estati sulle coste del Lazio. I mercoledì e i sabato iniziavano sempre alle 7:00 del mattino con la voce, amplificata da un altoparlante, di un romano verace che urlava: “Donne! È Arrivato L’arrotinoo!!”.“Donne!!”. Noi, le donne e le bambine di casa, uscivamo a trovare quell’uomo, che su un furgone attrezzato dell’inimmaginabile — cipolle di Tropea comprese — ogni 700 metri si fermava, aspettava e vendeva! Lui, l’uomo del marketing puro quando la parola marketing in Italia ancora non esisteva!
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4. Valuto come siete posizionati nei motori di ricerca italiani come Google.it o Yahoo. 5. Controllo la qualità della presenza dell’azienda su tutti i social network. Non dovete necessariamente essere ovunque e, se dovete esserci senza comunicare, per favore, cancellatevi, perché date la vostra pagina in pasto a chi si vuole fare pubblicità attraverso voi… Magari ai vostri concorrenti diretti che con un post nella vostra bacheca pubblicizzano le LORO attività! • Facebook: le aziende — qualunque cosa facciano — devono avere un profilo pubblico (pagina). Ora vi sgrido. Mi spiegate, aziende, cosa ve ne fate di un profilo personale Facebook???? Costringete le persone a chiedervi l’amicizia
o, peggio, vi fate bloccare il profilo per 15 giorni perché ne avete chieste troppe voi! Non scoprite a quante persone state parlando (perché nelle pagine pubbliche, invece, si vede quante persone hanno visto il post, se sono donne o uomini, e la loro fascia di età. E si scopre quale tra i post pubblicati il vostro pubblico apprezza di più!!!). Non scoprite quanto hanno prodotto le campagne pubblicitarie o quali funzionano di più perché non vedete i report! Possono bastare queste motivazioni per farvi capire che è bene avere un profilo pubblico? Il profilo personale deve servire a gestire esclusivamente le pagine aziendali e la vostra vita privata (il prossimo articolo
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sarà su Facebook, se avete delle domande mandate, per favore, una mail in redazione a info@ pubblicitaitalia.com). 6. Produco un’analisi della comunicazione aziendale. Se in questa prima fase di ricerca ho trovato tutte risposte positive, e
ricordatevi che so che l’azienda è ottima, non ha senso che la contatti perché o hanno un’agenzia di comunicazione da tenersi stretta o, l’azienda, è bravissima da sola. Se, al contrario, esistono i margini di miglioramento per un’ottima crescita li contatto,
Domandateci, chiedeteci, contattateci: ogni mese, attraverso questa rubrica, risponderemo alle mail che ci sembreranno più utili ad approfondire gli argomenti trattati. Vi preghiamo di darci più informazioni possibili, così da rendere i nostri consigli efficaci o nel caso siate interessati ad argomenti specifici, di comunicarcelo a info@pubblicitaitalia.com
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li conosco, illustro i punti di forza e le debolezze e insieme ai titolari, definiamo strategia ed obiettivi. Ora, escludendo il discorso sito, posizionamento sui motori di ricerca e brochure/flyer di presentazione — che devono essere svolti da grafici e agenzie — quanto costa migliorare la propria comunicazione? Niente. Perché se siete bravi, dovete solo imparare come farlo capire ai vostri futuri clienti… senza perdere di vista il vostro obiettivo: la loro soddisfazione. Chiara Russotto
Premiata Salumeria Italiana, 5/13
IN CASA RASPINI NE FACCIAMO DI COTTI E DI CRUDI.
Premiata Salumeria Italiana, 5/13 www.raspinisalumi.it
Il Prosciutto Cotto Fettarosa e il Salame Piemonte sono solo due delle specialità della grande tradizione salumiera italiana che Raspini porta ogni giorno sulle nostre tavole. Dal crudo al cotto, dall’arrosto alla mortadella: Raspini mette d’accordo tutta la famiglia.
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BENVENUTI IN FAMIGLIA
Aziende
Autentico formaggio crotonese Pecorino crotonese e ricotta pecorina sono i due tipi di formaggio prodotti in diverse varianti da Giuseppe De Tursi nella sua azienda biologica a Strongoli, in provincia di Crotone di Massimiliano Rella
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È
possibile conciliare la pastorizia, la produzione di formaggi artigianali e le regole dell’agroalimentare, senza privare i prodotti del sapore più autentico? Sì, è possibile, e Masseria De Tursi è un ottimo esempio (www. masseriadetursi.it). Parliamo di un’azienda biologica di Strongoli, Crotone, che fa formaggi di alta qualità con il latte del proprio allevamento. Una realtà che ha saputo coniugare tradizione e innovazione, tramandando usanze, gesti e sapori. L’azienda venne fondata all’inizio del ‘900 da Luigi De Tursi per l’allevamento di ovini, mucche e maiali. Oggi è gestita dal figlio Giuseppe, che alleva soltanto ovini: 350 capi allo stato brado. Certificata biologica nel 1996 da Suolo
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e Salute, con garanzia AIAB, ha 90 ettari di seminativi e pascoli naturali all’interno dell’area SIC “Murge di Strongoli”, un sito di importanza comunitaria e una zona di interesse archeologico, coinvolta in piani e progetti di sviluppo sostenibile. La produzione casearia, che con l’allevamento è l’attività principale, viene effettuata in modo tradizionale e artigianale. I formaggi sono fatti esclusivamente con latte delle pecore cresciute nei pascoli aziendali. Sono previste due mungiture, la sera e la mattina, e il latte è lavorato in giornata dal casaro Pasquale Scutifero. Masseria De Tursi fa solo due tipi di formaggio — il Pecorino crotonese e la ricotta stagionata — ma in tante varianti, a seconda del tipo di
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Ricotta pecorina crotonese. affinamento e stagionatura. Il Pecorino crotonese è riconosciuto come PAT (Produzione Agroalimentare Tradizionale), marchio riservato a produzioni italiane di qualità. Entrambi i tipi di formaggi, comunque, portano in etichetta il riferimento all’origine da agricoltura biologica, consentito per i prodotti alimentari che contengono almeno il 95% di ingredienti certificati Bio e sono privi di OGM. I formaggi De Tursi sono fatti tra novembre e giugno. Il Pecorino crotonese con latte crudo, come un tempo, non pastorizzato né termiz-
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zato, caglio naturale e stagionatura in locali a temperatura naturale su tavole in legno di faggio, con giratura periodica settimanale e ungendo le forme una volta al mese con olio extra vergine d’oliva, sempre di produzione aziendale. In questo modo sono prodotti 6.000 kg l’anno di Pecorino crotonese, in varie pezzature e con diversi periodi di stagionatura. Il semi-stagionato, in forme da 700 grammi a 2 kg, matura dai 25 ai 40 giorni; il pecorino stagionato, in vari formati fino a 7 kg, richiede dai 60 ai 180 giorni; il pecorino molto stagionato, in pezze più grandi fino
al peso di 20 kg, invecchia dai 6 ai 12 mesi; infine, quello molto stagionato, Riserva, per un tempo che va dai 12 ai 48 mesi. Poi ci sono le versioni affinate per 3 o 4 mesi in barrique con foglie di noci, oppure con foglie di nocciolo, erbe primaverili o vinacce bianche del grande produttore di vini Roberto Ceraudo, anche lui di Strongoli. L’altro formaggio della Masseria è la ricotta pecorina crotonese. Ottenuta da latte lavorato subito dopo la mungitura, viene preparata in piccole forme da max 200 grammi e stagionata 25 giorni. Può essere consumata come formaggio da tavola e, nella versione più invecchiata, si può grattugiare sulla pasta. Oltre alla ricotta bianca, c’è il tipo affumicato su legno di olivo o di arancio, essenze che conferiscono sentori più complessi. L’azienda fa circa 2.000 kg di ricotta stagionata l’anno. «Non facciamo formaggi freschi per evitare di andare in giro tutti i giorni a portare ricotte» ci spiega Giuseppe De Tursi. «Invece lavoriamo sul prodotto stagionato, che, messo sottovuoto, dura anche oltre sei mesi». I formaggi sono venduti direttamente oppure per corrispondenza. Li troviamo anche in alcuni ristoranti calabresi e di Milano. Una parte è esportata in Austria, Germania, Francia e Svizzera. I prezzi in azienda vanno dai 12,00 ai 26,00 €/kg per il pecorino, a seconda delle stagionature, fino ai 18,00 €/kg per la ricotta. Tra le novità in Masseria c’è la ripresa della coltivazione del grano Senatore Cappelli, dal nome del politico abruzzese Raffaele Cappelli, promotore nei primi del ‘900 della riforma agraria che portò alla distinzione tra grani duri e teneri, per fare una farina macinata a pietra, adatta per pasta di qualità superiore, pane e pizza biologici. Massimiliano Rella Nota A pagina 22 la stagionatura del Pecorino crotonese alla Masseria De Tursi di Strongoli (KR) e il produttore Giuseppe De Tursi (photo © Massimiliano Rella).
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www.acetobalsamicodelduca.it
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Chi si sposa è contento un giorno, ma se mangia salsiccia… …è contento tutto l’anno! Il Salumificio e prosciuttificio ASID, a Castelluccio Inferiore (PZ), produce nel rispetto della tradizione salsiccia dolce al finocchietto selvatico e al coriandolo, soppressata realizzata con tagli magri e prosciutto, sviluppando l’intera filiera produttiva, senza coloranti, conservanti e additivi di Riccardo Lagorio
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apoli, 1856. Redatta da Benedetto Marzolla, a cura del Real Ministero di Stato dell’Interno, viene data alla stampa la Carta dei prodotti alimentari delle Province
Continentali del Regno delle Due Sicilie. Si legge che due sole sono le aree dell’attuale Basilicata dove si producono salumi: nei pressi di Marsicovetere, poco distante da Potenza, e Castelluccio, nel Pollino. Marzolla
in qualche modo ratifica quanto tre anni prima viene riferito da Filippo Girelli nell’enciclopedico Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato: secondo la ricerca sul territorio di Castelluccio sono presenti oltre
Salsiccia dolce al finocchietto selvatico, insaccata in budello naturale.
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900 maiali su meno di 700 famiglie censite. Tradizione norcina suffragata e avvantaggiata dalla tradizionale Fiera di San Giuseppe, il 19 marzo, che fortunatamente coincide con la prima uscita dei salumi dell’inverno appena trascorso. Nel tempo questa fiera assunse il ruolo di vera e propria borsa dei salumi provenienti da Castelluccio e dalle aree limitrofe della Lucania e della Calabria e ancora oggi l’importanza di possedere un maiale è fissata dal proverbio “Cu s’inzùr iè cuntent nu iurn/cu s’accid’u purch iè cuntent tutt l’ann” (Chi si sposa è contento un giorno / Chi ammazza il maiale è contento tutto l’anno). Tradizione e orgoglio che trovano compiuta rivelazione nella salsiccia dolce al finocchietto selvatico, insaccata in budello naturale. La produce, nel rispetto dell’usanza passata, l’ASID, una società che coinvolge 7 persone (in un territorio in verità avaro di posti di lavoro) e di cui il legale rappresentante è A NTONIO MARINO. «Noi sviluppiamo l’intera filiera produttiva con materie prime che provengono da territori circostanti, all’interno della Comunità Montana Lagronese: i suini nascono ad Aieta e vengono macellati a Laino; il finocchietto selvatico è raccolto a Baragiano. Si tratta di territori ben noti per la loro salubrità, luoghi incontaminati dove cerchiamo di tramandare tecniche e ricette di un tempo». Fondamentale per ASID è l’assenza di conservanti, coloranti e additivi nei salumi prodotti, che li rende appetibili anche nei mercati del Nord Europa. La salsiccia si prepara con i tagli rossi della carne di maiale: spalla, pancetta e capicollo. L’attenzione a valorizzare il territorio non poteva omettere l’utilizzo di una perla gastronomica lucana, il
Antonio Marino guida la visita in cella stagionatura. peperone di Senise, che gode da tempo della tutela europea come IGP. Il peperone di Senise IGP, in opportune quantità, viene aggiunto all’impasto per la salsiccia al finocchietto, insieme alla giusta misura di sale, che proviene dal Cosentino, da Lungro in particolare, storicamente dall’ottima reputazione per purezza e qualità minerali adatte al confezionamento di salumi. Un’altra variante di salsiccia molto apprezzata è quella al coriandolo, che pure ha origine locale e viene macinato al momento di essere aggiunto all’impasto. I suini che vengono ritenuti adatti per la macellazione pesano almeno 170 kg, molto spesso raggiungono i 2 quintali, e almeno un anno di età. A seconda delle necessità commerciali vengono lavorati tra i 6 e i 12 suini a settimana. La selezione delle carni avviene in maniera manuale nel
“I suini che vengono ritenuti adatti per la macellazione pesano almeno 170 kg, molto spesso raggiungono i 2 quintali, e almeno un anno di età. A seconda delle necessità commerciali vengono lavorati tra i 6 e i 12 suini a settimana. La selezione delle carni avviene in maniera manuale nel salumificio ai piedi del paese, aperto nel 2008” Premiata Salumeria Italiana, 5/13
salumificio ai piedi del paese, aperto nel 2008. Anche la soppressata è un prodotto ben radicato nella storia di Castelluccio. Quella che esce dal laboratorio di ASID è ottenuta con tagli magri di carne suina, in particolare filetto e coscia (rappresentando quindi la punta di diamante della produzione aziendale), con piastra dai fori molto grossi, a cui viene aggiunto lardo tagliato a mano, sale e pepe nero in grani. La stagionatura minima è di 60 giorni. Ne esiste una versione rossa dolce, con l’aggiunta di peperone di Senise IGP. Dai suini più prestanti si traggono pezzi anatomici interi come il filetto, che presenta una sottile striscia di lardo e cotenna, capicollo e guanciale. Anche il prosciutto presenta caratteristiche proprie: non viene stagionato intero bensì sezionato in due o tre parti, ottenendo quello che commercialmente Antonio Marino definisce cuor di prosciutto. Un’idea semplice che va incontro alle necessità delle gastronomie che sempre più richiedono salumi pronti all’uso. Riccardo Lagorio ASID Srl Contrada Pietrasasso 85040 Castelluccio Inferiore (PZ) Telefono: 0973 662250
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Attualità
Italia vendesi Lo shopping degli stranieri nel nostro Paese sembra inarrestabile. Dalla moda all’agroindustria, dall’abbigliamento agli alberghi di lusso, nulla sfugge al mirino degli investitori esteri che del Belpaese amano tutto ma in particolare l’arte, il cibo e lo stile di vita. Nel frattempo sul banco di vendita finisce quanto di meglio abbiamo costruito in secoli di storia di Sebastiano Corona
L’
antica Pasticceria Cova di via Montenapoleone ceduta al gruppo Lvmh, Pernigotti passata di recente alla turca Toksoz, il Riso Scotti acquisito dal colosso industriale spagnolo Ebro Foods, sono solo i più recenti passaggi di marchi italiani importanti a mani straniere. Qualcuno potrà obiettare
che globalizzazione è in fondo anche questo e che quindi siffatte operazioni altro non sono che l’inevitabile segno dei tempi. La verità è che l’Italia si sta (s) vendendo a pezzi e quando i gioielli di famiglia vengono ceduti, che il prezzo sia buono o meno, è sempre un dolore.
La scalata degli stranieri nei confronti dell’industria del Belpaese non è cosa recente. È iniziata ormai alcune decine di anni fa e non riguarda solo l’agroalimentare. I comparti maggiormente bersagliati sono quelli più dinamici, quelli che hanno un importante rilievo in termini di immagine e che fanno grande l’Italia all’estero,
Gli stabilimenti Innocenti/INNSE di via Rubattino a Milano, quartiere Lambrate, in corso di demolizione da anni (il complesso è dismesso dal 1993).
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Il made in Italy è molto amato dai consumatori orientali. quali l’abbigliamento, la gioielleria e il lusso, in generale. Nomi come Bulgari, Emilio Pucci, Acqua di Parma, Fendi, Gucci, Pomellato non sono più italiani da tempo. Anche Puma, Dodo, Bottega Veneta, Brioni e Sergio Rossi, solo per citarne alcuni, da anni sono passati in mani straniere. L’acquisizione in fatto di cibo è iniziata da lontano quando diversi decenni fa Buitoni prima e Perugina poi, sono state acquisite dalla svizzera Nestlé che successivamente ha acquisito anche Locatelli, San Pellegrino e Antica Gelateria del Corso e tutte le società ad esse legate. Con ulteriori passaggi di mano, l’Italia ha perso negli anni Peroni, Invernizzi, Stock, Galbani passata ai francesi, Carapelli, Sasso (acquisita dagli spagnoli) e poi Fattorie Scaldasole. Nel 2008 è stata la volta di Bertolli (venduta prima ad Unilever, poi acquisita dal gruppo spagnolo Sos), Rigamonti Salumificio Spa e Italpizza. E ancora, in un secondo momento, sono state cedute all’estero Delverde Industrie Alimentari Spa e, a seguire, Boschetti Alimentare e Ferrari Giovanni Industria Casearia Spa. Nel 2011 Parmalat è stata acquisita dalla francese Lactalis, Gancia dall’oligarca russo Rustam Tariko, mentre Fiorucci Salumi è passata agli spagnoli ed anche Eridania Italia Spa è finita in mani straniere. L’anno scorso è stata la volta dei Pelati Antonino Russo che, grazie ad una operazione di
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scatole cinesi, è diventata nipponica. A seguire sono state cedute Star ed Eskigel. Negli anni si è consumata una vera e propria strage che da una parte inorgoglisce perché è espressione di apprezzamento, ma dall’altra rattrista e preoccupa perché pezzi importanti della nostra economia prendono il largo, in certi casi con grave danno dal punto di vista occupazionale, fiscale e sociale. Con conseguenze — per alcune aree geografiche — devastanti. Se si pensa che in luoghi come la pasticceria Cova si incontravano quotidianamente un tempo artisti del calibro di Verdi, Mascagni e Puccini e che tra quelle mura presero corpo i “Moti delle Cinque Giornate”, appare sacrilego che questa prestigiosa boutique del dolce venga acquisita da un gruppo imprenditoriale straniero, la cui sensibilità in fatto di Risorgimento italiano non è da dare per scontata. Stesso discorso vale per Pernigotti che, oltre ad essere un tassello importante dell’industria dolciaria nazionale, ha fatto la storia della produzione cioccolatiera italiana. Pernigotti è un nome che nell’immaginario collettivo del Belpaese, già dai primi del ‘900, era sinonimo di ottimo torrone e magnifici gianduiotti. Pur spogliandosi di qualunque pregiudizio, pensare che improvvisamente acquisisca nazionalità turca, non può che creare sentimenti inquietanti.
Aldilà dell’aspetto romantico ed emotivo, è però certamente il lato economico e sociale che deve far riflettere, soprattutto in un’ottica di lungo periodo e in un ragionamento di competitività del sistema Paese nel suo complesso. Prima di lasciare spazio alle preoccupazioni, e poi alle possibili soluzioni, è giusto e corretto fare un mea culpa ed affermare che la responsabilità di quanto sta accadendo è da ricondurre principalmente all’Italia stessa. Se è certo che il mercato globale non consente errori e mette in competizione tra loro economie che operano con regole molto diverse e talvolta in condizioni di concorrenza sleale, è pur vero che il nostro Paese negli ultimi decenni non è stato in grado di reagire. Gli elevati costi di produzione e del lavoro, l’insopportabile burocrazia a carico delle aziende, la scarsità di servizi ed infrastrutture costringe le imprese italiane, nella migliore delle ipotesi ad una delocalizzazione e nella peggiore, alla vendita o al fallimento. Il disagio dei pochi, stoici imprenditori che ancora operano nel Belpaese è tangibile, reale ed ampiamente diffuso da Nord a Sud senza soluzione di continuità. È pertanto comprensibile anche la posizione di chi si trova costretto a cedere quote capitali e talvolta fare scelte anche molto dolorose dal
La storica pasticceria milanese Cova.
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Manifestazione del marzo 2012 di Coldiretti a Roma, davanti a Montecitorio, per chiedere di vietare il finanziamento pubblico di prodotti taroccati fatti all’estero, come il “falso pecorino” (photo © www.conipiediperterra.com). punto di vista personale che tuttavia possono avere conseguenze per tutto un comparto o per un’area geografica importante. Associazioni di categoria come la C OLDIRETTI , nella persona del presidente nazionale Sergio Marini, si domandano se questi passaggi di proprietà non comportino nel breve o nel lungo termine problematiche ulteriori rispetto al controllo societario di importanti gruppi. Uno di questi potrebbe per esempio, essere quello di uno spostamento nell’approvvigionamento della materia prima. L’utilizzo di ingredienti locali per produrre cibi in Italia, si sa, è tutt’altro che scontato. Tuttavia, soprattutto negli ultimi tempi, la tendenza è quella di utilizzare sempre più materia prima nazionale, cercando di creare un circolo virtuoso che faccia ripartire l’economia agricola. Nel momento in cui i vertici di un gruppo societario passano in mano straniera, questa probabilità diventa sempre più remota.
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Allo stesso modo aumenta il rischio che lo standard qualitativo di un tempo venga meno. L’agroalimentare italiano non è diventato celebre nel mondo solo per la genuinità e la salubrità della materia prima utilizzata, ma anche per la tradizione nella produzione tramandata nei secoli per generazioni, la manualità nella lavorazione, i saperi che sovrintendono a processi lunghi e impegnativi e che danno risultati solo se si ha la pazienza di metterli in pratica nella giusta maniera. Laddove venisse meno la sensibilità necessaria per ottenere tutto questo, anche il risultato sarebbe differente. Pertanto un marchio storico, che ha impiegato decenni, talvolta secoli, per acquisire un suo nome e una sua notorietà, potrebbe teoricamente essere svilito e distrutto in pochissimo tempo. Oltre al danno la beffa: accade spesso che gli Italiani — giustamente affezionati ai marchi nostrani e non sempre informati sulle vicende
finanziarie di certi gruppi societari — non sappiano che alcuni marchi siano passati in mani straniere e che magari determinati prodotti da un certo momento in poi vengano realizzati all’estero. Seguendo abitudini pluridecennali, e nel vano tentativo di contribuire a mantenere alte le sorti dell’economia nazionale, continuano ad acquistare quei prodotti credendo che siano ancora tricolori e nella completa inconsapevolezza del fatto che al nostro Paese, di quell’acquisto, rimarrà poco o niente. In tutti questi casi in cui si sfrutta il nome dell’Italia per vendere un prodotto oramai estero, si genera una sorta di inganno commerciale che forse non può essere configurato come un illecito vero e proprio, ma che tuttavia mette il consumatore in una posizione di sfavore in fase d’acquisto. L’altra domanda che si pone se la tendenza rimane questa è: quale può essere la prospettiva per il nostro comparto agroalimentare,
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anche in termini di immagine, nel mercato globale? Sapere che molti marchi italiani non sono più gestiti in loco, che non rispondono più ad una lavorazione tradizionale locale, a standard qualitativi nazionali, non potrebbe forse essere un elemento di confusione generale e di svantaggio per il nome del cibo italiano nel suo complesso? Insinuare il dubbio nel mercato e nel consumatore, non è comunque un elemento che porta ad indebolire l’offerta e a deviarla sui prodotti esteri? E ancora: in una logica di mercato nessun soggetto che sia subentrato in un’azienda, acquistandola per cifre importanti, può avere beneficio a distruggerne il nome. Tuttavia, in un ipotetico quanto fantasioso disegno criminale volto a danneggiare il nostro sistema Paese, un’operazione come questa non è da escludersi completamente. Niente garantisce agli Italiani che altri Paesi concorrenti non abbiamo da avvantaggiarsi da uno scenario — seppur remoto — in cui con una serie di azioni dannose come quelle descritte, l’Italia venga pian piano indebolita e svuotata di quanto di più prezioso e bello può vantare sia economicamente, sia culturalmente. Le preoccupazioni non sono tutte così astratte e basate su congetture improbabili come quelle appena illustrate. È sufficiente infatti ragionare sullo svuotamento finanziario provocato dal passaggio di proprietà delle nostre aziende storiche, per avere un grattacapo in più. Per non parlare delle paventate delocalizzazioni della produzione, con relativa chiusura degli stabilimenti e perdita di occupazione. I costi produttivi e del lavoro in Italia sono insopportabili. Sarebbe più che legittimo pensare che marchi importanti che utilizzano comunque materia prima estera, nel tempo, decidano di spostare oltre confine anche la produzione. Avrebbero così il vantaggio di utilizzare un marchio riconducibile all’Italia, ma sostenendo costi e pressione fiscale di gran lunga inferiori di quelli che l’Italia impone. Alcuni ritengono che considerato questo rischio, risulti anacronistica la posizione di chi difende ad ogni costo
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l’italianità delle strutture proprietarie delle nostre imprese. In una situazione di desertificazione produttiva generale del Paese, infatti, lo straniero che acquista un marchio tricolore e che vuole continuare a produrre in Italia nonostante tutto, apportando risorse finanziarie e manageriali andrebbe salutato, ringraziato ed accolto con tutti gli onori, poiché farebbe in casa nostra ciò che noi stessi non riusciamo a fare. Ma ogni caso è un caso a sé e la prudenza nelle valutazioni sarebbe d’obbligo. Magari potrà persino capitare che i nuovi padroni di casa sappiano fare bene o benissimo per sé e per gli Italiani stessi, ma il dubbio e la preoccupazione appaiono quanto meno legittimi. Piuttosto c’è da chiedersi: si vuole continuare a stare alla finestra o si intende intervenire e fare qualcosa perché ci sia un’inversione di tendenza? A dirla tutta — Coldiretti a parte — in pochi si sono espressi in questi anni su questo tema, sia per ciò che concerne il comparto alimentare, sia in riferimento alla moda e al lusso Se da una parte la politica se ne sta limitatamente interessando, quasi che la questione fosse unicamente relegata all’ambito dei privati, dall’altra gli imprenditori forse schivi e rispettosi delle scelte dei colleghi, solo timidamente e in scarse occasioni hanno accennato giudizi di sorta. Ed è Coldiretti ancora una volta ad esprimersi, suggerendo una ricetta per cambiare rotta: “ciò che occorrerebbe fare è accelerare la costruzione di una filiera agricola tutta italiana che veda di nuovo protagonisti gli agricoltori, i primi attori sul territorio per garantire quel legame con il Paese che ha consentito ai grandi marchi di raggiungere nei secoli il prestigio che oggi rappresentano”. Non è sicuro che questo basti, ma è certo che la questione sia seria ed importante. Ed inoltre riguarda tutti. Ognuno di noi ed ognuno a suo modo ha infatti contribuito a fare dell’agroalimentare nazionale un patrimonio unico che non va disperso. Men che mai in un momento storico come questo. Sebastiano Corona
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Tra made in Italy, made by Italy e contraffazione
Globalizzazione e salumeria italiana di Giovanni Ballarini
N
ella globalizzazione vi è la libera circolazione di persone, merci, stili di vita, notizie e immagini che uniscono tutto il globo terrestre. La globalizzazione, che impressiona per intensità e dimensione, influisce e determina anche gli alimenti e l’alimentazione. Globalizzazione e progresso alimentare non sono opposti, anzi! È proprio dallo scambio e dal confronto delle diversità che nascono le imitazioni ma, anche e soprattutto, gli stimoli del cambiamento, facendo sorgere nuove domande e richieste. La globalizzazione alimentare che stiamo vivendo ha radici antiche
e in sostanza inizia con la scoperta delle Americhe. Coincide inoltre con la modernità, con tutti i suoi lati e aspetti positivi e anche negativi, e tra questi vi sono anche la paura del nuovo. Oggi abbiamo paura di quanto arriva da lontano e di modificare la nostra alimentazione, ma cosa sarebbe la nostra cucina senza i tanti cibi americani, dalla patata al pomodoro, ai peperoni, e al mais? La globalizzazione conduce anche a modifiche negli usi alimentari. Il mais che nelle Americhe è mangiato come tortillas, in Italia diviene polenta, un sistema di cottura tipicamente di antica origine romana, la puls.
Il pomodoro in Italia dà origine alle salse che con tante varianti invaderanno il mondo. Il ketchup, salsa indonesiana a base di pesce, in Europa conosce il pomodoro e passando in America si sposa con il peperoncino, in un lungo viaggio globale e arriva alla salsa ora nota. L’America ha insegnato al mondo un nuovo modo di mangiare rapido, che in parte ha sostituito il mangiare per strada che in Italia aveva come segno rappresentativo la pizza. Oggi sono le cucine asiatiche che stanno insegnando agli occidentali il gusto del crudo o del poco cotto, e le loro raffinate tecniche di cottura.
La globalizzazione è un prezioso strumento di arricchimento culturale anche attraverso i meccanismi della sperimentazione, dell’imitazione e dell’ibridazione. In foto, pancetta con prugne secche e menta (photo © www.salumi-italiani.it).
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Cambia anche il modo di bere e agli accoppiamenti tra cibo a vino si affianca quello della bevanda che si associa al cibo, soprattutto nei nuovi modi di mangiare degli happy hour, autoservizi di buffetteria. Bevande locali diventano mondiali e tra queste indubbiamente i vini, non più soltanto del Vecchio Mondo, ma anche del Nuovo Mondo, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica. Tra gli aspetti per taluni versi negativi della globalizzazione vi è infatti anche quello della marginalizzazione alimentare e, in questo senso, esemplare è quanto è avvenuto per il vino. Un tempo il vino era un prodotto solo mediterraneo, oggi è fatto in quasi tutti i continenti e quello dei paesi mediterranei si trova a competere su uno scenario mondiale. In modo analogo inizia lo stesso processo anche per l’olio d’oliva e tra breve l’olio mediterraneo si troverà a competere con quello californiano e sudamericano. In questi casi l’Europa alimentare da conquistatrice si è trovata al margine, una condizione che ha sviluppato nuovi scenari e tra questi quello della delocalizzazione delle produzioni, soprattutto per quelle che è meno conveniente esportare. Se è indispensabile produrre in Italia ed esportare all’estero l’alta qualità di un vino Sassicaia o un culatello di Zibello, per un prodotto come una pasta alimentare, anche se di alta qualità, può essere più conveniente produrre nel paese e soprattutto nel continente di commercializzazione. Le diverse qualità di birra sono un nuovo mezzo di globalizzazione con un tempo impensabili accoppiamenti e sposalizi. Senza contare il fiorire e il diffondersi delle bevande artificiali, su basi naturali vegetali, ma anche con apporti delle nuove scienze alimentari. La globalizzazione è un prezioso strumento di arricchimento tecnologico e culturale anche attraverso i meccanismi della sperimentazione e dell’imitazione e dell’ibridazione, ben più complessi di quello che a volte sbrigativamente è denominata cucina fusion. La sperimentazione alimentare è sempre esistita e la globalizzazione la incrementa. In questa i fenomeni
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Salame cacciatore e uva (photo © www.salumi-italiani.it). di imitazione non si contano, ad esempio il carpaccio ha avuto una grande serie di imitazioni e da quello di carne si è passati al pesce e non da ultimo — ma questo è un indubbio eccesso — di vegetali. Molto importanti sono i processi di ibridazione quando una tecnologia è trasferita da cibi e preparazioni differenti. In questo rientra anche la sempre più spinta tendenza a privilegiare le tecniche fisiche a quelle chimiche. Nel quadro della globalizzazione sono quindi da situare almeno tre diverse attività. Accanto al made in Italy (fatto in Italia ed esportato) all’estero vi è l’Italian sounding (imitazione più o meno grossolana di prodotti italiani), ma vi è anche il made by Italy (fatto dall’Italia all’estero, da imprese italiane che si sono internazionalizzate e che creano lo stesso identico prodotto all’estero come in Italia). Significativo esempio del made by Italy è la pasta che in America, dove è sempre più apprezzata quella d’alta qualità italiana o all’italiana, ivi viene prodotta da industrie italiane in propri stabilimenti che nulla hanno da invidiare a quelli italiani. Sulla spinta della globalizzazione
la salumeria italiana all’estero vede tutte e tre le indicate modalità con l’esportazione dell’alta qualità made in Italy, un’espansione del già presente made by Italy, ma, allo stesso tempo, è inevitabile che i salumi italiani siano imitati dall’Italian sounding. Il fenomeno dell’imitazione e dell’Italian sounding non riguarda soltanto il settore alimentare e ha molte motivazioni e meccanismi, come dimostra la sostanziale inefficacia di interventi unicamente contrattuali, normativi ed economici. Come dimostra quanto successo e sta avvenendo per alimenti che si sono mondializzati, ad esempio la Coca Cola, un’arma molto importante se non vincente è la marca che identifica uno specifico prodotto e che può essere difesa sul piano internazionale, molto meglio di un generico marchio più o meno collettivo. Illuminante è la lunga esperienza francese di un vino come lo Champagne che ha impostato la comunicazione non tanto sul marchio, quanto sulla marca, e in questa sviluppando una gran numero di varianti gustative, per adeguarsi e spesso inducendo nuove condizioni d’uso. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma
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Prosciutto Crudo di Cuneo Dop: non è ancora in vendita ma sul mercato è già stato copiato Copiato prima ancora di arrivare in salumeria. Il prosciutto Crudo di Cuneo DOP non è ancora in commercio, ma già detiene l’inedito record di imitazioni… precoci. Lo segnala in questi giorni un comunicato del Consorzio di tutela del prodotto mettendo in guardia i consumatori dalla frode alimentare: “Stiamo ricevendo diverse segnalazioni di utilizzo non conforme o fraudolento del marchio del prosciutto Crudo di Cuneo DOP — scrive il Consorzio, che diffida gli operatori del settore alimentare a — non commercializzare e a non utilizzare prosciutti crudi di provenienza non certificata spacciandoli per Crudo di Cuneo DOP”. Una contraffazione per certi versi curiosa, considerato che il prosciutto originale, prodotto al momento dalla sola azienda Carni Dock di Lagnasco a marchio Salumeria Grandock non è ancora in vendita. Lo sarà a partire dall’autunno, com’è stato annunciato nel giugno scorso a Saluzzo, durante la presentazione condotta dal critico gastronomico Edoardo Raspelli, davanti ad autorità, operatori del settore e giornalisti. Occhio al marchio Il Consorzio ricorda che nella ristorazione e negli esercizi commerciali che avranno in vendita il Crudo di Cuneo DOP saranno presenti apposite segnalazioni, tipo “Qui trovi il prosciutto Crudo di Cuneo DOP” e invita i consumatori a verificare che sulla cotenna del prosciutto sia presente il sigillo a fuoco di garanzia ed unicità del prodotto. La Carni Dock di Lagnasco concentra nelle proprie attività tutte le fasi produttive del crudo di Cuneo (allevamento dei maiali, macellazione, sezionamento, rifilatura, salagione, riposo e stagionatura dei prosciutti) rappresentando la filiera più corta d’Italia nella produzione del prosciutto crudo DOP. Da parte sua, il Consorzio, insieme all’Istituto Nord Ovest Qualità e alle autorità di controllo del Ministero delle Politiche Agricole, assicura che continuerà a vigilare “affinché il consumatore non sia ingannato da commercianti poco trasparenti”. Caratteristiche del Prosciutto Crudo di Cuneo La Dop Crudo di Cuneo è riservata a prodotti che presentano le seguenti caratteristiche: • forma tondeggiante priva di piede e con anchetta; • peso con osso tra i 7 e i 10 kg; • grasso esterno di colore bianco tendente al giallo; • aspetto: al taglio la fetta si presenta di colore rosso uniforme nella parte magra e di colore bianco in quella grassa. Il grasso di copertura può avere sfumature rosee. La consistenza è morbida e compatta, non flaccida; • l’aroma è dolce e fragrante. È preferibile affettare il Crudo di Cuneo poco prima di consumarlo e proteggerlo con carta alimentare, in quanto l’aria e la luce tendono ad asciugarne la superficie provocando la perdita di alcune caratteristiche organolettiche.
Agroalimentare, allarme concorrenza sleale La filiera agricola e agroalimentare italiana ha ancora enormi potenzialità da esprimere. Grazie alla grande qualità dei suoi prodotti, infatti, non ha nessuna paura della globalizzazione, ma ha bisogno di una politica moderna che sappia difenderla e promuoverla nei modi più adeguati. È la richiesta che arriva da tre operatori del settore agroalimentare ospiti del terzo incontro dell’edizione 2013 di “Economia sotto l’ombrellone”, sabato 17 agosto, a Lignano Pineta: Claudio Bressanutti, direttore di COLDIRETTI Pordenone; Cristian Specogna, contitolare delle tenute vitivinicole Specogna e Toblar; Marco Tam, presidente di Greenway agricola, che ha costruito e gestisce la centrale a biogas di Bertiolo (UD). Il prodotto agricolo e agroalimentare italiano, infatti, come spiegato dai tre relatori, è molto richiesto all’estero, ma soffre della concorrenza sleale di prodotti che imitano quelli italiani. Basti dire che il valore dei prodotti Italian sounding o del dumping agroalimentare, venduti sui mercati esteri, ma non di origine italiana, è pari a 60 miliardi di euro annui, a fronte di un’esportazione complessiva di prodotti agroalimentari realmente italiani che ammonta a 20 miliardi annui. Si tratta di un enorme danno, non solo economico, ma anche di immagine, perché le produzioni agroalimentari italiane rispettano norme e discipline molto più stringenti di quelle seguite da chi all’estero le imita. Oltre alla politica di difesa, che deve partire in primis dalle norme sull’etichettatura di provenienza, e a quella di promozione dei prodotti italiani, che deve avere metodi e competenze adeguati, utili a creare identità territoriali riconosciute nel mondo e non disperdersi in mille rivoli — secondo i relatori —, serve anche un maggior controllo della filiera, che vada dal campo ai banchi dei supermercati. La quasi totale mancanza di catene di distribuzione in mani italiane e la crescente acquisizioni di aziende agroalimentari italiane da parte di grandi player stranieri sono, in questo senso, molto preoccupanti e fanno prevedere un futuro in cui l’Italia rischia di non avere più il controllo sul proprio settore agroalimentare.
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Eventi
Emozione, orgoglio emiliano e passione: la Favola continua Il Salumificio Palmieri ha inaugurato il nuovo stabilimento a poco più di un anno dal sisma. 12 mesi di grande lavoro, tra tecnologie innovative, un aumento della capacità produttiva, l’orgoglio di dare un nuovo senso all’azienda e al territorio e, cosa più importante, un vero gioco di squadra
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5 giorni dalla prima scossa di terremoto che ha colpito la provincia di Modena, lo scorso fine luglio il Salumificio Palmieri ha festeggiato l’inizio di una nuova fase, una nuova avventura per l’azienda e per le oltre 60 persone, tra dipendenti e nuovi assunti. Davanti ad una platea numerosissima ed emozionata dal video che ha ripercorso le varie fasi di questi 12 mesi (dai brividi delle scosse, allo sgomento della distruzione, fino all’energia pura della ricostruzione
sottolineata dal sottofondo molto rock dei Foo Fighters), amici, clienti, dipendenti e tecnici si sono ritrovati per celebrare l’inaugurazione. L’assessore regionale alle Attività
produttive, Giancarlo Muzzarelli, ha infatti tagliato il nastro del nuovo stabilimento di via Canaletto 16/a a San Prospero (MO), sorto sul precedente impianto demolito dopo la seconda terribile scossa. È stata una grande festa, gioiosa e commossa, alla quale hanno partecipato tutte le persone che direttamente o indirettamente si sono trovate coinvolte in questo progetto di ricostruzione: rappresentanti degli enti locali, forze dell’ordine, imprenditori locali, maestranze, tecnici. E anco-
La mortadella Favola, core business dell’azienda.
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In alto: Massimo Palmieri. In basso: a sinistra, operai e vigili del fuoco al lavoro. A destra, il nuovo ingresso. ra, rappresentanti delle banche che stanno accompagnando l’azienda in questo progetto di rilancio e ALBERTO NICOLINI, presidente di Terre Mosse, la rete di imprese nata da un’idea di MASSIMO PALMIERI. E proprio Massimo ha avuto una parola e un sorriso per tutti. Come per le tante aziende del territorio colpite dal sisma, anche la sua impresa di famiglia ha dovuto affrontare prima una situazione di assoluta emergenza, e poi l’incertezza del futuro. Ma, si sa, il coraggio non manca qui in Emilia e con coraggio la famiglia Palmieri ha deciso di affrontare tutti gli investimenti necessari
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(circa 12 milioni su un fatturato di 20) per restare sul mercato e dar vita ad uno stabilimento ancora più efficiente e competitivo. La struttura ricopre 25.000 m2 di superficie e oggi ospita tutta la produzione di mortadelle e prodotti precotti (zampone, cotechino e stinco). «Prevediamo nel breve periodo di superare le 6.000 tonnellate/anno di prodotto lavorato del precedente stabilimento» ha sottolineato Massimo Palmieri, ricordando che oggi la struttura vanta un layout produttivo più razionale ed efficiente. La ricostruzione ha obbligato l’azienda ad una
riorganizzazione interna e a dotarsi di nuove figure professionali in grado di dare un contributo a questa fase di rilancio. Oltre al nuovo direttore generale PAOLO ARCANGELI, si registra un incremento dei livelli occupazionali che, in pieno regime, sarà intorno al 10%. Mutuandone il nome del prodotto più conosciuto del Salumificio Palmieri, la mortadella Favola, si può ben dire che dopo 435 giorni dal terremoto, la Favola continua… Nota Video della ricostruzione: http://goo. gl/qt3OkT
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Il prosciutto al Sale Dolce di Cervia finisce in vetrina Inaugurato nel centro della cittadina romagnola uno show room dedicato ai prodotti realizzati con il Sale Dolce di Cervia. Protagonista indiscusso il Dolce Maggiore del Prosciuttificio Antica Pieve
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Cervia l’appuntamento con la prima fetta del Dolce Maggiore, il prosciutto realizzato con il prodotto più noto della cittadina, il Sale Dolce, è stato sabato 24 agosto alle ore 18:00 in viale Roma 20. Proprio quel giorno, infatti, il Prosciuttificio Antica Pieve di Guiglia (MO) ha inaugurato uno scintillante show room dedicato ai prodotti con il Sale Dolce di Cervia riservando, naturalmente, un posto d’onore a questo straordinario salume. «In effetti si vedono molto raramente show room di questo genere» ci racconta SARA MONGIORGI, la cui famiglia è proprietaria della holding che comprende l’azienda di importexport Euroscambi Spa, il Prosciuttificio Antica Pieve e una società immobiliare, la Euroimmobiliare
2004 Srl. «L’idea di questa “vetrina” in paese è stata di mio padre Giorgio, che voleva incuriosire le persone che sono solite ammirare i bei negozi del centro storico durante le passeggiate sul corso principale di Cervia. Io invece mi sono occupata dell’arredamento del locale, situato all’interno di un edificio nuovissimo». E così, grazie all’inventiva e alla creatività dei Mongiorgi, chi si trova a passare per Cervia può oggi ammirare i dolcissimi prosciutti tra pallets, cassette di frutta, grossi sacchi di sale e una bellissima collezione di affettatrici storiche. L’aperitivo dello scorso agosto ha poi consentito agli invitati di assaggiare questo capolavoro dell’arte norcina, che ha trovato la propria sublimazione nell’incontro con l’antica tradizione salinara del ter-
ritorio cervese. «Una rigorosa selezione degli animali in allevamento e una successiva delle cosce, scelte in base a tipologia e pezzatura (peso superiore a 12 kg e muscolatura uniforme per colore e priva di lesione) — continua Sara — sono alla base del successo e della qualità del Dolce Maggiore. Nella sua lavorazione un ruolo fondamentale viene dato al Sale Dolce di Cervia, che, grazie alla limitata presenza di cloruri amari, conferisce sapore alle carni, senza farle risultare salate, rendendo il gusto del prosciutto inconfondibile. Il Dolce Maggiore è un prodotto sorprendente per le sensazioni che sa trasmettere: agli occhi per il colore rosa e uniforme, al naso per il profumo intenso e armonioso, al palato per il gusto dolce ed equilibrato. Delicato, persistente e poco salato».
Lo show room dedicato ai prodotti con il Sale Dolce di Cervia recentemente inaugurato. All’opening erano presenti il sindaco di Cervia, Roberto Zoffoli, e quello di Guiglia, Monica Amici, oltre al presidente del Parco della Salina, Giuseppe Pomicetti, e ai titolari del Prosciuttificio Antica Pieve (photo © www.prosciuttificioanticapieve.it).
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Raspini mette d’accordo tutta la famiglia con il cotto Fettarosa e il salame Piemonte
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aspini è una famiglia. Una famiglia impegnata da più di 60 anni nel tramandare valori quali l’educazione, la fiducia e, più di tutto, l’attenzione al consumatore. Attenzione nel fare i salumi, nello sceglierli e nel servirli alle famiglie italiane, ma anche grande attenzione alla comunicazione, oggi sempre più importante per una realtà artigianale, legata alla tradizione, ma anche molto vicina alle esigenze dei proprio acquirenti. È da materie prime selezionate di altissima qualità che nasce il prosciutto cotto Raspini: grazie al basso contenuto di grassi e sale e all’alto apporto proteico, il prodotto è adatto per il consumo ad ogni età e particolarmente gradito per la sua versatilità. Senza glutine, senza latte e derivati e senza glutammato aggiunto, il prosciutto cotto Raspini è adatto anche a tutti i consumatori affetti da intolleranze allergie alimentari (ad esempio, celiachia). Fettarosa Raspini è un’ottima scelta: l’aroma delicato, il profumo persistente e la magrezza del prodotto lo rendono irresistibile. Per chi al cotto preferisce il gusto più deciso dei salumi Raspini propone il salame Piemonte, ottenuto da carni piemontesi e prodotto con vini del territorio, secondo un’antica ricetta, senza glutine, senza latte e derivati né glutammato aggiunto. Il prosciutto cotto Fettarosa e il salame Piemonte sono solo due delle specialità della grande tradizione salumiera italiana che Raspini porta ogni giorno sulle nostre tavole. Dal crudo al cotto, dall’arrosto alla mortadella: Raspini mette d’accordo tutta la famiglia. >> Link: www.raspinisalumi.it
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Il prosciutto cotto Fettarosa ed il salame Piemonte Raspini.
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Fiorucci main sponsor del Calcio Catania per un campionato da gustare insieme! Fiorucci torna nel mondo del calcio dopo tanti anni, con una strategia vincente per rafforzare la propria immagine e i propri valori: scegliendo un territorio che rappresenta al meglio l’italianità, la tradizione e l’innovazione, così come espresso nelle parole di Antonio Mazzesi, direttore commerciale e consigliere di amministrazione di Fiorucci. «Per Fiorucci è stato un motivo di orgoglio poter incontrare il Catania e riprendere una partnership iniziata molti anni fa con l’Inter. Quando l’azienda ha cambiato la sua struttura e si è rinnovata, abbiamo iniziato a vedere quali realtà nel mondo dello sport potessero seguirci. Abbiamo grandissima voglia di investire in Sicilia che in passato ha regalato momenti importanti per il nostro marchio, ed è stato deciso in maniera abbastanza rapida di contattare il Calcio Catania». Anche Raffaele Diociaiuti, responsabile marketing Fiorucci, ha ribadito l’importanza di questa sponsorizzazione. «La scelta del Calcio Catania non è casuale bensì voluta. C’è la volontà per Fiorucci di rientrare nel mondo del calcio e di restare più vicino a questo gioco che in Italia rappresenta lo sport più seguito. I nostri valori si sposano con quelli del calcio ed in particolar modo con quelli del Catania. Ci sentiamo molto vicini in termini valoriali a quelli che propone la società rossazzurra: italianità e modernità nella tradizione, elementi che contraddistinguono sia Fiorucci che il Catania». Calcio Catania, squadra che fin dal 1946 si è sempre distinta per i suoi colori rosso-azzurri, per la stagione 2013/2014 riporterà quindi sulle maglie da gioco il logo Fiorucci, simbolo di questa prestigiosa azienda alimentare oggi parte di Campofrio Food Group.
In foto: da sinistra, i giocatori Bergessio, Izco, Andujar e Legrottaglie indossano le nuove maglie con il logo Fiorucci.
Consorzio Gorgonzola: vittoria! Il 18 luglio 2013 il Tribunale di Milano ha condannato il Comune di Gorgonzola e l’Azienda Agricola Caterina al ritiro dal commercio del prodotto denominato “Stracchino di Gorgonzola” in quanto mera contraffazione della DOP Gorgonzola. Il Comune e la società, con sede proprio a Gorgonzola, sono stati condannati anche al pagamento delle spese processuali. La causa era stata intentata nel luglio del 2010 dal Consorzio per la Tutela del Formaggio Gorgonzola, ente senza fini di lucro creato nel 1970 con il preciso compito di vigilare sulla produzione e sul commercio del Gorgonzola DOP e sull’utilizzo della sua denominazione in Italia e nel mondo. Il formaggio Gorgonzola, infatti, è un prodotto a denominazione d’origine protetta dal 1996 e pertanto gode di una tutela internazionale. La commercializzazione col nome “Stracchino di Gorgonzola” di un formaggio, seppur del tipo stracchino, facente parte dell’antica tradizione locale della zona di Gorgonzola, riportante inoltre la DE.CO. (marchio collettivo di Denominazione Comunale), è stata ritenuta dal Tribunale di Milano una condotta potenzialmente ingannevole per il consumatore, visto che il formaggio Gorgonzola DOP in origine veniva definito proprio "Stracchino di Gorgonzola". Il Consorzio ha agito, e continuerà a farlo in futuro, a tutela del consumatore per garantire che la denominazione “Gorgonzola” sia utilizzata esclusivamente nei casi in cui un prodotto sia realizzato seguendo il rigoroso disciplinare di produzione della DOP. >> Link: www.gorgonzola.com
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Interviste Formazione, ricerca e passione
007 agente speciale di commercio di Federica Cornia
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remiata Salumeria Italiana ha incontrato STEFANO MONTANARI, dal 1990 agente di commercio del settore alimentare che opera soprattutto in Emilia nelle zone di Parma, Modena e Bologna. Clienti predilette sono gastronomie e macellerie specializzate del centro storico delle tre città emiliane alle quali Stefano propone salumi, formaggi, pasta, olio, confetture, dolci, miele, vini e altro ancora. Parmigiano Reggiano dell’Azienda Agricola Bonati (PR), prosciutto cotto di Felino dell’azienda Branchi, prosciutto di San Daniele del Prosciuttificio Dok dall’Ava (UD), Prosciutto di Parma Tanara Giancarlo (PR), una varietà di salumi piacentini DOP dal Salumificio La Rocca (PC), olio Viola DOP extra vergine umbro (PG), Lambrusco Grasparossa di Castelvetro e altri vini del territorio della Società Agricola Ca’ Berti (MO), birra ad alta fermentazione del microbirrificio artigianale 32 Via dei Birrai, tartufo di Alba di Tartuf Langhe (CN) sono solo alcuni dei suoi fornitori. Come sono cambiati il tuo lavoro e la figura dell’agente in questi anni? «Diciamo che nel tempo si è creata una divisione, una discriminazione commerciale, per così dire, tra l’agente per l’alta qualità o per il dettaglio specializzato e l’agente per la GDO. Tutti e due oggi non si possono fare. Questo processo è iniziato tra la metà degli anni ‘90 e il 2000 delineando man mano questo schieramento oggi ben definito. Il dettagliante si vuol tutelare quindi preferisce cercare dei prodotti di livello medio/alto che non vadano a intaccare il prezzo di uscita alla vendita e non
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Stefano Montanari. aver dei parametri di prezzo rispetto a una GDO. Un’agente a fare tutti e due fa fatica. Io mi sono occupato anche della GDO poi nel tempo ho preferito seguire quella che era la mia passione». La crisi ha condizionato la tua attività? «Oggi è il 6 settembre 2013 e per ora posso dire di no, ma questo anche perché ho ampliato la zona di vendita e trovato acquirenti nuovi, per cui non faccio testo. Se mi fossi fermato ai soliti forse l’avrei accusata di più. Tendenzialmente le attività stanno chiudendo e i miei clienti la sentono la crisi. Se non ci sarà un ricambio generazionale può darsi che tra qualche anno io debba rivedere la risposta che ti do oggi». Cosa credi abbia inciso sul buon andamento del tuo lavoro? «Il tempo dedicato alla ricerca del prodotto e alla formazione. Devo
spiegare ai miei clienti quello che ho e che vendo. Mi documento, seguo i passaggi della lavorazione presso i produttori, seguo corsi, creo e compilo schede tecniche del prodotto. Di volta in volta mi appassiono all’attività del salumiere del gastronomo o dell’apicoltore di turno. È faticoso. È un po’ diverso dalla figura dell’agente vecchio stampo che si affida alla copia commissione. Sono diventato un po’ più tecnico per così dire e la gente apprezza anche questo. Perché non è più come una volta, nei tempi d’oro i grandi nomi dei salumi avevano un riscontro immediato nelle botteghe, erano il pezzo forte su cui puntava l’agente di commercio, oggi il salumiere è più interessato a prodotti ricercati. Comunque, per riassumere e rispondere alla domanda, sicuramente hanno inciso il tempo che ho dedicato e dedico al lavoro, tanta passione, scelte giuste sui prodotti e lavorare con persone valide».
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Secondo te quali sono le tendenze del mercato alimentare oggi? «Per quanto riguarda il settore alimentare il prodotto italiano all’estero è una miniera d’oro. Gli stranieri pagano fior di quattrini per avere il made in Italy. Solo noi qui in Italia non riusciamo a valorizzarlo. Molte piccole aziende artigiane stanno in piedi perché lavorano con l’estero. La risposta che si ha è molto diversa, il modo di lavorare è migliore: si fa poca fatica, il pagamento avviene prima di spedire i prodotti e non c’è tutta la burocrazia che c’è qui e che avvilisce le attività». Cosa dici, ci sarà ancora spazio per il prodotto di nicchia? «Per adesso ancora sì. Nel futuro si spera». Novità interessanti? «Non sono state molte a mio parere negli ultimi 5 anni. Una di queste è 32 Via dei Birrai, il primo microbirrificio artigianale italiano a ottenere la certificazione di qualità ISO 9001:2008 DNV e la certificazione CI, a testimonianza di un prodotto 100% made in Italy». Quali sono le caratteristiche che deve avere un buon agente per operare nel mercato di oggi, caratterizzato dalla restrizione dei consumi? «Serietà e professionalità sono alla base, rispetto per il lavoro altrui, educazione e umiltà». La tua passione? «L’olio. È come il vino: l’olio devi imparare a degustarlo, va sorseggiato. Io ho imparato con lo strippaggio, che è la tecnica d’assaggio dell’olio, con i frantoiani. Funziona così, tieni un po’ d’olio in bocca e fai passare un po’ d’aria così che l’olio si ossigena e ne saltano fuori pregi e difetti. Mi ci sono tanto appassionato che ho fatto una ricerca. Ho contattato uno dei migliori produttori di oli italiani e internazionali, che mi ha introdotto agli oli di alta qualità e fatto scoprire meravigliosi prodotti toscani e liguri. È una ricerca che ho cominciato nel 2000 e ha portato alla nascita del mio personale catalogo degli oli di alta qualità». Federica Cornia
SALUMIERI IN LANGA Premiata Salumeria Italiana, 5/13
Prodotti tipici Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori… e le pancette, io canto
Oltrepò pavese, pancette e cavalieri di Gaia Borghi
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allevamento del maiale nella zona dell’Oltrepò pavese, terra di grandi vini, borghi storici, castelli medievali e salumi, ha radici profonde. Già i Longobardi avevano posto in grande rilievo l’utilizzo dei boschi della zona per il pascolo dei suini: non dimentichiamo infatti che la capitale del Regno longobardo era proprio Pavia, da cui ha origine il nome della regione che ci interessa. L’allevamento del maiale è stato per molto tempo roba da ricchi, per i poveri c’era l’oca. Forse è per questo motivo che, anche quando ci si ritrova a parlare di prodotti derivati dalla trasformazione del suino, tornano in auge gli ordini nobiliari, anzi, si fanno avanti addirittura i cavalieri! Difensori delle tradizioni e di Sua Maestà il Gentil Suino, combattenti al servizio del recupero della storia e della cultura locale, i cavalieri appartenenti all’Ordine della pancetta con cotenna dell’Oltrepò pavese si sono costituiti con formale cerimonia nel castello di Mornico soltanto nel 2008, ma antichi sono i saperi alla base delle motivazioni e dello spirito con cui è nata questa originale associazione. “La pancetta con cotenna dell’Oltrepò pavese è un prodotto della terra e della cultura locale che porta dentro di sé i segni di conoscenze consolidate e maturate nel corso del tempo e tramandate da artigiani, i masular, che nel rispetto del passato portano avanti il recupero di questo antico salume e trasmettono quindi la tradizione” si legge nel sito ufficiale dell’Ordine, www. pancettaop.it, ricco di notizie ed informazioni sulla storia della pancetta, il territorio, il disciplinare, i produttori
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La pancetta con cotenna dell’Oltrepò pavese. e, naturalmente, contenente accenni a gastronomia e ricette. Obiettivo dichiarato di questi impavidi e golosi cavalieri è ovviamente la valorizzazione e la diffusione della conoscenza della pancetta con cotenna, oltre a quella di tutti i prodotti e le tradizioni tipiche dell’Oltrepò pavese. Ma quali sono dunque le caratteristiche di questo prodotto che punta a diventare una DOP? «È un prodotto diverso dalla pancetta piacentina, che, già in possesso della tutela europea della Denominazione di origine protetta, ha un peso variabile tra i 4 e gli 8 chilogrammi» ci raccontano gli appartenenti all’Ordine, a cui hanno aderito diversi macellai e salumieri della zona. «La pancetta con cotenna dell’Oltrepò pavese, invece, deve avere un peso minimo di 8 kg. Si ottiene dalla parte ventrale di suini del peso vivo minimo di 180 kg e di età superiore a 9 mesi, allevati in Italia. Il disciplinare prevede inoltre che la pancetta, con relativa cotenna, venga salata a mano ed a secco con sale marino di giusta grana,aggiunta
di pepe nero in grani interi e a mezza grana, pepe bianco in polvere e spezie varie. La pancetta viene poi arrotolata, cucita lungo tutta l’estremità alla maniera antica e legata quindi orata con l’ago di cucitura per la fuoriuscita dei liquidi e sali in eccedenza. Dopo l’asciugatura la pancetta inizia la fase di stagionatura che non può essere inferiore a 18 mesi (per sottolineare ancor di più la differenza ricordiamo che quella della pancetta piacentina ad esempio dura 3 mesi, Ndr). La diminuzione di peso dopo la stagionatura è di circa il 20-30% del peso di confezionamento». L’aggettivo più usato per descrivere questa storica pancetta è “burrosa”, volendo sottolinearne la grande morbidezza e la scioglievolezza al palato. Al momento la sede dell’Ordine è situata presso il ristorante “Il Feudo Nico” (www.ilfeudonico.it), sulle colline di Mornico Losana, in provincia di Pavia. Il locale organizza anche serate ad hoc per degustare questo ennesimo gioiello della tradizione salumiera italiana.
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Pancette di Toscana: la Tarese del Valdarno Nel Valdarno, area compresa tra le province di Arezzo e Firenze, la produzione di questa pancetta dalle dimensioni inusuali ha origini antiche e riconducibili alla necessità di recuperare ogni parte del maiale adulto: quando non esisteva la refrigerazione, la salatura era l’unico metodo per la conservazione delle carni. Dalla lavorazione dei maiali pesanti, tradizionalmente di oltre 200 kg, derivano le dimensioni veramente ragguardevoli e caratteristiche della Tarese Valdarno, che può arrivare a misurare fino a 50 per 80 centimetri di lato. Per produrre questa grandissima pancetta tesa si utilizzano la schiena e la pancia dell’animale, con la presenza pregiata di parte dell’arista. La lavorazione, dopo la separazione del prosciutto dal tronco anteriore, prevede che la parte centrale sia disossata e rifilata dal grasso in eccesso. Il pezzo è poi strofinato con una prima mistura di pepe, aglio rosso macinato grossolanamente, ginepro e altre spezie toscane — c’è chi usa anche la scorza dell’arancia —e, infine, messo sotto sale grosso. Dopo la salatura, che dura circa 10 giorni, la tarese è lavata, fatta asciugare, nuovamente massaggiata con aglio e spezie, e avviata quindi alla stagionatura per un periodo minimo di 90 giorni. La produzione avviene durante tutto l’anno evitando di lavorare le carni nei periodi più caldi. Il sapore è pronunciato e persistente, ma, allo stesso tempo, più fine e delicato rispetto ad altri salumi di simile fattura. Il grasso dell’arista dona morbidezza e pastosità mentre il profumo è aromatico anche in virtù delle spezie di cui è ricoperta. Nel passato era abitudine gustarla, non troppo stagionata, passata per qualche minuto sulla griglia, con un contorno di teneri radicchi invernali che ne esaltano il sapore, o con i fagioli coco e zolfino. (www.fondazioneslowfood.it) • • • • •
Macelleria Luciano Sani Via N. Angeli 15 (52021) Bucine (AR) — Telefono: 055 992312 Macelleria Marco Fantechi Via Burzagli 116 (52025) Montevarchi (AR) — Telefono: 055 9102005 Macelleria Carlo Fabbrini Via Roma, 9 (52027) San Giovanni Valdarno (AR) — Telefono: 055 9122593 Macelleria Mauro Cioni Piazza Roanne 9 (52025) Montevarchi (AR) — Telefono: 055 901767 Macelleria Paolo Gori Corso Italia, 71 (52027) San Giovanni Valdarno (AR) — Telefono: 055 9123504
Associazione produttori Tarese del Valdarno: www.taresevaldarno.com
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Affinità di gusto
Šokol, capocollo di Martina Franca e coppa romagnola: così lontani, così vicini di Riccardo Lagorio
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el mondo della salumeria, esiste una correlazione tra ambiente e modalità produttive? Fin dove è lecito, senza oggettivi documenti che fungono da fonti inoppugnabili, spingersi per mettere in relazione prodotti del saper fare norcino che nascono in realtà apparentemente lontane tra loro? Ampiamente si è dimostrato quanto sia importante la relazione tra ambiente e modalità produttive; ciò che risulta interessante è verificare quanto simili possano essere le modalità di produzione per prodotti di salumeria elaborati a parecchi chilometri di distanza. Può infatti stupire che specialità gastronomiche condividano affini modalità produttive in luoghi distanti tra loro e che si presume non abbiano avuto apparentamenti di alcun tipo. È però la casualità che spesso aiuta rintracciare elementi di similarità… Al riguardo, l’affascinante campo delle ipotesi pare collegare la cittadina di Nona (Nin, in croato), nei pressi di Zara, alle colline e montagne romagnole. Nona si trova nel mezzo di una bassa laguna ed è la più antica città reale croata. Fu qui che il vescovo Gregorio, cancelliere di corte, si eresse a caposcuola della lingua paleoslava, che utilizzava per la celebrazione delle messe, e dell’alfabeto Glagolitico nel IX secolo. È anche città del sale, fonte di ricchezza a partire dall’epoca dei Liburni, grazie alle particolari condizioni geografiche: buona ventosità, ottima insolazione e
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strategica posizione sulla costa adriatica. Godono di ottima reputazione gli šokol di Nona, parti anatomiche del muscolo cervicale del suino recise all’altezza della quarta costola, lavorate e stagionate. Coppe, insomma, o capicolli. Attestazioni della presenza di questo salume si hanno a partire dal XVII secolo, quando la popolazione rurale ricostruì Nona distrutta dai veneziani, che ne avevano il possesso dal Trecento, per impedire che Zara fosse distrutta dagli Ottomani. Era, quindi, già ben diffuso in quelle popolazioni lo šokol. La produzione
avviene rifilando opportunamente la parte anatomica e lasciandola sotto sale locale per un periodo variabile tra 3 e 7 giorni. Essa viene in seguito lavata con vino rosso. Non esistendo prove materiali sulle modalità produttive di šokol in passato, alcuni anziani anonesi affermano che il vino debba essere precedentemente bollito poiché garantisce un risultato finale più aromatico. Contestualmente vi si aggiungono spezie macinate: chiodi di garofano, pepe, cannella e noce moscata che si distinguono sulla parte esterna del salume. Chiodi di garofano interi e
Šokol affettato. Ben visibile la presenza dei chiodi di garofano.
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Un momento della festa croata dedicata al šokol. La festa si tiene dal 2003 a Nin. La tradizione del šokol a Nin risale al XVII secolo. Ancora oggi si dice che ogni famiglia abbia la propria ricetta segreta per la preparazione di questo delizioso insaccato. Proprio questa grande varietà ha dato il via all’organizzazione di questa divertente manifestazione. La preparazione per il concorso inizia a gennaio con il trattamento delle carni. L’atmosfera e le aspettative dei partecipanti sono simili a quelle che accompagnano i più grandi eventi sportivi. La festa si conclude con la presentazione del produttore di šokol dell’anno e la degustazione dei piatti preparati. Un’occasione unica da non perdere (photo @ www.hrt.hr). schegge di cannella vengono invece inseriti nella parte più superficiale della carne. Si procede poi all’insacco in budello naturale, benché sempre più prevalgano budelli sintetici o ricostruiti, e a conferire un altro elemento caratterizzante del šokol, l’affumicatura. Non esiste un’essenza specifica e comune alle famiglie che conservano la tradizione: per alcuni è proprio nel processo di affumicatura che risiede l’unicità del gusto. Il periodo di affumicatura dipende anche dalla distanza dalla fonte di fumo a cui i pezzi sono appesi. Segue un periodo variabile, ma almeno di 180 giorni, di essiccatura in locali riparati, ma pur sempre attraversati dalla Bora, abbondante durante l’inverno e fattore decisivo per la stagionatura del šokol.
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Il microclima unico che si crea dallo scontro dell’aria proveniente dalle Alpi Bebie, ricca di profumi di erbe odorose, con quella salmastra del mare è senz’altro altro elemento di buona riuscita ed irripetibilità del šokol. Ancora in tempi recenti era uso regalare il šokol al medico o alle autorità che lo meritassero per sdebitarsi da benefici ottenuti. L’origine della materia prima, tuttavia, non è come un tempo. I suini, scelti tra i migliori, non sono più allevati in loco da quando lo sviluppo del turismo a partire dagli anni Settanta del secolo scorso ha imposto l’abbandono dell’allevamento. Così per la confezione di šokol, a cui nessuno, privati e locali pubblici (tra cui la Trattoria Dalmazia, telefono +385 23 264 163, www.konobadalmacijanin.hr, dove è lo stesso pro-
prietario MARKO ŠALOV a produrre il salume) sa in verità astenersi a Nona, ci si affida ad animali provenienti dalla Slavonia. L’interesse per il šokol si è ulteriormente consolidato dal 2003, anche per stimolare ulteriormente il turismo, con l’organizzazione della prima Festa del šokol (Ninska šokolijada), nella seconda metà di luglio, quando la stagionatura media del salume (preparato tra dicembre e gennaio) si presume possa avere raggiunto il miglior risultato. Famiglie intere vi partecipano, sicure che il proprio šokol sia considerato quello superiore da parte della giuria. Le caratteristiche del šokol sono in verità uniche: le fette sono di colore rosso intenso, i chiodi di garofano ben visibili. Il profumo è piacevolmente affumicato, di carne ben matura.
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Alla bocca la presenza dei chiodi di garofano è appena percepibile, come quella delle altre spezie, e si distingue per l’ottima palatabilità. Così lontani, così vicini: le similitudini con i salumi italiani Il šokol di Nona è caratterizzato da interessanti similarità con alcuni salumi italiani. Innanzitutto con il capocollo di Martina Franca. Anche la tradizione del comune tarantino prevede infatti la salatura come primo passaggio, a cui segue il lavaggio con vino cotto e insacco in budello naturale. Il completamento del capocollo si effettua con l’affumicatura, ottenuta dalla combustione di cortecce di quercia, secondo un rituale anche balcanico. L’area fu soggetta all’Impero Romano d’Oriente per alcuni secoli nell’Alto Medioevo. Alcune interessanti analogie si rintracciano sull’Appennino ravennate. DANIELE BERTINI (www.ledeliziedelbuongustaio.it), nativo di Conselice, ma curioso indagatore delle tradizioni collinari e montane della sua provincia, conferma che sino agli anni Settanta del secolo scorso era pratica consueta inserire nella preparazione della coppa, specie nei pezzi più magri, chiodi di garofano interi e tocchetti di cannella, anche per mezzo di stilettino in legno su un’area vicina alla superficie esterna del salume. Ciò era senz’altro dovuto alla fisiologia degli animali, più snelli e privi del grasso che contraddistingueva i suini della
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pianura. L’abitudine viene oggi perpetuata espressamente da consumatori d’una certa età, i quali si esprimono chiedendo senza sottintesi la coppa romagnola. Essa, diversa dalla più nota piacentina, che tempo fa conseguì la DOP, ha come area di produzione i colli romagnoli fin quasi a Bologna, espandendosi verso l’Emilia e anche penetrando nell’area. La coppa romagnola presenta quindi caratteri simili al šokol tranne che per l’affumicatura. A pochi chilometri di distanza, nel Modenese nel Parmense e ancor più nel Piacentino, la coppa è priva di evidenti tracce di chiodi di garofano e cannella, che si utilizzano tuttavia in polvere per conferire aroma all’insaccato finale. Esiste pertanto una relazione tra šokol e coppa romagnola? Apparentemente no. Tuttavia un’ipotesi, per quanto possa essere avventata, ci riporta indietro nei secoli. L’area del Ravennate e di Nona per oltre 200 anni compartirono l’appartenenza a Bisanzio. L’elaborazione dei due salumi con aggiunta di chiodi di garofano interi e schegge di cannella avviene nelle zone più isolate del Ravennate, le colline e le montagne, mentre a Nona si ha certezza che il šokol esistesse a partire dal Seicento, quando popolazioni rurali si spostarono verso la cittadina (e che con tutta evidenza avevano già sedimentato la pratica della produzione del salume). Non esistono altri dati al momento che confermino l’affinità
Šokol appeso per la stagionatura (photo @ www.zadarskilist.hr). tra i due. Pensare ad un asse che leghi Ravenna, Nona e Bisanzio ha un fascino che, se non ancora supportato scientificamente, potrebbe aprire però il dibattito a successivi lavori che smentiscano o avvalorino tale tesi prendendo in esame altre attitudini alimentari come ad esempio la cottura delle carni sotto campana di metallo, peka nell’area di Bencovazzo, non distante da Nona. Riccardo Lagorio
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Salami tipici trentini
Il salame con le rape: quant’è buona la ciuìga del Banale di Nunzia Manicardi
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isalire all’origine del nome non è affatto difficile dal momento che ciuìga, nel dialetto locale, indica le pigne degli abeti, la cui forma è appunto molto simile a quella del salame che ne ha preso il nome. In Trentino si usa consumarlo con polenta, crauti e vino rosso tipo Cabernet o Merlot. La storia vuole che l’inventore della ciuìga sia stato un certo PALMO DONATI, macellaio di San Lorenzo in Banale, intorno al 1875. Dopo di lui la tradizione della produzione di questo salume tipico fu mantenuta viva dagli eredi e dagli altri macellai del paese. Negli anni in cui la ciuìga venne creata, la situazione economica in queste aree montane era molto difficile e, di conseguenza, le carni più pregiate del maiale venivano destinate alla vendita. Al consumo familiare si riservava soltanto quel poco che rimaneva. E ne rimaneva così poco che, per fare questo salame (e questa è anche la sua particolarità), nell’impasto venivano aggiunte rape cotte e sminuzzate nella seguente proporzione: 80% di rape e il resto carne. Carne di scarto, oltretutto, e solo di maiale: la testa, il cuore e i polmoni, che davano alla ciuìga il caratteristico colore scuro. Era un metodo per mettere qualcosa sotto i denti, che comunque risultasse gustoso, e per non scartare niente della carne dell’animale, cercando anzi di farla durare il più a lungo possibile. Sembra che inizialmente le varianti della ricetta includessero anche il sangue del suino (proprio come nei sanguinacci). Oggi, mutate le condizioni socioeconomiche, questo salame viene
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prodotto utilizzando gli stessi ingredienti ma… al rovescio, utilizzando cioè sempre parti di carne, però decisamente di ottima qualità quali spalla, coppa, pancetta o gola, e rape, in proporzioni invertite: il 70% di carne suina scelta, né troppo grassa né troppo magra, e solo il 30% (al massimo il 40%) di rape bollite e strizzate per bene. Fu per necessità, allora, che il macellaio Donati avrebbe avuto la brillante idea di aggiungere rape alla carne di maiale, sempre troppo scarsa, ingannando così sia l’occhio che la pancia. Probabilmente venivano ingannati anche i clienti, ma in ogni caso Palmo Donati ha reso un ottimo servizio al proprio paese in quanto il salame così come da lui inventato —
se davvero è stato lui il primo — è diventato un prodotto tipico locale oggi rinomatissimo e ben redditizio. La ciuìga del Banale è, infatti, un tipico insaccato ancora adesso tradizionalmente prodotto in un territorio molto ristretto, nei comuni di Dorsino e di San Lorenzo in Banale (era conosciuto al massimo fino a Ragoli, ma non oltre), piccolissime località delle Giudicarie Esteriori nel Trentino centro-occidentale. Annualmente, nel periodo autunnale (quest’anno dal 1 al 3 novembre), si tiene a San Lorenzo in Banale l’attesissima “Sagra della ciuìga”, appuntamento gastronomico da non perdere. In questo modo la ciuìga ha così non solo mantenuto, ma pure accresciuto i suoi estimatori, anche perché
La ciuìga può essere consumata fresca già dopo alcuni giorni di stagionatura, facendola bollire in acqua per circa 20 minuti. Se lasciata stagionare per un periodo più lungo assume la consistenza di un salame e come tale va mangiata.
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Anche quest’anno l’inizio di novembre vedrà i caratteristici antichi “volt” (tipico elemento architettonico rurale della vallata) di San Lorenzo in Banale celebrare la ciuìga, tra assaggi, degustazioni, menu tipici. si è avuta l’accortezza di proporla in maniera stimolante accompagnandola, per esempio, con crauti crudi lavorati in casa o con un tortino di cavolo, oltre che con la più solita purea di patate. Salame povero, dunque, ma anche salame appetitoso, forse unico in Italia, a cui è legato un pezzo di cucina della gente di montagna. Salame da proteggere perché non vada perduto, tanto che è stato riconosciuto come prodotto da salvaguardare e catalogato da Slow Food come uno dei presidi del Trentino Alto Adige. Salame diventato adesso un prodotto ricercato anche al di fuori della zona d’origine. La preparazione della ciuìga, come di tanti altri salumi, non è di per sé particolarmente complessa, ma comunque bisogna intendersene. Lo sanno bene i macellai di San Lorenzo, che hanno ormai tanti anni di esperienza alle spalle. Si inizia con la bollitura delle rape, dopo averle tagliate a fette. Queste venivano coltivate dopo la trebbiatura del grano e maturavano in autunno; ecco perché la ciuìga viene tradizionalmente prodotta e affumicata all’inizio dell’inverno, anche se l’intera sua produzione copre un periodo più ampio che va dall’inizio di ottobre fino ad aprile. La rapa sa di poco. Lo stesso linguaggio popolare ce lo ricorda con la definizione “testa di rapa”, che viene affibbiata a qualcuno particolarmente ottuso, duro di comprendonio. Oggi è quasi scomparsa, ma in Trentino (così come nei paesi tedeschi) rimane piuttosto diffusa.
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Terminata la bollitura le rape vengono torchiate per togliere il più possibile l’acqua che ne danneggerebbe la conservazione. Subito dopo sono macinate e lasciate asciugare per due giorni in una cassa forata coperta da una tavola di legno. Tutte queste operazioni riducono almeno di un quarto il peso delle rape. Quando sono pronte vanno aggiunte alla carne di maiale macinata; la proporzione prevede un impasto di 40 kg di rape per circa 60 kg di carne di maiale. A questo punto viene fatta l’aromatizzazione con l’aggiunta di aglio tritato (che si può anche omettere), sale fino e pepe nero, quindi la pasta è passata al tritacarne. Il prodotto così ottenuto è insaccato in un budello di manzo del diametro di circa 4 cm, massaggiato e leggermente forato qua e là per distribuire la pasta ed eliminare eventuali bolle d’aria. Successivamente viene tagliato in salamini di circa 10 cm l’uno. Nell’ultima fase di lavorazione le ciuìghe vengono portate in un locale seminterrato e opportunamente aerato, con pareti e pavimento in
calcestruzzo, dove restano circa otto giorni per l’asciugatura e l’affumicatura, molto importante per asciugarle e conservarle meglio e più a lungo. Nel locale, senza camino, viene acceso un fuoco (con truciolo di pianta a foglia caduca, preferibilmente faggio, alimentato anche da qualche ramo di ginepro per conferire più aroma) che costringe il fumo a uscire, come un tempo, dalle finestre. Le ciuìghe passano quindi in un altro locale per la conservazione, da dove sono prelevate per il consumo che deve avvenire entro il mese successivo alla produzione. La ciuìga può essere consumata fresca, dopo alcuni giorni di stagionatura, facendola bollire in acqua per circa 20 minuti, o con i contorni già ricordati. Se lasciata stagionare per un periodo leggermente più lungo (a partire da una decina di giorni) assume la consistenza di un salame e può essere tagliata a fette come un comune salume. In questo caso viene abbinata tradizionalmente alla patata e alla cicoria tagliata finemente. Nunzia Manicardi
Disteso su una soleggiata terrazza verde affacciata sulla valle e sorvegliato alle spalle dalle Dolomiti di Brenta, San Lorenzo in Banale è un antico borgo contadino nato dalla fusione di sette Ville: Berghi, Pergnano, Senaso, Dolaso, Prato, Prusa e Glolo. Posto all’imbocco della splendida Val d’Ambièz, è la porta di accesso al Parco Naturale Adamello Brenta. Il nome Banale ha una radice paneuropea che rinvia a capi e obblighi feudali ed è la stessa di banlieue. La cucina del borgo è sobria, come conviene ad una gente che aveva eletto a regola di vita il detto “pigro a mangiare, pigro a lavorare”. Nella seconda metà dell’Ottocento, in un clima di grandi ristrettezze, in questo borgo si inventarono la ciuìga. L’autunno è la sua stagione, quando si uccide il maiale e quando nei campi maturano le rape. (www.borghitalia.it)
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Coppiette di Bassiano, la liquirizia dei poveri di Antonella Malaguti
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e coppiette sono un prodotto tipico della Ciociaria e di tutti i Castelli romani. Le più famose vengono realizzate a Bassiano, un paesino dei Monti Lepini in provincia di Latina. La storia di questo comune, che oggi vanta poco più di 1500 abitanti, ha origine nel X secolo (le prime notizie risalgono al 1169), quando un ristretto nucleo di contadini si rifugiò in questo luogo, distante dall’Agro Pontino, al fine di evitare le scorribande dei barbari che imperversavano nella penisola italiana. Oggi il nome di Bassiano è indissolubilmente legato, oltre che alla sua storia, ad alcuni prodotti tipici frutto della lavorazione del maiale: prosciutto, guanciale e coppiette appunto. Il nome coppiette (ribattezzate anche “liquirizia dei poveri”) deriva dalla tecnica di preparazione di questo alimento; le carni, infatti, vengono piegate in coppia e legate su un filo posto davanti al fuoco ad essiccare (spesso veniva utilizzata anche una nocciola per dividerle nel mezzo). Un tempo le coppiette venivano prodotte esclusivamente con carne di cavallo, mentre oggi si preferisce utilizzare il suino (più magro e apprezzato dal grande pubblico); solitamente il taglio che viene scelto è il lombo, sottoposto già ad una prima fase di sgrassamento, poiché nella lavorazione finale la materia prima deve risultare completamente priva di ogni traccia di grasso. Tagliate a striscioline sottili di 15-20 cm di lunghezza, le coppiette sono condite con spezie (a Bassiano si utilizza un mix di coriandolo, semi di finocchio, peperoncino e sale); successivamente, vengono imbevute nel vino rosso e lasciate a marinare
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per almeno 48 ore; la fase di essiccazione, invece, dura almeno 3 giorni e ha luogo davanti a un fuoco acceso ininterrottamente. L’essiccazione può avvenire anche all’aria aperta, ma in questo caso richiede un periodo assai più lungo. Ciò che caratterizza la qualità bassianese è la lavorazione completamente artigianale, a partire dal taglio (esclusivamente manuale) e dalla scelta dei suini, allevati allo stato brado, dalla carne più compatta e tonica. Il prodotto di Bassiano, inoltre, prevede un ferreo disciplinare di produzione in cui l’essiccazione avviene con ritmi naturali (può durare anche un mese), senza l’ausilio di stufe di forzatura, ma solo all’interno di apposite camere. Le coppiette nascono dalla necessità dei pastori che partivano per la transumanza di portare con sé una fonte di proteine facilmente trasportabile. I pastori dell’Italia centrale (Lazio e Abruzzo in primis), infatti, lasciavano le famiglie nei loro paesi d’origine e da ottobre fino a marzo erano lontani da casa per accompagnare il gregge verso pascoli caratterizzati da un clima più mite, come il Tavoliere delle Puglie. Il viaggio, faticoso e lungo, concedeva loro delle pause serali trascorse in gran parte accanto al fuoco dei bivacchi; in questa occasione veniva cotta la carne di cavallo, spesso vecchi animali abbattuti durante la transumanza, con cui si realizzava questo alimento dall’alto contenuto proteico. Le coppiette hanno iniziato ad avere larga diffusione soprattutto nel secolo passato, dal momento in cui gli osti romani hanno iniziato ad utilizzarle nei loro menù. Il peperoncino che contraddistingue il sapore
Le coppiette ciociare dell’azienda Carne & Carni di Patrica, Frosinone. La materia prima è il maiale con rifilatura di tagli nobili quali filetto e lombo. Le coppiette vengono aromatizzate con peperoncino e spezie, quindi essiccate lentamente. del prodotto, infatti, costringeva i clienti delle fraschette (tipiche osterie ricavate nel tufo in cui venivano conservate le botti) a richiedere più vino per stemperarne il gusto deciso. Insieme ai lupini e alle olive, le coppiette erano lo spuntino principale che veniva offerto agli avventori, a costituire il companatico di quello che oggi verrebbe definito come “aperitivo”. Attualmente è usuale trovare le coppiette nelle norcinerie e nelle macellerie di Lazio, Umbria e Abruzzo, mentre è più difficile reperirle sul territorio nazionale; per potersene rifornire è dunque necessario contattare i produttori locali e farsele spedire direttamente a casa.
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Muletta, del Monferrato la prediletta Viaggio tra le macellerie e i microsalumifici che sulle colline piemontesi producono questo particolare salume ottenuto dai tagli migliori di suino e dal sapore leggermente speziato di Riccardo Lagorio
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CROVA è fornaio, vignaiolo e norcino. Inconciliabili attività? Forse più a causa del tempo e della dedizione che ciascuna richiede piuttosto che per il saper fare necessario per svilupparle. Il filo conduttore è semplice: amore per la tradizione. Il profumo del suo pane cotto nel forno a legna e cresciuto con lievito madre è altrettanto straordinario quanto il suo vino, un Aleatico (pensa tu, rilevata la vecchia vigna dal parroco, si è imbattuto in questo vitigno alieno) profumato e vigoroso. I suoi salumi, invece, deliziosi. Tra essi la muletta, l’insaccato che Pietro, insieme ad un manipolo di nostalgici, continua a proporre su queste colline dal sapore paesano e arcano. IETRO
Muletta monferrina, biglietto da visita di un territorio da scoprire palmo a palmo Il Monferrato è luogo dove il tempo scorre lento, terra di rêverie applicata a borghi incantati. Anche nel nostro mondo, quello delle macellerie e delle salumerie, l’orologio si è fermato a decenni fa. La preparazione dei salumi avviene di solito in ambienti circoscritti, spesso sotto il punto vendita, talvolta accanto all’infernot, il locale dove il vino riposa per anni pronto ad essere stappato per un matrimonio, una nascita o un battesimo. Sempre e comunque macellerie e mini-salumifici gestiti per generazioni dalla medesima famiglia.
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La muletta oggi consiste per la maggior parte di carne suina pregiata e di prima scelta come coscia, culatello della lonza, spalla e fesotto di spalla tritata a grana media e di un restante 20% a base di grasso di pancetta.
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Come nel caso dei SASSONE, che alzano, eroi, ogni giorno, le serrande del negozio con rivendita anche di quotidiani per i 380 salesi, come quando Cesare e Rina aprirono i battenti sessant’anni fa. Ma allora erano in milleduecento quassù… La muletta è l’orgoglio di casa; va prenotata mesi prima per Natale o Pasqua. «Ne produciamo tre/quattrocento pezzi l’anno, con carne di suini che pesano almeno 250 kg. Filetto, coscia, spalla vengono mondati con cura e tritati a grana 8. L’insacco avviene nell’intestino cieco e c’è la necessità che la muletta maturi almeno per sei mesi, molto spesso per otto». Luca Sassone parla della muletta come uno
strumento di questa terra per arginare lo spopolamento. Stesso parere raccolto da ENRICO FRANCIA, il cui negozio dà sulla piazzetta di Cella Monte. Sette generazioni, capostipite a metà Settecento Evasio Francia. «Le spezie che utilizziamo per la muletta vengono scelte e macinate in casa. Oltre il pepe, misceliamo noce moscata, cannella, chiodi di garofano. Poi filtriamo sull’impasto anche dell’aglio con la Barbera delle nostre colline». La muletta qui dai Francia all’origine pesa poco meno di 2 chilogrammi, poi subisce un calo peso naturale del 35%. Nel negozio, dai mobili di legno scuro, dove si respirano cento a cento gli anni di storia di questo
Enrico Francia nella sala di stagionatura.
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Pietro Crova. borgo che pare uscito dall’inchiostro di Carducci, se ne vedono appese quattro cinque alla volta, accanto ai salami cotti che vengono bolliti nel paiolo di rame sul camino di casa. Non meno familiare la produzione di PINUCCIA COLOMBANO a Cantavenna, frazione di Gabiano che dà il nome ad uno dei vini prodotti in una delle aree più circoscritte tra le denominazioni di origine controllata. «Il Rubino di Cantavenna, elaborato con uve Barbera per almeno il 75%, Grignolino e Freisa, è perfetto come accompagnamento alla nostra muletta per il sapore caldo, pieno, deciso. Dal 1930 la nostra famiglia alleva e macella i maiali dai quali produce, stagiona e vende la muletta. I suini vengono alimentati con granoturco, soia ed orzo. Nel periodo di maggiore produzione, tra ottobre e marzo, ne lavoriamo due per settimana». La carne per la muletta, sempre la più pregiata, viene macinata con grana 12. Anche qui per l’insacco è invalso l’uso del budello cieco di suino che conferisce al salume una forma irregolare, quasi ovoidale e dal diametro di circa 12 centimetri. La ristorazione locale sa ben valorizzare la muletta tanto che non esiste antipasto dove non siano servite anche tre fette di questo salame gigante. Molto apprezzato, di questa piccola macelleria, il prosciutto cotto senza polifosfati. Alberto Sorba, marito
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Luca Sassone con la muletta. della Colombano, ne produce due al mese. Consegna per cinque giorni la coscia ai balsami di cipolla, sedano, bacche di ginepro e sale, poi la fa bollire per almeno due ore negli appositi stampi ottenendone un incantevole, roseo risultato.
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E allora eccoci di nuovo da Pietro Crova, dove il viaggio è iniziato, su e giù per i colli, raccogliendo informazioni e dettagli sulla muletta. Una volta insaccata (la carne è macinata con la piastra del 10), la muletta si passa all’asciugatura per una decina di giorni e poi alla stagionatura, in ambiente fresco. «Già dopo alcuni giorni di stagionatura, si può notare la presenza di muffe: si tratta però di muffe nobili, quindi ben gradite, che contribuiscono in parte alla formazione dell’aroma e del sapore della muletta; tali formazioni, tuttavia, vengono parzialmente rimosse ogni 20 giorni circa per permettere la giusta traspirazione della muletta». Dal sapore leggermente speziato, tagliata non troppo sottile, è fonte di sfacciato piacere se consumata con il pane, caldo, fatto di lievito madre e cotto nell’ottocentesco forno di Casa dove sono arsi i ceppi di vite. Vogliamo pensarla gradita a tutti gli artisti passati per di qua, alla corte di Nanni Ricordi, inventore di numerosi cantautori, che elesse Sala Monferrato a buen
Produttori Macelleria Luca Sassone Via Roma, 11 15030 Sala Monferrato (AL) Telefono: 0142 486353 Salumeria Enrico Francia Via Dante Barbano, 23 15034 Cella Monte (AL) Telefono: 0142 488172 Salumeria Pinuccia Colombano Piazza Libertà, 1 15020 Gabiano (AL) Telefono: 0142 945045 Azienda Pietro Crova Via Olearo, 27 15030 Sala Monferrato (AL) Telefono: 0142 486728
retiro. Del resto, la muletta è parte integrante di questo paesaggio, di questa cultura nel suo aspetto materiale. Riccardo Lagorio
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Fromage de tête: occhio all’inganno nascosto nel nome di Josette Baverez Blanco
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erché fromage de tête, mi chiedono gli amici che, soggiornando in Francia, assaggiano questa specialità che ricorda la nostra coppa di testa e, quindi, nulla ha a che vedere con un prodotto caseario. Scherzando, solitamente faccio cenno al nostro famigerato “sciovinismo” e al bisogno di aggiungere un ennesimo formaggio ai 365 già commercializzati! Considerato in Italia come un salume “minore” pur saporitissimo, la coppa di testa è molto diffusa nelle regioni centrali, Emilia, Toscana, Umbria e Alto Lazio, e la ritroviamo anche nell’Italia meridionale. Il fine ultimo della sua produzione è ovunque quello di sfruttare le parti umili del suino. Di sezione tonda o quadrata, utilizza quindi le parti grasse, magre e cartilaginose tenere della testa del maiale, più quello che è rimasto dopo la lavorazione di altri salumi. Il “fromage de tête”, detto anche tête pressée o tête fromagée, è anch’esso composto di pezzi di carne tagliati grossolanamente provenienti dalla testa (guance, grugno, lingua, muscoli cervicali…), cotti con carote, cetrioli, cipolla o scalogno, prezzemolo, aglio, spezie (pepe, timo, ginepro, chiodi di garofano), nell’acqua o nel vino. Può anche essere preparato cuocendo la testa intera del maiale lasciata in salamoia per una notte e poi disossata. In un caso o nell’altro il tutto viene poi messo in una forma, parola latina dalla quale deriva il termine “formaggio” e, di conseguenza, quello francese di fromage, ed è solidificato con la propria gelatina. All’origine la “forma” era quell’utensile di legno forato nel quale si lasciava sgocciolare il latte cagliato che sarebbe diventato formaggio. Ecco qui, dunque, la risposta a questa
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denominazione francese. Per l’appellativo pressée, pressata, pensiamo a come vengono preparati in Italia i salumi simili: le carni, insaporite con sale, chiodi di garofano, noce moscata, pepe, vengono messe in un telo di lino cucito stretto, immerso nell’acqua spesso aromatizzata per la cottura, poi sgocciolato e pressato per dargli la forma di un blocco compatto. Un’altra tecnica consiste nel far bollire le carni in acqua aromatizzata, sgocciolarle e mescolarle ad altro grasso cotto a parte. Dopo aver aromatizzato il tutto, si procedere allo sgocciolamento su assi di legno inclinate prima di insaccare la carne nella vescica di bovino e poi pressarla. Ne risulta un impasto marmorizzato, bianco, rosa e rosso dal gusto sapido,
intenso, senza essere esageratamente penetrante. Se di solito i salumi, esclusi quelli da cuocere, sono buoni da mangiare a temperatura ambiente, la tête pressée è migliore fredda o calda. Bisogna tagliare le fette in modo da non sfaldarle, circa un centimetro di spessore. Fredda, è ottima con il prezzemolo tritato, la cipolla di Tropea e i fagioli bianchi di Spagna, il tutto condito con aceto rosso, mentre riscaldata a bagnomaria si accompagna con salsa verde e verdure aromatiche calde e cotte al dente (carote, sedano e cipolla). Se invece la si vuole mangiare a temperatura ambiente, si può abbinare ai fagiolini in vinaigrette all’aglio o tagliarla a dadi con peperoni all’agro, sedano, pomodori e cetrioli all’aneto.
Il fromage de tête, specialità francese che ricorda la nostra coppa di testa.
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(ora Visentin)
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Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar 68 Premiata Salumeria Italiana, 5/13 perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.
Premiate Salumerie Italiane Ad Aversa con lo slogan “God save the pig”
La salumeria fa le ore piccole di Luciana Squadrilli
C’
è il bancone con i salumi e i formaggi, ci sono la vetrina frigo con le bibite in fresco e gli scaffali con salse, conserve, oli e vini. Ma ci sono anche sedie e tavolini, e l’orario di apertura segna le 19:00 mentre non si chiude mai prima delle due di notte. Che salumeria è mai questa? In effetti, la Salumeria del Seggio — che prende il nome dalla stretta via del centro di Aversa da qualche tempo diventata il fulcro della vita notturna locale, ed è conosciuta anche come “salumeria di notte” — e in realtà è a tutti gli effetti un locale più che un negozio, sebbene sui generis. Ad aprirlo, poco più di un anno fa, sono stati i quattro giovani FRATELLI GIRASOLE: Luca, il più piccolo, che segue da vicino la Salumeria, ha 24 anni, mentre il più grande ne ha appena trenta. Molto affiatati, anche se diversi per interessi (due lavorano come grafici tra Aversa, Londra e Milano, e la loro mano si vede chiaramente nell’immagine del locale, semplice ma d’impatto), hanno voluto creare un locale un po’ a loro immagine e somiglianza, che rispondesse ad una esigenza condivisa con i loro coetanei: un posto dove poter mangiare e bere bene, fino a tardi e senza troppi fronzoli. «L’idea è nata una sera, mentre eravamo tutti nello studio grafico al primo piano» racconta Luca. «La strada sotto di noi ha iniziato ad animarsi, ricordandoci che quella che un tempo era stata la via dello shopping cittadino stava tornando a vivere, ma soprattutto di notte. Così mio fratello Danilo ha buttato lì l’idea di aprire un locale un po’ particolare. Qualche mese dopo, lo spazio al piano terra è diventato la Salumeria». L’ambiente piuttosto ristretto potrebbe ricordare appunto quello
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di una bottega, con le piastrelle bianche e il piano di marmo, ma la grande scritta rossa con lo slogan del locale — Mangia, Bevi, Ama — lascia intendere che qui non si vendono solo prodotti un tanto all’etto, ma si cerca di trasmettere una filosofia, un’idea diversa. Gli ingredienti sono semplicità e originalità nelle proposte e nella comunicazione, prodotti di qualità e piccoli prezzi. Il fulcro dell’offerta sono i panini, di varie forme e grandezze: dai “murzilli” (30 grammi in tutto fra mini-panino e farcitura a base di un salume o un formaggio, o entrambi, accompagnati da una salsa) alle “tommasine”, rosette ripiene (o
meglio, straripanti) che riprendono una tradizione siciliana: viene tagliata la calotta superiore e la farcitura — dai salumi all’insalata di tonno e pomodoro — viene inserita dentro. Oppure, le rosette in veste classica, tagliate a metà e farcite in tanti modi, una su tutte quella con pecorino di Pienza, mortadella e marmellata di fichi. Persino i dolci sono panini, farciti con ingredienti come ricotta e pere o Nutella. In alternativa, ci sono i panini “tradizionali” (rosette, ciabatte, sfilatini o pane a fette) o quelli “speciali” (sfilatino integrale o ai cereali, o la pagnotta al sesamo) da farcire a piacere — pagando da 1,00 a 2,00 euro per ogni ingrediente — con salumi,
Vassoio “misto” piccolo.
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1) Rosetta con salame Milano, Emmental, funghi champignon alla contadina e n’duja. 2) Focaccia con mortadella, Emmental, friarielli sottolio e crema di zucca. 3) Ciabatta con crudo di Parma, mozzarella di bufala campana Dop, rucola e pomodori secchi. 4) Sfilatino di soia con crudo, Philadelphia, zucchine grigliate e crema al radicchio rosso. formaggi o latticini, contorni freschi o sottolio (spesso fatti in casa) e tante salse, tra cui le maionesi “creative” preparate da Luca, da quella al basilico a quella ai funghi, ma anche taglieri di salumi e formaggi, bruschette e freselle (pane biscottato dalla forma circolare, da condire). Si sceglie tutto dal banco, proprio come in una salumeria. I prodotti sono all’insegna della qualità, scelti tra le DOP e IGP campane e non solo: dall’ottima mozzarella di bufala locale ai pecorini della famiglia Busti, dal Gran Cacio di Morolo alla pan-
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cetta di Falorni, senza dimenticare una piccola ma valida scelta di oli extravergine. E, naturalmente, vini campani selezionati e birre e bevande artigianali italiane ad affiancare quelle estere, il tutto sempre con un occhio al rapporto qualità/prezzo e disponibile fino a notte fonda. Per una clientela più esigente, è in arrivo un nuovo progetto dall’anima più dichiaratamente gourmet, che replicherà la stessa filosofia della Salumeria in una zona differente della città e in uno spazio appena più
grande, con il top della gastronomia italiana. Luciana Squadrilli Nota A pagina 70 alcune immagini tratte dalla divertente pagina Facebook della Salumeria del Seggio. D’altronde, che mondo sarebbe senza i murzilli? Salumeria Del Seggio via Seggio, 120 81031 Aversa (CE) Telefono: 081 19814328 Web: www.salumeriadelseggio.com
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Nuova vita per La Bottega di Adriano Grosoli dal 1891 A pochi chilometri dal centro città, nei pressi dell’uscita autostradale di Modena Sud, ha recentemente ripreso le attività La Bottega di Adriano Grosoli dal 1891, una raffinata “salumeria-gastronomia” che propone i migliori prodotti della tradizione modenese ed un’ampia gamma di eccellenze italiane. Aceto Balsamico di Modena, Lambrusco, Parmigiano Reggiano rappresentano il cuore della bottega, come accadeva già nel 1891. A quel tempo, Adriano Grosoli e i suoi tre figli gestivano La Premiata Salumeria di Adriano Grosoli, un punto di ritrovo per chiunque uscisse dalla città di Modena e si dirigesse verso le campagne e il vicino Appennino. Qui si potevano trovare gustosi salumi e formaggi freschissimi, ma anche aceto balsamico e lambrusco, tutti prodotti con passione dalla famiglia Grosoli, dopo un’attenta selezione delle materie prime della migliore qualità. Li si poteva acquistare oppure consumare in loco, nell’osteria. Negli anni ‘30, La Premiata Salumeria divenne a tutti gli effetti un ristorante, teatro di banchetti conviviali (come testimonia il menu di una cena organizzata in onore del maggiore dell’Aeronautica Umberto Nannini) e testimone del rituale incontro di inizio stagione tra Enzo Ferrari e Nuvolari. Nel dopoguerra il figlio Mario trasferì a Modena “La Bottega”, in cui era ormai entrato anche il nipote Adriano: con la moglie Luciana, seguendo la tradizione famigliare, continuarono a proporre prodotti tipici di altissima qualità, piatti pronti (gnocco fritto, baccalà e polenta), tortellini e tortelloni, torte e dolci serviti con cortesia ed esperienza. Nel 1974 una nuova svolta imprenditoriale: Adriano decise di dedicarsi alla produzione del prodotto agroalimentare simbolo della città di Modena, l’Aceto Balsamico. Ma Adriano non smise mai di pensare alla storia della sua famiglia e oggi, col supporto delle figlie Mariangela e Alessandra, ha riaperto a San Donnino l’antica bottega del nonno, che affianca al rapporto diretto e personale col cliente, una nuova e più moderna attività: la commercializzazione on-line delle squisite eccellenze modenesi.
La Bottega di Adriano Grosoli dal 1891 Via Vignolese 1503 41100 San Donnino della Nizzola (MO) E-mail: info@labottegadiadriano.it Web: www.labottegadiadriano.it
Impariamo a degustare i salumi con l’Academia Juces Salatii Siete sicuri di saper riconoscere la qualità di un salume? Volete imparare a degustare bene un salame, un prosciutto, avventurandovi nell’analisi sensoriale? L’idea nasce da Modena con Gusto, il progetto di ISCOM Formazione Modena, che offre percorsi formativi, seminari, workshop con lezioni pratiche e teoriche. In collaborazione con il Salumificio Cortebuona e con Premiata Salumeria Italiana, Modena con Gusto organizza 4 incontri, tra settembre e dicembre. Per scoprire tutti i segreti di salame, prosciutto, mortadella e cotti (cotechini e zamponi). La docenza è a cura dell’Academia Judices Salatii, una realtà che accomuna appassionati della storia e del recupero di antiche tradizioni legate al mondo dei salumi, alla divulgazione dei sistemi e dei modi per giudicare e punteggiare i salumi stessi. Il costo è di € 25,00. Le lezioni si svolgono in orario serale (20:00-23:00) e sono suddivise in una parte teorica e una di degustazione. Nel corso di quest’ultima vengono analizzati e assaggiati tre diversi tipi di salume. Al termine è rilasciato un attestato si partecipazione. Calendario delle serate di formazione: • Il Salame – Lunedì 23 settembre • Il Prosciutto – Lunedì 28 ottobre • La Mortadella – Lunedì 18 novembre • I Cotti (zampone e cotechino) – Lunedì 9 dicembre >> Link: www.modenacongusto.it
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Sapori mediterranei
Rucola, non solo con la bresaola E pensare che faceva parte della razione quotidiana dei legionari romani. Oggi la rucola si usa sulla pizza, ridotta in pesto sulla pasta o come ripieno in cannelloni e ravioli, abbinata a latticini, carne e pesce. A prova di chef di Giorgia Fieni
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on è un modo di dire: è proprio così che abbiamo conosciuto la rucola. Negli anni Ottanta questa pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Brassicacee (crucifere) veniva infatti solitamente adagiata in abbondanti quantità sulla bresaola e sembrava che da lì non se ne volesse più andare, tant’è che pareva non esistessero altri modi per gustarla. Anche sui crostini e sulla pizza erano sempre presentate appaiate. Poi, si sa, i pizzaioli sono tipi curiosi, fantasiosi e con voglia di sperimentare e quindi immagino che ad un certo punto abbiano, per esempio, tolto la bresaola per sostituirla col prosciutto crudo (è pur sempre salume) o con lo stracchino. Ed è stato probabilmente così, con piccole aggiunte e cambiamenti, che abbiamo scoperto la rucola come materia prima a se stante. Che può diventare un pesto per la minestra (ai cereali e verdure, per il cuscus o la pasta asciutta) o uno dei suoi condimenti (idea di GUIDO HARVELOCK con sugo di zucca, acciughe, uvetta e passato di mozzarella di bufala). Ma anche il ripieno dei ravioli (con anatra e mozzarella) e dei cannelloni (con caprino fresco, mais sgocciolato, parmigiano, pomodoro tritato oppure con porro, pinoli, maggiorana e mozzarella) o uno strato delle lasagne (per gli altri strati DAVIDE OLDANI suggerisce spinaci, gherigli di noci e vellutata, ottenuta dall’acqua di cottura con burro, farina, sale e
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pecorino siciliano grattugiato; in Sardegna invece si usa pane carasau, biete, uova, fette di ricotta di pecora stagionata e di ricotta salata). L’abbinamento con i latticini dev’essere venuto da sé. È bastato sostituire la mozzarella con la scamorza. O presentare la rucola con rotolini di gruyère, insalata lollo rossa, aneto, crescione rosso e verde, acetosella, salsa di noci,
condita con olio extra vergine d’oliva, acquavite di pere e sale Maldon e decorata con gherigli di noci e gruè di cacao macinato: «un modo nuovo per servire il formaggio, che coniuga la freschezza dell’insalata, la corposità del gruyère e l’aromaticità del gruè; si abbina con un Vin Santo del Chianti Classico di media evoluzione» sono le parole di CARLO CRACCO.
Caserecce con taleggio, rucola e speck croccante.
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SIMONE RUGIATI invece preferisce lo stracchino, che mescola in parte con polpa di fichi freschi e pepe nero, in parte con tapenade di olive nere e, appunto, rucola, e poi avvolge il tutto nella bresaola (eccola che ritorna, ma almeno è un’idea innovativa!) completando con filetti di mandorle tostate. Ma lo chef toscano non disdegna nemmeno l’accoppiata rucola-burrata: le alterna, come fosse un millefoglie, dopo aver condito quest’ultima con olio, sale, pepe e aver ridotto invece la prima ad un pesto con basilico, olio extra vergine e sale grosso, presentando il tutto con pane caldo. Poi, sto sempre ipotizzando, siccome la rucola ha un sapore amarognolo e piccante, da insalata, la si è abbinata ad altri ingredienti simili (patate bollite, pinoli, misticanza, cavolo bianco, cetriolo, cipolla rossa, peperone, olive, yogurt) o la si è utilizzata (per esempio con prosciutto e crema alla ricotta e noci) come ripieno per un fagottino di insalata. Visto che l’insalata è perfetta se abbinata con la carne, forse che la rucola non può esserle di contorno? Ma certo. Quindi ecco servito piccione arrosto, composta di pomodoro piccante, crema di rucola e panizza fritta (da ANDREA BERTON, il quale usa anche la rucola frullata con lattuga e pomodoro per condire, assieme a sale di Maldon, capperi e olive taggiasche, una pasta fredda); lonza di maiale cotta a vapore e servita in una pagnotta con menta, basilico, rucola selvatica, sedano, cipolle, peperoncini; petto di faraona (marinato in birra e rosmarino) ripieno di pan carré, panna fresca, rucola, costa di sedano, carota, cotto prima in padella e poi al forno, servito su una salsa di caciocavallo, burro e panna — idea di NATALE GIUNTA —, e, per finire, straccetti di manzo con rucola, pomodori e funghi porcini (o carciofi) e l’aggiunta di semi di sesamo (per renderli più croccanti). Per un contorno più semplice, basta metterla nell’hamburger al posto della lattuga. Dato che abbiamo preparato il contorno di rucola per la carne, perché non provare anche col pesce? A Taste of Milano 2011 ENRICO BUONOCORE ci ha provato con la bagnata di tonno (una tagliata di tonno rosso
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Pizza con scaglie di Parmigiano Reggiano, funghi e rucola. marinato servito con rucola di campo e formaggio Mimolette) ed ERNST KNAM col Tropical finger sandwich (formaggio cremoso, rucola, mango tailandese, salmone norvegese, cioccolato messicano al 70% e insalata autunnale). Possiamo però servirla anche come pesto con tagliolini ai calamari, ginger, noci e pecorino; con la ricciola in carpaccio ai pomodorini e granella di pistacchio; triturata e spolverata sul risotto agli scampi, zenzero e bottarga; coi gamberoni marinati in olio, sale e pepe, rosolati col condimento, succo di lime, zucchero e semi misti (tipo zucca e girasole) tostati e serviti con anguria, appunto rucola, e feta sbriciolata; e pure con calamarata, totani, zest di limone e bottarga.
Infine, altre idee dagli esperti, come MORENO CEDRONI, “lo chef del pesce”, che usa salsa e foglie di rucola per accompagnare carpaccio di palombo e purea al lime, e come HEINZ BECK, che per i 150 anni dell’Unità d’Italia ha presentato il risotto all’acqua di pomodoro e salsa di rucola con tartare di tonno e pecorino («ingredienti per i quali l’Italia è famosa e al tempo stesso molto coreografico perché con i colori della bandiera»). A quel punto, chi produce dolci deve aver pensato: e per noi niente rucola? Così, nel 2007, è diventata anche un gusto del gelato. Non male per un alimento che faceva parte della razione quotidiana dei legionari romani! Giorgia Fieni
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Il nostro prosciutto è unico come una rosa e il suo profumo P R O S C I U T TO D I S A N DA N I E L E D O P ANCORA OGGI PREPARATO ARTIGIANALMENTE
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Arti e mestieri
L’affilata “arte con iberico” Ovvero l’arte del taglio a coltello del prosciutto iberico, emblema nazionale spagnolo e “joya de la gastronomía mundial”. Incontro con Virgilio Sanchez, insegnante di quella che è ormai una moda diffusa in tutto il Paese e nel mondo di Raffaele Bertolini
I
l maestro tagliatore V IRGILIO SANCHEZ si distingue nel panorama iberico dei tagliatori del prosciutto a coltello per la perizia e la fantasia delle sue realizzazioni coreografiche di impiatto. Il taglio a coltello della joya de la gastronomía mundial, come è considerato il prosciutto iberico in Spagna, si è diffuso non solo in tutto il territorio
nazionale, andando a lambire anche terre a vocazione marina, come i Paesi Baschi e la Galizia, ma è diventato una moda anche in Oriente. Sciami di turisti giapponesi si accalcano alle fiere del gusto di Madrid e Barcellona, bevono sakè degustando lonchas di prosciutto iberico, rimangono ammaliati dalla tecnica, dalla velocità del tagliatore. Nella capitale madrilena
si sono concretizzate gastronomiche fusioni tra il Sol Levante e le propaggini occidentali del Mediterraneo, investendo le cucine di bar alla moda dei profumi e dei colori di sushi e sashimi avvolti in fette di prosciutto iberico. In una realtà tanto varia, tanto ricca di spunti e di offerte, la creatività è quasi un obbligo. Sanchez, tagliatore presso un relais adagiato sui fianchi di
Virgilio Sanchez. Allievo di Florencio Sanchidrìan, ha percorso in pochi anni la carriera di tagliatore ed ora veste il ruolo di insegnante di taglio e impiatto.
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una collina tra i boschi di La Alberca, minuscolo borgo salamanchino, dove, oltre alla onnipresente pietra, esiste la tradizione del prosciutto, accoglie i numerosi visitatori preparando per loro dei piattini di prosciutto iberico che lui stesso definisce “arte con iberico”. Allievo di Florencio Sanchidrìan, ha percorso in pochi anni la carriera di tagliatore ed ora veste il ruolo di insegnante di taglio e impiatto. La venerazione per il prosciutto iberico in Spagna è enorme; è un emblema nazionale. Il coltello non affetta la carne, ma scivola sul corpo stesso del cerdo, lo accarezza, in un gesto che significa rispetto e devozione. La coscia viene massaggiata prima di essere affettata, il calore del corpo del tagliatore attraverso le mani fluisce verso la delicatessen porcina. Il coltello non risparmia nessun angolo, neppure il più impervio, della fisionomia ossea del prosciutto, nella sua corsa verso il centro. Il centro del prosciutto è il punto finale per il tagliatore, la meta da raggiungere districandosi tra i meandri delle infinite venature di grasso, tra i cristalli di tirosina disseminati lungo il percorso, tra i canyon e le alture delle sue cartilagini. Sanchez insegna come divertirsi con quest’arte, insegna che l’occhio deve essere lusingato ancor prima del palato, insegna a riconoscere nell’intricato disegno delle fibre
Prosciutto tagliato ad arte dai partecipanti al corso di taglio e impiatto che Sanchez tiene periodicamente a Mogarraz, Salamanca. muscolari i tratti pittorici del quadro che si andrà formando nel piatto. Abbiamo avuto modo di conoscere Virgilio da vicino, frequentando un corso che tiene periodicamente in quel di Mogarratz, paesino pedemontano immerso nel verde dei licheni, degli alberi ad alto fusto, dell’aria frizzante della Sierra. Sul tavolo quattro cosce di iberico de cebo. Maiale di razza iberica alimentato a granaglie. Imbrigliato nelle morse di ultima generazione, quelle a versione basculante e rotante, il prosciutto è stato spogliato delle sue aromatiche
vesti poco a poco, cercando di prestare orecchio alla sua voce. «Il prosciutto ti parla» sostiene Virgilio. La lama del coltello deve lasciarsi guidare dalle venature naturali, come l’acqua di un fiume, assecondare la fisionomia della massa carnosa senza ferire. Ci congediamo dal maestro con riconoscenza. Lasciamo quei luoghi pregni di aromi vegetali e animali, con la nostalgia per la brillante oleosità di quei piatti, per le geometrie cromatiche che anticipano la gioia sensuale del loro consumo. Raffaele Bertolini
Sapore intenso, consistenza gradevole, aroma seducente: il marchio Iberico identifica un alimento esclusivo e di prima categoria. Il prosciutto iberico proviene dal suino iberico, allevato allo stato brado in ambienti naturali, le dehesas, praterie che si estendono in varie zone della Spagna. Il prosciutto iberico va assaggiato scegliendo tra le quattro denominazioni d’origine: la Dehesa de Extremadura, Guijuelo, Jamón de Huelva e Los Pedroches, che appartengono alle regioni di Andalusia,Estremadura e Castiglia e León. Per gustarne appieno il sapore deve essere tagliato a fette sottili e non troppo lunghe, perfette per osservarne il colore, sentirne la consistenza e apprezzarne il sapore. Per questo motivo si dà tanta importanza all’arte di affettarlo bene. (www.spain.info)
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Fiere
Nasce Food Pack, la grande fiera italiana del food processing e packaging Ad ottobre 2014 la nuova manifestazione dedicata al confezionamento alimentare e delle bevande. In vista un’alleanza internazionale con Anuga FoodTec di Colonia
P
romuovere il made in Italy delle tecnologie di processo e confezionamento alimentare e delle bevande e dar vita alla fiera di settore più completa a livello internazionale. Sono questi gli obiettivi dell’accordo siglato tra UCIMA (Unione Costruttori Italiani Macchine Automatiche per il Confezionamento e l’Imballaggio), l’associazione imprenditoriale che
rappresenta i costruttori italiani di macchine automatiche per il confezionamento e l’imballaggio, e Fiere di Parma. Accordo che si concretizza nella realizzazione di una nuova manifestazione dedicata al confezionamento alimentare e delle bevande, Food Pack, e che, a partire dalla prossima edizione, in calendario dal 28 al 31 ottobre 2014, affiancherà Cibus Tec.
La joint venture sta valutando un ulteriore accordo con Fiera di Colonia, organizzatori di Anuga FoodTec, per condividere progetti di sviluppo internazionale sia per i due storici appuntamenti di Parma e Colonia sia per nuove iniziative overseas (Brasile, India, ecc…). Le prime attività promozionali di Cibus Tec & Food Pack prevedono road show presso le fiere alimentari
Cibus Tec 2011.
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di riferimento a livello mondiale in contemporanea con i programmi internazionali di Cibus Tec, un’anteprima dell’evento all’interno di Cibus Parma dal 5 all’8 maggio 2014 e l’avvio di nuove iniziative. Tra queste, un importante evento sulla quarta gamma e lo sviluppo del format Market Outlook e attività di business matching in collaborazione con ICE nei principali mercati. «Siamo lieti di aver dato vita a questo progetto comune con Fiere di Parma — ha dichiarato GIUSEPPE LESCE, presidente di UCIMA — perché Parma è la culla mondiale dei settori alimentare e meccano alimentare. Siamo inoltre convinti che Food Pack, utilizzando la piattaforma consolidata di Cibus Tec, rappresenti la risposta fieristica più adeguata alle esigenze delle aziende del settore packaging nonché degli operatori esteri e Italiani dell’industria alimentare». «Cibus Tec e Food Pack proporranno nel 2014 un’unica offerta espositiva integrata, centrata sulle tecnologie di trasformazione e confezionamento del prodotto alimentare e delle bevande» ha spiegato ANTONIO CELLIE, amministratore delegato di Fiere di Parma. «È la prima edizione che organizziamo in collaborazione con UCIMA. Il modello è quello seguito con successo per Cibus: focus sui mercati obiettivo degli espositori e solide alleanze internazionali per sostenere subito e concretamente lo sviluppo del nostro export». Cibus Tec e Food Pack 2014 si articoleranno nei seguenti settori espositivi: tecnologie di trasformazione del prodotto alimentare (prevalentemente rivolte ai settori frutta e verdura, latte e derivati, carne e salumi, prodotti ittici, piatti pronti, 4a 5a e 6a gamma, prodotti da forno e derivati dai cereali, prodotti dolciari, prodotti surgelati, liquidi e semi-liquidi alimentari), tecnologie e soluzioni di confezionamento, imballaggio, codifica, marcatura, etichettatura, fine linea, movimentazione, stoccaggio, tracciabilità, logistica e tecnologie ambientali, soluzioni per la sicurezza alimentare, automazione, controllo dei processi ed ingredienti. >> Link: www.cibustec.it
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Evviva lo zampone In dicembre sono due gli imperdibili appuntamenti all’insegna dello zampone: la Festa dello Zampone e Cotechino ed il Superzampone. Il Superzampone è quell’enorme, succulento, delizioso insaccato, che i maestri salumieri di Castelnuovo Rangone, ogni anno, la prima domenica di dicembre, preparano e offrono gratuitamente a migliaia di persone, accompagnandola come tradizione vuole a fagioloni e vino Lambrusco. Il Superzampone viene cotto in piazza in un’enorme zamponiera di acciaio inox: la preparazione dura circa tre giorni ed ogni anno si cerca di aumentare il peso per battere il record (in foto il peso del 2012). La festa è organizzata dall’Ordine dei Maestri Salumieri di Modena (fondato dal Cavalier Bortolamasi, ideatore e anima dell’evento, scomparso poco prima dell’edizione 2012), insieme alle associazioni di volontariato e al Comune. Appuntamento quindi a Modena il 7 dicembre, dove si terrà la Festa dello Zampone e Cotechino, mentre il giorno dopo, l’8 dicembre, a Castelnuovo Rangone è in programma l’attesissimo Super Zampone. >> Link: http://zampone.com – www.modenaigp.it
Dal 2 ottobre al 17 novembre ad Alba si celebra il tartufo bianco Diamoci un taglio: è questo il titolo della 83a Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba che si terrà dal 12 ottobre al 17 novembre. “Un invito a lamellare il profumatissimo Tartufo Bianco d’Alba sui piatti della tradizione — l’uovo, i tajarin, i ravioli, la carne cruda, la fonduta… — e sulle preparazioni degli chef basate su materie prime di qualità, tecnica, fantasia, passione. Ma anche l’espressione di un diffuso stato d’animo: la voglia di rinnovamento e di superamento delle difficoltà”, come riportato sulla brochure di presentazione della kermesse anche per questa edizione ricca di appuntamenti. Fulcro della manifestazione — che quest’anno, come ha ricordato il sindaco d’Alba Maurizio Marello presentando l’evento lo scorso luglio, cade in un momento particolare intersecando «la candidatura a patrimonio UNESCO dei nostri paesaggi vitivinicoli. Una candidatura che ha avuto un rinvio e si giocherà in questo anno» — il Mercato del Tartufo, luogo fisico in cui si può conoscere davvero il tartufo, immergendosi in un’atmosfera profumata e unica. Lo stesso spazio ospita inoltre gli stand della rassegna enogastronomica AlbaQualità, in cui sono protagonisti i vini del territorio di Langhe e Roero, le raffinatezze della pasticceria artigianale, i formaggi, le paste all’uovo, i salumi e tutti i prodotti che hanno reso internazionale questo territorio.
All’ombra del peperone… Rossi, gialli, verdi, i peperoni di Carmagnola sono ormai conosciuti in tutta Italia e vengono celebrati con dieci giorni di festa grande. Ogni anno infatti, all’inizio di settembre (nel 2013 dal 30 agosto all’8 di settembre), Carmagnola ospita la Sagra del Peperone, giunta alla sua sessantaquattresima edizione, un evento importante non soltanto per la valorizzazione del prodotto tipico della città, ma anche perché ci permette di conoscere meglio le bellezze artistiche, le tradizioni e la cultura di Carmagnola. Da anni la sagra riscuote un crescente afflusso di pubblico: oltre alla tradizionale esposizione di peperoni e ai relativi concorsi, alle degustazioni, alla sfilata di “Re Povron” e la “Bela Povronera” e alle esibizioni dei gruppi folcloristici carmagnolesi, si affiancano serate musicali e spettacoli nonché un’area commerciale dedicata agli espositori, la nuova “Piazza del Peperone” dedicata ai mille modi diversi di preparare e gustare il prodotto simbolo della manifestazione e tanti altri spazi a tema. Conosciuta allora in Europa da poco più di un secolo, la pianta del peperone giunse a Carmagnola agli inizi del Novecento, introdotta da un orticoltore di Borgo Salsasio. Oggi il peperone di Carmagnola è una risorsa fondamentale per l’agricoltura e l’economia di questa zona ed è un alimento conosciuto ed apprezzato in Piemonte e in Italia per il suo colorito giallo intenso o rosso vivace, il suo profumo e le sue caratteristiche di qualità e genuinità. Vi sono quattro tipologie riconosciute dal Consorzio dei produttori che hanno denominazione di “Peperone di Carmagnola”: il Quadrato (il bragheis), il Corno di bue (il lung), la Trottola e il Tumaticot. 82
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Antica Foma srl Via Limpido, 85 - 41015 Nonantola (Modena) info@anticafoma.it - www.anticafoma.it Premiata Salumeria Italiana, 5/13
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Formaggio
1936-2013: la provvista casearia italiana di Corrado Barberis
S
osteneva CLÉMENCEAU, il premier francese del 1918, che la guerra fosse una cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali. E sostiene il nostro mercato che il latte italiano è una cosa troppo preziosa per lasciarlo in mano ai baristi del cappuccino o persino alle mamme delle prime colazioni. Va infatti, più che bevuto, caseificato! In verità, le statistiche amorevolmente raccolte dall’ASSOLATTE (e recentemente presentate dall’INSOR-Istituto nazionale di sociologia rurale alla Fiera di Franciacorta in Bianco di Castegnato, Brescia) sembrano confermare questa teoria. Nel 1974 — anno da cui esse partono — il latte prodotto in Italia
ammontava a 9.494.747 milioni di tonnellate. Di esse, il 42,1% andava all’alimentazione umana, il 57,9% alla trasformazione industriale. Cresceva la produzione di latte fino a 12.290.985 tonnellate nel 1987. E cresceva, contemporaneamente, anche il volume destinato ai caffelatte & c. Ma la maggior parte dell’aumento andava già ai formaggi, che assorbivano il 64,7% della materia prima. Nel 2012, attraversando la “bufera delle quote”, le tonnellate di latte si sono attestate a 12.903.587, di cui solo 2.750.000 (21,3%) destinate alla diretta alimentazione umana. La grande maggioranza (78,7%) è andata in formaggeria, accompagnando il
grande successo di un’industria che da importatrice è finalmente diventata (in termini di euro) esportatrice di caci (Tabella 1). Ad operare un così sensazionale cambiamento nella destinazione del latte è stato il travolgente successo della nostra industria casearia di qualità sul mercato internazionale: indubbiamente facilitato — è vero — dalla mutata composizione demografica della popolazione italiana, sempre più a corto di bambini, e quindi di potenziali destinatari del prezioso liquido non trasformato. Senza pregiudizio della importante, recentissima iniziativa per la vendita diretta di latte crudo.
Parmigiano Reggiano.
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Tabella 1 – Tonnellate di latte destinate all’alimentazione umana o alla trasformazione industriale Anno
Totale
Alimentazione umana
%
Trasformazione industriale
%
1974
9.494.747
4.000.000
42,1
5.494.747
57,9
1980
11.150.966
4.500.000
40,4
6.650.966
59,6
1988
12.290.985
4.333.794
35,3
7.957.191
64,7
1989
12.075.706
3.797.621
31,4
8.278.085
68,6
2001
12.158.219
3.040.000
25,0
9.118.219
75,0
2011
13.086.006
2.800.000
21,6
10.286.006
78,4
2012
12.903.587
2.750.000
21,3
10.153.587
78,7
Fonte: ASSOLATTE, giugno 2013. Sensazionale, questa corsa al formaggio, perché la nostra bilancia casearia era passiva a partire dal 1940, cioè da quando gli Italiani avevano finalmente imparato a mangiare. Fino al 1940, infatti, esportavamo, insieme ai formaggi, la fame di chi non riusciva a metterli sotto i denti. Solo a partire dal nostro sviluppo economico, qualche cacio in più entrò nello stomaco degli Italiani. Ma era, paradossalmente, cacio importato. Si pensi che nel 1980 le importazioni assumevano dimensioni apocalittiche, ammontando a 216.421 tonnellate per un importo di 322.541 migliaia di euro, mentre le nostre esportazioni toccavano appena le 32.655 tonnellate con 60.149 migliaia di euro. A considerare bene questi dati così angoscianti, un elemento positivo veniva però fuori. Ogni tonnellata di formaggio era comperata a 1.490 euro, ma venduta a 1.840. Raffrontando i due prezzi, emergeva già quella che sarebbe poi stata la nostra grande linea di riscossa, meravigliosamente svolta: esportare per i buongustai, importare per chi doveva nutrirsi. E il vantaggio (qualcuno direbbe oggi lo spread) fra il valore di ogni tonnellata esportata rispetto a quella importata era già del 23,5%. Col tempo, due fatti si sono verificati: 1. sono aumentate le nostre esportazioni, da 32.655 a 301.697 tonnellate (2012). Si tratta di oltre 9 volte in più. Ma le esportazioni sono aumentate soprattutto in valore: da 60.149 a 1.975.497 mi-
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gliaia, ossia quasi 33 volte in più. Grazie anche all’inflazione, ovviamente, ma grazie soprattutto ad un migliore posizionamento sul mercato; 2. anche le importazioni sono aumentate: da 216.421 tonnellate a 481.057 (quasi due volte e mezzo) e da 322.541 a 1.621.607 migliaia di euro, oltre cinque volte in più. Ogni tonnellata, però, è stata importata a 3.370 euro soltanto, mentre ogni tonnellata esportata ha ricevuto un compenso di 6.550 euro. In sostanza, lo spread è passato dal 23,5% al 94,4% dimostrando, anche in termini di quattrini, l’eccellenza della produzione casearia italiana. È stato il 2009 l’anno del ribaltone, quando il saldo caseario ha cominciato ad essere attivo anziché passivo. E poiché in questi anni l’ampiezza del saldo è andata consolidandosi, nulla vieta di pensare che anche nei prossimi anni i formaggi continueranno ad essere una voce attiva della nostra bilancia commerciale (Tabella 2). Quali sono le grandi famiglie casearie che meglio hanno beneficiato delle nuove tendenze di mercato? Le statistiche, riportate in un primo tempo dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria e in un secondo dallo stesso ASSOLATTE, consentono di stabilire che dal 1936 al 2012 la totale produzione di formaggi è cresciuta da 223.000 tonnellate a 1.095.000, ossia
di quasi cinque volte, molto più di quanto non sia cresciuta la popolazione italiana, da 42 a 60 milioni, e cioè di nemmeno il 50% (Tabella 3). Consentendo, oltretutto, di aumentare i consumi pro capite da cinque a oltre venti chilogrammi annui. Indubbiamente i due formaggi leader, Grana Padano e Parmigiano Reggiano, hanno avuto un ruolo di primo piano: da 58.500 tonnellate sono passati a 316.000, quasi cinque volte e mezzo. Anche altri pezzi storici del nostro museo caseario hanno conosciuto trionfi. Da 18.300 a 50.000 tonnellate: è cresciuto così il Gorgonzola, più di due volte e mezzo. Il vero strepitoso successo l’hanno però conosciuto quei formaggi che nel 1936, o ancora nel 1951 — quando i disastri alimentari della guerra erano stati già in qualche modo colmati — giacevano oscuri nel profondo della nostra coscienza casearia: fino alla loro proclamazione DOC (o DOP che dir si voglia) negli ultimi decenni. Sono questi ignoti, che godevano solo di una celebrità locale, ad aver suscitato l’esplosione dei consumi e delle vendite: da 83,5 milioni di tonnellate a 691.000: ben più di otto volte. Fino a far dimenticare lo stentato successo di etichette che pur sembravano vincenti un’ottantina di anni fa. Infatti, dei quattro capolavori specificamente additati per il 1936 nell’Annuario di economia agraria 1952, il Provolone conosce un tonfo da 16.100 tonnellate a 7.000 soltanto, mentre i Pecorini retrocedono da 46.500 a 31.000 circa.
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Tabella 2 – Bilancia commerciale casearia italiana tra il 1980 e il 2012 Anno
Esportazioni t
000 €
Euro a tonnellata
Importazioni t
000 €
Euro a tonnellata
Premio qualità (1)
2012
301.697
1.975.497
6.550
481.057
1.621.607
3.370
94,4
2011
281.305
1.909.142
6.790
485.444
1.683.721
3.470
95,7
2010
272.243
1.659.193
6.090
468.548
1.498.138
3.180
91,5
2009
251.491
1.443.027
5.738
455.703
1.326.443
2.911
97,1
2001
179.889
985.694
5.480
343.838
1.207.726
3.510
56,1
1990
74.535
290.507
3.897
289.497
825.744
2.852
36,6
1980
32.655
60.149
1.840
216.421
322.541
1.490
23,5
(1)
Differenza percentuale di prezzo tra ogni tonnellata esportata ed ogni tonnellata importata. Fonte: INSOR da ASSOLATTE.
Tabella 3 – Le grandi famiglie casearie italiane tra il 1936 e il 2012 Famiglia casearia
1936
1951
1981
2001
2011
2012
TONNELLATE (000) Grana
58,5
75
160
246
310
316
Gorgonzola
18,3
22
37
46
51
50
Provolone
16,1
23
39
21
7
7
Pecorini
46,5
42
48
46
30
31
Altri
83,5
96
335
619
698
691
222,9
258
619
978
1.096
1.095
Totale
INDICI Grana
100
128
273
420
530
540
Gorgonzola
100
120
202
251
279
273
Provolone
100
143
242
130
44
43
Pecorini
100
90
103
99
65
67
Altri
100
115
401
741
836
828
Totale
100
116
278
439
492
491
Fonti: Rapporti ASSOLATTE dal 1981 in poi; INEA, “Annuario dell’agricoltura italiana 1952” per 1936 e 1951. Quanto al Provolone, è probabile che sul declino statistico sopra esposto abbia influito un fatto da ritenersi per altri versi positivo: e cioè l’innalzamento a DOC prima e a DOP poi del Provolone Valpadana, che ha talvolta agglomerato, ma talvolta anche escluso, i Provoloni meno qualificati e persino molti Caciocavalli, spesso di incerta attribuzione. Il crollo del Provolone è un fatto recentissimo: nel 1981 veleggiava ancora attorno alle 39.000 tonnellate, riducendosi poi a 21.000 del 2001 e alle 7.000 del
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2011-2012, allorché sembra proprio potersi parlare di una metamorfosi del gusto, di un certo ripudio. Diverso è il caso del Pecorino: unico, tra i principali formaggi italiani, a perdere quota anche tra il 1936 e il 1951, allorché il mercato nero gli aveva affibbiato una ingloriosa patente di “formaggio di guerra”, dalla quale non è più riuscito a riscattarsi, nonostante i generosi sforzi compiuti negli ultimi tempi da alcune tipologie, come quelle toscane. Complessivamente, il calo è di un terzo rispetto al 1936,
di circa un quarto rispetto al 1951. Per un più completo giudizio, occorrerebbe però comprendere anche gli autoconsumi, che in queste statistiche sfuggono in un modo o nell’altro, ma che certamente non sono, oggi, superiori a quelli di mezzo secolo fa, quando tanta parte della popolazione viveva in campagna. Ed occorrerebbe anche esaminare con maggior cura il caso del Pecorino siciliano, davvero incredibile. In ogni caso, va segnalata la straordinaria performance di quella varietà
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Tabella 4 – Formaggi Doc-Dop segnalati dal Rapporto Assolatte 2012 (tonnellate) Formaggio
2012
2011
2009
2001
Grana Padano
178.906
176.500
158.326
138.081
Parmigiano Reggiano
136.919
133.768
113.436
108.425
Gorgonzola
49.803
50.334
47.645
46.468
Mozzarella bufala campana
37.122
37.472
33.930
25.000
Pecorino romano
25.460
24.702
26.746
35.311
Asiago
23.362
22.562
23.528
22.611
Taleggio
8.327
8.542
8.497
10.032
Montasio
6.898
7.087
7.691
9.158
Provolone
6.880
7.017
8.799
21.400
Quartirolo
3.736
3.724
3.704
3.549
Fontina
3.442
3.510
3.527
4.458
Pecorino toscano
3.067
3.046
2.961
1.738
Piave
2.390
1.870
—
—
Pecorino sardo
2.000
1.970
1.870
600
Valtellina Casera
1.300
1.245
1.400
1.270
Stelvio
1.059
1.026
1.197
—
Toma piemontese
966
978
1.048
1.027
Fiore sardo
735
752
712
700
Raschera
720
801
745
514
Monte Veronese
691
688
630
535
Bra
624
726
937
731
Caciocavallo silano
524
726
750
1.818
Casatella trevigiana
493
259
467
—
Castelmagno
391
223
227
65
Bitto
253
213
264
200
Salva cremasco
240
—
—
—
Casciotta di Urbino
219
250
220
250
Ragusano
218
130
252
10
Robiola di Roccaverano
99
104
88
620
Formai de mut
61
70
72
21
Pecorino siciliano
29
12
35
7.100
Canestrato pugliese
25
25
67
180
Murazzano
17
13
16
46
496.976
490.345
449.894
441.360
Totale
NOTE – Per quanto riguarda l’anno 2009, nell’elenco compaiono anche alcuni formaggi non più considerati nelle successive edizioni: la Spressa delle Giudicarie (59 tonnellate), il Provolone del Monaco (40), il Pecorino di Filiano (8), il Valle d’Aosta Fromadzo (6), per un totale di 113 tonnellate.
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Premiata Salumeria Italiana, 5/13
Pecorini toscani. di pecorino che viene detta romano: le sue esportazioni si espandono su 17.969 tonnellate, su 25.460 complessivamente prodotte (70,6%). A loro volta, il 62,8 di queste esportazioni si concentra negli Stati Uniti d’America: a dimostrazione dei legami — gastronomici, e anche politici — che ancora uniscono le masse dei nostri emigrati, in grande parte meridionali, alla patria d’origine. Rimane ancora vivo il caso di quel dirigente caseario sardo che, in regime fascista, dovette aderire al regime per riuscire ad inviare negli USA una parte della produzione regionale: essendo ben noto che il Pecorino romano si fa principalmente in Sardegna. Proseguendo in dettaglio l’analisi appena intrapresa, constatiamo che la crisi economica imperversante da qualche anno ha lasciato relativamente al riparo i formaggi DOP (oggetto di speciali preparazioni, e quindi più cari) colpendo invece — anche se in maniera relativamente mite — la grande massa dei formaggi non qua-
Premiata Salumeria Italiana, 5/13
lificati. Infatti, nel 2007 — quando la crisi già si profilava, ma era ancora lontana dal suo acme — i formaggi classificati DOP rappresentavano il 45,4% della produzione casearia, scendendo al 43,2% nel 2009, al 44,7% nel 2011, ma risalendo al 45,4% nel 2012. In particolare, colpisce la continua ascesa del Grana Padano, che dalle 138.081 tonnellate del 2001 si porta alle 178.906 del 2012 (+29,6), e del Parmigiano Reggiano, che da 108.425 tonnellate balza a 136.919 (+26,3). Ininterrotta anche la crescita del Quartirolo, del Pecorino toscano, del Pecorino sardo, del Fiore sardo, del Castelmagno, del Monte Veronese. Interrotta invece nel 2012 la crescita del Gorgonzola, della Robiola di Roccaverano e della stessa Mozzarella di bufala campana, che fino al 2011 contava i più spettacolari incrementi. Contrastato il cammino dei formaggi di montagna, peraltro difficilmente accertabili, dato il diretto acquisto compiuto dai turisti nel
visitare le malghe. Indiscusso il salto all’indietro del Montasio, nonché delle Tome piemontesi, tra le quali comprendiamo anche il Bra. Stentata, nell’ultimo anno, la ripresa del Murazzano, mentre il Taleggio italico prosegue una crisi di identità da lungo tempo in atto. Talvolta, a sostenere il peso delle DOC-DOP sul complesso della formaggeria italiana concorre la comparsa di qualche nuova tipologia prima relegata nell’oscura massa: tale è il caso della Spressa delle Giudicarie, del Provolone del Monaco, dello Stelvio, del Salva cremasco, del Piave. Non sempre questi formaggi continuano a dare notizia di sé anno dopo anno, dimostrando l’incertezza della loro vita e forse qualche longanimità nell’ammissione al club dei privilegiati (Tabella 4). Ma questo non impedisce di auspicare l’ingresso di qualche altro grande lombardo, come il Bagòss, il Silter, il Nostrano Valtrompia o lo stesso Mascarpone. Corrado Barberis
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La creatività dei casari svizzeri non conosce limiti di Raffaele Bertolini
I
grandi classici della tradizione casearia svizzera non hanno bisogno di presentazione: il Gruyère, l’Emmental, l’Appenzeller, lo Sbrinz. Sono prodotti centenari frutto della tradizione riposta in piccoli caseifici di montagna e di vallata. Ma, di recente, una nuova aria di cambiamento ha iniziato a soffiare nelle vallate svizzere. Per capire pienamente cosa stia succedendo bisogna tener presente che sino al 1999 ogni aspetto del processo di produzione e commercializzazione casearia (chi poteva produrre un determinato tipo di formaggio, in quale regione, in quale quantità, e con quali costi) era governato dall’Unione svizzera del commercio di formaggio. Questa
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istituzione aveva mantenuto tutta la produzione casearia, la commercializzazione e la politica dei prezzi in una stretta d’acciaio sin dalla fine della Prima Guerra Mondiale. La sua parola era legge e ogni produttore di formaggio che volesse creare qualcosa al di fuori degli schemi classici si scontrava con vincoli insormontabili. Dopo quasi un secolo, l’Unione era diventata solo un fardello, dichiarò bancarotta e fu chiusa. Come accade in ogni periodo di deregolamentazione, ci furono delle vittime: a cadere furono quei produttori rimasti impantanati nel sentiero classico e incapaci o non desiderosi di rinnovarsi. Ma, per gli artigiani creativi dispersi nei cantoni e frustrati dagli
editti emanati dall’organizzazione, fu un evento paragonabile ad un sisma benefico in grado di offrire nuove ed eccitanti opportunità. Dzorette, deliziosa piccola foresta MICHEL BEROUD, originario di Rougemont, sul versante bernese, è stato uno dei primi ad esultare quando questa sorta di camicia di forza venne finalmente rimossa; ricorda quei tempi con la formula après la libération (dopo la liberazione). Rinomato soprattutto per il suo bianchissimo Fleurette, grande come un piattino da tè e con pasta cedevolissima, Michel non ha cessato di allargare il proprio assortimento, aggiungendo formaggi a pasta dura e stagionati alla selezione
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di formaggi molli e a crosta fiorita. Dzorette (“piccola foresta” nel gergo locale) è uno degli ultimi arrivati. Una chicca a crosta fiorita, avvolta in aghi di pino leggermente tostati. Si presenta in due versioni: grande come un piatto e venduta in una scatoletta di legno, o più piccola (circa 120 g) e avvolta in carta cerata. Jersey Blue, mini panettone erborinato Nella regione settentrionale di Toggenburg, WILLI SCHMIDT di Lichtensteig è citato frequentemente come esempio illuminante di ciò che sta succedendo in Svizzera nel settore caseario. Dopo aver lavorato nel settore tutta una vita, Willi compra la fattoria in cui oggi lavora nel 2006. In breve tempo riesce a produrre ben 25 tipi diversi di formaggio. La sua vena vincente non mostra segni di stanchezza: oggi ne produce ben 30 differenti («Mia moglie mi dice che ora dovrei proprio fermarmi!», confessa sornione), tutti a latte crudo vaccino, caprino e ovino, variando dai morbidi agli stagionati. È difficile individuare un formaggio più particolare di un altro tra la gamma di Schmidt, ma il Jersey Blue non dovrebbe mancare assolutamente all’occasione di un assaggio. Prodotto con latte intero proveniente da un gregge locale di vacche di razza Jersey, ha più o meno la forma e le dimensioni di un mini panettone. Protetto da una crosticina sottile e grigia, è contraddistinto da pasta gialla irrorata di venature bluastre. Diversamente da altri formaggi erborinati, che vengono forati sulle facce per dare sostegno ad un’erborinatura naturale, la cagliata del Jersey Blue è rivoltata a mano, scrupolosamente, per aerarla e permettere alle muffe di entrare nelle venature del formaggio. Heublumen, intero, crudo e biologico THOMAS STADELMANN, con il figlio Michael, anche loro di Toggenburg, dove la tradizione casearia ha radici alquanto forti, stanno aprendo un varco con la loro produzione già vincitrice di numerosi premi. L’Heublumen, da latte intero, crudo e biologico, prodotto tutto l’anno con il latte di
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11 caseifici della zona, è forse il loro formaggio più emblematico. Dopo essere stato messo in forma, pressato e salato, l’Heublumen è cosparso e massaggiato con il fieno, il cui aroma dolciastro ed erbaceo penetra nel prodotto finito. La stagionatura dura dai 6 agli 8 mesi, ma, come osserva Thomas, può protrarsi intensificando il carattere del formaggio. Camembert Jersey, cremosità e aromi complessi FREI BIERI lo troviamo non lontano dagli Stadelmann, nella parte orientale; Frei è membro di una dinastia casearia insediatasi da tempo a nord di Zurigo. Fu lui a lanciare un appello a metà degli anni ‘90 ai suoi colleghi casari, invitandoli a prendere al volo l’opportunità offerta dalla chiusura dell’Unione Svizzera e venire allo scoperto con qualcosa di nuovo. BIERI riunì 26 diverse realtà casearie sotto l’egida di Züri-Natürli, che al giorno d’oggi produce una vasta gamma di formaggi tutti a latte crudo. Il Camembert Jersey di FRANZ KOSTER di Faltigberg è uno dei frutti di questa collaborazione. Quando ancora esisteva l’Unione Franz lavorava solamente latte ovino nella sua proprietà di Schafkaeserei Koster. Dopo il permesso per l’introduzione delle vacche di razza Jersey in Svizzera Koster fu uno tra i primi a comprarne alcuni capi. Il Camembert Jersey, straordinariamente cremoso
e dagli aromi complessi, maturato tra le 3 e le 4 settimane, fu il primo formaggio a latte vaccino della sua produzione. Bierdeckel, delizioso e piccante La famiglia di SEPP BRULISAUER iniziò l’attività produttiva nel settore caseario nel cantone limitrofo di Aargau, rinomata regione casearia. Il loro primo passo come produttori di formaggio fu compiuto nel 1991, e ad oggi la loro gamma di prodotti si è allargata notevolmente, includendo delle gustosissime Raclette e un piccolo tesoro di nome Kleiner Stinker (“il piccolo puzzone”). Il più famoso è il Bierdeckel (“sottobicchiere”), un formaggio delizioso e piccante, creato da Brulisauer seguendo i consigli di Rolf Beeler. Prodotto con latte termizzato, è un formaggio semi-duro e abbastanza piccolo da tenere tra le mani, con una crosta rugosa e color castagna lavata in birra di grano. Flada, nei locali più modaioli SEPPE BARMETTLER di Stans, vicino Lucerna, nel cuore della Svizzera, è stato un altro pioniere, rapido nel varcare i confini dello Sbrinz e del Bratchas, i due soli formaggi locali permessi fino al 1999. Da quando ha ereditato l’attività familiare non ha cessato di allargare la sua proposta, lavorando sia con latte vaccino che ovino, l’uno e l’altro crudo. Lui li definisce Käse
Dzorette.
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le dimensioni di una palla da golf. È arrivato sul mercato come formaggio giovane. Era destinato ad un utilizzo locale, quasi immediato. Nel 2005, il nipote di Peter, Mike Glauser, creò un locale per stagionare i formaggi (da qualche mese a un anno) che avrebbe permesso alla famiglia di far conoscere i loro formaggi ben oltre i confini della regione. Con la maturazione il Belper Knolle perde la carica di umidità, i suoi aromi si intensificano e le spezie in esso contenute acquistano vigore. Quando è maturo ha la consistenza giusta per essere grattugiato.
Il Belper Knolle (photo © www.rock-the-kitchen.de). der Extraklasse, formaggi di qualità superiore; tanto buoni e particolari da meritarsi uno spazio nei menu dei ristoranti più alla moda e nei negozi specializzati, sia in patria che Oltralpe. Le sue tipologie a pasta molle, ispirate al Reblochon francese, si trovano sia a latte vaccino che ovino, ma il più prestigioso è il Flada (“pasticcio di manzo”), un formaggio di latte vaccino, dalla crosta increspata, lavata, così deliziosamente fluido che deve essere mantenuto in forma da una fascetta di abete.
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Belper Knolle, da grattugiare come un tartufo La famiglia Glauser, di Belp, vicino a Berna, è da anni nel settore. Vantano una gamma interessante, includendo, come ci si aspetterebbe da un produttore della zona, anche l’Emmental. Ma la specialità della casa, voluta da PETER GLAUSER, è il Belper Knolle (“il tubero di Belp”), così chiamato perché assomiglia molto ad un tartufo. Da latte crudo, speziato con un mix di aglio, pepe nero e sale marino dell’Himalaya, lavorato a mano, presenta
Moser Trueffel, torta speciale e profumata U ELI M OSER di Dotzingen, zona produttiva ai margini del Lago Biel, aveva seguito le orme del padre nella produzione dell’Emmental, ma non ci mise molto a capire che il futuro esigeva delle prese di posizione più audaci. Nel 1999, proprio nell’anno in cui l’Unione Svizzera si stava sciogliendo, Ueli si mise in moto. Ora è specializzato in formaggi morbidi, a crosta fiorita, per lo più pastorizzati e variamente speziati, che regolarmente arrivano a posizionarsi sul podio in occasione dello Swiss Cheese Awards, la competizione che premia i migliori formaggi svizzeri. Il Moser Trueffel è una versione adulta del più conosciuto Moser Chardonnay, bagnato nel vino fruttato. Il formaggio maturo viene tagliato a metà e farcito, come una mini torta, con uno strato di formaggio fresco mischiato a del tartufo tagliuzzato. Ogni nuovo formaggio svizzero contribuisce ad allargare il mercato e l’ispirazione non conosce sosta tra questi liberti. Come disse Willi Schmid a proposito della sua gamma di formaggi vincenti: «avevo un sacco di idee che mi giravano in mente… non dovevo fare altro che metterle alla prova». È evidente che ne vedremo ancora delle belle! Raffaele Bertolini Nota A pagina 90 pascolo d’alpeggio in Svizzera (photo © www.montagnaestate.it).
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Causeway Cheese Company, un mini-caseificio irlandese che fa passi da gigante Drumkeel, Castlequarter e Ballyveel i tradizionali; Ballyknock, Ballybradden e Coolkeeran gli aromatizzati: è questa l’originale gamma di formaggi a base di latte di mucca e di capra prodotti dal piccolo caseificio di Loughgiel, nella contea di Antrim di Riccardo Lagorio
G
iant’s Causeway è una delle maggiori attrazioni dell’Irlanda del Nord, sulla costa settentrionale, dichiarata Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO dal 1986. Come conseguenza di un’eruzione vulcanica e della particolare modalità con cui il magma si è solidificato, si sono venuti a creare circa 40.000 prismi a base esagonale che la natura ha disposto come se fossero scale che entrano nel mare. È quasi spontaneo che il nome di molte aziende si rifaccia a questo miracolo della natura davvero unico. Accade anche per Causeway Cheese Company, un mini-caseificio fondato nel 2000, che ha sede nell’area artigianale del vicino villaggio di Loughgiel. Come molti nord-irlandesi di
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famiglia contadina, al termine del college Damian cerca fortuna salpando per l’Inghilterra in cerca di quel lavoro di cui è così avara la sua terra. Acquisisce una buona competenza nella caseificazione presso la Unigate ma, una volta passata di mano questa e al centro di una profonda ristrutturazione aziendale, Damian si ritrova senza lavoro. La situazione di precarietà lo convince a ritornare sull’isola di San Patrizio e, approfittando dell’esperienza messa a frutto in Inghilterra, fonda Causeway Cheese Company, la prima esperienza di mini-caseificio dell’Irlanda del Nord. Il clima nordirlandese, ideale per l’allevamento di bovini e la produzione di latte, non ha curiosamente mai dato vita ad una
vera e propria tradizione casearia, limitandosi alla lavorazione del latte e alla trasformazione in burro della materia prima. Si capisce quanto, solo una decina d’anni fa, fosse audace l’apertura di un’attività rivolta alla preparazione di formaggio. Ma l’intuizione di Damian e della moglie Susan di utilizzare quel patrimonio naturale di Giant’s Causeway come intitolazione della propria attività — e, soprattutto, trarne ispirazione per la sagoma dei loro formaggi —, unitamente alla loro bontà, ha fatto sì che si creasse in poco più di dieci anni un’abilità che è già diventata tradizione. Il processo manuale e la formulazione personale di ricette per ottenere gusti esclusivi ed originali hanno consentito loro di ritagliarsi una quota
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di mercato considerevole in Irlanda del Nord nei ristoranti e nei negozi specializzati. Una gamma di formaggi che ha avuto inizio con il Drumkeel, prodotto durante i mesi estivi, morbido, dal palato cremoso e dolce. Poi è arrivato il Castelquarter, molto simile al Cheddar, che viene stagionato per 3 mesi nella versione fresco, 6 mesi se mezzano, 12 per lo stagionato e 18 per lo stravecchio, sviluppando con il trascorrere del tempo un gusto più autorevole ed elegante così come un colore che vira verso il paglierino. Da agricoltori locali che hanno intrapreso l’allevamento di capre, viene raccolto il latte e trasformato in un formaggio friabile, il Ballyveel, mantenendo un gusto fresco che ricorda poco quello coriaceo di alcuni formaggi caprini. Ma l’idea vincente dei McCloskey è stata quella di preparare quattro tipologie di formaggio a forma esagonale dal peso di 200 grammi, perfetti come doni per il periodo natalizio, quando si concentrano metà delle vendite. Infatti, i piccoli formaggetti vengono ricoperti di cera colorata e ad ogni gusto si accompagna un colore diverso. Il cobalto corrisponde al Castelquarter mature, dal gusto piacevolmente sostenuto. Al colore amaranto corrisponde il formaggio più caratteristico, il Coolkeeran, aromatizzato ad un’alga violacea (dulse in lingua locale) raccolta in prossimità
Susan McCloskey. delle coste dei laghi salmastri che caratterizzano il Paese. I McCloskey provvedono a reperire l’alga, ad essiccarla e frantumarla perché possa essere aggiunta direttamente nella cagliata. Il profumo ed il gusto risultano assai distintivi, con un aroma a metà strada tra il marino ed il torbato. Meno caratteristici ma altrettanto gustosi il Ballybradden, riconoscibile per l’involucro di cera verde, alle erbe aromatiche e aglio, ed il Ballyknock al pepe nero. Tutti i loro formaggi sono ottenuti grazie all’inserimento nel latte di caglio
vegetale, un’oggettiva ulteriore prova che l’innovazione può essere feconda di ottimi prodotti. Riccardo Lagorio Causeway Cheese Company Millennium Centre Lough Road, Loughgiel Ballymena, Co. Antrim E-mail: info@causewaycheese.com Web: www.causewaycheese.com Nota A pagina 94 il Giant’s Causeway in Irlanda (photo © Sergio Ontano).
Il Selciato del gigante o Giant’s Causeway è un affioramento roccioso naturale situato sulla costa nord est irlandese a circa 3 km a nord della cittadina di Bushmills, nella contea di Antrim in Irlanda del Nord. È composto da circa 40.000 colonne basaltiche, formatesi da una eruzione vulcanica circa 60 milioni di anni fa, generalmente a base esagonale, ma non ne mancano anche a quattro, cinque, sette o otto lati. Le più alte raggiungono i 12 metri d’altezza, ma alcune, essendo situate su delle scogliere, si innalzano anche per 28 metri. Le formazioni visibili a occhio nudo sulla costa sono solo una parte del complesso, che prosegue anche nel fondale marino adiacente. Il Selciato del gigante è stato inserito nella lista dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO nel 1986 ed è una riserva naturale nazionale dal 1987; attualmente è di proprietà del National Trust, che lo gestisce. La straordinarietà e particolarità del posto hanno da sempre alimentato la fantasia dell’uomo. La leggenda più famosa e accettata riguardava il gigante, presente in maniera diffusissima nella mitologia irlandese, Finn o Fionn McCool, che avrebbe costruito un selciato per camminare fino alla Scozia per combattere un altro gigante, Benandonner. Una versione della storia narra che Fionn cadde in un sonno profondo prima di andare in Scozia, perciò quando Benandonner venne per cercarlo, la moglie Oonagh coprì con un drappo il marito Fionn e pretese di convincere il rivale che in realtà quello fosse il figlio piccolo. In una variante, avendo visto l’enorme stazza del nemico, è lo stesso Fionn a dire alla moglie di preparare l’equivoco. In entrambe le versioni comunque, quando Benandonner vide la mole del “bambino”, pensò che il padre dovesse essere terribilmente gigantesco, e scappò a casa terrorizzato distruggendo il selciato per evitare di essere inseguito. Un’altra versione della leggenda narra che Fionn costruì la Causeway per permettere al suo rivale di raggiungere l’Irlanda dalla Scozia. Benandonner venne sconfitto da Fionn e la Causeway, terminata la sua funzione, scomparve nell’Oceano. Altre storie meno diffuse vorrebbero che il selciato fosse stato costruito da un gigante innamorato per raggiungere la sua amata, che viveva in Scozia. Dall’altra parte del Selciato, sulla costa scozzese, l’isola di Staffa ha le stesse formazioni basaltiche, specialmente nella grotta chiamata Fingal’s Cave.
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I vini di Premiata Salumeria Italiana
Degustazione: vini in abbinamento di Laura
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iamo al nord, in quell’area a cavallo tra Emilia e Lombardia, tra le nebbie del Po, con questo famoso e gustosissimo salume, la Coppa piacentina, che, prodotta con le carni del collo del maiale, che provengono esclusivamente da allevamenti di Emilia-
Romagna o Lombardia, può però essere della sola provincia di Piacenza. Il muscolo della cervicale del suino, tagliato in un solo pezzo, è ricoperto con una miscela di sale e spezie, avvolto nella pelle del peritoneo, legato e lasciato asciugare per 10-15 giorni. Poi, è riposto in un ambiente
Gutturnio frizzante 2012 Badenchini
Gutturnio Doc Superiore Colombaia 2010 Baraccone
Colli Piacentini Doc Valnure Terrafiaba 2012 La Tosa
Siamo ad Albareto, con i 12 ettari di vigneto dell’azienda Badenchini. Una bella realtà che produce vini interessanti e non scontati, della quale suggeriamo uno de suoi vini più conosciuti ed amati: il Gutturnio frizzante. È decisamente tradizionale e rispettoso dei gusti che i piacentini e gli amanti del Gutturnio non possono non ricordare intensamente: tipicissime le note olfattive fruttate, soprattutto frutta scura e mirtilli, contornati da intensi sentori di pepe verde e leggera liquirizia. Ben dosato il passaggio al naso, che continua con armonia anche al palato, con grande freschezza. Buona e persistente la schiuma, che avvolge con leggiadria la bocca. Equilibrato tra le parti, non manca nemmeno della necessaria spalla acida e di una buona intensità e persistenza aromatica-olfattiva, che lo rende adattissimo all’abbinamento con la coppa piacentina, ma anche con i salumi tutti della tradizione locale e non solo. Da provare con il gnocco fritto.
Sono i vecchi vigneti di famiglia a dare il nome a questo vino, del quale l’azienda Baraccone produce circa 15.000 bottiglie annue. Effettua una fermentazione di circa dieci giorni sulle bucce, alla quale segue una controllatissima malolattica, per attenuare, come dichiarato dal produttore, le asprezze tipiche del vitigno Barbera, che concorre alla produzione. Anche la breve sosta in barrique di secondo livello contribuisce ad ammorbidire il calice, arricchendolo di note olfattive tipiche di un legno dosato. Ciò non di meno, sono ben presenti e pulite le note fruttate, contornate da fiori scuri, con un lieve ricordo di goudron e tinte di cacao e caffè. Circolare la bocca, dove ritroviamo la sincera speziatura, la prugna matura e la ciliegia moretta. Elegante e di classe, con una buona freschezza, è adatto ad accompagnarsi a piatti di carne, anche elaborati come stufati e stracotti. Non sarà troppo aggressivo con una bella coppa stagionata e ben speziata, non c’è dubbio alcuno.
Ci lanciamo in un abbinamento che alcuni definirebbero azzardato, anche se la tradizione di accompagnare i salumi del piacentino con alcuni vini bianchi non è certo una nostra invenzione. Evidentemente c’è un perché. Prodotto con il 40% di uve Malvasia, il 40% di uve Ortrugo ed il restante 20% di Trebbiano, è un vino semplice e schietto, ma con una sua complessità, già chiara e dichiarata dall’uvaggio. Un filosofia produttiva che regala un calice fresco, con note olfattive affascinanti, soprattutto fruttate, di mela, pesca gialla e melone. Aromaticità presente, grazie alla Malvasia, ben dosata e lineare, che ricorda piccola salvia e menta leggera. Bocca in armonia, circolare e aggraziata la sorsata. Immediato l’abbinamento principe di questo calice: tortelli ricotta e spinaci conditi con burro e salvia. Non sfigurerà assolutamente con una mortadella morbida e con la coppa piacentina, magari giovane e non troppo speziata. Perché le sorprese inaspettate sono sempre le più gradite.
Azienda Vitivinicola Badenchini Loc. Albareto 89/A 29010 Ziano Piacentino (PC) Telefono: 0523 860256 info@badenchini.it
Azienda Agricola Baraccone Cà Morti 1 29028 Ponte dell’Olio (PC) Telefono: 0523 877147 info@baraccone.it
Azienda Agricola La Tosa Località La Tosa 29020 Vigolzone (PC) Telefono: 0523 870727 info@latosa.it
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alla Coppa piacentina Dop Franchini
idoneo, freddo ma con un giusto e controllato grado di umidità, dove stagiona per un minimo di sei mesi. Determinante, oltre alle caratteristiche ambientali uniche, unite ad una materia prima eccellente, è la sapienza del produttore. Il risultato sarà un prodotto dal gusto pieno,
morbido ma consistente nella texture, dolce e leggermente pronunciato di speziatura, con profumi netti ma aggraziati e un sapore unico, giustamente persistente, equilibrato. Evidente e banale il suggerimento di gustarla con un buon pane: uno degli abbinamenti migliori e adatti a tutte le età.
Oltrepò Pavese Doc Bonarda Campo del Monte 2012 Agnes
Colli Piacentini Bonarda Frizzante Amabile 2012 Mossi
Emilia Igp Barbera ’l Piston 2012 Il Poggiarello
Andiamo nell’Oltrepò Pavese e ci facciamo servire un calice di Bonarda dei fratelli Agnes, piccola realtà sulle morbide colline di Rovescala, che produce vini tipici e riconoscibili. Non fa eccezione il Campo del Monte, di un bel rosso rubino limpido, che regala subito copiose note di frutta rossa, vinosità pulita, speziatura leggera a completamento. Un’olfattiva lineare come lo è la sensazione al palato, che conferma anche una buona tessitura e complessità. Equilibrato ed armonico, con una sua freschezza e sapidità e una lievissima abboccatura che non stona, conferma la circolarità dei sentori, con ricordi di vaniglia e cannella, in lontananza. Ottimo l’abbinamento con piatti di carne, anche complessi, primi con ragù e formaggi stagionati. Non stonerà affatto con una coppa di buona speziatura, ben affinata, dalla struttura decisa e dalla discreta grassezza.
Anche con questo calice cavalchiamo una tradizione locale (ma non solo), di vecchia data, conosciuta ed amata, soprattutto dai giovani: abbinare al salume un vino amabile. Non stracciatevi le vesti, non è così sconveniente, nemmeno dal punto di vista tecnico. La grassezza è dolcezza, per cui l’abbinamento non si può ritenere errato. Soprattutto se il prodotto, come in questo caso, presenta un residuo zuccherino leggero e assolutamente bilanciato. Il calice di Mossi è ricco di sentori tipicamente fruttati, su cui emerge netto un bel mirtillo, accompagnato da un deciso pepe verde, in seconda battuta. Al naso dolce si accompagna una sorsata delicata e corrispondente, fresca e beverina, armonica. Facilmente abbinabile a crostate di frutta e dolci non troppo elaborati, come detto non è banale con alcuni salumi. Provatela con un panino al latte, farcito con una coppa piacentina morbida, non troppo stagionata e dalla speziatura leggera.
Serviamo ora una Barbera. Perché in zona, per chi non lo sapesse, si declina al femminile. Sarà che finisce con la “a”, sarà che in Emilia le donne hanno particolare importanza, fatto sta che questo calice esprime molto della femminilità regionale: sensuale ma con gli attributi. Un vino che al naso esprime con nettezza frutto rossi e scuri, soprattutto ribes e more. Si accompagnano da sensazioni di goudron e da note di terziarizzazione e affinamento, decise e senza banalità. Al palato l’eleganza è evidente, senza perdere però in carattere e trama. Armonia tra parti dure e morbide, equilibrio di sensazioni e desideri. Siamo davanti ad un calice che evidentemente si presta ad accompagnarsi con grande facilità ai piatti della grande tradizione culinaria emiliana, ma coi salumi farà una strage. Provatelo anche su formaggi di media stagionatura, ma non dimenticate un piatto di coppa piacentina, magari di diverse stagionature e di diversi produttori.
Azienda Agricola Fratelli Agnes Via Campo del Monte 1 27040 Rovescala (PV) Telefono: 0385 75206 info@fratelliagnes.it
Azienda vitivinicola Mossi Località Albareto 80 29010 Ziano Piacentino (PC) Telefono: 0523 860201 mossi@vinimossi.com
Il Poggiarello Loc. Il Poggiarello 29029 Scrivellano di Travo (PC) Telefono: 0523 957241 info@ilpoggiarellovini.it
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Olio Extra vergine: come sceglierlo e usarlo nel modo migliore possibile
Parola d’ordine: assaggiare Intervista a Piero Palanti, degustatore. La sua mission? Educare alla scoperta di un prodotto tanto usato quanto mal considerato di Stefania Monaco
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ssaggiare! Questa è la parola d’ordine per capire l’olio. Il consiglio viene da Piero Palanti, degustatore professionista che in giro per l’Italia fa capire al pubblico l’importanza della conoscenza dell’olio extra vergine attraverso serate a base di assaggi. Durante gli incontri “Portami il tuo olio e ti dirò chi sei” ogni partecipante porta il proprio olio per analizzarlo insieme. In Italia ci sono circa 400 varietà di olive. Pertanto si ottengono altrettanti oli e tantissimi blend costituiti da varie tipologie messe insieme.
ma anche attraverso la diffusione di qualsiasi notizia, vera e confermata, sull’olio. Credo molto nel potere del consumatore. Forse è un’illusione, la strada è lunga, ma la consapevolezza è la chiave di volta. Puoi anche usare
un olio difettato, ma deve essere una scelta, non un’imposizione». Quali sono le difficoltà che incontri? «La parte difficile? Portare il consumatore a tavola. Il vino vince
Quello dell’olio extra vergine d’oliva è un mondo a sé: il vino ha un’enorme massa di appassionati mentre per l’olio ci si limita a comprarlo per poi usarlo in cucina. A nessuno verrebbe mai in mente di assaggiarlo. Ma Piero ed i grandi “custodi” della cultura dell’olio non demordono… «Personalmente è stato un semplice assaggio a riportarmi alla mente gli anni dell’infanzia e bellissimi ricordi di mio padre. L’olio extra vergine per me è sempre stato sinonimo di cultura italiana, evoluzione sociale, economica e gastronomica». Noi Italiani non potremmo mai far a meno dell’olio! «Infatti. Se ci pensi usiamo l’olio extra vergine almeno due volte al giorno. L’impronta che do al mio lavoro è quella della diffusione della cultura dell’extra vergine, dell’apprenderne i pregi e i difetti attraverso l’analisi sensoriale, l’assaggio, le cene didattiche,
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Bruschetta all’aglio e olio extra vergine d’oliva. Antipasto tipico della città di Pisa e della Toscana in generale, viene chiamata anche “fettunta”.
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su tutto, è ammaliatore. Proporre di assaggiare oli è più complesso. Ma soltanto attraverso l’assaggio e, quindi, la conoscenza della qualità dei cibi, diffonderemo l’idea dell’importanza che nel consumatore si formi una coscienza e, dunque, conoscenza, critica». I tuoi incontri nel mondo dell’olio che più ti hanno più stimolato? «Sono stato fortunato nell’aver incontrato persone con la mia stessa passione, che mi hanno consigliato e insegnato quello che so. L’assaggio è un continuo confrontarsi, imparare. L’olio cambia, ogni anno è diverso, ogni anno hai conferme e delusioni. Collaboro anche con Marco Oreggia nella sua guida FLOS OLEI: è un’esperienza unica avere a disposizione oli extra vergini da tutto il mondo e confrontarsi imparando sempre qualcosa con Marco e con altri bravissimi assaggiatori. Fare il degustatore è una scuola continua, non si finisce mai di imparare».
teremo il fruttato, che è il sapore del frutto sano raccolto nel suo miglior momento di maturazione. Infine, distingueremo i sentori che può avere un olio: carciofo, pomodoro, mandorle, basilico e così via». Quali sono le strutture italiane dove rivolgersi per imparare a degustare? «Sono moltissime, l’offerta è ampia. Va ricordato che ci sono corsi finanziati dalla Comunità europea, quindi gratuiti, a cui si può partecipare senza dover spendere € 1.000, cifra che a me sembra esagerata. Una volta acquisita la tecnica dell’assaggio si è pronti a crescere e a degustare all’infinito. Il mio consiglio è assaggiare insieme agli altri, si impara sempre qualcosa confrontandosi». Il prezzo giusto per un buon olio qual è?” «Si trovano oli buoni a € 7,00-8,00 al litro. Il trucco è andare a cercarli».
Quali sono i consigli che puoi dare ad un semplice consumatore per capire qualcosa di più dell’olio? «Assaggiare, imparare ad assaggiare ed essere autonomo nella scelta dell’acquisto. L’olio teme la luce, se lo trovate in bottiglie trasparenti vi vendono il colore, non l’olio… Nella bella bottiglia non sempre c’è un buon olio. Un olio buono non può costare € 4,00 al litro».
È vero che gli oli che si trovano sullo scaffale dei supermercati sono per lo più stranieri e di bassa qualità? «Tecnicamente sono extra vergini, ma in realtà sono oli standard con difetti e di cui in questo momento le maglie larghe della legislazione permettono la vendita. Parecchi marchi che il consumatore crede siano italiani sono invece di proprietà spagnola e ci si guarda bene di dichiarare l’origine, vendendo così olio prodotto da olive estere».
Il metodo giusto per degustare? «Il metodo giusto è quello del COI (Comitato olicolo internazionale). Riscaldare l’olio in un bicchierino (anche di plastica) attraverso il calore della mano, metterne un po’ sotto la lingua, stringere i denti e tirare forte l’aria in bocca (strippaggio) nebulizzandolo. In questo modo sentiremo l’amaro e il piccante, che devono essere sempre presenti nell’olio, valu-
I tuoi oli del cuore quali sono? «A me piace assaggiare. L’olio ogni anno cambia anche se ogni cultivar ha sentori caratteristici. Non me la sento di dire che ne ho uno preferito. Mi piace abbinarli ai vari cibi, ogni piatto ha il suo olio, sono fortunato a poter fare queste scelte. La mia è una ricerca continua. Anzi, spero di non trovarne mai uno preferito, perché così la mia ricerca finirebbe».
“Credo nel potere del consumatore. Forse è un’illusione, la strada è lunga, ma la consapevolezza è la chiave di volta. Puoi anche usare un olio difettato, ma deve essere una scelta, non un’imposizione, sostiene Piero Palanti” Premiata Salumeria Italiana, 5/13
I criteri per la degustazione dell’olio sono stati fissati dal Comitato olicolo internazionale. Secondo te gli chef italiani delle cucine medio-alte hanno effettivamente una conoscenza approfondita degli oli? «No. Il concetto di condire il cibo e non il piatto non è facile da far passare. L’olio extra vergine di qualità è un condimento non più un alimento. Quanto più andiamo avanti si tende a diminuire l’apporto di grassi nei piatti, quindi perché non sfruttare le eccellenti qualità dell’olio extra vergine per valorizzare la cucina italiana?». Per farsi un buon olio a casa avendo a disposizione un uliveto quali sono gli accorgimenti da adottare? «Affidarsi per i consigli ad un frantoio moderno. La bella e romantica favola dei frantoi a macina lasciamola alla pubblicità. Le olive devono essere raccolte quasi verdi e portate al frantoio entro massimo 12 ore dalla raccolta. Bisogna ricordare che l’olio teme la luce, il caldo e l’aria. Quindi metterlo in latte da 5 litri e imbottigliare subito. I vecchi e ingombranti serbatoi in acciaio inossidabile non conservano bene l’olio perché ogni volta che ne preleviamo un po’ entra dell’aria che lo ossida compromettendone la qualità». Stefania Monaco
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Dolci Deliziosi dolci al cucchiaio
Bavaresi, parfait, soufflé… di Clara Scaglioni
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orse, fra tutti i dolci elencati nel menu di un ristorante, quelli al cucchiaio sono generalmente i più graditi in ogni età. Che siano freschi e leggeri, o ricchi e cremosi, costituiscono la soluzione ottimale per chiudere un pranzo o una cena perché sanno accostarsi in modo armonioso e delicato alle altre portate. Sono dolci fantasiosi, semplici e delicati, ma al tempo stesso nutrienti e golosi, dal sapore ricco e avvolgente. Sono di consistenza morbida, da assaporare lentamente, senza coltello né forchetta, in piccoli irresistibili bocconi. Dalla crème caramel alla bavarese fino ai sorbetti e ai gelati di frutta, si tratta di dessert prelibati, ideali nella stagione calda, perfetti tutto l’anno. La categoria comprende molte specialità, tutte diverse l’una dall’altra sia per gli ingredienti utilizzati che per il modo e le tecniche di realizzazione. La maggior parte si consuma fredda, ma ve ne sono parecchi, come i soufflé, che sono migliori caldi. Altri non richiedono cottura, oppure questa è riservata solo ad alcuni ingredienti e devono essere serviti molto freddi o semifreddi. Analizziamoli allora uno ad uno e vediamone le caratteristiche. Il più amato e gustato è il classico zabaione (o zabaglione che dir si voglia). Si prepara cuocendo a bagnomaria, con fiamma dolce, i rossi delle uova, prima mescolati a lungo con lo zucchero poi addizionati a Marsala o a vino bianco. Si dice che i rossi sono sbattuti alla perfezione quando, facendo cadere da un cucchiaio, lentamente a filo, un poco d’impasto sopra all’uovo a lungo rimescolato, sembra che vi si scriva sopra. Quando lo zabaione è cotto, è un piacere gustarlo ancora caldo insieme a dei biscotti secchi (ideali i famosi
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savoiardi). Una volta raffreddato, invece, può essere mescolato alla panna montata e messo in freezer a gelare. Ma è la crema inglese a fare la parte del leone nei dolci al cucchiaio. Questa preparazione incute sempre un certo timore perché, come si suole dire in gergo, può facilmente “impazzire”, cioè cuocere troppo e diventare grumosa, mentre dovrebbe sempre risultare morbida e fluida. Si montano a lungo i rossi d’uovo con lo zucchero, si aggiunge il latte e si cuoce a fuoco dolce rimescolando a lungo (meglio se con un cucchiaio di legno) e molto lentamente per non fare coagulare il composto innanzi tempo. Per un risultato perfetto è bene non distrarsi per nessun motivo. La crema è pronta quando il cucchiaio si vela leggermente. Fuori dal fuoco, quando è ancora calda, le si possono aggiungere vari
sapori, come ad esempio del cioccolato fondente, e rendendola consistente con gelatina in fogli si può ottenere una raffinata bavarese. Quando si sta raffreddando e inizia a rassodarsi per effetto della gelatina, il verbo esatto da utilizzare per descrivere questo fenomeno è cambrare: per cui, appena la crema inglese sarà cambrata e ormai quasi fredda, le si aggiungerà la panna montata con movimenti lenti e delicati. La bavarese, a questo punto, andrà versata in uno stampo ricoperto di pellicola (per meglio sformarla) e messa in frigorifero a rassodare. Si parla di frigorifero e non di freezer perché la regola, per i dolci con la gelatina al loro interno, non lo prevede, anche se poi, per una conservazione più lunga, il freezer viene utilizzato ugualmente. La crema inglese è anche la base di un buon gelato fatto in casa; è suf-
Spuma di zabaione al Moscato con fragoline di bosco (photo © lagallinavintagegiuliana.blogspot.com).
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La crema inglese (photo © chefbastien.fr).
Parfait di rabarbaro (photo © foodingrookie.wordpress.com). ficiente addizionarla, quando è ancora calda, a del cioccolato fondente o, quando è ormai fredda, ad un liquore, con l’aggiunta di panna liquida, e metterla nella gelatiera. Preparazioni più particolari sono i parfait. Per realizzarli occorre sbattere a lungo i soli rossi delle uova sui quali verrà colata, a filo, una miscela di acqua e zucchero preparata in un tegame sul fuoco e portata alla temperatura di 121 gradi (questa base è chiamata, con termini tecnici, pâte à bombe). I rossi, grazie al movimento continuo del frullino e allo sciroppo bollente che mano a mano viene versato sopra di loro fino al completo raffreddamento della massa, si gonfiano aumentando di volume. A questo punto, viene aggiunto il sapore che
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caratterizzerà il parfait: croccante di nocciola tritato, caffè, ecc…, e solo quando la miscela sarà ben raffreddata verrà unita la panna montata. Il parfait sarà pronto per andare in freezer dopo essere stato messo in uno stampo, meglio se da plumcake, foderato con pellicola. Gradevole da gustare e piacevole da vedere è il soufflé glacé. Il nome è inusuale perché, se si parla di soufflé, si pensa immediatamente alla preparazione classica che deve essere servita bollente quando esce dal forno per non smontare, mentre questo (glacé = gelato) è un dolce di facile esecuzione, realizzato con panna montata, albumi montati, zucchero, l’aggiunta di uno o più ingredienti volti a distinguerlo come un liquore,
uno sciroppo, una purea di frutta o altro. L’effetto soufflé del semifreddo si ottiene versando il composto nel classico stampo rivestito all’esterno con carta da forno che fuoriesce dal bordo e legata con spago perché non si pieghi, permettendo alla miscela, messa a gelare in freezer, di fuoriuscire dal contenitore, trattenuta però dalla carta che verrà tolta soltanto prima di servirlo. Delizioso, insolito e molto semplice da preparare è il cremoso, un dolce al cucchiaio diverso dalla mousse, di norma più leggera. Molto buono quello realizzato con una macedonia di frutta tagliata a pezzetti molto piccoli (a brunoise), condita con pochissimo succo di limone e servita ricoperta da una crema realizzata miscelando pari peso di yogurt bianco e mascarpone. È un fine pasto leggero, delicato e gustoso. Ricordiamo infine il mangia e bevi, costituito da una serie di strati di gelato di gusti diversi divisi da pan di Spagna o savoiardi imbibiti di liquore dolce, con meringhette tritate e panna montata assemblati di solito in una grande ciotola di vetro trasparente che va tenuta in freezer. Prima di portarlo in tavola lo si ricopre con frutta fresca tagliata a piccoli pezzetti. Una vera raffinatezza. Clara Scaglioni
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Dal Nord al Sud d’Italia i biscotti delle tradizioni più antiche per la festa del 2 novembre
Il topino d’Ognissanti e le ossa dei morti di Nunzia Manicardi
È
tradizione in Europa, e soprattutto in Italia, allestire dolci particolari nei giorni a ridosso del 2 novembre, celebrazione della festa dei Morti (ormai inglobata in quella del giorno precedente, festa d’Ognissanti, che, essendo festa ufficiale religiosa e con chiusura dei pubblici uffici, tende per questo ad assorbirla). Ancora oggi, in alcuni paesi d’Italia, la notte tra l’1 e il 2 novembre si pongono questi dolci su tavole imbandite, secondo l’antica credenza in base alla quale verranno frequentate dai propri defunti. I dolci appositamente concepiti e preparati per la festa dei Morti sono di solito biscotti oppure derivati del pane, del marzapane e del torrone. Contengono ingredienti semplici come farina, uova, zucchero e aromatizzanti; spesso vengono aggiunte mandorle finemente triturate e talvolta anche cioccolato, marmellata e frutta candita. Essi sono presenti, con poche varianti, come preparazioni casalinghe, artigianali o di pasticceria quasi ovunque nella Penisola italiana e i nomi attribuiti sono similari da Nord a Sud, tralasciando le forme dialettali. Sono nomi che ricordano la ricorrenza per cui vengono preparati (come le “fave dei morti”), non di rado la ricordano anche nella forma (per esempio quella ad osso). Un altro riferimento ricorrente è alle dita delle mani, mentre il dolce a forma di cavallo è probabilmente legato al mito di Proserpina, versione romana del mito greco di Persefone. Questo spiega appunto l’avvicendarsi delle stagioni calda e fredda, coincidente,
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Le “ossa dei morti” o “ossa di morto”, biscotti a forma di osso. alle nostre latitudini, con la data approssimativa del 2 novembre. Proserpina, figlia di Cerere (la dea della Terra), fu rapita da Plutone, re dell’Ade, mentre coglieva i fiori sulle rive del lago Pergusa, presso Enna, e trascinata sulla sua biga trainata da quattro cavalli neri. Ne divenne la sposa e fu regina degli Inferi. Ma la terra, senza di lei, gelava e non dava più frutti. Non c’era più vita, tutti i viventi morivano all’istante. Dopo che la madre Cerere ebbe chiesto a Giove di farla liberare, Proserpina poté ritornare in superficie, a patto che trascorresse sei mesi all’anno con Plutone. Ecco spiegato l’avvicendarsi delle stagioni: Cerere faceva calare il gelo durante i mesi in cui la figlia era assente, come segno di dolore, per poi risvegliare la natura al suo ritorno.
Il topino d’Ognissanti Il topino d’Ognissanti, dolcetto tipico di Comacchio, è un biscotto a forma di topino preparato solo l’1 e il 2 novembre. L’origine di questo biscotto, chiamato nel dialetto locale pùnghèn cmàscìaìs ad Sean Pièr, è legato alla leggenda dell’invasione dei topi presso il nuovo camposanto di Comacchio collocato in valle Raibosola secondo accordi presi in epoca napoleonica con i Francesi (che in quel periodo erano particolarmente attenti, per motivi d’igiene, a che i cimiteri fossero dislocati lontano dai centri abitati). Gli abitanti allora rivolsero appelli e preghiere alla Madonna, da sempre protettrice di Comacchio, perché proteggesse le salme dei defunti dai topi che si erano riversati in gran quantità nella valle a seguito della collocazione
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del cimitero. E a quanto pare le invocazioni ebbero buon esito poiché i topi scomparvero improvvisamente. Da qui il perdurare dell’usanza, durante la festività dei Morti e dei Santi, di preparare un numero di biscottini a forma di topo pari al numero dei componenti della famiglia, cosicché ciascuno possa esorcizzare quanto successo in passato mangiando il proprio topino. Il biscotto ha l’impasto della ciambella classica e la forma di un topino, decorato con gustose gocce di cioccolato. Le ossa dei morti Le “ossa dei morti” o “ossa di morto” sono anch’esse dei biscotti a forma di osso umano, come dice il nome. Talvolta vengono anche chiamati “ossa da mordere” italianizzando il piemontese ossa d’mort. Questi biscotti in Italia si trovano un po’ dovunque, con differenze regionali o strettamente locali. In Piemonte e Lombardia hanno consistenza dura, con mandorle e albume d’uovo. In Veneto hanno forma oblunga. In Sicilia sono non di rado ricoperti di cioccolato e, secondo la versione originaria, sono di consistenza molto secca e di colore bianco e marrone. Con zucchero, farina, albume e acqua di chiodi di garofano vengono chiamati anche “paste di garofano”. Molto spesso vengono confusi con le “mostacciole”, le quali, invece, sono fatte con un impasto di miele e spezie, come il chiodo di garofano. Sono presenti anch’esse in altre
Il topino d’Ognissanti, dolcetto tipico di Comacchio, è un biscotto a forma di topino arricchito con golose gocce di cioccolato.
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Le favette triestine (photo © acquolina-francesca.blogspot.com). regioni italiane, dove vengono dette pure “mostaccioli”. Le ossa di morto, infine, sono tipicamente presenti nel Senese, con origine a Montepulciano. Di consistenza friabile e di forma rotonda, sono impastate con le mandorle tritate. Le fave dei morti Altrove nella Penisola troviamo invece le “fave da morto” o “fave dei morti” o “fave dolci”, che sono pasticcini alla mandorla, di forma ovoidale e schiacciata, cosparsi di zucchero a velo. Hanno l’aspetto di un amaretto, ma presentano una consistenza maggiore. Si trovano soprattutto in Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia, Marche e Umbria. Il riferimento alla fava, oltre che alla forma del dolcetto, è dovuto al fatto che nell’area mediterranea generalmente la sua semina è praticata in autunno, tra novembre e
dicembre, quindi viene ad aggiungersi anche il significato di propiziazione del successivo raccolto. Le favette dei morti Differenti, seppur sempre a base di mandorla, sono invece le “favette dei morti”, presenti un po’ in tutto il Nord-Est, ma soprattutto in Veneto, a Trieste e in Friuli. Sono di tre colori (panna, marrone e rosa) e variano dal croccante al morbido (favette triestine). Pan dei morti Il pan dei morti è un dolce tipico lombardo, molto antico, preparato per rendere omaggio alle persone care scomparse e diffuso in tutto il Nord d’Italia. Viene preparato con ingredienti semplici come farina, zucchero, uova, frutta secca e cacao. Nunzia Manicardi
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Le fave dei morti secondo Pellegrino Artusi PELLEGRINO ARTUSI, nel suo celebre libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, ne riporta ben tre varianti, facendole precedere da un’introduzione molto interessante che parla del significato originario: “Queste pastine sogliono farsi per la commemorazione dei morti e tengono luogo della fava baggiana, ossia d’orto, che si usa in questa occasione cotta nell’acqua coll’osso di prosciutto. Tale usanza deve avere la sua radice nell’antichità più remota poiché la fava si offeriva alle Parche, a Plutone e a Proserpina, ed era celebre per le cerimonie superstiziose nelle quali si usava. Gli antichi Egizi si astenevano dal mangiarne, non la seminavano, né la toccavano colle mani, e i loro sacerdoti non osavano fissar lo sguardo sopra questo legume stimandolo cosa immonda. Le fave, e soprattutto quelle nere, erano considerate come una funebre offerta, poiché credevasi che in esse si rinchiudessero le anime dei morti, e che fossero somiglianti alle porte dell’inferno. Nelle feste Lemurali si sputavano fave nere e si percuoteva nel tempo stesso un vaso di rame per cacciar via dalle case le ombre degli antenati, i Lemuri e gli dei dell’inferno. Festo pretende che sui fiori di questo legume siavi un segno lugubre e l’uso di offrire le fave ai morti fu una delle ragioni, a quanto si dice, per cui Pitagora ordinò a’ suoi discepoli di astenersene; un’altra ragione era per proibir loro di immischiarsi in affari di governo, facendosi con le fave lo scrutinio nelle elezioni. Varie sono le maniere di fare le fave dolci; v’indicherò le seguenti: le due prime ricette sono da famiglia, la terza è più fine. Prima ricetta • 200 g di farina • 100 g di zucchero • 100 g di mandorle dolci • 30 g di burro • 1 uovo • odore di scorza di limone, oppure di cannella, o d’acqua di fior d’arancio Seconda ricetta • 200 g di mandorle dolci • 100 g di farina • 100 g di zucchero • 30 g di burro • 1 uovo • odore, come sopra Terza ricetta • 200 g di mandorle dolci • 200 g di zucchero a velo • 2 chiare d’uovo • odore di scorza di limone o d’altro Procedimento Per le due prime sbucciate le mandorle e pestatele collo zucchero alla grossezza di mezzo chicco di riso. Mettetele in mezzo alla farina insieme cogli altri ingredienti e formatene una pasta alquanto morbida con quel tanto di rosolio o d’acquavite che occorre. Poi riducetela a piccole pastine, in forma di una grossa fava, che risulteranno in numero di 60 o 70 per ogni ricetta. Disponetele in una teglia di rame unta prima col lardo o col burro e spolverizzata di farina; doratele coll’uovo. Cuocetele al forno o al forno da campagna, osservando che, essendo piccole, cuociono presto. Per la terza seccate le mandorle al sole o al fuoco e pestatele fini nel mortaio con le chiare d’uovo versate a poco per volta. Aggiungete per ultimo lo zucchero e mescolando con una mano impastatele. Dopo versate la pasta sulla spianatoia sopra a un velo sottilissimo di farina per poggiarla a guisa di un bastone rotondo, che dividerete in 40 parti o più per dar loro la forma di fave che cuocerete come le antecedenti”.
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Il biscotto a regola d’arte Piccolo viaggio alla scoperta del biscotto artigianale in Italia di Riccardo Lagorio
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n i z i a l’autunno: le serate che ci condurranno fino a Natale sono l’ideale contesto in cui concedersi dei momenti dolci. Dolci come biscotti: eccone alcuni che non possono mancare nelle nostre case e sugli scaffali dei nostri lettori. Così, per espressa volontà della nostra editrice, abbiamo da oltre un anno preparato questo viaggio virtuale attraverso quei forni che ci garantiscono un elevato grado di artigianalità e materie prime altamente selezionate. Siamo partiti da Cella Monte, nel Monferrato dove un piccolo laboratorio sforna una ventina di tipologie di biscotti. È ROSELLA BRAMBILLA (il cognome ne tradisce le origini meneghine) ad aprire ogni giorno dell’anno la minuscola bottega e ad inventarsi nuovi impasti e inediti abbinamenti. Vent’anni fa ha lasciato Milano e si è inventata un’altra vita nella tranquillità di questo borgo. I suoi punti forti sono la manualità nella produzione e l’utilizzo di materia prime il più naturali possibile: niente margarina e grassi idrogenati, burro affidabile in
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modeste quantità e l’idea fissa che il biscotto deve essere non solo buono ma anche sano. Per questo presto verrà introdotta la stevia come dolcificante. Biscotti al mais, integrali, con uvetta: tutti superlativi. Tuttavia ci hanno soprattutto sorpreso i tufetti al riso, minuscoli parallelepipedi irregolari e rugosi, ideali per spezzare la fame di dolce. Una lavorazione che guarda con occhio attento alla salute è pure quella di ONORATO POLLO, pasticceria vercellese. In verità da questo laboratorio escono almeno due dozzine di preparazioni che si rifanno alla tradizione piemontese: dai bicciolani (biscottini rigati e speziati da cannella) ai baci di dama (dove predomina la nocciola piemontese), dai pasticcini di meliga agli assabesi (con cacao). Tuttavia, rivestono particolare valore nutrizionale quelli confezionati con farina di riso e latte d’asina (che proviene dall’Azienda Agricola Balansino di Arona), privi di lattosio e glutine e adatti quindi a soggetti allergici a tali sostanze.
Il latte d’asina sostituisce la funzione emulsionante del burro e al contempo offre all’impasto leggerezza e friabilità. Ideali quelli tradizionali per caffè e tè, squisiti questi con lo zabaione; tutti perfetti per un fine pasto o un intimo dopo cena. Biscotto che appartiene all’altra autorevole scuola dolciaria italiana, quella toscana, anzi pratese, è il cantuccio. Sulle colline del capoluogo il giovane STEFANO PAGLI ha rilevato uno storico forno della zona, l’Antico Forno Santi e, applicando con rigore artigianale la ottocentesca ricetta, continua la produzione arrotolando strisce di pasta e tagliandole a mano. A molti metri dall’entrata del laboratorio vi sorprenderà il prepotente profumo di mandorle, mandorle baresi, le migliori. La peculiarità del biscotto è la consistenza, che Pagli ha voluto ovviare dando vita a originali cantucci ai fichi, alle albicocche o alle susine. Ma, per togliersi uno sfizio speciale, bisognerà puntare sulla versione al cioccolato bianco, che ha un periodo
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di vita consigliato di cinque giorni per coglierne la fragranza. Il prodotto è esibito in enormi ceste, accatastando come in un miracolo i biscotti. In Garfagnana, il farro ha donato nei secoli ricchezza e benessere. Dal farro la farina per ottimi biscotti, denominati farrini nel Biscottificio Alfreda Ginestri da parte di MASSIMILIANO D EL C ARLO , figlio della fondatrice. Un panificio fondato durante la seconda guerra mondiale, un’esperienza e una passione per la tradizione che negli anni Settanta diventa patria dei biscotti garfagnini, utili a naturali prime colazioni tra frollini e, appunto, farrini. Burro e uova locali sanciscono l’idea che le piccole comunità rappresentano il vero punto forte del nostro Paese. Accade anche nei frollini della Pasticceria Roflè, molto nota agli amanti del panettone. LEONARDO DI ROSIELLO utilizza, va da sé, nel cuore del foggiano, come unica materia grassa l’olio extra vergine di oliva. L’impasto prevede uova fresche (non confezioni di uova), farina 00, zucchero, succo di limoni spremuti al momento, lievito e olio. Un biscotto d’altri tempi, insomma, senza conservanti.
Caschettes, dolce tradizionale di Belvì, in provincia di Nuoro. Come senza conservanti le delizie da tè del Panificio Stella di Velo d’Astico (VI), dove l’espansione dal pane alla piccola pasticceria è stato un passaggio obbligato dettato dalla crisi del pane fresco nata nei primi anni Duemila. Ampia e articolata la gamma: biscotti rustici, integrali, zaleti, krumiri e specialità di piccola pasticceria che comunica un’elevata manualità.
Aziende artigiane dolciarie I biscotti della Signora Brambilla Via Dante Barbano 22 15034 Cella Monte (AL) Telefono: 0142 488958 L’Onorato Pollo Caffè Pasticceria Via Torquato Tasso, 71 13012 Borgo Vercelli (VC) Telefono: 0161 32161 E-mail: info@onoratopollo.it Web: www.onoratopollo.it Pasticceria Roflè Piazzale Antonio Salandra 8 71029 Troia (FG) Telefono: 0881 970237
Antico Forno Santi Biscottificio di Migliana Srl Località Migliana 156-158 59025 Cantagallo (PO) Telefono: 0573 367428 E-mail: info@biscottisanti.com Web: www.biscottisanti.com Panificio Stella Via della Tecnica 13 36010 Velo d’Astico (VI) Telefono: 0445 741266 E-mail: info@panificiostella.it Web: www.panificiostella.it Dolciaria Arangino Viale IV novembre 70 08030 Belvì (NU) Telefono: 0784 629681
Biscottificio Alfreda Ginestri Località Pianaccia, 142 55032 Castelnuovo di Garfagnana (LU) Telefono: 0583 62211 E-mail: biscottificioginestri@virgilio.it Web: http://biscottificioginestri.weebly.com
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Ceppi batterici isolati sul territorio, notoriamente ventoso, contraddistinguono i biscotti confezionati in eleganti incarti di Dolciaria Arangino. Nelle giornate caratterizzate dalle brume autunnali vi daranno calore familiare le caschettes, dolce avvinto alla tradizione barbaricina di Belvì. Boschi secolari dove si incontrano castagni, noccioleti, noci e ciliegieti già noti ai viaggiatori ed agli storici del Settecento. Risalgono al secolo precedente le prime informazioni su questo delicatissimo dolce, presentato nelle occasioni più importanti della vita sociale della comunità: dai matrimoni, quando veniva offerto dallo sposo alla sposa, alle manifestazioni d’affetto, significando buon auspicio al ricevente. Uno degli aspetti fondamentali della preparazione è ancora oggi la trasformazione manuale della leggera sfoglia, affidata alle mani delle donne belviesi che ne traggono un’architettonica composizione floreale, e dell’originale impasto a base di miele, mandorle tritate e buccia d’arancia. Dolce che, anche per valenza simbolica, ci traghetterà a pieno titolo verso il periodo natalizio. Riccardo Lagorio Nota A pagina 106 cantuccio ai fichi dell’Antico Forno Santi di Cantagallo (Prato).
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Tecnologie Un successo della CSB-System
Francia, automatizzazione della gestione dei macelli e dei processi di classificazione dei suini
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OUEST è un’organizzazione francese con sede a Plérin in Bretagna, nella Francia nord-occidentale, che svolge gran parte delle attività legate alla commercializzazione delle carcasse suine per conto dei produttori. Si occupa, in particolare, della classificazione e della pesatura delle mezzene. Quasi 20 milioni dei 24 milioni totali di suini macellati in Francia, vale a dire oltre l’80% della produzione nazionale, vengono classificati e pesati da Uniporc Ouest. Anche la fatturazione per gli allevaNIPORC
tori suini è realizzata dalle soluzioni software di Uniporc Ouest. Descrizione del progetto Nel 2007, Uniporc Ouest ha iniziato a ricercare nuove tecnologie con lo scopo di trovare soluzioni alternative alle procedure di classificazione invasive, che potessero al contempo ridurre i costi aziendali. A tal fine, sono stati messi a confronto differenti sistemi per la classificazione automatizzata dei suini. Questo studio comparativo è iniziato ufficialmente nel 2008 in tre macelli della Bretagna: Kermené,
Cooperl Lamballe e Socopa Evron. Sono state classificate 100.000 carcasse suine ed i risultati provenienti dagli strumenti di classificazione in esame sono stati messi a confronto con la banca dati di referenza dei risultati di classificazione, utilizzata da molti anni nei macelli francesi. In quest’occasione, in collaborazione con l’IFIP (Institut de la Filière Porcine), i diversi fornitori hanno certificato ufficialmente l’impiego in Francia dei propri strumenti di classificazione. I risultati dell’analisi effettuata da Uniporc Ouest hanno messo in evidenza
Il nuovo sistema di classificazione di CSB-Image-Meater® che ha rappresentato la seconda fase nel progetto di Uniporc Ouest.
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vantaggi e svantaggi di ogni strumento di classificazione. La comparabilità dei risultati per la quota di magro tra i diversi macelli e, soprattutto, l’affidabilità del dato nella ripetizione delle misurazioni sullo stesso suino hanno contraddistinto positivamente il CSB-Image-Meater® nel confronto diretto con la banca dati di referenza di Uniporc Ouest. Grazie all’interesse suscitato per il CSB-Image-Meater®, Uniporc Ouest ha proseguito le analisi su questo strumento. Il consiglio di amministrazione di Uniporc Ouest ha scelto il macello del gruppo GADGruppe a Lampaul Guimiliau per eseguire ulteriori test. Anche qui i risultati hanno evidenziato un’eccellente correlazione con i risultati dei test eseguiti nei macelli precedentemente citati. CSB-System: un successo oltre le attese Quasi contemporaneamente Uniporc Ouest ha deciso di rinnovare il sistema di controllo e gestione delle linee di macellazione utilizzato per il monitoraggio e la gestione delle carcasse suine, poiché la manutenzione del software in uso, con relativo hardware, diventava sempre più costoso, sia per l’età del materiale che per il peggioramento dei tempi di reazione. Uniporc Ouest si è rivolta, quindi, a differenti aziende di software, allo scopo di sostituire la gestione delle linee di macellazione, ancor prima di scegliere un sistema di classificazione. L’immagine positiva suscitata dalla tecnologia del CSBImage-Meater®, sviluppato dalla CSBSystem, ha fatto in modo che Uniporc Ouest contattasse la CSB-System
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anche per riorganizzare il sistema di gestione delle linee di macellazione. Dopo numerosi incontri e visite alle aziende di referenza, alla fine del 2008 il progetto di Uniporc Ouest è stato affidato alla CSB-System. Un progetto in due fasi Prima fase: il sistema di gestione delle linee di macellazione (CCM) All’inizio del progetto, Uniporc Ouest non aveva alcuna specifica tecnica. Diversamente, i dipendenti coinvolti nel progetto padroneggiavano perfettamente le funzionalità esistenti, ma richiedevano un’impostazione specifica per ogni macello. Dopo numerosi incontri volti a definire le basi e le regole essenziali di gestione, è stato possibile avviare la programmazione dell’applicazione CCM (Control Configuration Manager della CSB). Affinché i test e la successiva conferma delle funzionalità potessero essere eseguiti nelle condizioni migliori, Uniporc Ouest ha costruito un modello di riferimento della linea di macellazione nel seminterrato dell’edificio di Plérin, sul quale sono stati installati i componenti necessari per la gestione della linea. Il modello era composto dai seguenti elementi e periferiche: • un impianto trasportatore motorizzato per le carcasse suine con convogliatori e cilindro/deviatoio per distanziare correttamente le carcasse; • due bilance dinamiche dello stesso tipo di quelle utilizzate nei macelli; • una bilancia statica per l’elaborazione delle carcasse escluse (ispezione veterinaria, osserva-
zione tecnica); tre strumenti di classificazione con ago (due per catena di macellazione con 850 suini all’ora e l’altra per gli animali esclusi); • una stazione per la gestione dei dati allevatore e macellazione per simulare l’interfaccia e lo scambio di dati con il futuro sistema di gestione delle linee; • una stazione per simulare l’interfaccia per lo scambio di dati con i macelli; • un monitor per simulare la visualizzazione nel macello e il collegamento con la stampante a inchiostro, con la quale stampare per ogni suino la classifica e i dati sulla rintracciabilità. Per inserire on-line, controllare e ricostruire i dati nel nuovo sistema, la CSB-System ha installato inoltre: • un sistema per il monitoraggio della velocità della guidovia; • un PLC; • sensori per trasportatore e ganci; • un segnale luminoso per simulare le esclusioni (per l’ispezione veterinaria o tecnica); • un vano per il server industriale, collegamenti rete Ethernet, collegamenti seriali (bilance, strumenti di classificazione, stampanti a inchiostro, monitor macello); • una postazione impermeabile (Rack CSB) con touch-screen per l’associazione del marchio animale al codice macellazione e l’inserimento dei dati qualità nella zona ricevimento; • una postazione impermeabile (Rack CSB) con touchscreen per l’elaborazione dei suini sotto osservazione. •
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nard Locminé, Charal Sablé, Gatine Viandes, Socopa Chateauneuf, Loudéac Viandes, Abera, Cooperl Saint Maixent, Bigard Quimperlé). Attualmente quindi i primi 18 maggiori macelli in Francia classificano i loro suini con il CSB-Image-Meater®.
La classificazione con CSB-Image-Meater®. Il monitoraggio e gestione della linea è un punto molto importante perché costituisce l’elemento necessario per la rilevazione dei dati per la fatturazione allevatori e per la trasmissione dei dati al macello. Una sospensione delle linee di macellazione, anche solo per pochi minuti, può portare a gravi conseguenze e costi aggiuntivi. Per questo motivo, i componenti elettronici per il miglioramento della sicurezza e per l’eliminazione dell’arresto delle linee di macellazione sono stati installati doppiamente. Al fine di garantire la qualità delle impostazioni, le bilance e gli strumenti di misurazione sono stati testati ad inizio e fine giornata e durante la pausa. I risultati dei test sono stati salvati in memoria e archiviati allo stesso modo dei dati aziendali. La stessa configurazione del sistema è stata installata parallelamente nel macello GAD a Lampaul-Guimiliau, definita come sede pilota, dove il sistema di gestione della linea di macellazione è confermato. La programmazione del sistema di gestione delle linee di macellazione è iniziata nel marzo 2009, in base ad un metodo iterativo che ha portato a numerosi sviluppi nel corso della fase di programmazione. Nel novembre del 2009 il nuovo sistema è stato implementato con successo presso il macello GAD. Nel gennaio del 2010 è stato installato nei 27 macelli gestiti da Uniporc Ouest. Durante questa fase il sistema è stato ulteriormente
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sviluppato sulla base delle particolarità specifiche dei vari macelli o in base alle variazioni di configurazione della linea di macellazione. Alla fine di novembre 2010 tutti i macelli hanno iniziato a lavorare con il nuovo sistema di controllo e gestione della CSB-System. Seconda fase: CSB-Image-Meater® un nuovo sistema di classificazione automatico Per proseguire l’analisi dei risultati e il funzionamento su una linea produzione, nel 2009 è stato installato in test lo strumento di classificazione CSB-Image-Meater®, assieme al sistema di controllo e gestione delle linee di macellazione, presso il macello GAD a Lampaul-Guimiliau. Con quest’installazione pilota sono stati raccolti dati all’interno di un intervallo temporale di 18 mesi, al fine di testare ulteriormente l’affidabilità dei vari componenti nell’ambito della produzione. Nel 2011 dopo aver esaminato i dati di più di 2 milioni di carcasse, Uniporc Ouest ha deciso di proseguire l’installazione del CSBImage-Meater® in altri 6 macelli (Cooperl Lamballe, GAD Lampaul, GAD Josselin, Socopa Evron, Kermené, Tradival Orléans). I macelli sono stati selezionati con cura sulla base delle loro particolarità per quel che riguarda il trasporto, lo spazio, la velocità. Nel 2012 è stata effettuata l’installazione nei rimanenti 12 macelli (Cooperl Montfort, Socopa Celles/Belle, AIM Sainte Cécile, Bigard Saint Pol, Ber-
Il CSB-Image-Meater® Il CSB-Image-Meater® è composto dalle seguenti periferiche: • videocamera; • PC per l’analisi a video; • unità d’illuminazione; • unità per il posizionamento della carcassa; • sensore per la rilevazione del passaggio del gancio; • campione per la calibratura. Questo strumento di classificazione è collegato in rete al CCM in modo che possa essere trasmesso il codice macellazione confermato precedentemente all’entrata della linea sul PLC e che si possa comunicare il rispettivo risultato della classificazione. Tutti i dati sono raccolti in un’unica banca dati e trasmessi in tempo reale a sistemi terzi (Uniporc Ouest ed i macelli). All’inizio del 2013 la formula del CSB-Image-Meater® per il calcolo della quota di magro è stata aggiornata ai risultati ottenuti nel 2012 su più di 5 milioni di suini. A febbraio e marzo, prima del passaggio in reale in contemporanea dei 18 Image-Meater previsto per il secondo trimestre del 2013, sono stati eseguiti gli ultimi controlli. La formula di classificazione dell’IFIP-Insitut in Francia è stata presentata agli esperti del comitato di gestione carne suina e pubblicata nel bollettino ufficiale dell’UE.
Referente: • Dott. A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (Verona) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: segreteria@csb-system.it Web: www.csb-system.it
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Storia e cultura
L’arte di dar da pranzo Una mostra racconta la tradizione culinaria italiana attraverso le opere più significative degli ultimi cinque secoli di Lorena Gallina
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al 4 al 30 aprile scorsi si è tenuta a Milano, presso la Sala Maria Teresa della Biblioteca Braidense (www. braidense.it), la mostra bibliografica “L’arte di dar da pranzo. A tavola in Braidense”, ideata e curata da CECILIA ANGELETTI e PATRIZIA CACCIA, con la collaborazione di MARIELLA GOFFREDO e MARINA ZETTI. In concomitanza con l’esposizione si sono svolti sei incontri dedicati a cibo, storia e società, nell’ambito del progetto “Dalla terra alla tavola, vita in cucina”, di cui la Biblioteca è uno dei partner promotori. La mostra è stata un’occasione davvero interessante per i cultori e gli studiosi di cucina che nella prestigiosa location di via Brera hanno potuto ammirare un centinaio di ricettari databili fra il Cinquecento e il 1945. Sulla scorta del notevole interesse suscitato dal mondo della gastronomia negli ultimi anni, la mostra ha cercato di ricostruire e far conoscere al pubblico la tradizione culinaria italiana che affonda le sue radici negli ultimi cinque secoli della nostra storia.
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Il materiale esposto proviene dagli scaffali della Biblioteca che possiede un ricco e prezioso fondo di gastronomia nel quale sono conservati esemplari di opere che custodiscono la tradizione della buona tavola italiana. Risulta interessante soffermarsi proprio sulle opere più antiche che compongono la gran parte del percorso espositivo: quest’ultimo si apre con un esemplare del celeberrimo APICIO ovvero il “De re culinaria libri decem”, che la Biblioteca possiede in un’edizione del 1541 (Lugduni [Lione]: apud Seb. Gryphium). Qui l’autore cita il garum, una salsa a base di pesce salato che gli antichi Romani utilizzavano come condimento per molti dei loro piatti. Il vocabolo è di etimologia incerta: si ipotizza che possa derivare dal termine greco garos o garnon, il pesce di cui si utilizzavano le interiora nella preparazione della ricetta stessa. Purtroppo le notizie su questa salsa sono frammentarie e contraddittorie e lo stesso Apicio la cita senza tramandarne la ricetta. Alcuni sostengono che essa fosse simile alla pasta d’acciughe, altri la
paragonano al liquido della salamoia delle acciughe sotto sale ma ad oggi non è possibile definire con precisione quali fossero gli ingredienti e il metodo di realizzazione. Di seguito si trova una copia del “De honesta voluptate et valetudine”, nella prima edizione romana del 1474, di BARTOLOMEO SACCHI detto IL PLATINA, che deve il suo nome alle origini mantovane derivanti dalla cittadina di Piadena dove nacque nel 1421. Raffinato umanista e precettore presso numerose famiglie della nobiltà del tempo, si trasferì a Roma nel 1461 dove, dopo alterne fortune, nel 1478 venne nominato direttore della Biblioteca Vaticana da papa Sisto IV. Nel “De honesta voluptate” l’autore trascrive in latino tutte le ricette, originariamente in volgare, di MAESTRO MARTINO, il più celebre cuoco del XV secolo del quale si lodano il talento e l’inventiva in cucina nonché la notevole cultura. Nell’opera si accenna anche all’importanza della dieta e dell’attività fisica per mantenere il corpo in salute e si attribuisce grande valore al cosiddetto “cibo del
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territorio”, antesignano della attuale cucina regionale. La mostra si sofferma poi sulla messa a punto dei banchetti nel XVI secolo, che costituivano una vera e propria rappresentazione teatrale nella quale la scenografia giocava un ruolo significativo, dall’apparecchiatura al servizio delle vivande in tavola. A tal proposito è possibile ammirare il “Libro novo nel qual s’insegna a far d’ogni sorte di vivande secondo la diversità dei tempi così di carne come di pesce. Et il modo d’ordinar banchetti, apparecchiar tavole, fornir palazzi, & ornar camere per ogni gran Prencipe. Opera assai bella, e molto bisognevole à Maestri di Casa, à Scalchi, à Credenzieri, & à Cuochi” di CRISTOFORO DA MESSISBUGO (Venezia, 1564). Il Messisbugo, nato a Ferrara sul finire del ‘400, occupò importanti incarichi presso la corte degli Estensi, in veste di amministratore di fondi ducali e soprattutto in qualità di scalco, tanto da meritarsi il titolo di Conte
Palatino, concessogli dall’imperatore Carlo V nel 1533. A Ferrara nel 1549, un anno dopo la sua scomparsa, venne pubblicata la sua opera, più volte ristampata fino ai primi decenni del ‘600. Il trattato è suddiviso in tre parti: un discorso introduttivo sull’arte dell’apparecchiare la tavola, un catalogo di dieci cene, tre desinari e un festino, descritti in tutte le loro fasi con le relative liste di bevande e una raccolta di oltre trecento ricette. L’opera costituisce una miniera di notizie sul cibo, con preparazioni a volte elaborate e spettacolari, che ben degnamente figuravano nei banchetti di corte. Da segnalare poi quella che viene considerata la prima guida gastronomica italiana, a cura dell’umanista ORTENSIO LANDO (Venezia, 1548), il “Commentario delle più notabili, et mostruose cose d’Italia, et altri luoghi…” che contiene “un breve catalogo delli inventori delle cose, che si mangiano” che passa in rassegna
le bellezze del nostro Paese insieme ai piatti tipici della cucina locale. Lo scalco protagonista Un’ampia parte della mostra espone trattati dedicati alla figura dello scalco ovvero il soprintendente delle cucine principesche al quale spettava selezionare e dirigere i cuochi e la servitù, provvedere alla mensa quotidiana del signore, con il quale teneva personalmente i rapporti, rifornirne la dispensa, organizzare i banchetti nei minimi dettagli. La rassegna di testi a tema si apre con la famosa “Opera” di BARTOLOMEO SCAPPI, data alle stampe per la prima volta a Roma nel 1570: in mostra è possibile ammirare l’edizione veneziana del 1643. Lo Scappi, la cui biografia resta molto difficile da ricostruire, nacque probabilmente nei primi anni del XVI secolo (difficile stabilire dove: forse a Bologna oppure a Venezia o a Varese) e morì a Roma intorno al 1570: prestò servizio presso
Racconto illustrato del banchetto organizzato da Bartolomeo Scappi durante il conclave svoltosi dal 29 novembre 1549 al 7 febbraio 1550 da cui uscì eletto papa Giulio III e che lo Scappi ricorda ampiamente nel suo trattato.
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molti personaggi in vista fra i quali il cardinale Lorenzo Campeggi, in onore del quale realizzò un banchetto nel 1536, papa Paolo III ed infine papa Pio V del quale si definisce cuoco segreto ovvero privato. Lo Scappi viene considerato un precursore della cucina moderna poiché nella sua poderosa Opera in ben sei volumi, raccoglie precetti di tecnica culinaria e di conservazione degli alimenti nonché principi di dietetica e igiene per persone ammalate o inferme. Anche le ricette risultano innovative rispetto alla gastronomia medievale: lo Scappi introduce infatti per la prima volta alcuni prodotti provenienti dalle Americhe e predilige l’uso della carne d’allevamento come pollo, manzo e suino anziché la tradizionale selvaggina piumata. È poi visibile in mostra “La singolar dottrina di M. Domenico Romoli…nel qual si tratta dell’officio del scalco” del PANUNTO, al secolo DOMENICO ROMOLI (Venezia, 1610): le scarne notizie relative alla vita del gentiluomo fiorentino, esperto di cucina come della vita di corte, sono ricavabili dalla sua stessa opera, suddivisa in due parti. Nella prima vengono descritti i compiti dello scalco,
Interno di una cucina italiana, fac-simile di una xilografia dal libro di Cristoforo da Messisbugo.
Trinciante. Il trinciante da tinello (da non confondere con il trinciante, di rango superiore) si occupava della preparazione delle carni, tagliandole abilmente prima della loro messa al fuoco.
i modi con cui gestire i rapporti con il signore e i sottoposti della cucina, le regole per organizzare un buon banchetto, i menu e la natura di carni e pesci. Nella seconda parte l’autore si occupa della qualità dei prodotti, dei regimi dietetici e degli effetti che le vivande possono avere sulla salute: curiosi i commenti sulle proprietà di alcuni cibi, ritenuti afrodisiaci. “Lo scalco alla moderna” di ANTONIO LATINI (Napoli, 1694) può essere considerato la summa della letteratura gastronomica precedente, dagli esordi della gastronomia umanistica ai grandi trattati di età rinascimentale. Di origini marchigiane (nacque nei pressi Fabriano nel 1642), il Latini tentò la fortuna trasferendosi a Roma da adolescente: nella capitale fu a servizio presso il cardinale Antonio Barberini e nelle sue cucine si guadagnò il titolo di scalco in giovane età. Concluse la sua carriera a Napoli, alle dipendenze di Esteban Carillo Salsedo. Qui diede alle stampe la sua
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monumentale opera che spazia dai compiti dello scalco e del trinciante alle istruzioni sull’organizzazione della cucina, dalla preparazione dei banchetti all’arte dell’imbandire le tavole e realizzare i trionfi. Sono presenti anche moltissime ricette (dagli arrosti ai bolliti ai fritti alle salse alle conserve), nozioni di dietetica nonché i primi accenni a quella che diventerà la cucina napoletana: basti citare la ricetta della “salsa di pomodoro alla spagnuola” con cipolla, timo, sale, olio e aceto. Il Latini cita per la prima volta anche il peperone e invita all’uso dei profumi dell’orto con i quali sostituire le spezie di provenienza orientale. Alla cucina partenopea sembrano appartenere anche le preparazioni a base di pasta nonché la ricetta del sorbetto di limone; merita di essere ricordata l’appendice al primo volume, una sorta di atlante dei prodotti della cucina del Sud Italia, che spazia Premiata Salumeria Italiana, 5/13
dalle olive di Gaeta ai cocomeri di Orta all’olio d’oliva del Salento. Il trinciante e l’arte del taglio delle carni La mostra prosegue con una sezione di trattati dedicati alla figura del trinciante, colui che si occupava di tagliare le carni nella sala stessa del banchetto per poi procedere alla spartizione e assegnazione delle parti in base al prestigio dei commensali. Dal XVI secolo l’arte viene formalmente codificata e assume caratteri spettacolari: spesso la carne veniva tagliata “al volo” tenendola sospesa a mezz’aria infilata in un apposito forchettone. Caposaldo della trattatistica del settore è “Il trinciante” di VINCENZO CERVIO, stampato per la prima volta a Venezia nel 1581 (in mostra in una edizione veneziana del 1593), che passa in rassegna gli attrezzi da cucina e tratta in modo esaustivo l’argomento tanto che verrà imitato più volte; in mostra è presente anche il “Dialogo del trinciante” di CESARE EVITASCANDALO (Roma, 1609). Dal Manzoni alle ricette di Petronilla Non poteva mancare una vetrina di stampe dedicata a “I promessi sposi” di ALESSANDRO MANZONI, del quale la Biblioteca conserva gelosamente un ampio fondo, dal carteggio a nume-
rosi saggi critici ad opere in edizione pregiata. Le stampe raffigurano il banchetto di nozze di Renzo e Lucia e mettono a confronto, in modo significativo, la tavola dei potenti e quella degli umili. La mostra getta uno sguardo anche sul Settecento: a tal proposito sono visibili “Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi” (Torino, 1766) e “La cucina pitagorica” di VINCENZO CORRADO (Oria 1736 - Napoli 1836), che viene considerato il primo libro dedicato alla cucina vegetariana (Napoli, 1781). Nel XVIII secolo si assiste ad un cambiamento epocale nel servizio in tavola che passa da quello alla francese, in cui le vivande venivano collocate sul tavolo tutte insieme mentre i camerieri si occupavano di servire il vino, a quello alla russa in cui le portate, decise dal padrone di casa, vengono servite una per una. La mostra si spinge fino a “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di PELLEGRINO ARTUSI, pietra miliare della gastronomia moderna, pubblicata per la prima volta nel 1891, senza successo, e poi rieditata per oltre un secolo. Due i meriti principali dell’Artusi: l’aver contribuito alla conoscenza e alla diffusione della cucina regionale italiana, dando importanza ai prodotti del territorio, e l’aver scelto come pubblico non più
“La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi.
Premiata Salumeria Italiana, 5/13
Con lo pseudonimo di Petronilla, Amalia Moretti ha pubblicato diversi volumi di ricette, raccolte anche nella “Collana di perline della Petronilla”, per la casa editrice Sonzogno di Milano. quello degli addetti ai lavori bensì quella borghesia composta da massaie e donne comuni che avevano a che fare con l’incombenza quotidiana di preparare il pranzo per la loro famiglia. Dall’Artusi all’invenzione della cucina economica, una vera e propria rivoluzione tecnologica, fino all’avvento delle pentole in alluminio anziché in rame, si arriva ai Manuali Hoepli dedicati alle donne, le vere protagoniste del Novecento in cucina. La mostra si conclude con una serie di ricettari fra i quali vale la pena ricordare il “Ricettario per alimentazione popolare” dell’Associazione Nazionale Cucinieri, edito a Milano nel 1917 e dedicato al pubblico borghese, insieme alle rubriche de “La domenica del corriere” a cura del dottor Amal e agli agili manualetti di Petronilla: dietro questi pseudonimi si nascondeva in realtà AMALIA FOGGIA MORETTI (1872-1947), singolare figura di donna medico e cuoca. Lorena Gallina Nota A pagina 112 pentola di rame con tre piedi illustrata nel libro dello Scappi.
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VIP, Visti Io Personalmente
Nei cieli non esistono galere di Angelo Valentini
S
ono un assiduo frequentatore dei mercatini dell’antiquariato e, da bibliofilo quale sono, rivolgo soprattutto la mia attenzione alle bancarelle del libro usato (il più delle volte mai letto da chi lo possedeva). L’ultimo acquisto di un libro intonso che considero di estrema attualità, sebbene uscito in seconda edizione da Rizzoli nel 1993, con una prefazione dell’autore risalente al 1947, è “Italia provvisoria” di GIOVANNINO GUARESCHI. Un profeta, un veggente, perché nonostante sia passato mezzo secolo nulla è cambiato: tutto è provvisorio, le leggi, l’economia, la moneta. Il sistema è talmente ingarbugliato che ognuno di noi, indipendentemente dalla condizione sociale, ha bisogno di un patronato o di un commercialista per tutelare i propri interessi (anche se modestissimi). Consentita questa scivolata in politica da chi mi legge e dalla bontà dell’editore che non mi ha mai censurato, ritengo che la premessa fosse necessaria per parlarvi del personaggio/VIP protagonista della mia rubrica in uscita in ottobre. Proprio il mese di ottobre mi ricorda una serie di date significative, prima fra tutte la ricorrenza dei miei 50 anni di matrimonio, le famose nozze d’oro. Negli anni ‘50-‘60 dirigevo delle aziende agricole di una certa importanza in provincia di Modena e Reggio Emilia e, non rispettando la regola che dice “moglie e buoi dei paesi tuoi”, sposai Idilia, una scandianese Doc, rezdòra nel senso più nobile del termine. Una data in particolare mi è cara: il 6 ottobre 1964, primo anniversario del nostro matrimonio, assieme ad una coppia di amici scegliemmo di festeggiare alle Roncole di Busseto, vicino alla casa del grande Giuseppe
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Verdi, ove Giovannino Guareschi aveva aperto un ristorante con la sua famiglia. Fu una serata memorabile, di quelle che rimangono impresse per tutta la vita. Guareschi, baffo nero, una giacca avana tipo cacciatore, ci accolse bonariamente. Durante il pasto lo vedevo intento ad attizzare la legna nel caminetto situato nella stessa saletta. Entrammo subito in sintonia, tanto che ci invitò a restare una volta usciti tutti gli altri avventori dal locale. Rimasti soli, spense le luci, perché ci disse che nessun altra luce era così bella come quella del riverbero del fuoco. L’affabulatore Guareschi si sciolse e raccontò episodi belli e brutti della sua prigionia nei lager tedeschi, la sua sopravvivenza, grazie ad una sorta di mantra che recitava nei momenti più difficili: “tanto non muoio nemmeno se mi ammazzano”. Rapiti dai suoi racconti, osammo chiedergli perché non scrivesse più polemizzando con il potere e la risposta fu: «La galera è uno sport che non mi posso più permettere» (negli anni ‘50 venne ingiustamente condannato per diffamazione Ndr). Era il tempo delle castagne: Giovannino prese una padella di ferro bucherellata e con la fiamma del camino le cosse, annaffiate da una buona bottiglia di Lambrusco. La zona di Busseto allora dettava legge in fatto di alta gastronomia, con le guide che citavano il famoso Beppino Cantarelli, antesignano e scopritore di grandi case vinicole, dai culatelli ricercati nelle mense più aristocratiche… Il menu di Guareschi lo ricordo perfettamente, dal momento che conservo ancora la ricevuta, con il disegno del suo profilo, e stampigliata in calce la seguente dicitura: “Servizio buono ma lento”.
Giovannino Guareschi testimoniò il suo amore per la buona tavola aprendo un ristorante a Roncole Verdi negli anni ‘60, passato poi nelle mani dei figli Alberto e Carlotta. Nei suoi immaginifici confini rientravano un “pollaio irrazionale” (volto ad ottenere una carne da “farsi arrotare i denti”) e la “culatelleria”. Concludo ritornando all’attualità del libro, che Guareschi nella prefazione così descrive: “…cartaccia spazzatura, si dirà: ma è proprio nella pattumiera che, a saper leggere nelle cose, si trova scritta la storia segreta di una famiglia. E carta stampata ho cercato di comporre — come lavorando coi tasselletti del mosaico — il volto un po’ bieco e un po’ cretino di quella Italia Provvisoria che molti ingenui hanno creduto potesse essere l’Italia dell’avvenire. Oggi si incomincia a ridere di questa Italia Provvisoria. Domani ce ne vergogneremo, e allora avremo la nostra dignità di uomini civili e sarà la pace”. Grazie Giovannino, ti abbiamo stimato tanto da vivo e, ora che sei lassù, vedi di metterci una pezza, visto che nei cieli non esistono galere.
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Breve storia della cucina napoletana
Napule è mille culure, anche in cucina di Clara Scaglioni
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e radici storiche della cucina napoletana si perdono nel tempo. Solitamente si fanno risalire al periodo grecoromano, ma si sono arricchite nei secoli grazie all’avvicendarsi delle differenti culture di coloro che hanno dominato sulla città e sul territorio circostante. Determinante poi è stato l’apporto della fantasia e della creatività dei napoletani, che hanno realizzato piatti e ricette ancora oggi presenti nella cucina locale e non solo. In quanto capitale del regno, Napoli ha acquisito anche gran parte delle tradizioni culinarie regionali, elaborando preparazioni a base di pasta, verdure, latticini o di pesce, crostacei, molluschi. I vari domini, principalmente quello francese e lo spagnolo, hanno contribuito non poco a determinare una netta separazione tra la cucina aristocratica e quella popolare, la prima caratterizzata da piatti elaborati, ricchi e sostanziosi come i timballi o il sartù di riso, la seconda legata ad ingredienti più poveri come i cereali, i legumi, le verdure. Di certo la contaminazione con la cultura più nobile ha fatto sì che la cucina napoletana possedesse una gamma vastissima di pietanze, tra le quali spesso anche quelle preparate con gli ingredienti più semplici risultano estremamente raffinate. Come testimoniano diversi affreschi pompeiani, rappresentanti pesci e molluschi, cesti di frutta con fichi e melograni, sembra che questi ingredienti fossero molto diffusi e rientrassero in un consumo abituale. Senza timore di sbagliare, si può far risalire al garum romano la famosa colatura di alici di Cetara ed è cer-
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tamente una reminiscenza del gusto agrodolce tipico della cucina di Apicio e degli antichi latini l’uso di condire diversi piatti salati con l’uva passa, come nella pizza di scarole o nelle braciole al ragù. Sempre da Apicio potrebbe provenire il termine scapece, un modo tipico di preparare le zucchine con
l’aceto e la menta. L’impiego del grano nella pastiera, dolce tipico di Pasqua, potrebbe avere un valore simbolico legato ai culti di Cerere e ai riti pagani di fertilità celebrati nel periodo dell’equinozio di primavera presso i romani. Secondo alcuni studiosi dal vocabolo greco στρόνγυλος (stróngylos),
La cucina napoletana è ricca di sapori e, nella sua semplicità, estremamente raffinata.
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che significa “di forma tondeggiante”, prendono il nome gli struffoli (dolce tipico delle feste natalizie), mentre per altri il nome deriverebbe dal fatto che, per renderli tondeggianti, occorre strusciare la pasta sul tagliere. Il nome della pizza, infine, deriverebbe probabilmente da pinsa, participio passato del verbo latino pinsere, che vuol dire schiacciare. Lucullo, nella sua splendida villa di Napoli circondata dal mare, aveva fatto costruire delle vasche per l’allevamento dei pesci, le murene in particolare, che erano tra gli ingredienti principali dei suoi sontuosi banchetti, dai quali ebbe origine l’aggettivo luculliano che indica appunto un pranzo abbondante e delizioso. Le specialità tipiche della cucina napoletana si rifanno, come già detto, alle varie dominazioni arabe, francesi e spagnole sul suo territorio, ma particolare importanza va data soprattutto ai prodotti della sua ricca terra. Tra gli ingredienti principali abbondano la frutta e tanta verdura, accanto a pesce e carne, che un tempo veniva preparata prevalentemente con ingredienti agrodolci quali prugne, aglio, uva passa e pinoli, mandorle e cannella: un ricordo rimane nella famosa carne alla genovese e nella bistecca, ancora presenti nella cucina locale. Nel 1600 la fame affligge la plebe e l’albero della cuccagna, con premi in pane, formaggio, salumi e carne, diventa l’evento più importante delle feste che la nobiltà concede al popolo. I gusti culinari cambiano in seguito con il diffondersi dei prodotti
La famosa pastiera napoletana (photo © www.quandopasta.it) importati dall’America. Si affermano il pomodoro, le patate, i peperoni, il cacao, il tacchino e il gusto per i piatti agrodolci si va perdendo a poco a poco.
Eduardo De Filippo nelle sue opere ha dedicato diverse pagine alle usanze napoletane più popolari. Ricordiamo in tal senso il famoso “Monologo del caffè” in “Questi fantasmi”. Non fa eccezione il ragù napoletano, al quale Eduardo riservò un spazio di rilievo nella commedia “Sabato, domenica e lunedì”, nonché una poesia, molto famosa, “’O rraù”. ’O rraù ca me piace a me m’ ’o ffaceva sulo mammà. A che m’aggio spusato a te, ne parlammo pè ne parlà. io nun songo difficultuso; ma luvàmmel’ ’a miezo st’uso
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Sì, va buono: cumme vuò tu. Mò ce avéssem’ appiccecà? Tu che dice? Chest’ ’è rraù? E io m’ ’o mmagno pè m’ ’o mangià… M’ ’a faja dicere na parola?… Chesta è carne c’ ’a pummarola
L’espansione demografica della città rende più pratico l’approvvigionamento di ingredienti a lunga conservazione, come la pasta, così i napoletani, detti un tempo mangiafoglie perché mangiavano di preferenza le verdure, diventano mangiamaccheroni. La pasta viene lavorata in diverse trafilature che danno origine ai formati più popolari, come i vermicelli, i perciatelli, i pàccari e gli ziti. Nel 1700 in tutta Europa diventa sempre più pressante l’influsso della Francia anche in cucina e a Napoli, alla corte dei Borbone, arrivano i famosi monzù (napoletanizzazione di monsieur), per cui molti piatti tipici napoletani assumono nomi derivanti dal francese: il ragù (da ragoût), il gattò (da gâteau), le crocchè (da croquette). Clara Scaglioni
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Libri Balli e ricette
Tango in scatola, manuale tattico culinario di sopravvivenza tanguera di Nunzia Manicardi
“T
ango in scatola” è libro d’esordio di VANNA GASPARINI, libro che nasce da una passione, anzi, da due: quella per il tango e quella per il cibo. Ce lo spiega la stessa autrice: «Perché tango e ricette? Dopo tanti anni passati tra i tangueros, a sudare nelle milongas (qui nel significato di “balera, locale popolare da ballo”, Nda) e alle lezioni, a far tardi la notte e a gozzovigliare, ho capito che la passione per il tango si abbina e si completa con l’amore per la buona cucina». Così è scaturito questo libro. Che però… «Non è un vero libro — precisa la Gasparini — ma un divertissement, mio e di tante
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donne amiche, tangueras, sorelle». Ed è proprio da loro che sono arrivate le numerose ricette raccolte e presentate, simpaticamente alternate a frammenti, aneddoti e riflessioni di “vita tanguera”. Una vita che Vanna Gasparini (che è nata e vive a Reggio Emilia) conosce assai bene dato che balla e insegna tango da anni. Il libro, in particolare, è costituito da vari sketch descritti con una vivace lingua parlata, come ben ha evidenziato nella sua prefazione FRANCO FINOCCHIARO, presidente della Fondazione Accademia Italiana del Tango e membro della Academia Nacional del Tango de Buenos Aires). Questi sketch raccontano con garbata
e sottile ironia le varie fasi che circoscrivono e inseguono lo spazio-sogno del tango, come già suggeriscono i singoli titoli (che cito a caso): Quelle che te lo invitano, Quelle che te lo sfilano, Tanguero sudato tanguero sfortunato, La pecorella e il lupo, I maestri anche no, I diversamente alti, I gelosi, Baci e abbracci… Eccone un esempio. «I maestri anche no, ovvero: quelli che dopo aver iniziato a ballare da tre ore aprono una scuola di tango, si propongono per delle lezioni private e soprattutto… Soprattutto fanno una cosa che a noi ballerine piace tantissimo. In mezzo alla pista, preferibilmente durante il ballo, ma anche sulla cortina, si
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fermano, ti guardano con espressione corrucciata e ti riprendono con tono professionale: “Questo passo non si fa così, stai attenta! Qua devi farmi il gancio interno, non hai capito??!???”. E così fino alla fine, rendendo paonazza di vergogna la povera ballerina che di solito ha iniziato da poco e ancora non si azzarda a mandarlo a quel paese. Dovremmo istituire un Comitato di Espulsione Cafoni per far capire con messaggi chiari e successivo allontanamento dalla milonga che tutta questa esposizione di “bravura” non è assolutamente richiesta. Se un ballerino è bravo davvero, non ci deve mai mettere in difficoltà! Ci vogliamo solo divertire, per le lezioni sono stati inventati i corsi di tango…». Anche le ricette sono solo apparentemente infilate nel testo alla rinfusa ma, in realtà, sono accortamente bilanciate fra di loro e con tutto il resto. Sono ricette spesso conosciute, perché lo scopo non è la ricerca dell’originalità a tutti i costi, ma comunque sempre vissute di persona e, quindi, in ogni caso rivisitate con piccoli suggerimenti di ingredienti o di cottura che le rendono ancora più interessanti. E siccome l’amore per il tango attraversa tutti i continenti e tutte le culture, anche le ricette vanno dalle aringhe yiddish al nostrano stracotto di somarina, dai fichi alla siriana alla minestra di castagne di
Empanadas.
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Todi, dal pollo tandoori piccante alla minestra di patate e fagioli. Non manca qualcosa che ancora di più ci avvicina al tango ed è la ricetta, imperdibile e pressoché inevitabile, delle empanadas (fagottini di pasta ripieni di carne) che costituiscono uno dei piatti tipici più conosciuti dell’Argentina, patria di questo ballo affascinante e dal fascino ancora oggi quasi proibito. «Le più tradizionali — scrive Vanna Gasparini, fornendoci nel contempo dettagliate informazioni — sono ripiene di tenera carne di manzo tritata o tagliata a coltello con l’aggiunta di cumino. Ci sono 9 specialità provinciali ben differenziate: per esempio a La Rioja contengono porro e patate ma esiste una variante della stessa provincia un po’ più piccante dovuta al peperoncino che si aggiunge alla preparazione. A Tucuman si preparano con olive, uvette e tantissimo pimento in polvere. A Mendoza e San Juan il segreto è nel saggio abbinamento in parti uguali di cipolla e carne, aggiungendo inoltre peperoni. A Jujuy e Catamarca alcuni aggiungono grani di mais. A Cordoba si mettono carote e si lucidano con uovo e zucchero, regalando così un delizioso sapore dolce. A Salta si riconoscono perché sono molto succose e allo stesso tempo molto piccanti. Santiago del Estero rivendica il primato della empanada più succosa del mondo; in Patagonia ci sono perfino quelle con ripieno di carne di agnello o coniglio, limone, cipolla, uovo sodo e uvette. Nella zona del litorale mesopotamico (Misiones, Corrientes, Entre Rios) si fanno con la carne di pesce di fiume». Segue anche la ricetta, fornita da una “compagna di tango” di Vanna, fra le tante altre ricette che compaiono nel libro. Scrive Finocchiaro nella prefazione: «Nel loro complesso, questi cibi per milongueros imperfetti non ambiscono a configurare un manuale di impalpabile e impraticabile haute cuisine, ma certamente testimoniano il genius loci emiliano per l’arte del buon vivere incarnato da una reggiana de pura cepa come è la Gasparini».
VANNA GASPARINI Tango in scatola Manuale tattico culinario di sopravvivenza tanguera Modena 2012, Edizioni Il Fiorino 152 pp. – € 12,00 La quale, a ribadire il concetto, nelle ultime pagine ci confida: «Si cena e poi si balla! Quante volte… Prima ci si conosce attorno ad un tavolo oppure assaggiando le specialità che ognuno porta dal suo paese, il piatto inimitabile creato dalla nonna, poi si fa spazio e si fa partire la musica ritmata, a volte struggente, il violino, il bandoneón, quante volte… Si stappano i vini, ogni occasione è buona per un brindisi, poi non si beve più, si balla. Persone di cui tante volte non conosco il nome, non so la loro storia, facce sconosciute, potrebbero essere il chirurgo, il postino, il grafico, il dipendente pubblico, l’operaio. A volte ho scoperto di aver prima cenato poi magari ballato con lettori accaniti, fotografi bravissimi, pittori, scultori, imprenditori di successo. Ho parlato con musiciste e cantanti di talento, donne che sembravano distaccate ed algide e si sono rivelate piene di entusiasmo e grinta, vere “leonesse”, uomini e donne che come me hanno vissuto e sofferto. Tutto questo è stato possibile anche grazie al cibo che ci ha unito e al vino che ha sciolto le lingue ed aperto il nostro cuore». Nunzia Manicardi
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Una famiglia, una storia, un sapere e i suoi sapori
L
a macelleria e gastronomia ALBERGHINI E BETTELLI, presente nel modenese da oltre quarant’anni, ha elaborato nel corso del tempo numerose ricette, esplorando ambiti innovativi, capaci di modificare il concetto di cibo e il modo di consumarlo. Partendo da un approccio strettamente legato alla tradizione, ha ampliato e arricchito l’attività di macelleria completandola con la parte gastronomica. Nel cedere l’attività ai nuovi gestori (che subentreranno da gennaio 2014), i proprietari hanno scritto un ricettario che rimanga a testimonianza del proprio lavoro. Le 70 pietanze proposte, tutte corredate da fotografie, sono state scelte in base al miglior rapporto semplicità/risultato e adeguate ad una cucina casalinga. Sintesi della professione vissuta in un negozio a conduzione famigliare, i piatti sono accompagnati spesso da aneddoti, dediche, curiosità, per mostrare come una pietanza sia più di un semplice alimento per sfamarsi: ideato e messo a punto in un particolare contesto, ogni piatto è depositario di una storia tutta sua. “Nessun ingrediente è banale” racconta questo libro, che ambisce a onorare gli ingredienti e offre spunti a chi cucina per esprimersi attraverso di essi. Narra la storia della macelleria e presenta le ricette in vari capitoli: involtini, spiedini, classici, arrosti, sfiziosi… con un finale che esula dall’ambito prettamente carnivoro. È una testimonianza per concludere degnamente un’attività fiorente da anni, con un tono forse nostalgico, ma certamente orgoglioso di raccontare i cibi del proprio territorio e tanti modi che hanno saputo interpretarli. L’autore Antonella Alberghini è nata a Modena nel 1974, maturità classica, laurea in
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Scienze della Comunicazione a Bologna. Dopo alcune esperienze lavorative in ambito organizzativo, da alcuni anni si dedica all’attività di famiglia. Portavoce della macelleria e gastronomia Alberghini e Bettelli, ha scritto questo ricettario, dedicato “ai miei genitori, ai loro talenti e alle loro passioni”, per preservare il patrimonio culinario elaborato in anni di attività. Per info: alberganto@tiscali.it ANTONELLA ALBERGHINI Tradizione e innovazione nella cucina modenese Edizioni Il Fiorino – 167 pp. – € 18,00
Abbracci di asparagi e melanzane, con speck, asparagi e scamorza affumicata.
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Osti sull’orlo di una crisi di nervi Ristoratori che trasformano il conto in un gioco di prestigio. Critici gastronomici che, alla faccia dell’incognito, vanno a braccetto con gli chef. Cuochi stellati orgogliosi di aver reso irriconoscibile il sapore di qualunque ingrediente. Valerio Massimo Visintin attinge dalla sua lunga esperienza di giornalista gastronomico del CORRIERE DELLA SERA, per svelarci i retroscena e gli incidenti, le gag e le cattive abitudini di un mondo — quello della ristorazione — bizzarro e volubile, con le sue contraddizioni e tutto il “circo” che gli ruota intorno. Un affresco dipinto con l’ironia, l’affetto e la disperazione di cui solo un critico davvero innamorato del suo mestiere sa essere capace. L’autore Valerio M. Visintin (1964), giornalista, lavora come critico gastronomico per CORRIERE DELLA SERA e VIVIMILANO. Per Terre di mezzo editore, è anche autore di “PappaMilano”, guida ai 100 migliori ristoranti milanesi a buon prezzo, “Il mestiere del padre”, e “L’ombra del cuoco”. Nessuno sa chi sia il critico mascherato tanto temuto dai ristoratori che prenota sotto falso nome e cena senza qualificarsi, per poter esprimere un giudizio da cliente qualunque. VALERIO MASSIMO VISINTIN Osti sull’orlo di una crisi di nervi Viaggio in incognito fra tic e manie della ristorazione italiana Terre di Mezzo Editore Collana: Sapori 136 pp. – € 10,00
I segreti per bere bene: tutto quello che bisogna sapere sul mondo del vino dalla vigna alla cantina fino al bicchiere In 52 schede utili e piacevoli tutti i segreti e i temi più interessanti del mondo del vino: come degustare e descrivere un vino, come servire una bottiglia in tavola senza sbagliare, fino all’utilizzo del vino in cucina e all’abbinamento di un ottimo bicchiere con il cibo giusto. Non mancano inoltre preziose indicazioni su DOC, DOCG e sulle principali zone vinicole italiane e del mondo. E per tutti gli amanti del bere bene la selezione dei 52 vini che vanno assaggiati almeno una volta nella vita, quelli da portare su un’isola deserta in compagnia di 52 citazioni letterarie a tema enologico. VITTORIO MANGANELLI, ALESSANDRO ROSSI I segreti per bere bene Tutto quello che bisogna sapere sul mondo del vino: dalla vigna alla cantina fino al bicchiere Collana 52 Edizioni InMagazine – www.inmagazine.it 144 pp. – € 12,00
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Nuova vita per l’Almanacco dei Buongustai di Grimod de La Reynière, bibbia dei gourmands di Josette Baverez Blanco
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critto in Francia nel XIX secolo da G RIMOD DE L A REYNIÈRE, re dei ghiottoni, questo famoso almanacco (1803-1812), vero e proprio antenato delle guide contemporanee, è stato recentemente ripubblicato nella sua forma originale, mettendo in luce l’approccio singolare e lo stile insuperabile del suo autore. Il testo, apparso precedentemente suddiviso in otto fascicoli, non era mai stato oggetto di una pubblicazione integrale. Le edizioni francesi Menu Fretin hanno accettato la sfida, facendo uscire un’opera di 1.100 pagine (al prezzo di 74 euro) al fine di apprezzarne tutte le sue sfaccettature, con prefazione del biografo dell’illustre gastronomo, Jean-Claude Bonnet. Come nasce e cresce un buongustaio Alexandre-Balthazar-Laurent Grimod de La Reynière (1758-1837) nacque il 20 novembre a Parigi. Era un uomo dotato di notevole intelligenza e spirito pungente. Basso di statura, aveva mani deformi, che lo costringevano a portare sempre dei guanti. La sua famiglia era legata alla monarchia ed era figlio di un ricco fermier général, ossia capo appaltatore delle imposte parigino, Laurent Grimod de La Reynière, e di Suzanne Françoise Élisabeth de Jarente de Sénac, che ospitava nel suo salotto le più importanti personalità parigine dell’epoca. Era nipote di Chrétien-Guillaume de Lamoignon de Malesherbes, importante giurista e politico. Il padre, dal quale ereditò, oltre ad una colossale fortuna, un notevole appetito, si era arricchito
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anche grazie al maresciallo de Soubise, grande intenditore di cucina più che di combattimenti (tanto da dare il suo nome alla famosa “salsa Soubise” a base di cipolle) e per Grimod ogni occasione era buona per rammentare ai famigliari l’umile origine delle loro fortune (il nonno era macellaio). A Grimod de La Reynière fu permesso quindi di coltivare la passione per la tavola senza restrizioni e per tutta la vita. Si improvvisò filosofo, scrittore, giornalista; laureatosi in diritto, divenne avvocato (nel 1786 venne radiato dall’Ordine per un libello antinobiliare: ciò gli consentì, però, insieme con l’amicizia di Jean-Jacques Régis de Cambacérès, di passare indenne attraverso la rivoluzione).
Il primo febbraio 1783 Grimod organizzò un sontuoso incontro conviviale che sarebbe passato alla storia come il fameux souper, inviando ai propri ospiti una sorta di invito funebre e comparendo poi davanti a loro vivo e vegeto al momento del dessert. Dal 1782 al 1810 ogni mercoledì ricevette nella sua splendida dimora sugli Champs Élysées parigini diciassette ospiti, invitati a confrontare le loro esperienze gustative per “far progredire la sapienza culinaria”. Durante la rivoluzione fu allontanato dalla capitale, ma riprese ben presto la tradizione di frequentarne i ristoranti, in particolare il famoso Au Rocher de Cancale, descritto anche da Balzac, con l’obiettivo di fissare
La prima pagina de L’Almanach des Gourmands (photo © fr.wikipedia.org).
Premiata Salumeria Italiana, 5/13
Au Rocher de Cancale, celebre café-restaurant parigino in rue Montorgueil. “la migliore giurisprudenza golosa dell’Europa”. L’obiettivo di Grimod era quello di “legittimare” i prodotti di gastronomia, dei ristoratori, dei droghieri, invitati a presentare nel più assoluto anonimato le loro “opere” a quella giuria imparziale di artistes en bonne chère. L’Almanach des Gourmands, pubblicato annualmente tra il 18031812, ad eccezione del 1809 e del 1811, fu un successo clamoroso. Primo libro del suo genere, contiene aneddoti, digressioni affascinanti e ricette. Nell’Almanacco sono riportati anche tutti i contraddittori. Ad esempio un certo M. GAZE, droghiere, manifesta la sua indignazione in una lettera scritta a Grimod il 9 ottobre 1809, riguardo ad una nota diffamatoria pubblicata l’anno precedente, e minaccia prima un’azione per ottenere un risarcimento dei danni, poi ci ripensa e scrive: “Ho ben riflettuto e il Suo libro e l’autore sono ben lontani dall’essere creatori di fama, che sia nel bene o nel male: anzi, può darsi che il pubblico (…) si faccia un’opinione diametralmente opposta a quella che Lei esprime”. Con questa ipotesi, “ben
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lontano dal dover porre lamentele, mi tocca invece ringraziare regalandole un bel tacchino tartufato con un tale profumo da ispirarla a parlare ormai solo bene del sottoscritto”. Éloquence gourmande Proprio l’allegria per Grimod è l’elemento inseparabile dai piaceri della tavola, che egli racconta con giochi di parole, humour e arguzia. Niente a che vedere con lo stile serio e lapidario dei cuochi, con i quali ha spesso rapporti complessi. Il celebre chef ANTONIN CARÊME, suo contemporaneo, pretendeva che i cuochi fossero “gli unici a possedere la tecnica e il linguaggio propri del mestiere” e diede quindi a Grimod il soprannome Grimaud, che si pronuncia in francese esattamente nello stesso modo, ma che significa scribacchino, ignorante. Grimod si vantava invece, e a buon diritto, di aver inventato “questo genere di scrittura, al quale è stato dato il nome di letteratura golosa”. A volte egli sfiora la trivialità e l’osceno, ma il suo registro prende ispirazione anche dalla pittura, dall’architettura, dal teatro e dall’opera.
“Tutta la scrittura di Grimod va contro la ricerca di un metalinguaggio scientifico. All’ordine catalogatorio egli oppone il lavoro della metafora e delle corrispondenze. Grimod non scrive un dizionario di cucina né un sistema di sapori” scrive Bonnet nella prefazione della nuova edizione del testo. La gastronomia o “l’art de raisonner les morceaux” è senz’altro una scienza inesatta, ma un bel pranzo rimane, due secoli dopo Grimod, una “fonte di gioia” per la quasi totalità delle persone. Nel 1981 FOLCO FORTINARI curò per gli Editori Sella & Riva l’Almanacco dei Buongustai (1803) seguito dal Manuale dell’Anfitrione (1808), trattato delle buone maniere a tavola. Poco rispetto all’importanza di questa versione pionieristica delle moderne guide gastronomiche! Ci auguriamo quindi che quest’opera originale e particolarmente ricca di elementi colti venga integralmente tradotta in italiano e che possa spiccare in mezzo alla moltitudine di pubblicazioni attualmente sugli scaffali dei librai. Josette Baverez Blanco
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Pinchiorri a due voci
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CASTELLUCCI ha tracciato con mano biografica il “romanzo” di una bellissima storia o, meglio, di due storie, quella di Annie Féolde e quella di Giorgio Pinchiorri, che si incontrano per diventare la quarantennale avventura dell’Enoteca Pinchiorri. In 224 pagine si raccontano i diversi destini dei due protagonisti, che poi si incontrano per perseguire un sogno comune, quello di dar vita a una grande e innovativa enoteca e subito dopo a un altrettanto grande ristorante. Due passioni diverse ma perfettamente compatibili che si salderanno in quello che è considerato un unicum nella ristorazione, quello dell’Enoteca Pinchiorri: un luogo di eccezionali intuizioni culinarie, in cui risiede un’esclusiva rassegna del meglio della viticoltura internazionale e dove si è ospitati secondo le più raffinate regole dell’arte dell’accoglienza. EONARDO
PAUL BOCUSE ha firmato una breve e vivace prefazione dedicata ad Annie Féolde, mentre quella di Giorgio Pinchiorri è siglata da PIERO ANTINORI, che ricorda un cammino comune in un settore, quello enologico, che in pochi decenni ha assistito a una vera e propria rivoluzione culturale. La storia di Annie Féolde parte dalla Francia e passa per l’Inghilterra prima di sbarcare in Italia. Da qui al Giappone e al mondo che la premia e dove riceve riconoscimenti e premi. Nel libro, oltre alle immagini dei collaboratori che hanno contribuito e contribuiscono al successo del ristorante, sono riprodotti i 10 piatti storici che Annie ha voluto raccontare in presa diretta. La storia di Giorgio Pinchiorri parte dalla campagna modenese e poi si consolida professionalmente a Firenze, ma con continui viaggi nelle terre del vino di Europa e del mondo, in un ininterrotto aggiornamento che
presto gli permetterà di essere individuato come uno fra i più apprezzati conoscitori della complessa materia. A chiusura del racconto della sua avventura umana e professionale, Giorgio Pinchiorri propone le sue 50 grandi bottiglie del cuore, quelle che solo l’intuito e la sapienza di un grande intenditore hanno saputo collezionare in quattro decenni. Gli acquerelli delle due copertine sono stati realizzati da COSIMO MELANI, che ha anche progettato e impaginato il libro. Accanto alle immagini provenienti dall’archivio dell’Enoteca, gli scatti di ROBERTO QUAGLI, che ha ritratto con capacità Annie e Giorgio così come i piatti, le bottiglie, gli ambienti. Un gruppo di lavoro affiatato e legato all’Enoteca da anni di collaborazione. L’editore di libri illustrati CINQUESENSI di Lucca ha confezionato il libro con cura artigianale affidando la traduzione dell’edizione inglese alla sapienza di SYLVIA BRIGHINA.
Pinchiorri a due voci – Editore Cinquesensi – 224 pp. – € 35,00.
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