Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N
Anno XXIX N. 5 Settembre-Ottobre 2017
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N. 5 Anno XXIX Settembre-Ottobre 2017
€ 6,70 Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia Stampa
Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitaliana online.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910
Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni 1732 1st Ave #27220 – New York, NY 10128 Tel. 001 212 956-8566 E-mail: Stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Carlo Cantoni (Milano) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia) Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CC 2017. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CC 2017.
Premiata Salumeria Italiana, 5/17
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Perché solo un prosciutto così è crudo, è buono, è Modena. Sono le dolci pendenze delle nostre colline e il gentile scorrere del Panaro, tra le province di Modena, Bologna e Reggio Emilia, a conferire al Prosciutto di Modena DOP un sapore così caratteristico e perfettamente equilibrato. I nostri ingredienti? Solo coscia di suino italiano, sale e 14 mesi di paziente stagionatura. Prosciutto di Modena DOP. La nostra dolcezza, sta tutta nell’attesa. Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale: l’Europa investe nelle zone rurali
consorzioprosciuttomodena.it
Beneficiario: Consorzio del Prosciutto di Modena Autorità di gestione: Direzione Generale Agricoltura, Caccia e Pesca Regione Emilia Romagna
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N. 5
In questo numero: Agenda
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Immagini
16
Tendenze
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Lettere alla Redazione
22
Legislazione
Il campo minato dei claim
Sebastiano Corona 24
Il food in rete
Social food
Elena Benedetti
28
Aziende
Bernardini, la tradizione famigliare della qualità
Gaia Borghi
32
Speciale spalmabili
Spalma che ti passa
Giovanni Ballarini
36
Ciauscolo, salume della ricostruzione
Mauro Magagnini
42
Re Norcino: ode al ciauscolo marchigiano
Gaia Borghi
46
Ventricina teramana, salume antico
Giovanni Ballarini
48
Bartocci: salumi e solidarietà
Massimiliano Rella
52
Le strade del prosciutto
Nelle fucine di Vulcano dove stagionano prosciutti
Riccardo Lagorio
58
Prodotti tipici
Le Selve di Vallolmo e il Grigio del Casentino
Veronica Fumarola
62
La Qualità
Salame di Varzi Dop: nei primi sei mesi del 2017 la produzione segna un +4,4%
Indagini
Piante aromatiche nei salumi
Giovanni Ballarini
64 66
L’orgoglio di essere italiani
70
Interviste
72
Adrienne la norcina
Premiata Salumeria Italiana, 5/17
Elena Benedetti
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Analisi del food
Un condimento della tradizione rivalutato: il burro
76
Nutrizione
Viva i flavonoidi
80
Tutto il biologico, oggi
Testo unico sul biologico
Biologico: chi l’ha visto (in etichetta)? Tutti!
Sebastiano Corona
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Premiate Salumerie Italiane Salumeria Bianco, eccellenze artigianali italiane e della terra dei trulli
Veronica Fumarola
86
Macellerie d’Italia
Da Carlo, macelleria a Marassi
Elena Benedetti
90
Sapori mediterranei
Legumi di montagna
Massimiliano Rella
94
Sapori dal mondo
In Giordania, nella patria del mansaf
Nunzia Manicardi
98
Fiere
Alimentaria, un appuntamento da non mancare
102
Rassegne
Solo crudo
104
Formaggio
La burrata di Andria, dal cuore di stracciatella
Nunzia Manicardi
110
Latus, caseificio e cheese bar
Gian Omar Bison
114
Italiani consumatori di formaggio
Giovanni Ballarini
118
Vino
Capri Doc 2016, il vino eroico di Scala Fenicia
Massimiliano Rella
122
I vini di Premiata Salumeria Italiana
Degustazione: Amatriciana o Matricina
Laura Franchini
128
Birra
Birrone, la birra no limits
Gian Omar Bison
132
Pasta
Nella battaglia del grano c’è chi lo sceglie made in Italy
Riccardo Lagorio
134
Pane
E i carboidrati? Ecco il pane quotidiano degli Italiani
Fulvio Zorzetto
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Tecnologie
Otto importanti criteri per la scelta del software gestionale
Libri
Sentimenti da “assaggiare”
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In copertina: gli spalmabili, salumi da riscoprire (photo © Massimiliano Rella).
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AGENDA Ferrara Le terre bagnate del Delta del Po, patrimonio UNESCO, sono un vero e proprio scrigno ricco di prodotti tipici, gemme da scoprire soprattutto in autunno, periodo ideale per “andar per sagre”. L’anguilla, regina della laguna, viene celebrata nella famosa Sagra dell’Anguilla di Comacchio — per tre week-end, dal 29 settembre al 15 ottobre (www.sagradellanguilla.it) — ma tante altre sono le prelibatezze di questa terra: dall’aglio di Voghiera Dop all’asparago verde di Altedo Igp che cresce nella natura sabbiosa alla foce del Po, dagli storici Cappellacci di zucca Igp, già noti nei ricettari rinascimentali, come la Coppia ferrarese Igp e il cocomero serviti alla corte degli Estensi, fino alle pere e le pesche Igp. Uno degli appuntamenti più apprezzati è la Sagra della Salamina da sugo al cucchiaio di Madonna Boschi, dal 21 al 24 settembre, dal 28 settembre al 1º ottobre e dal 5 all’8 ottobre (www.prolocomadonnaboschi.it). Il più noto insaccato della provincia, gustato tradizionalmente al cucchiaio con purè di patate, si presta anche a preparazioni più insolite, come il carpaccio crudo con grana e crema d’aceto balsamico. Gli amanti dei tortellini non possono perdere la Sagra del Tortellino d’autunno di Reno Centese (www.lasagradeltortellino.it), dal 6 all’8 e dal 13 al 15 ottobre. Nella ricetta ferrarese i tortellini o, meglio, i cappelletti, sono di carne e cucinati in brodo di cappone o abbinati a condimenti diversi, come il ragù di petto d’anatra. Gli appassionati del Tuber Magnatum Pico adoreranno la Sagra del Tartufo di Sant’Agostino, dal 31 agosto all’11 settembre (www.sagratartufo.it), 38a edizione dell’evento dedicato al tartufo proveniente dal Bosco della Panfilia. Mentre nel Bosco della Mesola si spandono i profumi dei piatti della Sagra del Radicchio (22, 23, 24, 26, 27, 29, 30 settembre e 1 e 2 ottobre). Occasione anche per visite guidate e in bici. Altra guest star della cucina della provincia ferrarese è la zucca. Dal 10 al 20 agosto e, ancora, dal 28 ottobre al 1º novembre, esprime tutta la sua bontà a San Carlo, per la Sagra della zucca e del suo cappellaccio (www.sagrasancarlo.it). I cappellacci alla zucca, tipica pasta fatta a mano, sono conditi come da tradizione con ragù o burro e salvia, con noci e Marsala (cappellacci del cuore) o ragù di cinghiale (cappellacci del norcino). E poi, con tartufo e stracchino e tante altre varianti (in basso a destra, la salama da sugo ferrarese Igp; photo © Consorzio Visit Ferrara). www.visitferrara.eu
Polesine Parmense (PR) Tutti hanno qualcosa da raccontare, ma chi da sempre si dedica alla terra “ne sa una più del maiale”, perché, quando parla, dà voce alle vigne e ai campi, agli animali e alle stalle, finendo per conferire a una vita di lavoro e passioni la forma di un grande romanzo popolare che merita di essere conosciuto. Grandi interpreti della tradizione enogastronomica della Pianura, Luciano e Massimo Spigaroli, attraverso il ciclo di appuntamenti Racconti in Hosteria, hanno affidato ai muri e ai tavoli dell’Hosteria del Maiale le storie e i racconti di produttori, cuochi, scegliendo di alternarli a un buon calice di vino o ad un particolare piatto della tradizione. Dalla sua apertura fino ad oggi, un venerdì al mese, l’ultimo nato tra gli spazi dell’Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense (PR) ospita un evento legato alle etichette e alle bottiglie, alla Bassa e allo stare bene a tavola. Tutte le serate iniziano alle 20.00 con una visita alle antiche cantine di stagionatura dei culatelli, cui segue l’evento con prenotazione obbligatoria (photo © Antica Corte Pallavicina). www.anticacortepallavicinarelais.it
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Alba (CN) La famiglia Ceretto, famosa per l’eccellenza dei suoi vini, prosegue nell’impegno della promozione dell’arte contemporanea, ospitando ad Alba, nel cuore delle Langhe, la straordinaria artista di fama internazionale Marina Abramović. Giovedì 28 settembre, nella Chiesa di San Domenico, l’inaugurazione alla presenza dell’artista della video-installazione Holding the milk da The Kitchen, Homage to Saint Therese (2009). L’opera rimarrà esposta fino al 12 novembre (da lunedì a venerdì dalle ore 15:00 alle ore 18:00, sabato e domenica dalle ore 10:00 alle ore 18:00; ingresso libero). The Kitchen, Homage to Saint Therese è un progetto artistico elaborato dalla Abramović nel 2009, costituito da nove foto-ritratti e tre opere video, di cui ad Alba si vedrà appunto Holding the Milk. I video sono girati nella cucina dell’ex convento La Laboral a Gijón, un monastero certosino abbandonato dove un tempo le monache accudivano bambini orfani. L’opera rimanda alla vita della mistica Santa Teresa di Avila, intrecciandosi coi ricordi dell’infanzia dell’artista. Come spiega la stessa Abramović, «la cucina di mia nonna è stato il fulcro del mio mondo: tutte le storie venivano raccontate in cucina, ogni consiglio sulla mia vita veniva dato in cucina, il futuro, contenuto nelle tazze di caffè nero, veniva letto e annunciato solo in cucina; quindi è stata davvero il centro del mio universo, e tutti i miei ricordi più belli nascono lì. L’ispirazione di questi lavori nasce dalla combinazione tra la rievocazione della cucina della mia infanzia, la storia di Santa Teresa, e questa straordinaria cucina abbandonata piena di bambini, tutto insieme e nello stesso momento». In foto, Marina Abramović (The Kitchen, Homage to Saint Therese, Video installation, 2009; photo © Marina Abramović).
Cremona Debutta, nel week-end che va da venerdì 20 a domenica 22 ottobre, nello scenario medievale del centro storico di Cremona, la Festa del Salame, evento gastronomico-culturale dedicato all’insaccato più conosciuto e amato al mondo. La tradizione norcina di Cremona è tra le più rinomate d’Italia: proprio per questo la città del Torrazzo, nel cuore della Pianura Padana, racchiusa fra una campagna rigogliosa e i paesaggi fluviali del Po, risulta senza dubbio un luogo propizio per offrire una vetrina straordinaria ai salami di tutto il Belpaese e non solo. Il salame, forse più di tutti gli altri salumi, è quello in cui si rispecchia la profonda diversificazione delle ricette, dei processi produttivi e delle tecniche di stagionatura. Nel corso della rassegna il principe dei salumi sarà letteralmente processato sulla pubblica piazza con tanto di requisitorie e arringhe: il salame è un killer silenzioso dal fascino irresistibile o un’innocua squisitezza? Ad un giudice esperto è affidato il compito di pronunciare il verdetto di innocenza o colpevolezza. www.festadelsalamecremona.it
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Milano Dal 14 al 16 ottobre al Palazzo del Ghiaccio torna Milano Golosa. «Per il sesto compleanno di Milano Golosa — racconta Davide Paolini, ideatore della manifestazione — abbiamo voluto rendere omaggio a due grandi amori italiani: le trattorie e il panino. Sono da sempre innamorato di quella che io considero una cucina concreta e vera, quella dei luoghi conviviali e delle ricette semplici, ma fatte bene. Che sia un piatto o un panino, io tifo sempre e comunque per i prodotti locali che inneggiano alla materia prima e al territorio». 200 circa gli espositori artigiani già confermati e presenti per proporre un tour enogastronomico della Penisola alla ricerca di materie prime di qualità. Il pubblico sarà accompagnato in una ricerca gastronomica attraverso gli stand di panettieri, casari, pasticceri e attraverso la proposta di due nuove aeree. La prima ospiterà 9 cuochi delle Premiate Trattorie Italiane che accompagneranno i visitatori in un viaggio attraverso l’Italia alla scoperta delle migliori tradizioni culinarie locali. L’altra nuova aerea è PaniniAmo, dedicata al panino italiano. Qui, con la collaborazione dell’Accademia del Panino, si propone di presentare il prodotto in tutte le sue declinazioni. Dal panino classico a quello regionale a quello gourmet: le migliori paninoteche d’Italia presenteranno le loro specialità realizzate con materie prime made in Italy. L’evento sarà aperto al pubblico sabato 14 ottobre (dalle 12:00 alle 20:30), domenica 15 ottobre (dalle 10:00 alle 20:30) e lunedì 16 ottobre (dalle 9:00 alle 17:00). Tanti gli eventi che coinvolgeranno anche altri luoghi — ristoranti ed enoteche del centro — con il programma di Fuori Milano Golosa. Il biglietto d’ingresso, come nelle passate edizioni, sarà di 10 euro a persona, 5 euro per i bambini dai 6 ai 12, bambini minori di 6 anni gratuito (nella foto in basso, fiori commestibili; photo © fotocru.it/milano-golosa). www.milanogolosa.it
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Bio Busti naturalmente è il marchio distintivo dei formaggi biologici del Caseificio Busti. Nata dall’esperienza e dalla passione della Famiglia Busti per le cose buone, Bio Busti naturalmente è una linea pensata per riscoprire i sapori sinceri del latte fresco ed esaltare l’essenza della semplicità e della genuinità. I nostri pecorini sono realizzati con latte biologico certificato, proveniente da allevamenti del territorio tosco-laziale nel pieno rispetto dell’ambiente e del benessere animale. La stagionatura al naturale ed i trattamenti in crosta con ingredienti rigorosamente privi di additivi conservanti, rappresentano un aspetto peculiare della produzione dei nostri formaggi biologici. Anche lo spontaneo sviluppo di muffe in crosta è sinonimo di un processo di maturazione fondato sui valori e sui principi di una cultura biologica. CASEIFICIO BUSTI S.n.c Via Marconi, 13 A/B 56043 Fauglia - Loc.Acciaiolo (Pisa) Tel. 050.650565 - www.caseificiobusti.it
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Venezia Fino a qualche anno fa l’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, semplicemente nota come la Biennale, era un appuntamento per gli addetti ai lavori e gli appassionati d’arte contemporanea. Oggi invece la kermesse, intitolata Viva Arte Viva e in corso da maggio fino al 26 novembre, viene visitata anche da tantissime persone che vogliono scoprire e avvicinarsi a questo mondo così affascinante e, quest’anno, potranno farlo persino attraverso la tavola. Si chiama proprio Tavola aperta, infatti, un’iniziativa che durante tutta la 57a Biennale consentirà ai visitatori di pranzare con uno degli artisti che espongono. Le location sono due: la Sala delle Armi all’Arsenale e il Padiglione centrale ai Giardini. Si inizia alle 13:00. L’artista arriva e i visitatori prenotati prendono posto. Il catering è a base di affettati, pane genovese, pasta fredda, frutta mista e biscottini con acqua minerale o prosecco. Come centrotavola ci sono microfoni per porre domande. Attenzione a come mangiate, perché il pranzo va in diretta streaming sul sito della Biennale, quindi vi vedono da casa! Per partecipare non sono previsti costi aggiuntivi, solo la prenotazione. Presso i Giardini dell’Arsenale si dipanano i padiglioni che ospitano nove percorsi, anzi “capitoli” come li definisce l’organizzazione. 120 artisti partecipanti provenienti da 51 paesi, più 85 partecipazioni nazionali disseminate tra Giardini e centro storico della città lagunare, più, naturalmente, tutti gli eventi collaterali. Un calendario fittissimo di mostre ed esposizioni (photo © artslife.com). www.labiennale.org
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IMMAGINI
Quest’estate a Londra abbiamo conosciuto Adrienne E. Treeby, una ragazza canadese innamorata dei salumi inglesi. Oggi Adrienne gestisce la sua bottega di salumi artigianali, Crown & Queue Meats, negli spazi di Spa Terminus (www.spa-terminus. co.uk), a pochi passi dal Borough Market, un’area riqualificata sotto alla ferrovia che oggi ospita piccole aziende artigianali con parecchio da dire e raccontare in materia di qualità dei prodotti. Nella foto i suoi salami realizzati con carne di suini allevati allo stato brado. A pagina 72 l’articolo di Elena Benedetti.
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BEVI RESPONSABILMENTE
www.lambrusco.net
www.enzopancaldi.it - ph: Carlo Guttadauro, Archivio www.lambrusco.net
Gli Italiani vogliono conoscere l’origine delle materie prime per avere garanzie sul rispetto degli standard di sicurezza alimentare. Anche e soprattutto per un alimento come la pasta, che è alla base della nostra cultura gastronomica. Ciò nonostante la segnalazione dell’origine del frumento sulle confezioni di pasta che mettiamo nel carrello della spesa risulta essere ancora un tabù per molti pastai. A pagina 134 un articolo firmato da Riccardo Lagorio che fa il punto sul problema dell’etichetta e che racconta la storia di alcuni pastifici d’eccellenza (photo © Sea Wave – stock.adobe.com).
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TENDENZE
Il futuro si chiama e-grocery
Anche il più atteso evento fieristico dell’anno, l’Anuga di Colonia, riserverà un appuntamento dedicato ad una delle tendenze maggiormente studiate del momento, l’e-grocery, ovvero la trasformazione del punto vendita di prodotti alimentari nell’era del commercio elettronico e del digital marketing. Che si parli di una grande salumeria, di un piccolo negozio o del punto vendita di un mercato cittadino, non si può ignorare il fatto che il consumatore oggi si aspetta un servizio che va al di là dell’esperienza di acquisto diretto. Come si traccia il futuro delle vendite? In un complesso mix di bottega + e-shop + servizi aggiuntivi (come la consegna a domicilio o il ritiro della merce in negozio) + comunicazione social. E con il Natale alle porte è bene prepararsi per non lasciarsi sfuggire una clientela magari ipnotizzata dalle facilità di acquisto dei grandi colossi tipo Amazon.
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LETTERE ALLA REDAZIONE
Servizi igienici destinati al pubblico nei ristoranti Buongiorno, vorrei un parere in merito ai requisiti dei servizi igienici destinati al pubblico all’interno di ristorantipizzerie. Nel confronto coi medici e i colleghi, infatti, ci sono pareri contrastanti su questa problematica, in particolare sul tema se sia necessario o no che i lavabi siano dotati di acqua sia calda che fredda. Io ritengo, alla luce dei miei studi e approfondimenti, che per una corretta gestione del rischio e per tutelare la salute delle persone e avventori di queste attività, l’acqua calda, l’erogatore di sapone liquido o sistema similare, sistema a perdere o similare per asciugare le mani (tipo ventilatore ad aria calda) e pattumiere con coperchio ad apertura non manuale siano il minimo. Poi possiamo essere flessibili sui rivestimenti delle pareti. A mio avviso la cosa migliore la stabiliva la nostra vecchia normativa, a due metri minimo mattonelle o sistema similare e adeguato. Oggi magari si può evitare su tutte le pareti e fermarsi solo alle zone “sporche”, tipo WC e lavabo. Voi che idea avete? Grazie per la disponibilità. Antonio Romano La risposta al quesito Innanzitutto occorre chiarire che i requisiti di cui al Regolamento (CE) n. 852/2004 riguardano le strutture destinate agli alimenti e, per quanto riguarda i servizi igienici, unicamente quelli utilizzati dal personale addetto. I servizi per il pubblico sono richiesti per gli esercizi di somministrazione, pubblici esercizi, ecc…, e i requisiti dovrebbero essere dettati a livello comunale da disposizioni in materia edilizia
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e commerciale. A mio parere i servizi per il personale e quelli per il pubblico devono essere distinti e separati. Il problema dell’acqua calda o fredda (lo ripeto, per i soli servizi destinati al personale, che non devono comunicare direttamente con i locali in cui avviene la manipolazione di alimenti) viene risolto chiaramente dall’allegato II del Reg. (CE) n. 852/2004. Il capitolo I di tale allegato prevede, per tutte le strutture destinate agli alimenti (e il ristorante o pizzeria non rientra nei casi di esclusione) che “i lavabi (per lavarsi le mani) devono disporre di acqua corrente fredda e calda, materiale per lavarsi le mani e un sistema igienico di asciugatura”. Per quanto riguarda quest’ultimo, personalmente ritengo più igienico l’uso di asciugamani di carta monouso, dato che i ventilatori ad aria calda provocano movimenti d’aria che possono veicolare microrganismi dalle pareti e dai pavimenti. A proposito del “materiale per lavarsi le mani”, il regolamento non parla di sapone liquido, che comunque rappresenta un buon sistema igienico a differenza delle saponette. Tornando ai lavabi, lo stesso capitolo I afferma che “ove necessario gli impianti per il lavaggio degli alimenti devono essere separati da quelli per il lavaggio delle mani”. Il capitolo II completa la disposizione prevedendo che, per il lavaggio degli alimenti, gli impianti devono “disporre di un’adeguata erogazione di acqua potabile calda e/o fredda”. Invece, ancora ai sensi del capitolo II le attrezzature per il lavaggio di strumenti di lavoro e impianti devono “disporre
di un’adeguata erogazione di acqua calda e fredda”. A proposito delle pattumiere con coperchio ad apertura non manuale, sono completamente d’accordo sulla loro utilità da un punto di vista igienico, anche se ciò non trova riscontro nella normativa comunitaria. Il capitolo VI parla solamente di “contenitori chiudibili”, anche se poi afferma che “tutti i rifiuti devono essere eliminati in maniera igienica”: la presenza di contenitori con apertura manuale potrebbe non rispettare in pieno tale indicazione. Per le pareti, il regolamento prevede che esse debbano essere “facili da pulire e se necessario da disinfettare”, di materiali “lisci, lavabili, resistenti alla corrosione e non tossici”. Le modalità tecniche, così come la definizione delle aree in cui tali requisiti siano necessari e della loro altezza, sono lasciate alla valutazione e alle scelte dell’OSA, tenendo conto del rischio connesso alla tipologia di attività, agli alimenti trattati, all’utilizzo degli spazi, ecc… Anche la preesistente normativa nazionale (DPR 327/1980, art. 28) prevedeva “pareti e pavimenti… facilmente lavabili e disinfettabili”, comunque in rapporto al tipo di lavorazione effettuata: a mia memoria, la misura di due metri di altezza della parte lavabile e disinfettabile era prevista ai sensi dell’art. 29 del RD n. 3298/1928 per gli esercizi di vendita di carni fresche (pareti impermeabili e facilmente lavabili), e ai sensi dell’art. 22 del RD n. 994/1929 per le latterie (pareti rivestite di mattonelle smaltate o altro idoneo materiale). Marco Cappelli Tecnico della Prevenzione
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Sede operativa e produttiva:
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LEGISLAZIONE
Il campo minato dei claim di Sebastiano Corona
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a regola generale è che le informazioni volontarie, specie se indicate in etichetta, siano chiare, non inducano in errore, non siano ambigue nel significato, né confuse per il consumatore medio. In più, devono essere basate su dati scientifici pertinenti. In nessun caso, in etichetta o nella comunicazione al consumatore, in generale, le informazioni volontarie possono occupare lo spazio di quelle obbligatorie. Il Regolamento UE 1169/2011 stabilisce altresì che sia facoltativo dare informazioni relative alla presenza eventuale e non intenzionale di sostanze o prodotti che provocano allergie ed intolleranze oppure precisare che il prodotto sia idoneo per vegetariani o vegani o ad altri gruppi specifici di popolazione. Tuttavia, il produttore può avere le ragioni più svariate per evidenziare delle caratteristiche specifiche
dell’alimento che ne potrebbero giustificare non solo l’acquisto, ma anche un prezzo più elevato rispetto ai prodotti similari. Le peculiarità possono essere enfatizzate, ma alle condizioni previste dalla norma. Si vuole infatti evitare che una comunicazione distorta, priva di fondamento o anche solo equivoca, induca in errore il consumatore nella scelta in fase d’acquisto. Trattandosi di una materia molto delicata, le relative prescrizioni non sono da ricondurre solo al Regolamento 1169/2011, ma anche al 1924/2006. Di recente è stato inoltre licenziato in Italia il decreto sulle sanzioni. Pertanto l’utilizzo errato dei claim fatto in buona o malafede può essere molto rischioso, per le pene pecuniarie che comporta. Si può considerare claim qualunque messaggio, compresi quelli figurativi, riconducibili ad immagini o simboli, che
in qualsiasi forma suggerisca o sottintenda che un alimento vanti particolari caratteristiche sul piano nutrizionale o salutistico. Per sostanza nutritiva si intendono le proteine, i carboidrati, i grassi, le fibre, il sodio, le vitamine e i minerali elencati nell’allegato della Direttiva 90/496/CEE e le sostanze che appartengono o sono componenti di una di tali categorie. L’indicazione nutrizionale ha un significato ampio e riguarda qualunque indicazione che comunichi, anche solo indirettamente, che un alimento ha particolari proprietà nutrizionali benefiche perché apporta, o non apporta, o apporta in misura ridotta o maggiore, un valore energetico. E ancora, che affermi o anche solo sottintenda che contiene, o non contiene, o contiene in misura ridotta o accresciuta, una certa sostanza nutritiva o di altra tipologia.
La recente normativa sull’etichettatura punta a favorire il consumatore in nome della trasparenza (photo © Ciaran Griffin).
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Per indicazione sulla salute si intende invece più precisamente una qualunque indicazione che affermi, suggerisca o sottintenda l’esistenza di un rapporto tra una categoria di alimenti, un alimento, o uno dei suoi componenti, e la salute umana. Può pertanto essere relativa alla riduzione di un rischio di malattia, come per esempio qualunque messaggio che affermi, suggerisca o sottintenda che il consumo di una data categoria di alimenti riduce significativamente un fattore di rischio di sviluppo di una malattia umana. L’impiego delle indicazioni nutrizionali e sulla salute è permesso solo se sono rispettate alcune condizioni. Innanzitutto il riferimento all’effetto benefico deve essere supportato da basi scientifiche. Inoltre, l’indicazione è ammessa se la sostanza nutritiva o di altro tipo rispetto alla quale è fornita l’indicazione: a) è contenuta nel prodotto finale in una quantità significativa o, in mancanza di tali regole, in quantità tale da produrre l’effetto nutrizionale o fisiologico indicato, sulla base di prove scientifiche; b) non è presente o è presente in quantità ridotta, in modo da produrre l’effetto nutrizionale o fisiologico indicato, sulla base di prove scientifiche; c) e ancora: se la sostanza per la quale è fornita l’indicazione si trova in una forma utilizzabile dall’organismo. Le regole si riferiscono alle dichiarazioni sulle etichette dei prodotti, ma anche a quelle utilizzate nella pubblicità, nei siti web e persino nella vendita del prodotto sfuso, seppure con alcune semplificazioni. In sostanza il campo di applicazione è qualunque tipo di comunicazione al mercato, nelle varie forme. Tra le regole è previsto che possano essere utilizzati solo termini o locuzioni presenti in specifici elenchi e qualunque concetto non compreso nelle liste è da considerarsi vietato in assenza di specifica autorizzazione da parte dell’EFSA. Condizioni generali di utilizzo Ci sono inoltre delle condizioni generali di utilizzo dei claim. Questa particolare tipologia di messaggio al pubblico deve essere comprensibile per il consumatore medio, ovvero per un soggetto normalmente informato, ragionevolmente
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La trasparenza e la chiarezza nei confronti del consumatore sono divenuti da tempo una priorità per l’Unione Europea. Non a caso la stragrande maggioranza dei regolamenti entrati in vigore negli ultimi anni hanno la finalità di rendere consapevole chi acquista, senza il rischio di equivoci sulle caratteristiche reali di ciò che finirà nel carrello
attento e cauto. Non può incoraggiare consumi eccessivi di cibo, non può essere falsa, né ambigua o fuorviante. Allo stesso modo, non deve far nascere timori nei consumatori o sfruttarne la paura, per esempio dando adito a dubbi sulla sicurezza e/o sull’adeguatezza nutrizionale di altri alimenti. È altresì vietato fare riferimento a cambiamenti delle funzioni corporee o affermare, suggerire o sottintendere che una dieta equilibrata e varia non possa, in generale, fornire quantità adeguate di tutte le sostanze nutritive. I claim — che si devono sempre riferire agli alimenti pronti al consumo — devono essere formulati sulla base di prove scientificamente accettate e, se richiesto, rese disponibili agli organismi competenti dei controlli. Come anticipato, le indicazioni nutrizionali sono consentite solo se comprese nell’allegato al Regolamento 1924, ma è bene precisare che le indicazioni sulla salute sono consentite solo se sull’etichetta sono aggiunte anche altre informazioni, come una dicitura relativa all’importanza di una dieta varia ed equilibrata e di uno stile di vita sano. È altresì obbligatorio segnalare la quantità dell’alimento e le modalità di consumo necessarie per ottenere l’effetto benefico richiamato, come valore aggiunto. I prodotti destinati ad un’alimentazione particolare, le acque minerali naturali, le acque destinate al consumo umano e gli integratori alimentari sono oggetto di specifiche norme e pertanto si devono ritenere esclusi dal campo di applicazione del Regolamento 1924. Qualora una denominazione commerciale, una denominazione di fantasia o un marchio possano essere intesi come un’indicazione nutrizionale o sulla salute, questi possono essere utilizzati senza essere soggetti alle procedure
di autorizzazione, a condizione che l’etichettatura, la presentazione o la pubblicità rechi anche una corrispondente indicazione nutrizionale o sulla salute. Nel caso, invece, di denominazioni tradizionalmente utilizzate per indicare le peculiarità di una categoria di alimenti o di bevande che potrebbero avere un effetto sulla salute umana, la norma prevede una procedura differente che comporta, tra le varie cose, l’inoltro di una richiesta di autorizzazione all’autorità competente dello Stato Membro che, a sua volta, la trasmette alla Commissione per una pronuncia. Per uniformare più possibile il trattamento, la Commissione ha a suo tempo stabilito delle esenzioni e dei profili nutrizionali specifici, a cui si devono attenere gli OSA in riferimento ad alcune categorie di alimenti. Questo, allo scopo di stabilire se un prodotto è idoneo a riportare in etichetta un messaggio nutrizionale o salutistico, ma anche per evitare che l’indicazione nasconda il valore nutrizionale complessivo dell’alimento, confondendo il consumatore. È inoltre il caso di precisare che, pur essendo il Regolamento 1924 la principale norma sul tema, il successivo 1169 lo modifica in parte e tra le varie cose stabilisce che, qualora sia formulata un’indicazione nutrizionale e/o sulla salute per una sostanza nutritiva, la quantità di detta sostanza debba essere dichiarata. È altresì previsto che l’etichettatura nutrizionale dei prodotti sui quali è formulato un claim sia obbligatoria, ad eccezione della pubblicità generica. Solo a titolo esemplificato e non esaustivo segnaliamo che il termine “senza” può essere utilizzato quando l’alimento contiene un dato nutriente in quantità vicina allo zero, così come “basso” può essere utilizzato se il pro-
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I prodotti destinati ad un’alimentazione particolare sono oggetto di specifiche norme e si devono ritenere esclusi dal campo di applicazione del Reg. 1924.
dotto contiene quel nutriente in quantità maggiore rispetto agli alimenti etichettati con la dicitura “senza”. Quando invece si utilizza il termine “a ridotto”, il contenuto del nutriente deve essere in quantità inferiore del 30% rispetto alla versione classica. Ci sono poi una serie di altre indicazioni nutrizionali, come “a basso contenuto calorico”, che si riferiscono a prodotti che contengono non più di 40 kcal/100 g per i solidi o più di 20 kcal/100 ml per i liquidi. E ancora: “a ridotto contenuto calorico”, dove il valore energetico è ridotto di almeno il 30%, o “senza calorie”, quando il prodotto non contiene più di 4 kcal/100 ml. “A basso contenuto di grassi” significa che l’alimento non apporta più di 3 g di grassi per 100 g per i solidi o 1,5 g di grassi per 100 ml per i liquidi. “Senza grassi”, che il prodotto non contiene più di 0,5 g di grassi per 100 g o 100 ml. Così discorrendo, le precisazioni sono innumerevoli e riguardano, tra gli altri, i grassi saturi, gli zuccheri, gli zuccheri aggiunti, la dicitura “leggero/ light”, le fonti di acidi grassi Omega-3, di grassi monoinsaturi o insaturi, le fonti di fibre. Corre l’obbligo di precisare che “ad alto contenuto di proteine” può essere riferito solo a un alimento
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che vanti almeno il 20% di proteine sul valore energetico complessivo. Quando l’alimento è segnalato come “fonte di/ ad alto contenuto di… (vitamina e/o minerale)”, esso deve contenere rispettivamente almeno il 15-30% della dose giornaliera raccomandata di vitamina e/o minerale. Allo stesso modo, “a tasso ridotto di… (data sostanza nutritiva)”, la riduzione deve essere di almeno il 30% rispetto a un prodotto simile. Le condizioni di utilizzo delle indicazioni sono innumerevoli e per gli OSA che intendono utilizzarle vale davvero la pena di approfondire la materia. È il Decreto Legislativo 7 febbraio 2017 n. 27 a disporre la disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni di cui al Regolamento 1924, prevedendo sanzioni importanti e differenti a seconda della violazione specifica. L’operatore che utilizza claim che danno adito a dubbi sulla sicurezza o sull’adeguatezza nutrizionale di altri alimenti, o che incoraggiano o tollerano il consumo eccessivo di un elemento, per esempio, rischia una sanzione amministrativa pecuniaria da e 3.000 a e 30.000 se l’indicazione è sulla salute, da e 2.000 a e 20.000 se è nutrizionale. Più semplicemente, l’azienda che, nell’apporre l’indicazione nutrizionale o
sulla salute non la riferisce agli alimenti pronti per essere consumati, rischia da e 2.000 a e 10.000. L’OSA che non ottempera alla richiesta dell’autorità competente di fornire tutti gli elementi e i dati comprovanti i valori indicati in etichetta può vedersi comminata una sanzione amministrativa da e 2.000 a e 6.000. Chi invece fornisce indicazioni sulla salute non incluse negli elenchi delle indicazioni autorizzate rischia da e 6.000 a e 24.000. Ma le sanzioni più importanti sono inflitte in occasione di indicazioni che suggeriscono che la salute potrebbe risultare compromessa dal mancato consumo dell’alimento; che fanno riferimento alla percentuale o all’entità della perdita di peso; che fanno riferimento al parere di un singolo medico o altro operatore sanitario o altre associazioni. In questo caso si rischia da e 5.000 a e 40.000. La relativa attività di controllo può essere svolta dal Ministero della Salute, Regioni, Province autonome di Trento e Bolzano e Aziende Sanitarie Locali, secondo gli ambiti di rispettiva competenza. Queste autorità possono svolgere le attività di controllo anche su segnalazione di soggetti privati. Sebastiano Corona
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MIPAAF, approvato il decreto per l’obbligo di indicazione dello stabilimento in etichetta Il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali rende noto che il Consiglio dei Ministri ha approvato in via definitiva il Decreto Legislativo che reintroduce l’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione o confezionamento in etichetta. Il provvedimento prevede un periodo transitorio di 180 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale per lo smaltimento delle etichette già stampate e fino ad esaurimento dei prodotti etichettati prima dell’entrata in vigore del decreto ma già immessi in commercio. L’obbligo era già sancito dalla legge italiana, ma è stato abrogato in seguito al riordino della normativa europea in materia di etichettatura alimentare. L’Italia ha stabilito la sua reintroduzione al fine di garantire, oltre che una corretta e completa informazione al consumatore, una migliore e immediata rintracciabilità degli alimenti da parte degli organi di controllo e, di conseguenza, una più efficace tutela della salute. La legge di delega affida la competenza per il controllo del rispetto della norma e l’applicazione delle eventuali sanzioni all’Ispettorato repressione frodi (ICQRF). «È un impegno mantenuto — ha commentato il ministro Martina — nei confronti dei consumatori e delle moltissime aziende che hanno chiesto di ripristinare l’obbligo di indicare lo stabilimento. In questi mesi, infatti, sono state tante le imprese che hanno continuato a dare ai cittadini questa importante informazione. Continuiamo il lavoro per rendere sempre più chiara e trasparente l’etichetta degli alimenti, perché crediamo sia una chiave fondamentale di competitività e sia utile per la migliore tutela dei consumatori. I recenti casi di allarme sanitario ci ricordano quanto sia cruciale proseguire questo percorso soprattutto a livello europeo. L’Italia si pone ancora una volta all’avanguardia». (Fonte: Ufficio Stampa MIPAAF)
IL FOOD IN RETE
Social di Elena
2. Video, video e ancora video 1. Dal produttore al ristorante Direttoo (www.direttoo.it) è una giovane azienda sviluppata da un’idea del suo fondatore Diego Pelle che accorcia la distanza tra piccolo produttore e ristorante. Come funziona? È semplice: si tratta di piattaforma digitale di compravendita che verticalizza il rapporto tra i produttori e i ristoratori, accorciando la filiera agroalimentare. Chi produce ad esempio formaggi e salumi può contattare direttamente il ristorante, evitando intermediari (photo © direttoo.it).
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Come possiamo sopravvivere felici alla rivoluzione tecnologia? Marco Montemagno, guru italiano della comunicazione (facebook.com/montemagno), con i suoi 638.000 follower su Facebook ci aiuta e consiglia, ripetendo spesso che i video sono oramai uno degli strumenti più importanti per veicolare contenuti. Verissimo! Ma che siano però contenuti interessanti! Come ad esempio questi 4 minuti di racconto di Farmstead Meatsmith, una comunità agricola di allevatori e produttori di carni e salumi dello stato di Washington (USA) e visibili su vimeo.com/25677113, realizzata per la raccolta di fondi su Kickstarter (photo © farmsteadmeatsmith.com).
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food Benedetti
3. Cibo per la nostra anima Food for Soul è l’associazione no-profit fondata dallo chef modenese Massimo Bottura per combattere lo spreco alimentare e promuovere l’inclusione sociale e il benessere dell’individuo. Attraverso una rete di volontari sparsi in tutto il mondo, Food for Soul sviluppa e sostiene mense comunitarie, supportate dal lavoro di professionisti provenienti da diversi settori come chef, artigiani, distributori alimentari, artisti e designer. «Recuperiamo ingredienti di qualità e perfettamente commestibili, altrimenti destinati a essere sprecati, e li trasformiamo in pasti completi, nutrienti e salutari insieme a staff di cucina e volontari. Invitiamo chef rinomati a condividere il loro know-how e la loro esperienza per aumentare la nostra consapevolezza sul valore del cibo» si legge su www.foodforsoul.it. «Contaminiamo i nostri progetti di arte, design e bellezza per favorire un approccio olistico al nutrimento: che sia per il corpo, ma anche per l’anima. Il cibo, l’arte e la creatività sono linguaggi universali». Ecco il link Instagram: www.instagram.com/ foodforsoul_it (in foto Massimo Bottura, patron di Osteria Francescana; photo © bellavita.com).
4. Roscioli, tradizione e bellezza È una meta d’obbligo per chi vuole mangiare e bere bene nella Capitale. Salumeria Roscioli, a pochi passi da piazza Navona, è tante cose: una gastronomia polifunzionale, un wine bar e ristorante con una vastissima varietà di formaggi, salumi, etichette di vino, sottoli, mostarde, paste e conserve. Potete seguirli sul web (www.salumeriaroscioli.com) e attraverso i vari social. Il nostro preferito è Instagram: www.instagram. com/roscioliristorante (photo © instagram.com). Stupenda!
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ASA MAGAZINE, nasce la rivista digitale dell’Associazione Stampa Agroalimentare Italiana Da settembre 2017 ha preso il via ASA Magazine, una nuova testata giornalistica digitale che tratta argomenti legati al mondo italiano ed estero dell’agroalimentare, del biologico, del turismo, dell’analisi politica di settore. Un importante spazio è dedicato alle inchieste, alle novità, agli appuntamenti legati al mondo fieristico, alle iniziative editoriali e alle notizie provenienti dal mondo politico e istituzionale. Si tratta di una rivista digitale bimestrale “sfogliabile” all’interno del sito ASA www.asa-press.com, uno spazio che negli anni è diventato punto di riferimento di chi ha fatto della comunicazione agroalimentare la sua professione o di chi intende soddisfare curiosità, approfondire argomenti e avere risposte ai tanti suoi perché in questo settore. La redazione è formata da tutti i giornalisti e i comunicatori iscritti all’ASA – Associazione Stampa Agroalimentare Italiana, sodalizio che dal 1992 è la casa di tutti quei comunicatori che, oltre alla grande conoscenza di alcuni settori dell’agroalimentare, hanno nella serietà, nella moralità, nella sensibilità, nel rispetto e nella deontologia professionale le loro principali peculiarità. La direzione responsabile è stata affidata al presidente nazionale, Roberto Rabachino. Il comitato di redazione vede il vicepresidente Giorgio Colli, i consiglieri nazionali Patrizia Rognoni, Saverio Scarpino e Riccardo Lagorio, la segretaria nazionale Gudrun Dalla Via e la responsabile web e tesseramenti Enza Bettelli, che si occupa anche dell’editing dei contenuti. L’impaginazione e la grafica sono curate da Lorenzo Bettelli, il webmaster del sito ASA. «Da molti anni la realizzazione di una rivista digitale era nel programma attuativo dell’associazione che presiedo» ha dichiarato il presidente ASA. «Ora questo sogno diventa realtà. Ringrazio tutto il direttivo per avere dato seguito e sostanza alla mia proposta. Sono certo che sarà uno strumento utile e un valido supporto al mondo dell’agroalimentare e di tutte le realtà che lo compongono».
Le eccellenze gastronomiche del Centro Italia arrivano su Amazon Prime Now Amazon Prime Now continua ad ampliare la propria offerta di prodotti tipici regionali in pronta consegna e recapitati comodamente a casa per chi risiede a Milano e in 46 comuni dell’hinterland. A partire da settembre, infatti, è possibile acquistare i prodotti freschi e a lunga scadenza più gustosi provenienti da Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria e riceverli in un’ora o in finestre di due ore. Le nuove specialità enogastronomiche permettono di creare un intero pasto dai sapori prelibati. Tra i prodotti per gli antipasti figurano il Pecorino romano Dop, il salame al cinghiale e al tartufo ma anche le olive all’ascolana, la caciotta al pepe e la focaccia rusticana romana. E ancora, pici, fettuccine di Campofilone, guanciale, lo zafferano de L’Aquila e la porchetta di Ariccia Igp, fino ai famosi confetti di Sulmona. Le specialità abruzzesi, laziali, marchigiane e umbre si aggiungono all’ampia gamma di 20.000 prodotti già disponibili su Prime Now che include le specialità regionali di Puglia, Calabria e Sardegna, oltre a pasta, pane e bibite, decine di tipologie di frutta e verdura, pesce fresco e pregiati tagli di carne. Tutti gli iscritti Prime possono accedere al servizio Prime Now, utilizzando il proprio account, sia tramite la app, disponibile per i dispositivi iOS e Android, sia dal sito primenow.amazon.it. Il servizio Prime Now è attivo dalle 8:00 di mattina a mezzanotte, sette giorni su sette. La modalità di consegna in finestre di due ore non prevede costi aggiuntivi mentre la consegna in un’ora, disponibile per i CAP raggiunti da questa modalità, ha un costo di € 6,90. L’abbonamento ad Amazon Prime è disponibile per 19,99 euro l’anno. I primi 30 giorni sono gratuiti per i nuovi iscritti. >> Link: www.amazon.it/prime
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Antica Foma srl Via Limpido 85, - 41015 Nonantola (Modena) info@anticafoma.it - www.anticafoma.it
AZIENDE
Bernardini, la tradizione famigliare della qualità A Cenaia Crespina, in provincia di Pisa, la Bernardini Gastone è un punto di riferimento per le aziende che operano nel foodservice con una vasta gamma di prodotti e lavorati di carne, selvaggina soprattutto, e di pesce. Una realtà in crescita che storicamente lega il proprio marchio alla tradizione norcina toscana e oggi pensa di ingrandirsi ancora di Gaia Borghi
L’
ultima volta che ho incontrato Mauro Bernardini ad una fiera italiana di settore, erano quasi terminati i lavori di ampliamento del nuovo reparto
aziendale dedicato alla trasformazione dei prodotti ittici. «La richiesta da parte del mercato per questa tipologia di prodotti è in continua crescita ed è per questo motivo che abbiamo deciso di
fare un investimento che ci consentirà di crescere ulteriormente nella gamma delle nostre proposte». Una scelta che si è rivelata oltremodo azzeccata, considerando che, ad oltre un anno
Insaccati di cinghiale e di cervo.
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In alto: salatura del salmone. In basso: Mauro Bernardini con il fratello Marco e il figlio Luca.
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Il segreto del successo di Mauro Bernardini & Co.? L’utilizzo per tutte le due linee di prodotto, Carne e Pesce, di materie prime selezionate, personale qualificato, moderne attrezzature e un saper fare artigiano che questa famiglia ha nel sangue
Prosciutto di suino arrosto e petto di suino arrosto sottovuoto firmati Bernardini. dall’entrata in funzione del nuovo laboratorio, nel quale si lavorano tutte le referenze della Linea Pesce, la Bernardini Gastone continua a crescere sia nei volumi (per quanto concerne la gamma dei prodotti ittici affumicati/lavorati si parla di 670 tonnellate all’anno) che nel livello qualitativo della propria produzione. Una trentina di dipendenti per questa realtà che rappresenta un punto di riferimento nel foodservice nazionale — vantando clienti qualificati per i quali l’azienda lavora sia a proprio marchio che con private label — e il progetto di crescere ancora, ampliandosi ulteriormente nel più breve tempo possibile. «La nostra è una struttura snella e flessibile» mi dice Mauro. «Lavoriamo contando su una lunga esperienza che ci consente di essere attenti e molto disponibili nell’andare incontro alle eventuali richieste dei nostri partner commerciali». Il segreto del successo di Mauro Bernardini & Co.? L’utilizzo per tutte le due linee di prodotto (Carne e Pesce) di materie prime selezionate, personale qualificato, moderne attrezzature e un saper fare artigiano (penso ad esempio alla cura speciale riservata all’affumicatura delle diverse carni, una vera e propria arte) che questa famiglia ha davvero nel sangue.
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Tanto fumo, tantissimo arrosto Bernardini nasce come salumificio specializzato nella trasformazione delle carni. E, mai come in questo caso, il plurale è necessario. Sì perché la varietà presente sul catalogo aziendale è davvero impressionante. Se il papà di Mauro e Marco, Gastone, iniziò con un laboratorio dove il “classico” cinghiale — almeno per le tradizioni regionali toscane — andava per la maggiore, oggi da Bernardini si lavora anche il cervo, passando per daino, capriolo, capra, agnello e cavallo. Black Angus e Chianina le due razze scelte a rappresentare l’offerta per quello che riguarda il bovino, più vasto il “comparto” del suino, nel quale compaiono anche salumi realizzati con Pata Negra e Cinta senese. E ancora, tacchino, fagiano, anatra, oca, faraona. Nei salumi (alcune referenze sono disponibili anche pre-affettate in comode vaschette in ATP) troviamo la finocchiona, il lardo, le salsicce secche, la coppa di testa, i salami ai funghi porcini, all’aglio, al vino rosso, alle noci, al tartufo… Non mancano i ragù e le tartare. «Queste ultime hanno avuto un incremento delle vendite, sia quella di Black Angus che, per la linea dell’ittico, quelle di pesce spada e di tonno» puntualizza Bernardini.
Sulle orme di Hemingway Il vecchio pescatore Santiago avrebbe ritrovato il “suo” marlin tra la decina di referenze ittiche offerte da Bernardini, insieme a tonno e pesce spada (i due prodotti di punta, disponibili anche come preaffettati), salmone norvegese e dell’Alaska, storione bianco, butterfish, cernia, baccalà. «Un pesce molto difficile da lavorare, delicato, per il quale occorre dosare attentamente l’affumicatura pena la perdita delle sue caratteristiche distintive» mi dice Mauro. Completano la linea il carpaccio di polpo, le bottarghe di tonno e muggine e i ragù, di pesce spada e l’amatriciana di mare. Si poteva forse finire con qualcosa di più appetitoso? Gaia Borghi
Bernardini Gastone Srl Via Lavoria 81 56040 Cenaia Crespina (PI) Telefono: 050 644100 E-mail: info@bernardinigastone.it Web: www.bernardinigastone.it
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SPECIALE SPALMABILI
Spalma che ti passa Non si affettano ma si spalmano su pane, crostini, tartine, pizze, focacce. Sono i salumi italiani spalmabili, che dalle Alpi al profondo Sud raccontano una tradizione norcina fatta di antiche lavorazioni del suino. Gustosi, pratici e di tendenza di Giovanni Ballarini
I salumi spalmabili della copertina di Premiata Salumeria Italiana di questo numero: da sinistra, il Fifty-fifty di Bottega Liberati (Roma), la calabrese ‘nduja di Spilinga e il marchigiano ciauscolo di Re Norcino di San Ginesio, Macerata.
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Molti dei moderni salumi spalmabili sono meno grassi dei tradizionali e hanno un’ampia diversificazione nell’aromatizzazione e nel grado di piccantezza. Basilare per la loro diffusione, in molti casi, è la stata la comoda presentazione in vasetto
salumi spalmabili sono di antica tradizione in Italia e all’estero. In Germania molto diffuso, ad esempio, è il teewurst, una salsiccia morbida da spalmare sui cracker o sul pane. In Italia settentrionale (Piemonte e Valle d’Aosta) troviamo il salam ‘d patata; in Italia centrale, nelle Marche, è celebre il ciauscolo o ciabuscolo, in Umbria il salame cremoso di Norcia e in Abruzzo la ventricina teramana; in Italia meridionale la ‘nduja calabrese. La “spalmabilità” di questi salami è ottenuta dal grasso suino (con il 50% e più) o con la patata. Sono prodotti per lo più molto saporiti o piccanti, utilizzati in passato con la regola del “molto pane e poco salume”. Di recente i salumi spalmabili italiani sono usciti dai confini regionali tradizionali e, grazie anche al turismo, sono oggi conosciuti da un sempre maggior numero di persone. Da non sottovalutare l’opera di intelligenti cuochi che, grazie alle nuove tecnologie della cucina
scientifica o molecolare, hanno reso spalmabili tanti salumi che prima non lo erano: si pensi alle raffinate spume o alla mousse di mortadella. I salumi italiani spalmabili, usando in modo accorto le moderne tecnologie meccaniche e appropriate temperature di lavorazione, stanno evolvendo nella composizione, nel confezionamento e nelle proposte d’uso. Molti di quelli oggi offerti al consumatore sono meno grassi dei tradizionali e hanno un’ampia diversificazione nell’aromatizzazione e nel grado di piccantezza. Basilare per la diffusione e il successo di questi salumi, in molti casi, è la stata la loro presentazione in vasetto o altro involucro. Questo tipo di confezionamento è molto comodo, assicura una perfetta e lunga conservazione, ma, soprattutto, ne cambia l’immagine. Da prodotto povero, il vasetto di salume spalmabile assume l’aspetto di una preparazione di nobile gastronomia, pur non tradendo una radice tradizionale.
In Emilia col maiale si fa anche la marmellata Piace a tutti, dai bambini agli anziani. Chi la prova difficilmente potrà farne a meno. È la marmellata di maiale, un salume spalmabile che vede la sua origine nel centro della Pianura Padana. Particolarmente adatta come accompagnamento ai crostini o alle crescentine per la consistenza soffice e il gusto delicato, la marmellata di maiale viene prodotta esclusivamente dalla Macelleria Papotti di Carpi (MO). La ricetta è segreta e quando chiediamo maggiori informazioni al titolare, Roberto Papotti, ci recita un’antica formula che ne riassume le caratteristiche uniche: “essenza della Pianura Padana, punta di nebbia tagliata a coltello, aromi e spezie”. La marmellata di maiale, nata dall’esigenza di recuperare i gambi del prosciutto e quel che restava del lardo e del salame, oggi è l’espressione della gastronomia emiliana. Fedele al detto popolare secondo cui “del maiale non si butta via niente”, Papotti ha impiegato alcuni “ingredienti di recupero”, creando un prodotto strategico per la valorizzazione del territorio. Negli ultimi anni, infatti, in tanti si recano presso la bottega della famiglia Papotti per acquistare la prestigiosa marmellata. Per apprezzarne la morbidezza si consiglia di stenderla sul pane caldo e attendere qualche istante, al fine di sciogliere lo strato superficiale e donare una piacevole sensazione al palato. Ne basta un velo sottile per dare un sapore inconfondibile ad ogni piatto. Basta un po’ di fantasia e la marmellata di maiale può abbinarsi davvero a moltissimi piatti, per dare quel “tocco di Emilia” che rende il cibo indimenticabile. I più tradizionalisti arricchiscono i crostini con scaglie di Parmigiano Reggiano Dop e qualche goccia di buon Aceto Balsamico Tradizionale di Modena Igp. (C.Pa.)
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Lo speck da spalmare è prodotto da Massimo Corrà, titolare della macelleria Dal Massimo Goloso, quarta generazione di maestri delle carni e norcini fin dal 1850. L’attività è a Coredo, tra le Alpi trentine. Le carni di maiale utilizzate sono ricavate da suini cresciuti in pascoli locali, allevati con alimenti OGM free. Questo salume, profumatissimo e dalla grana cremosa e fine, si ricava dalla lavorazione dello speck stagionato almeno 6 mesi, ripulito dalle cotenne e dalle muffe e macinato con un tritacarne sottile. Grazie alla stagionatura il grasso dello speck diventa cremoso e spalmabile. «È ottimo come antipasto con l’aggiunta di mascarpone, nei primi piatti con panna da cucina, negli involtini di carne o di verdure oppure, semplicemente, sul del buon pane» ci dice Corrà. Oltre all’uso classico su tartine, pane o crostini, presentati in apertura di un pranzo o una cena, i salumi spalmabili ora stanno entrando in molti eventi gastronomici quali componenti di contorno di piatti e in diverse ricette di cucina dove sono apprezzati ingredienti. Già alcuni ricettari monotematici aiutano la diffusione in cucina e gastronomia di queste antiche ma sempre nuove preparazioni salumiere. Marche – Ciauscolo e salame morbido marchigiano Il ciauscolo è un salume tipico marchigiano ottenuto da maiali tra il nono e il quindicesimo mese di vita e di peso medio intorno ai 170 kg, con una buona copertura di lardo. I tagli di carne suina costituenti l’impasto sono la pancetta, la spalla e rifilature di prosciutto e di
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lonza. Dopo la macellazione, la carne è raffreddata per 24 ore e poi tagliata, il magro è mischiato col lardo e il tutto condito con sale, pepe nero macinato, vino, aglio pestato (esistono varianti con buccia d’arancio e liquore mistrà). Seguono macinatura e insacco in budello naturale di maiale o di bovino. La fase di asciugatura può essere condotta in locali a temperatura ambiente o in celle a temperatura ed umidità controllate nelle quali sia assicurato un sufficiente ricambio d’aria naturale. Al termine di tale fase è ammesso un trattamento di affumicatura. Per la fase di stagionatura, il prodotto dovrà sostare, per un periodo minimo di 15 giorni, in appositi locali con temperatura variabile fra 8 e 18 °C. Anche dopo quattro mesi il ciauscolo rimane morbido e spalmabile, per essere gustato sopra una fetta di buon pane.
Il salame morbido è un insaccato spalmabile della tradizione marchigiana che non si chiama ciauscolo perché, dopo l’introduzione della Igp, si è scelto di privilegiare una ricetta familiare che non coincide con quella del Disciplinare. Viene lavorato in maniera diversa da ogni singolo norcino. Prodotto tipico della tradizione delle campagne, è ottenuto da un impasto di vari tagli di carne di maiale scelti fra quelli della pancia del suino e stagionato solo per una settimana. Per la sua morbidezza si spalma abitualmente sul pane per tartine o crostini. Lombardia – Lardo pesto In Lombardia, soprattutto nella bassa mantovana e cremonese, il lardo di maiale è finemente pestato col coltello, riscaldato con frequenti immersioni nel
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Prodotto tradizionale della Calabria, la ‘nduja di Spilinga è un salume piccante a base di carne di maiale e peperoncino (in foto a lato quello calabrese; photo © francovolpato – stock.adobe.com). Nel comune di Spilinga, in provincia di Vibo Valentia, ogni anno ad agosto ha luogo la Sagra della ‘Nduja, che mescola folclore, tradizione e gastronomia in una grande festa che si ripete dal 1975. brodo caldo e condito con aglio e altri aromi, soprattutto rosmarino. Prende il nome di lard pist o quello più moderno di lard mix. Da spalmare sul pane. Veneto – Soppressa spalmabile Accanto alla tradizionale soppressa veneta, vi è anche quella con una percentuale di grasso ridotta che, fresca, si spalma sulla polenta abbrustolita. Friuli – Pestat e sasaka Due sono i salumi del Friuli da spalmare e da usare per condimento, pestat e sasaka, prodotti tradizionali frutto dell’inventiva popolare per conservare con sapori particolari le abbondanti parti grasse del maiale di un tempo. Il
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pestat è costituito da lardo macinato e mescolato con ortaggi (carote, sedano, cipolle…). Si può usare come fondo di cottura per insaporire le carni oppure spalmato su una fetta di pane caldo come una bruschetta. La sasaka o zaseka è una creazione della cultura gastronomica del territorio dei 3 confini. Questo prodotto delle Valli Giulie è in
pratica del lardo macinato e speziato. Ideale per crostini. Trentino – Mortandela Le sue origini sono in Val di Non: è un macinato di diverse parti di suino formate in polpette che subiscono un processo di affumicatura e hanno l’abbinamento ideale con la polenta abbrustolita.
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Da un paio d’anni Roberto Liberati, nella sua Bottega del quartiere Don Bosco a Roma, produce una salsiccia spalmabile (che si può anche affettare) che ha chiamato Fifty-fifty. Le carni utilizzate provengono esclusivamente da suini neri. Al momento Roberto si rifornisce presso un piccolo allevamento di Ceccano, in provincia di Frosinone. Qui si allevano suini allo stato brado su una superficie di 20 ettari di bosco, in un ambiente completamente naturale e incontaminato. Perché Fifty-fifty? «Lavoriamo un 50% di parte grassa, ricavata dal buon lardo del dorso, e il restante 50% con la carne magra» ci spiega Roberto. Come si consuma? «Si può spalmare o affettare e gustare con del pane sciapo oppure al cucchiaio, anche se ci sono già elaborazioni come quella di Giovanni Milana che lo sta utilizzando per condire una tipica pasta della tradizione ciociara». All’assaggio il Fifty-fifty presenta un ottimo bilanciamento di sapidità e dolcezza e un sapore unico che… può creare dipendenza! Emilia – Grasso pesto Il condimento da spalmare per eccellenza in Emilia è il pesto, un preparato cremoso a base di lardo di maiale, salato a secco con sale marino e pepe da usare anche per insaporire i piatti della cucina locale. A Modena, il pesto è un battuto di lardo di maiale, aglio e rosmarino principalmente utilizzato per la farcitura delle tipiche crescentine montanare o i borlenghi. La crescentina, molto calda, è tagliata in due e farcita con pesto modenese e Parmigiano Reggiano grattugiato. Chiusa immediatamente e mangiata dopo appena un minuto è squisita: il lardo del pesto si scioglie grazie al calore della tigella e sprigiona tutti gli oli essenziali del rosmarino. Il pesto può essere utilizzato anche per la farcitura di altre specialità emiliano-romagnole,
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ad esempio le piadine, ottime con pesto, prosciutto crudo e scaglie di Parmigiano. Toscana – Crema di lardo rosa È un lardo maturato in apposite conche con aglio e aromi, oppure marinato con olio d’oliva, trasformato in una crema delicatissima da spalmare sul pane o da usare in cucina. Abruzzo – Ventricina La ventricina è un salume da spalmare, a base di lardo e carne di suino, sale ed erbe aromatiche, oggi venduta anche in vasetto; la confezione tradizionale è nello stomaco di maiale, da qui la denominazione. La consistenza malleabile e il sapore ricco e aromatico la rendono il condimento perfetto per infinite preparazioni. Preparata con
porzioni magre e grasse di suino, la ventricina in Abruzzo non teme rivali e ha ormai guadagnato uno status di tutto rispetto tra le specialità locali. Una volta macinata, la carne è insaporita con gli aromi e profumi di aglio, pepe, peperoncino dolce e piccante, rosmarino, finocchio e buccia d’arancia. Un delizioso incontro di aromi da spalmare sul pane o da aggiungere al ragù per creare un primo piatto ricco e unico. Molise – Crema di pancetta Con le carni di maiali allevati in proprio, la Antonelli Salumi di Castel del Giudice (IS) fa un’ottima pancetta. Questa, stagionata e privata di cotenna, viene tritata, diventando una crema da spalmare sul pane caldo. L’eccellenza della semplicità.
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A Spilinga ogni 8 agosto si celebra la Sagra della ‘Nduja, ormai diventata un alimento associato all’intera Calabria. La storia del prodotto si perde tra i racconti e le interpretazioni storiche divergenti. La sua origine è comunque quella di un alimento povero, nato dalla necessità dei contadini di sfruttare ogni parte del suino
I rigatoni Verrigni con broccoletti, salsiccia Fifty-fifty di Bottega Liberati e primo sale. Un classico della cucina povera rivisitato da Giovanni Milana, cuoco del ristorante Sora Maria e Arcangelo di Olevano Romano (www.soramariaearcangelo.com). «Prendo i broccoletti e in padella ne faccio un pesto brillante con aglio e peperoncino. Schiaccio la salsiccia Fifty-fifty e su un pentolino con un filo di olio la scotto per non più di 30 secondi. Procedo quindi a mantecare la pasta con i broccoletti in padella e aggiungo la salsiccia. Nell’impiattamento aggiungo un po’ di Fifty-fifty sbriciolato sopra la pasta, senza dimenticare un tocco finale di ricotta di pecora e briciole di pane tostato» ci racconta Giovanni dalla sua cucina (photo © reportergourmet.com). Basilicata – Borzillo Tra il Vulture e le Dolomiti lucane, dalle carni di cinghiali e peperone dolce di Senise si ottiene il borzillo, un insaccato da spalmare sul pane caldo.
Il borzillo è una sorta di ’nduja lucana di antica tradizione. Il peperone dolce di Senise regala alla carne di cinghiale un gusto morbido, aromatico. Lo si può spalmare su bruschette calde, utilizzare nella zuppa di fagioli e consumare come antipasto
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Calabria – ’Nduja È il salume da spalmare per eccellenza, preparato con carne, lardello grasso e peperoncino che dona il caratteristico colore rosso, che alcuni vorrebbero in proporzione di ⅓, ⅓, ⅓. La ’nduja è tra i prodotti tipici calabresi con un nome che non è di derivazione araba o greca, come potrebbe credersi, ma francese (non bisogna dimenticare la presenza francese nella regione, soprattutto durante il periodo di Gioacchino Murat). La questione linguistica non deve ingannare, anche se il salume calabrese (spalmabile, piccante e fatto con carne di maiale) deriva il suo nome dalla parola andouille, con cui però non ha nulla in comune, se non che si tratta sempre di insaccati. L’andouille si compone di parti differenti della macellazione del maiale e del bue. Per
l’andouillette, invece, si usa intestino di maiale unito, in alcune sue varianti, alla trippa di bovino. La prima è un antipasto e si mangia fredda, la seconda è una portata vera e propria che offre diverse possibilità di preparazione. I Francesi sono orgogliosi di questa salsiccia: esiste infatti l’Association Amicale des Amateurs d’Andouillette Authentique e poi la leggenda vuole che il re Luigi XIV passasse appositamente da Troyes, una delle città più famose per la sua produzione, per assaggiarla, imitato centocinquant’anni dopo da Napoleone. Spilinga, in provincia di Vibo Valantia, è ritenuto il comune calabrese di migliore produzione del salume, anche se la ’nduja si è ormai diffusa in quasi tutto il Vibonese. È un salame da spalmare, si gusta come antipasto sul pane, sulla pizza o per dare un tocco piccante ai sughi, e serve a elaborare alcuni primi piatti classici come i fagioli con la ’nduja. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma
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Ciauscolo, salume della ricostruzione La conoscenza e la diffusione dei prodotti tipici può contribuire alla ricostruzione dei territori terremotati. Questo è il caso del ciauscolo di Mauro Magagnini
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opo il terremoto del 2016 non facile è la ripresa economica dei territori e, soprattutto, delle località più devastate dalla tragedia come Castelsantangelo sul Nera, Visso e Castelluccio. Ripresa che può essere aiutata dall’enogastronomia e, relativamente ad essa, anche da alcune produzioni
tipiche come il ciauscolo, tipico salume spalmabile, prodotto con la macellazione casalinga del maiale e da piccole e medie industrie artigianali locali, in un percorso che vede interessate anche le locali delegazioni dell’Accademia Italiana della Cucina*. Per la valorizzazione del ciauscolo il comune di Castelsantangelo sul Nera annualmente assegna
il premio Ciauscolo d’Oro, destinato a chi si adopera per lo sviluppo e la valorizzazione del pregiato salume tradizionale che merita sì di essere tutelato e, al tempo stesso, trovare posto nella moderna gastronomia, partecipando al contempo in modo attivo al processo di ricostruzione sociale ed economica del territorio colpito dal terremoto.
Il salame più tipico delle Marche, rinomato per la sua morbidezza e la sua spalmabilità, ha ottenuto nel 2009 il marchio Igp. Il disciplinare di produzione ne sancisce le caratteristiche fisiche, chimiche e organolettiche, ne delimita l’area geografica di produzione e stagionatura, stabilisce le razze suine utilizzate e la loro alimentazione (photo © alexandro900 — stock.adobe.com).
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foro Europeo per l’appendibilità La busta ricopre completamente il prodotto dandogli più appeal!
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Per la valorizzazione del ciauscolo il comune di Castelsantangelo sul Nera annualmente assegna il premio Ciauscolo d’Oro, destinato a chi si adopera per lo sviluppo e la valorizzazione del pregiato salume tradizionale che merita sì di essere tutelato e, al tempo stesso, trovare posto nella moderna gastronomia
In cucina il ciauscolo è ottimo spalmato su crostini, fette di pane e focaccia. Si abbina bene ai formaggi e ai vini del territorio di origine (photo © Vincenzo De Bernardo — stock.adobe.com). Ciauscolo, ciabuscolo o ciarumbolo Il termine dialettale e popolare mar chigiano usato per indicare questo salume a farcia molto fine e ricco di grasso deriva dal latino ciabusculum o piccolo cibo. Insaccato nel budello gentile (retto), si consumava spalmato sul pane e, ancora alla metà del secolo scorso, quello prodotto dai contadini era di un colore rosa chiaro per l’alto contenuto in grasso di maiale. Il ciauscolo è citato per la prima volta in un atto notarile appartenente al territorio di Visso risalente a metà del Settecento. Altre attestazioni storiche sono presenti all’interno dei Prezzi dei Generi, documento risalente al 1851 e conservato nell’Archivio Notarile del Comune di Camerino, in cui tra la lista dei prodotti alimentari quotati ed elencati è presente anche il ciauscolo, affiancato dal relativo prezzo. Non è un caso che la sua produzione si concentri quindi
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nella Valle di S. Angelo, tra Marche ed Umbria, tra Colfiorito e Pieve Torina. In un articolo pubblicato da ricercatori dell’Università di Camerino sulla rivista italiana Industrie alimentari (Rea S. et al., 2003, Storia, caratteristiche e tecnologia di produzione del ciauscolo) si legge che i documenti più antichi con riferimenti espliciti al ciauscolo risalgono al 1737 e sono rappresentati da due atti: una comunicazione annuale relativa ai prezzi dei principali prodotti alimentari dell’epoca (Archivio Notarile di Camerino,1737) e l’inventario di una bottega di Camerino. Un atto notarile risalente al 1750 riguarda invece un inventario di beni stilato in occasione della registrazione di un’eredità. Degno di nota è osservare che i soli prodotti a base di carne suina insaccati nominati nel documento dell’epoca risultino salami, soppressate e ciauscoli. Oggi il ciauscolo vanta il riconoscimento di Indicazione Geografica Protetta (Igp)
e ha una produzione annua di 500 tonnellate. Oltre all’uso tradizionale su tartine, pane o su cracker il ciauscolo sta ora entrando in molti eventi gastronomici quale componente di contorno di piatti, in diverse ricette di cucina dove sono apprezzati ingredienti e già alcuni ricettari monotematici aiutano la diffusione di questa antica e sempre nuova preparazione salumiera. Ing. Mauro Magagnini Delegato onorario Delegazione di Ancona Accademia Italiana della Cucina Note * L’Accademia Italiana della Cucina (www.accademiaitalianadellacucina.it) nasce durante una cena tra amici il 29 luglio del 1953. Organizzata in Delegazioni territoriali l’Accademia lavora dalla sua costituzione alla valorizzazione, alla ricerca e all’ampliamento della conoscenza della cultura gastronomica italiana.
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Re Norcino: ode al ciauscolo marchigiano di Gaia Borghi
San Ginesio è un antico borgo medievale in provincia di Macerata, nell’area del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, circondato da mura possenti che per secoli hanno difeso i suoi abitanti dagli assalti esterni. Purtroppo, però, non stati capaci di arginare il terremoto che ha così fortemente colpito il Centro Italia lo scorso anno. Quello che era conosciuto come il Paese delle 100 chiese, tutte lesionate dal sisma, è attualmente in uno stato di abbandono. C’è chi ha dovuto lasciare la sua abitazione, chi ha perso tutto e c’è chi, fortunatamente, nonostante aver subito danni importanti a casa ed azienda, ha resistito, anzi, non si è mai fermato. Sto parlando di Re Norcino, una realtà produttiva che rappresenta indiscutibilmente uno dei “gioielli” della salumeria regionale marchigiana, conosciuta e riconosciuta (attraverso premi, attestati, riconoscimenti vari) su tutto il territorio nazionale per la bontà e la qualità delle sue produzioni artigianali, a partire dal più noto dei salami tipici delle Marche, il ciauscolo. L’azienda è di proprietà della famiglia Vitali e, dal 1957, “coltiva, alleva, produce e vende”. Quattro fratelli (in foto), Giampiero, il Norcino, Gianluca, il Tecnico, Massimiliano, l’Allevatore, Giuseppe, l’Amministratore, e le loro famiglie, insieme al cugino Stefano Antognozzi, che si giostrano tra allevamento, laboratorio di produzione, negozio, amministrazione e ufficio vendite, garantendo alla propria clientela il controllo completo della filiera. Rigorosamente marchigiana. «L’azienda — mi racconta proprio Stefano — prende avvio dalla costruzione da parte di nostro nonno insieme a mio zio di un allevamento di suini nel 1957 a Petritoli, in provincia di Fermo, a 15 km dalla costa. Alla fine degli anni Novanta, con notevoli investimenti, mio zio e i suoi quattro figli hanno ristrutturato una vecchia casa colonica nell’alto maceratese a San Ginesio, per trasformarla in un laboratorio norcino artigianale. Il controllo diretto della filiera è il nostro segreto: seguiamo tutte le fasi, dalla selezione dei capi alla nascita, alla lavorazione delle carni, fino alla distribuzione. Per questo motivo abbiamo deciso di metterci la faccia e di fornire insieme alle carni fresche e ai salumi un’autocertificazione che ne descriva tutti i passaggi, una sorta di tracciabilità». La famiglia si occupa di tutto il processo produttivo. «Coltiviamo i cereali destinati a diventare mangime nei nostri terreni, alleviamo suini di razze pregiate nati nelle Marche nel nostro allevamento di Petritoli classificato BAT (Best Available Technique) e autonomo dal punto di vista energetico grazie alla produzione di energia da fonti rinnovabili» prosegue Stefano. «I nostri prodotti sono interamente marchigiani, realizzati con le carni di suini di razza italiana, nati, cresciuti e lavorati nella regione Marche, accompagnati da autocertificazioni volontarie sulla nascita e allevamento del capo, provenienza dei mangimi e macellazione. Dove è possibile, non mettiamo conservanti oltre al salnitro (o nitrato di potassio), utilizzato anche tradizionalmente in passato dai nostri nonni come disinfettante. Questa filosofia si inquadra in un lungo percorso di limitazione dei conservanti e che un giorno, speriamo il prima possibile, ci porterà a poter togliere definitivamente dai nostri salumi anche quel minimo di chimica che usiamo». Un’esperienza
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di lunga data, grande professionalità e attenzione al proprio territorio, al benessere degli animali in allevamento così come al benessere e alla salute dei consumatori che scelgono Re Norcino. «Realizziamo la lavorazione artigianale e la stagionatura naturale dei salumi che vengono immessi nel mercato nei nostri punti vendita diretti o nei punti vendita di rivenditori selezionati gestiti direttamente con un approccio one to one» mi racconta ancora Stefano. «Non distribuiamo i nostri prodotti alla GDO e non abbiamo intermediari. Con i nostri clienti, con cui stringiamo collaborazioni non soltanto a Roma, oltre alle Marche, coltiviamo un rapporto diretto. Sono queste scelte produttive che ci consentono di realizzare i salumi tipici della tradizione marchigiana in modo artigianale per realizzare una perfetta unione tra genuinità e gusto». Ciauscolo & Co. Sono tante le specialità a marchio Re Norcino, dalla salamella di fegato passando per il salame al tartufo, senza dimenticare il prosciutto, il guanciale e la pancetta arrotolata, la lonza e il lonzino, la Norcidella, interpretazione personale della mortadella, i cotechini, la coppa di testa, le salsicce e la porchetta, ma a noi oggi interessa parlare del ciauscolo (foto in alto e al centro), dal 2009 ulteriormente riconoscibile grazie al marchio Igp dell’Unione Europea. «Si tratta del salame marchigiano più famoso» spiega Stefano Antognozzi. «Pasta morbida, 40% di grasso 60% di magro e rifilatura grasse di lonza e pancetta. Sale, pepe, aglio e vino bianco. Abbiamo migliorato la ricetta ed il disciplinare di produzione dell’Igp inserendo il sale integrale dolce di Cervia e un aglio Dop e presidio Slow Food essiccato al sole come un tempo. Il sole aiuta a portare l’umidità al cuore vicina allo zero e ciò lo rende più dolce e digeribile, meno acido e poco incline alla fermentazione anticipata. Infine, mettiamo la metà del salnitro di potassio che ci indica il disciplinare». Finalista al Campionato italiano del salame nel 2015 e premiato con i 4 spilli nella guida Guida Salumi d’Italia edizione 2017, il ciauscolo Re Norcino ha un “fratello” più grande che si chiama Il Campagnolo (foto in basso). «È il ciauscolo come lo si faceva in passato» puntualizza Stefano. «L’impasto è più grasso ma molto simile al ciauscolo Igp. L’aglio viene lasciato in infusione col vino cotto e poi tolto. La macinatura è più grossolana e viene stagionato un mese in più rispetto al ciauscolo Igp, oltre ad avere una pezzatura maggiore. Il sapore finale risulta più dolce». Il Campagnolo è stato riconosciuto come il miglior ciauscolo all’undicesimo Campionato italiano del salame 2016 e, sempre lo scorso anno, ha vinto il premio Golosario al Vinitaly. Restando in tema di vino, e considerando la grassezza del prodotto, abbinatelo ad un bianco locale tipo Pecorino o Verdicchio. Superlativo! >> Link: www.renorcino.it
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Ventricina teramana, salume antico La tradizionale spalmabilità di questo insaccato si associa al moderno gusto dei consumatori, facendone un salume di successo di Giovanni Ballarini
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elevato numero dei salumi abruzzesi si giustifica dal fatto che, fin dai tempi più antichi, la loro preparazione era soprattutto di tipo familiare e variava quindi da luogo a luogo. In Abruzzo non mancano i salumi ovini, come il prosciutto di capra della Valle del Sagittario in provincia dell’Aquila e la salamella di Tratturo. Tra i salumi tradizionali di maiale più interessanti vi sono le mortadel-
line di Campotosto, a forma d’uovo e per questo dette anche cojoni di mulo; ad Annoia e Ortona con le trippe del maiale si preparano le annoia (localmente dette nuje o annuje), ma nella regione tipica è la ventricina, della quale si conoscono varietà locali e rilevanti per composizione e uso. Citiamo in particolare la ventricina di Guilmi, la ventricina di Montenero di Bisaccia, la ventricina alla papalorica di Montemitro, la ventricina di
Crognaleto, la ventricina vastese e la ventricina teramana, uno dei salumi spalmabili italiani. Ventricina Il termine ventricina deriva chiaramente dal ventre, che indica lo stomaco nel quale un tempo si insaccavano carni e grasso di maiale tritati, in modo analogo ad altri contenitori naturali quali la vescica, il pericardio, gli intestini o sacche ottenute da membrane quali il peritoneo
La ventricina di Enrico dell’azienda agricola Fracassa Roberto di Sant’Egidio alla Vibrata, Teramo.
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La ventricina di Enrico noi l’abbiamo assaggiata (e fotografata) durante il congresso milanese Identità Golose qualche anno fa. Cremosa all’aspetto, ha un sapore leggermente piccante, con note che ricordano il peperone. Con la focaccia calda appena sfornata è indimenticabile (photo © Elena Benedetti).
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o la pleura. La nascita di questo prodotto tipico è collocata nel 1800, ma già nel Decamerone di Giovanni Boccaccio (XIV secolo) si trova un riferimento che potrebbe alludere a questa tipologia di salumi (“… e quindi passai in terra d’Abruzzi dove gli uomini e le femmine vanno in zoccoli su pè monti rivestendo i porci delle lor busecchie medesime…”). Si parla quindi di salumi di maiale investiti o insaccati preparati nella busecchia o buzzo, termine che si ritiene connesso con la radice germanica che significa stomaco o ventre e anche trippa (da qui il termine milanese e di altre aree padane di buseca, italianizzato in busecca e busecchia, per indicare i prestomaci dei ruminanti e i piatti che se ne ricavano). Anche l’espressione italiana “di buzzo buono”, cioè “con impegno”, significherebbe “con tutto lo stomaco, con tutte le interiora, con tutto lo sforzo e l’energia possibili”. La Statistica generale del Regno di Napoli voluta nel 1811 da Gioacchino Murat riporta: “il ventricolo del porco ripieno di carne condito di sale e di finocchi”. Il termine ventricina, però, appare più precisamente nel 1880 nel Vocabolario dell’uso abruzzese compilato d Gennaro Finamore (Carabba): “Ventricine. sf. Salame di carne insaccata nella trippa [ventre, NdR] del maiale istesso”. Seguendo una consuetudine medievale e rinascimentale, all’inizio dell’Ottocento nella preparazione della ventricina si usa il finocchio, certamente i semi della pianta selvatica, come peraltro in altre regioni italiane e, tra queste, la Toscana, dove persiste ancora il salame finocchiona. La convivenza e poi anche la sostituzione del finocchio con il peperoncino, da cui deriva la tipica colorazione rossa e la piccantezza della ventricina, avvengono a metà del XIX secolo, quando la coltivazione del peperoncino proveniente dalle Americhe si diffonde in Italia. Possiamo ritenere che tra il 1850 e il 1880 vi sia il passaggio dalla ventricina bianca con il finocchio, descritta nella Statistica del 1811, alla ventricina rossa piccante oggi conosciuta. Come la ventricina si modifica nel tempo, lo stesso avviene nei differenti territori abruzzesi, dove la tecnica di lavorazione, tramandata di generazio-
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Modalità di utilizzo e consumo La ventricina teramana non teme rivali e ha ormai guadagnato uno status di tutto rispetto tra le specialità locali. Con il suo sapore ricco, leggermente piccante, speziato e aromatico, è il condimento perfetto per infinite preparazioni. Può essere spalmata sul pane, su gallette o cracker e anche utilizzata per la preparazione di sughi. Generalmente si serve negli antipasti in abbinamento ad altri salumi e formaggi. Alcuni la adoperano per preparare una carbonara rivisitata, sostituendo la ventricina alla pancetta. Il tutto magari accompagnato da un vino fermo e deciso locale come il Montepulciano d’Abruzzo. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma
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Ventricina teramana La ventricina teramana, tipica come il nome suggerisce del territorio di Teramo, è preparata con porzioni magre e grasse di maiale (pancetta 40%, guanciale stagionato 30%, prosciutto suino stagionato 30%). Alla carne, finemente macinata per assicurare la spalmabilità del prodotto finale, sono aggiunti sale, aglio, pepe, peperoncino dolce e piccante, rosmarino, finocchio e buccia d’arancia. Come in altri salumi sono inserite le minime quantità di legge di correttori d’acidità, zuccheri, antiossidanti e conservanti. Realizzato l’impasto, diverse sono le varianti per la forma finale. Una versione è il modello culatello dove l’impasto, insaccato nella vescica di maiale o in budello naturale o sintetico, è conservato appeso. In alternativa l’impasto può essere riposto in un barattolo di vetro. Dopo qualche settimana di stagionatura in celle frigorifere o comunque in un ambiente fresco e umido con temperatura mai superiore ai 13 °C, la ventricina è pronta per essere degustata.
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ne in generazione, porta alla nascita di numerosi variazioni di ventricine che si distinguono per la scelta delle carni, la grandezza, la quantità di peperone aggiunto all’impasto, il tipo d’insacco (non si usa più lo stomaco, ma la vescica di maiale o di bovino, poi altri involucri) e il grado di spalmabilità. Mentre in alcune rimane questa caratteristica, infatti, in altre scompare e la ventricina diviene un salume da taglio.
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Bartocci: salumi e solidarietà Il Salumificio Bartocci di Matelica produce un interessante assortimento di specialità norcine, tra le quali il Vissuscolo, salame morbido spalmabile al finocchietto, al tartufo, al rosmarino, dal gusto inconfondibile di Massimiliano Rella
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na storia di attaccamento alla terra tra le colline marchigiane, di amore per il territorio, le tradizioni e le produzioni tipiche, ma anche di un’amicizia che si trasforma in solidarietà, concreta e operosa. Dallo scorso anno, Renato Bartocci ospita nella sua azienda alla periferia di Matelica (Macerata) l’amico norcino di Visso Giorgio Calabrò, che ha visto distrutto il suo laboratorio dal terremoto dello scorso anno. Bartocci gli ha ceduto una parte dei locali in modo che Calabrò possa continuare a produrre, a dispetto
di un sisma che ha sconvolto e devastato interi borghi appenninici, distrutto e messo in ginocchio tante piccole realtà produttive. E così i salami con le noci, con i pezzetti lardellati di pecorino, il prosciutto e il salame di pecora (100%), ma anche le salsicce di pecora e cinghiale, o il Vissuscolo — un salame morbido spalmabile al finocchietto, al tartufo, al rosmarino — possono ancora raggiungere banconi e tavole. I due produttori, insieme al Salumificio Eredi Bartolazzi, di Muccia, e all’allevatore Raponi di Pollenza, hanno anche richiesto il rico-
noscimento della Dop (denominazione di origine protetta) per il Ciauscolo tradizionale maceratese, un salame spalmabile dal gusto inconfondibile. Amicizia a parte, il Salumificio Bartocci di Matelica produce un interessante assortimento di specialità norcine già dal 1992, anno dell’apertura del primo negozio del signor Bartocci, oggi sessantenne. Qualche anno dopo l’attività si ingrandisce e nel 2005 apre un grande laboratorio con negozio di salumeria e macelleria alla periferia del paese; l’altro negozio, invece, è in
Giorgio Calabrò e Renato Bartocci con un Vissuscolo, salame morbido spalmabile.
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Passione per la carne per tradizione.
Giorgio Calabrò e Renato Bartocci mentre preparano il salame morbido maceratese.
Il salame morbido matelicese si ottiene mescolando rifilature di prosciutto, coppa, lardo e pancetta. L’impasto è insaporito con sale, pepe, aglio e Verdicchio di Matelica. Da provare anche affumicato centro storico. Insomma, un’azienda di piccole dimensioni che impegna tra produzione e vendita quattro soci familiari e cinque dipendenti. Nel 2016 il Salumificio Bartocci ha lavorato 250 quintali di carne suina, acquistata in zona e in altri mattatoi del centro Italia; carni da razze Large White, Landrace e qualche incrocio con la Mora romagnola. «Il nostro obiettivo — spiega Bartocci — è migliorare costantemente la qualità attraverso la selezione delle carni, la lavorazione accurata, la stagionatura».
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Il salame morbido matelicese, per esempio, è ottenuto mescolando rifilature di prosciutto, di coppa, un po’ di lardo di schiena e pancetta, macinando il tutto più volte per ridurre l’impasto in una pasta di carne morbida, con tagli fino a 2 mm. Sale, pepe, aglio e Verdicchio di Matelica ad insaporire il tutto. L’insaccato è stagionato minimo tre mesi in celle a calore e umidità controllate e rimane morbido a lungo perché ha molto più grasso che magro (60% contro 40% circa). Da provare anche affumicato. Un’altra prelibatezza è la lonza o capocollo. Questa è fatta disossando il pezzo di carne, poi rifilato e messo in salamoia cosparso di sale, pepe e aromi per 12-14 giorni, manipolato e girato ogni due giorni, rivestito del budello naturale, collocato in stanze di asciugatura per una settimana e infine in stanze di stagionatura per quattro mesi e oltre, a seconda della grandezza del pezzo. La porchetta invece è preparata lavorando il maiale intero o grandi tranci di suino disossato, sempre ripulito del grasso eccedente, condito con sale e pepe e aromatizzato con una miscela
di erbe aromatiche e finocchietto selvatico, poi arrostito in forno di mattoni refrattari e senza vapore per 7-8 ore a 220-250 gradi. Un ottimo secondo piatto, ideale anche per imbottire sostanziosi panini. Altre tipicità sono il prosciutto nostrano con osso e quello cotto, la mortadella, la pancetta arrotolata e tesa, il lonzino, la sella (lonzino con base di lardo e cotenna), il guanciale, il lardo aromatizzato, la coppa di testa, i cotechini invernali, ecc… Una parte della produzione è per conto terzi, la vendita è locale, anche diretta, e nazionale attraverso grossistidistributori di negozi alimentari. Prezzi: lonza 17,50 e/kg, prosciutto nostrano con osso 11,00 e/kg, salame morbido matelicese 12,90 e/kg. Massimiliano Rella Salumificio Bartocci Laboratorio e negozio: Via Carlo Cameli 17 62024 Matelica (MC) Telefono: 0737 83348 Solo negozio: C.so Vittorio Emanuele 9 Telefono: 0737 84460 Web: www.salumificiobartocci.it
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LE STRADE DEL PROSCIUTTO Viaggio in Stiria, il cuore verde dell’Austria
Nelle fucine di Vulcano dove stagionano prosciutti di Riccardo Lagorio
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uando si arriva in prossimità della collina di Eggreith, l’attenzione è catturata dall’enorme coscia di suino stilizzata in acciaio che rappresenta anche l’ingresso dello spaccio di Vulcano. È nel buio della sala cinemascope che inizia il percorso alla conoscenza della Stiria, un immenso cratere dove non scorrono più fiumi di lava ma prosciutti. E poi vigne di Wildabacher e Pinot nero, zucche dai cui semi si trae olio, alberi da frutta con le radici ben assestate sul terreno vulcanico. Un’esperienza multisensoriale che racconta la vita di questa regione e la stagionatura del prosciutto nei diversi periodi dell’anno e che intriga lo spettatore anche più distratto. Intanto Vulcana, la maialina dalle orecchie verdi disegnata da Dominika Kalcher, aspetta fuori, impaziente di raccontare la propria esistenza, gli stili di vita, quello che più le piace assaggiare. «Ci siamo inventati questa figura di cartone animato perché volevamo comunicare facilmente anche ai ragazzi come vengono allevati i nostri maiali e perché questo modo di insegnare piace anche ai genitori», racconta Bettina Habel. L’allevamento di suini non è una tradizione di famiglia, «ma ci piaceva sperimentare percorsi nuovi e ci siamo resi conto che, se volevamo fare questo lavoro, dovevamo dare valore al maiale in sé più che ai suoi derivati». Eppure l’intrapresa della famiglia Habel nasce allo scoccare del nuovo millennio con il visionario intento di «produrre il miglior prosciutto al mondo. Ovviamente, partendo dai fondamentali: la migliore carne in natura e il miglior sale. Ci siamo subito imbattuti nella cruda realtà, ovvero che i prodotti
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Il prosciutto crudo Vulcano è realizzato nelle tre stagionature 8, 15 e 27 mesi. Delicatamente infiltrato di grasso in tutte le fasce muscolari, prende sapore dalla perfetta stagionatura; ogni esemplare è lavorato come se fosse un pezzo unico. Il salumificio austriaco esporta soprattutto in Svizzera, Germania e UK (photo © steiermark.com).
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Sincera nella lavorazione e negli ingredienti, che sono 1 0 0% naturali. Sincera nella qualitĂ dei tagli pregiati di carne italiana e nel gusto inconfondibile. La Sincera, come tut te le nostre mor tadelle, nasce da una ricet ta semplice e genuina.
Ve lo dico Sinceramente... sono 100% Naturale! w w w . f e l s i n e o . co m
L’allevamento di suini selezionati di Vulcano Fleischwarenmanufaktur (photo © Jean Van Luelik Photographer). agricoli non hanno valore. E come lavoratore della terra non puoi fare reddito perché devi sottostare al prezzo di mercato. Ecco perché bisogna essere riconoscibili per bontà». Non lascia spazio a interpretazioni l’affermazione dell’austriaca bionda donna d’affari. «Quindi avremmo dovuto continuare ad essere contadini, ma producendo qualcosa di speciale». Se il miglior prosciutto nasce anche grazie alla musica Qualche anno dopo l’inizio dell’attività viene aperto lo spaccio, dove confluiscono anche prodotti delle aziende agricole circostanti. Per ottenere il miglior prosciutto si deve partire dalla genetica dei suini: Landrace x Pietrain x Duroc. Nell’allevamento accanto allo spaccio se ne allevano circa 200 all’anno; altri 6 allevatori coinvolti elevano il totale a circa 3.000. «Del resto non possiamo allevare troppi maiali perché siamo impegnati nella produzione di prosciutti e salumi. Ma abbiamo scoperto che crescono meglio e senza problemi quando ascoltano musica classica, il cui uso suggeriamo anche ai nostri soccidari». L’alimentazione è a base di cereali: poco granoturco e buone quantità di frumento. Che consente di raggiungere un peso variabile da 160 a 200 kg in un anno d’età. I granai sono coperti e
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«facciamo tutto il necessario per garantire loro il benessere», interviene d’un fiato la Habel. Mentre l’attenzione dei visitatori, prima di affrontare il vialetto esterno con i pannelli dove figurano informazioni base sulle razze suine e altre fondamentali notizie sull’allevamento, sarà catturata dalla penisola del bar per gli assaggi di rito, con gli immancabili calici di Schilcher e Reisling Italico. E che non possono non iniziare con il prosciutto crudo affumicato, magrissimo e dall’aroma senza rivali. Poi le tre stagionature di prosciutto crudo: 8, 15 e 27 mesi, che vanno dal più dolce a quello più sofisticato, intenso, maturo. Delicatamente infiltrato di grasso in tutte le fasce muscolari, prende sapore dalla perfetta stagionatura; ogni esemplare è lavorato come se fosse un pezzo unico. «Fu nel 2003 quando abbiamo affettato il primo prosciutto che è stato ritenuto adatto al nostro standard. Sono occorse numerose prove», racconta Bettina. Poi il lombo, con grasso e magro equilibrati e morbido come burro, anche nella versione affumicata e Oskar, il lardo, toccato da un filo di fumo di ginepro e coriandolo. Ecco i salami, con la carne e il grasso macinati sottili, anche insaporiti da non ortodossi gusti oltre al tradizionale pepe. In tale direzione c’è l’Auersbach ai semi di zucca, alle
noci, al peperoncino. Da Bettina Habel queste unioni di gusti mediterranei e volutamente stravaganti vengono dichiarate adatti per i gourmet. Come la frutta avvolta da pancetta: sugli scaffali eversioni suine di susine, datteri e noci. «Abbiamo anche un’altra linea di prodotti, davvero speciali. Derivano da un’ibridazione che noi stessi abbiamo messo a punto. Riusciamo ad allevare meno di un centinaio di questi animali, un incrocio tra razza Mangalica e l’ormai rara Turopolje, d’origine croata». Definito il meticcio con il nome di Manduro, la sua carne marezzata si presta alla produzione di salumi a parte anatomica intera per apprezzarne al meglio le caratteristiche. Alto è pure il contenuto di grasso sottocutaneo per un lardo stagionato almeno 6 mesi e dal profumo irresistibile. La pancetta matura per almeno 5 mesi e si ottiene un salume dal gusto raffinato grazie alla presenza di grasso intramuscolare. Ma è ovviamente il prosciutto a salire sul podio delle produzioni salumiere. Almeno 24 mesi di stagionatura rendono il grasso e la carne morbidi, si invadono piacevolmente l’un l’altra. Un asso nel panorama dei prosciutti crudi europei. «Non vogliamo copiare i prosciutti crudi italiani», assicura Bettina Habel. Intanto le loro esportazioni volano. In Svizzera, Germania e Gran Bretagna. Si sta miracolosamente aprendo il mercato tailandese grazie agli sforzi di Franz, il marito, «che ha una nuova idea al giorno», sorride Bettina. Non siamo forse di fronte ad un Vulcano? Riccardo Lagorio
Vulcano Fleischwarenmanufaktur Eggreith 26 — A-8330 Auersbach Austria Telefono: +43 3114 2151 Web: vulcano.at
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Senza Conservanti Senza Glutine Con Sale Marino
Strada Comunale del Cristo, 12/14 41014 Solignano di Castelvetro - MO - Italy Tel. +39 059 532007 - Fax +39 059 532038 www.bpprosciutti.it - www.suincom.it
PRODOTTI TIPICI
Le Selve di Vallolmo e il Grigio del Casentino Nel cuore delle foreste casentinesi l’allevamento dei maiali allo stato brado. Una produzione frutto del lavoro manuale, priva di conservanti, che offre un’ampia gamma di prodotti tra carni e salumi. Spiccano il sambudello, la mortadella di Grigio e il prosciutto Grigio del Casentino di Veronica Fumarola
Prosciutto Grigio del Casentino delle Selve di Vallolmo.
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uella di Claudio è la quarta generazione della famiglia Orlandi ad allevare maiali. All’inizio degli anni Duemila, però, una forte crisi economica colpisce la sua attività, basata sull’allevamento industriale dei suini. Da ciò la scelta di acquistare, nel 2004, un laboratorio e di costruire i primi recinti per i maiali. Nel 2007, invece, arriva
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la svolta: diminuire il parco scrofe e avviare una filiera, quella del maiale Grigio del Casentino. Siamo a Vallolmo, una località nel cuore delle Foreste Casentinesi, a 900 metri di altitudine. È qui che Claudio ancora oggi alleva i suoi maiali, in un luogo che richiama l’antica tradizione degli agricoltori casentinesi. «In passato, dopo aver raccolto le castagne, frutto tipico delle
nostre foreste — afferma l’allevatore — gli agricoltori lasciavano liberi i maiali nei campi affinché le mangiassero e chiamavano questi spazi “selve”. Il nome che ho scelto, dunque, non è casuale». L’azienda, in cui lavorano anche i due figli maschi Davide e Matteo, si contraddistingue per essere una delle poche aziende di filiera ad allevare anche il maiale Grigio del Casentino,
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Stagionatura dei salumi nei locali dell’azienda le Selve di Vallolmo. Tutta la filiera, allevamento, trasformazione e stagionatura, è curata dall’azienda aretina. un incrocio tra la femmina Large White o Duroc e il maschio Moro romagnolo o Cinto senese. Nel punto vendita, sito a Porrena di Poppi, in provincia di Arezzo, il banco offre una vasta scelta di carni e salumi. Il sambudello, tipica salsiccia toscana aromatizzata al finocchio, è tra le prelibatezze, ma tra gli altri spiccano il prosciutto Grigio del Casentino, la mortadella di Grigio, l’aruspicino e la ruffiana, la più famosa finocchiona, a cui Claudio ha dovuto cambiar nome per non aver aderito all’Igp di Siena. Il prosciutto resta il prodotto più venduto, ma anche la mortadella riscuote molto successo: è fatta per il 75% di carne di spalla, per il 20% di carne di pancia o gota e per il 5% di lardello di Cinta Senese. La particolarità sta nell’essere macinata due volte con delle trafile finissime, usando del ghiaccio durante la triturazione per non far alzare la temperatura della carne. Infine, viene cotta a vapore per circa 12 ore. Qualità delle materie prime I maiali vengono svezzati dopo 5052 giorni dalla nascita, quando già mangiano la biada della mamma. Successivamente vengono nutriti solo con mais, orzo, favino, crusca e farinaccio, in parte prodotti presso il podere Paradiso, gestito dalla stessa famiglia Orlandi, in parte acquistati. Curare l’alimentazione degli animali è fondamentale per ottenere prodotti
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La filiera è tutta tracciata, dalla nascita alla commercializzazione. Dopo aver superato una serie di controlli lungo il processo produttivo e dopo il periodo minimo di stagionatura, i prosciutti sono marchiati a fuoco con il timbro del Consorzio del Prosciutto Grigio del Casentino da un ente esterno di qualità, ma contano anche i tempi dell’allevamento: i maiali delle Selve di Vallolmo, infatti, non sono macellati mai prima dei 18-24 mesi, contrariamente a quanto avviene a livello industriale. I salumi, poi, sono del tutto privi di conservanti, avvolti in budelli naturali (non nella carta paglia, come nel resto della Toscana) e lavorati rigorosamente a mano, «a forza di mattarello e gomiti», come fa notare Claudio. Infine, sono salati esclusivamente con il sale integrale di Cervia. Il prosciutto Grigio del Casentino Il prosciutto è sicuramente il fiore all’occhiello delle Selve di Vallolmo; il più richiesto fra i prodotti è anche presidio Slow Food, ed è il frutto di un lungo lavoro che ha inizio dal momento in cui i maiali vengono macellati per essere poi portati nel laboratorio di Vallolmo. Qui, dopo essere stati massaggiati, vengono cosparsi con aglio, sale di Cervia,
pepe, peperoncino e spezie toscane. Da questo momento inizia il processo di stagionatura. Dopo i primi sei mesi i prosciutti vengono “riguardati”, viene spalmata nuovamente la sugna e sono portati in cantine naturali dove restano almeno 18 mesi prima di essere messi in commercio. La filiera è tutta tracciata: dalla nascita alla commercializzazione. Solo dopo aver superato una serie di controlli lungo tutto il processo di produzione e dopo il periodo minimo di stagionatura, infatti, i prosciutti vengono marchiati a fuoco con il timbro del “Consorzio del Prosciutto Grigio del Casentino” da un organo esterno. Il prodotto, apprezzato anche al di là dei confini toscani, si contraddistingue per la sua forma tondeggiante, leggermente allungata, tendente al piatto, e soprattutto per il suo gusto intenso. Veronica Fumarola >> Link: www.leselvedivallolmo.it
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LA QUALITÀ
Salame di Varzi Dop: nei primi sei mesi del 2017 la produzione segna un +4,4%
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ccellenza della salumeria dell’Oltrepò Pavese, il salame di Varzi Dop ha registrato risultati molto positivi nei primi sei mesi del 2017. Il totale del peso dell’impasto utilizzato per la produzione è stato di 228.274,95 kg, segnando così un +4,4% rispetto al 2016. Il numero totale dei salami Dop prodotti è stato di 248.900, con un aumento del +3,7%. La tipologia
dei salami prodotti è stata per lo più nel formato di piccola pezzatura, più adatti al consumo domestico. «Il periodo estivo e pre-autunnale si presta molto al consumo del salame di Varzi» ha affermato Fabio Bergonzi, presidente del Consorzio di tutela. «Un pasto veloce, altamente proteico, che si può abbinare tranquillamente a verdure grigliate o a della frutta fresca: melone, fichi, pesche, soprattutto le nettarine, uva bianca da
tavola, anche la moscato». Il salame di Varzi oggi è conosciuto e apprezzato in Lombardia, Piemonte, Liguria, EmiliaRomagna e Veneto ma il Consorzio sta cercando di aumentare la sua diffusione anche grazie ad un accordo fatto con l’associazione “La strada dei vini e dei sapori dell’Oltrepò” che promuove l’abbinamento tra il vino e il nobile salume. Il salame di Varzi deve la sua qualità al dosaggio ottimale degli ingredienti
Per degustare al meglio il salame di Varzi Dop si consiglia un taglio a fette spesse che consente di coglierne al meglio l’aroma fragrante, leggermente speziato, così come la morbidezza (photo © Edizioni Pubblicità Italia). 64
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La tradizione fa risalire la produzione del salame di Varzi alle invasioni dei Longobardi, nomadi abituati a produrre cibi facilmente trasportabili e di lunga conservazione accuratamente scelti, alle tecniche di lavorazione contadina che si sono affinate attraverso i secoli, pur mantenendo la loro originalità, e anche alla conformazione del territorio, favorito da quel microclima montano tipico della Valle Staffora, tra la brezza marina ligure e l’aria fresca di montagna. L’insieme di queste condizioni ha permesso ai produttori di sfruttare l’instaurarsi di particolari processi enzimatici e la trasformazione biochimica del prodotto, per il quale vengono utilizzate le parti più nobili del maiale, secondo le proporzioni stabilite dal Disciplinare di produzione. Salame a grana grossa, compatta, con la parte grassa ben bilanciata e di colore bianco, per degustarlo al meglio deve essere tagliato a fette spesse così da coglierne a pieno l’aroma fragrante, leggermente speziato, così come la morbidezza, la delicatezza e dolcezza. La storia del salame di Varzi Le origini di questo salame risalgono a tempi antichissimi. La tradizione vuole infatti che lo consumassero già i Longobardi, essendo un alimento che ben conservava anche durante le lunghe migrazioni. Successivamente il Varzi approdò nel XIII secolo alle tavole dei signori Malaspina, che lo riservavano agli ospiti più illustri. Nei secoli successivi, il salame di Varzi prese via via a diffondersi tra il popolo: con l’ampliamento dell’allevamento suino, anche i contadini e gli agricoltori presero a consumare salame, disponibile in maggiori quantità. Il salame di Varzi diventò così un alimento sempre più presente sulle tavole. Fonte: IVSI – Istituto Valorizzazione Salumi Italiani >> Link: www.salamedivarzidop.com Premiata Salumeria Italiana, 5/17
INDAGINI
Piante aromatiche nei salumi La presenza di piante aromatiche nell’alimentazione umana trova una giustificazione nelle loro attività antiossidanti, antibiotiche, vitaminiche, farmacologiche e il loro‑ uso è antichissimo, associato all’impiego del fuoco per cuocere le carni e alla loro conservazione di Giovanni Ballarini
P
er circa un milione di anni i nostri antenati hanno usato il fuoco per cucinare gli alimenti ed è molto probabile che utilizzassero legni, arbusti ed erbe aromatiche. La ricerca di queste erbe è stata di sicuro guidata dal loro gusto, ma anche dal senso di benessere consecutivo al loro uso, e oggi è spiegata dalla dimostrazione che le erbe hanno proprietà antiossidanti, antibiotiche, vitaminiche e, soprattutto, farmacologiche, che ne giustificano l’impiego anche nella conservazione delle carni. Moltissimi sono infatti i salumi e soprattutto gli insaccati nei quali è fondamentale la presenza di erbe e spezie aromatiche, nostrane ed esotiche.
Uso delle erbe aromatiche e delle spezie Perché erbe aromatiche e spezie sono usate in tutte o in quasi tutte le cucine del mondo? Perché in alcuni paesi più che in altri? Perché quasi ogni paese ha la sua erba o spezia predominante, se non caratteristica? Più in generale, perché piacciono le spezie? A queste domande, da tempo, molti hanno cercato di rispondere. Tra questi Dario Bressanini, chimico e divulgatore scientifico, e Paul Sherman, professore di neurobiologia e comportamento della Cornell University con i suoi collaboratori1. Una prima, ovvia risposta è che erbe aromatiche e spezie migliorano il gusto, il colore e l’appetibilità dei cibi, ma essa non tiene sufficientemente conto del fatto che sono
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appetibili anche i piatti speziati e dal sapore piccante o pungente, e che esistono erbe aromatiche e spezie preferite rispetto ad altre. Un motivo importante dell’uso degli aromi, sostiene Sherman, consiste nell’azione che hanno nei confronti dei batteri e i funghi che degradano il cibo, generando anche cattivi odori e conseguenti cattivi sapori. Per questo l’utilizzo delle spezie è un esempio di adattamento dell’uomo per combattere le intossicazioni da cibo avariato. Molto interessanti, al riguardo, sono le conclusioni che Sherman e la sua collaboratrice Jennifer Billing hanno tratto dopo aver esaminato quasi 5.000 ricette a base di carne in 36 paesi del mondo, mettendo in correlazione l’uso di 43 erbe aromatiche/spezie e le temperature medie nei paesi esaminati. Innanzitutto i paesi con un clima più caldo usano più frequentemente le spezie dei paesi con un clima più freddo: questo perché la carne è facilmente soggetta a fermentazioni batteriche putrefattive. In quasi tutte le ricette a base di carne sono presenti una o più spezie; si tratta per lo più di ricette tradizionali, che risalgono a quando la carne non poteva essere refrigerata, e Sherman ipotizza che le spezie fossero inconsapevolmente usate per inibire la proliferazione di funghi e batteri. L’aglio, la cipolla e l’origano, ad esempio, inibiscono o uccidono ogni batterio su cui sono state testate, mentre timo e cannella sono efficaci al 90%.
Per avere una buona azione antibiotica alcune piante aromatiche o spezie, come il prezzemolo o il coriandolo, si aggiungono solo al termine delle preparazioni alimentari, a fine cottura, perché i loro principi attivi sono distrutti dal calore, diversamente dall’aglio o dal rosmarino che non sono inattivati dal calore. Sherman ha inoltre riscontrato che l’uso di erbe aromatiche e spezie è molto più limitato nelle ricette a base di verdure rispetto a quelle di carne. Il motivo è che le cellule vegetali resistono naturalmente di più delle cellule animali all’attacco di funghi e batteri perché hanno pareti cellulari più forti, contengono naturalmente particolari sostanze chimiche antibatteriche e un’acidità più elevata, che continuano a funzionare anche dopo la morte della pianta. Piante aromatiche e spezie nei salumi Molte sono le piante aromatiche nostrane autoctone usate nella produzione dei salumi italiani e tra queste aglio, alloro, aneto, cipolla, coriandolo, cumino, dragoncello, finocchio selvatico, ginepro, maggiorana, menta, mirto, origano, peperoncino, rosmarino e timo. Tra le spezie esotiche vi sono cannella, chiodo di garofano, noce moscata, pepe nero, rosso e bianco e zenzero. Passando da un’imprecisa tradizione e da un empirismo poco definito, per gli aromi naturali si è arrivati a dimostrare, attraverso ricerche eseguite sull’uomo e su animali che hanno un’alimentazione molto simile
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Finocchiona (photo Š Elena Moiseeva – stock.adobe.com).
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La tipicità del gusto e le ricette dei diversi salumi italiani sono profondamente legate alle spezie e agli aromi tipici della tradizione delle varie regioni. Pepe bianco e nero, cannella, noce moscata, coriandolo, peperoncino, finocchio, macis, ginepro… Inoltre, nella maggior parte delle spezie e delle erbe aromatiche sono presenti sostanze antiossidanti, fra cui alcune polifenoli che nel nostro organismo combattono i radicali liberi e le infiammazioni (photo © Anton Ignatenco).
Modificazioni prodotte dall’uso nella dieta di un’associazione di aromi naturali (aglio, cipolla, timo e tormentilla) Alimentazione senza aromi o con aromi chimici
Alimentazione con aromi naturali
Accrescimento corporeo Variazioni percentuali degli aromi naturali rispetto al controllo 100
+ 6,41%
Digeribilità Proteine
81
84,70
Grassi
70,20
73,50
Fibra
36,20
40,70
Amido
96,20
98,80
Modificazioni nel sangue Amilasi (ie/100 ml)
33,2
40,5
Glucosio (mg/100 ml)
85,0
88,5
Proteine (g/100 ml)
6,2
7,4
Immunoglobuline (%)
23,5
25,1
Modificazioni del colesterolo. Variazioni % degli aromi naturali rispetto al controllo
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Colesterolo totale
100
89,85
Colesterolo hdl
100
131,68 Premiata Salumeria Italiana, 5/17
L’utilizzo di spezie e droghe nei salumi è fattore di grande importanza ma anche di estrema delicatezza: la quantità utilizzata deve infatti condizionarne gusto e aroma, lasciando però che si sprigioni il profumo di ognuno
a quella umana, ben precise azioni metaboliche. Molto interessanti sono i risultati che riguardano le associazioni di aromi naturali (anche sotto forma di oli essenziali) di tipo tradizionale e di più largo uso nelle preparazioni di salumi, ad esempio di aglio e cipolla, o di aglio, cipolla, timo e tormentilla. Queste associazioni, come risulta da una serie di lavori sperimentali e da alcune recenti rassegne scientifiche, in paragone ad alimentazioni senza aromi o contenenti aromi artificiali, hanno dimostrato le seguenti attività farmaco-fisiologiche: • regolazione della digestione che si svolge con un aumento della produzione dei succhi digestivi da parte delle ghiandole salivari e intestinali; • migliorato assorbimento dei principi nutritivi; • riduzione della proliferazione dei batteri e delle muffe con stabilizzazione della flora microbica del tratto intestinale, con conseguente attività probiotica;
• influenze sul metabolismo che si svolgono attraverso diversi meccanismi. Da rilevare anche l’efficace azione anticolesterolica degli aromi naturali, che deve far riconsiderare non tanto la validità quanto le motivazioni della dieta mediterranea che ne è ricca. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma Note 1. Paul W. Sherman, Jennifer Billing (1999), Darwinian Gastronomy: Why We Use Spices: Spices taste good because they are good for us, BioScience, Volume 49, Issue 6, 453-463 pp.; Jennifer Billing, Paul W. Sherman (1998), Antimicrobial Functions of Spices: Why Some Like it Hot, The Quarterly Review of Biology, The University of Chicago Press, Volume 73, No. 1, 3-49 pp.; P. Sherman, Geoffrey A. Hash (2001), Why vegetable recipes are not very spicy, Evolution and Human Behavior, Volume 22, Issue 3, 147-163 pp.
Citterio: si torna a scuola con una merenda per i bambini che fanno sport grazie ad un mix equilibrato di frutta, carboidrati e proteine Fare un piccolo spuntino equilibrato al mattino e al pomeriggio è una buona abitudine sia per adulti che per bambini e in particolare per questi ultimi che da poche settimane sono tornati sui banchi di scuola, riprendendo anche le attività sportive. Per questo, dopo il grande successo riscosso lo scorso anno, Unduetris Merenda Citterio ha presenta due novità: Unduetris Merenda Sport e Unduetris Merenda senza glutine. Una merenda completa e gustosa, specificatamente studiata come snack dopo l’attività sportiva. Il fabbisogno giornaliero di un bambino di circa 9 anni è pari a circa 1.900 kcal (dati: LARN 2014, fabbisogno energetico medio per bambini moderatamente attivi) e la merenda deve rappresentare circa il 7-10%. Unduetris Merenda Sport, con le sue 193 calorie, rappresenta un buon mix grazie ad alcune fettine di salame, grissini e 125 ml di frullato con fragola e banana. Unduetris merenda senza glutine è invece composta da bastoncini di salame, 3 maxi grissini senza glutine e un frullato 95% frutta gusto pesca. Entrambe le merende sono facili da trasportare e mettere nella cartella e si conservano fuori dal frigorifero fino a 8 ore. Unduetris Merenda Sport e Unduetris Merenda Senza glutine sono disponibili nella Grande Distribuzione al prezzo consigliato rispettivamente di € 1, 49 e € 1,69. Citterio, salumificio a gestione familiare con più di cento anni d’esperienza, offre una vasta gamma di prodotti interi e in vaschetta, freschi e buoni come appena affettati, da gustare subito, oppure da utilizzare come ingredienti in cucina con fantasia. >> Link: www.citterio.com
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L’orgoglio di essere italiani Un alimento confezionato su quattro dichiara esplicitamente on pack di essere made in Italy e 5 su 100 sono contrassegnati da una denominazione d’origine. Lo rivela l’Osservatorio Immagino, che ha analizzato le etichette di 41.000 prodotti di largo consumo venduti in Italia
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on più solo all’estero: ora anche in Italia etichettare un prodotto di largo consumo come made in Italy è diventato un fattore competitivo importante per conquistare i consumatori. Tanto che oggi un prodotto alimentare su quattro venduto in super e ipermercati dichiara esplicitamente in etichetta la sua italianità. A rivelarlo è l’Osservatorio Immagino, il nuovo approccio allo studio dei fenomeni di consumo creato da GS1
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Italy e Nielsen, che ha estrapolato dai 41.000 prodotti presenti nel suo database quelli che riportano sulla confezione claim come “made in Italy”, “product in Italy”, “solo ingredienti italiani”, “100% italiano” e loghi quali Igp, Dop e “bandiera italiana”. Complessivamente l’Osservatorio ha individuato 9.876 prodotti alimentari “orgogliosamente italiani” e ha calcolato che in un anno hanno generato 5,5 miliardi di euro di giro d’affari, in crescita del 2,3%
rispetto al 2015. «La segnalazione e l’enfatizzazione dell’italianità sulle confezioni sono la risposta alla crescente richiesta di conoscere l’origine di quello che si acquista e alla preferenza espressa dai consumatori nei confronti dei prodotti agroalimentari made in Italy» spiega Marco Cuppini, research and communication director di GS1 Italy. «Le aziende hanno colto queste istanze e hanno rimodulato l’approccio ai prodotti, enfatizzando l’uso di materie
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L’Osservatorio Immagino ha calcolato che tra Doc, Dop, Docg e Igp si arriva a coprire il 5% dei prodotti e il 4% circa delle vendite complessive del mondo del largo consumo alimentare italiano. Un universo dinamico e in salute, visto che gli indicatori delle vendite del 2016 sono tutti positivi
prime italiane o promuovendone l’adozione. E hanno iniziato a comunicare l’origine nazionale dei loro prodotti, cominciando proprio dal medium che arriva direttamente nelle mani del consumatore: l’etichetta». Per enfatizzare sulle etichette l’uso di materie prime italiane, comunicare l’origine nazionale o il carattere di produzione tradizionale, le aziende del food & beverage hanno usato soprattutto la bandierina tricolore (presente sul 14,6% dei prodotti). In molti casi hanno utilizzato anche le dizioni “prodotto in Italia” (12,2% dei prodotti) o “100% italiano” (1,9% dei prodotti). Bene Dop e Igp, che però non sfondano tra i giovani Il quadro dei prodotti di matrice italiana non sarebbe completo senza le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche riconosciute dall’Unione Europea. L’Osservatorio Immagino ha calcolato che tra Doc, Dop, Docg e Igp si arriva a coprire il 5% dei prodotti e il 4% circa delle vendite complessive del mondo del largo consumo alimentare
italiano. Un universo dinamico e in salute, visto che gli indicatori delle vendite del 2016 sono tutti positivi: +8,1% per i prodotti Igp, +2,1% per gli alimenti Dop, +3,3% per i vini Doc e +9,5% per i vini Docg. La correlazione tra i dati di vendita e la tipologia di acquirenti, realizzata per la prima volta dall’Osservatorio, ha rivelato che i prodotti Dop, Igp, Doc e Docg sono acquistati soprattutto dagli abitanti di Piemonte, Lombardia, Liguria e Valle d’Aosta, e da famiglie con reddito sopra media o alto. Inoltre, dall’indagine è emerso che il legame dei consumatori cresce in modo proporzionale all’avanzare dell’età. Difatti sono soprattutto gli over 50 a comprare prodotti Dop e gli over 65 ad acquistare quelli Igp. Sono, dunque, gli older i veri conoscitori e acquirenti dei prodotti della tradizione enogastronomica italiana. Il claim che conquista tutti perché è il più trasversale alle diverse fasce d’età invece è “prodotto in Italia”, un plus che accomuna le famiglie con bambini sotto i 7 anni e quelle con responsabile acquisto over 55.
Scambi Italia-Giappone: nel primo trimestre 2017 l’export agroalimentare cresce del 38% L’export agroalimentare italiano verso il Giappone (953 milioni di euro nel 2016), tra il 2015 e il 2016, ha registrato un incremento del 17,9%, ma è soprattutto la crescita avvenuta nel primo trimestre 2017 (+38,3% rispetto al primo trimestre 2016) che spalanca le porte a nuovi scenari commerciali verso il paese del Sol Levante, pur pesando per il 2,5% sul totale delle esportazioni agroalimentari nazionali (circa 38 miliardi di euro). In parallelo, l’import agroalimentare dal Giappone (16 milioni di euro nel 2016) pesa solo per lo 0,03% sull’import agroalimentare italiano. Si tratta, quindi, di un mercato dal peso ancora relativo, ma con dei margini di crescita esponenziali, anche alla luce dell’accordo di massima di partenariato economico, teso a eliminare le barriere commerciali, raggiunto a inizio luglio fra UE e Giappone. In particolare, l’export vede, nel 2016, il valore dividersi in ordine decrescente fra “vini e mosti” (151 mln di euro); oli e grassi (120 mln di euro); ortaggi freschi e trasformati (113 mln di euro); cereali, riso e derivati (98 mln di euro); animali e carni (89 mln di euro) e latte e derivati (61 mln di euro). Proprio questi due ultimi comparti (animali e carni e latte e derivati) hanno avuto l’incremento più rilevante nel primo trimestre 2017 sullo stesso periodo del 2016 (rispettivamente +32,7% e +23,8%), mentre un discorso a parte meritano le colture industriali (nella quasi totalità tabacchi lavorati, in un quadro che vede un accordo specifico siglato nel 2016 fra il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e la multinazionale Japan Tobacco International) che sono passate dai 10 milioni di euro del 2015 ai ben 169 milioni di euro del 2016, con un incremento (+580%) ancora in salita nel primo trimestre 2017 (in foto sushi di speck; photo © Comugnero Silvana – stock.adobe.com; fonte Ismea).
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INTERVISTE
Adrienne la norcina La sua ossessione? La provenienza delle carni, rigorosamente locali e selezionate da allevamenti conosciuti e provenienti da razze antiche di Elena Benedetti
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irovagando a Londra quest’estate nei pressi di Bermondsey abbiamo conosciuto Adrienne E. Treeby, una ragazza di origine canadese innamorata dei salumi inglesi. Dopo alcuni anni trascorsi nelle cucine di vari ristoranti, Adrienne ha realizzato il suo sogno diventare una norcina. Oggi gestisce la sua bottega
di salumi artigianali, Crown & Queue Meats, negli spazi di Spa Terminus (www.spa-terminus.co.uk), a pochi passi dal Borough Market, un’area riqualificata sotto la ferrovia che ospita piccole aziende artigianali con parecchio da dire e raccontare in materia di qualità dei prodotti. Gentile e disponibile, Adrienne ha risposto alle nostre domande.
Quando hai iniziato a fare i salumi? «Ho iniziato negli Stati Uniti prima dei trent’anni con un lungo apprendistato a fianco di uno straordinario salumiere. Questo affiancamento è durato tre anni, dopodiché mi sono trasferita in Gran Bretagna. Prima di arrivare qui ero convinta che in UK fosse ancora viva la tradizione della produzione artigia-
Adrienne E. Treeby, canadese di nascita e inglese d’adozione, dopo alcuni anni trascorsi tra i fuochi dei ristoranti con la casacca da chef ha realizzato il suo sogno, quello di produrre salumi inglesi con carni selezionate provenienti da allevamenti allo stato brado. Oggi Adrienne gestisce la sua bottega di salumi artigianali, Crown & Queue Meats, a Londra nella zona riqualificata di Spa Terminus.
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nale dei salumi. Come mi sbagliavo! Nonostante i britannici abbiano una tradizione importante nel settore della lavorazione delle carni, infatti, non hanno codificato questi processi o perfezionato le ricette come invece è stato fatto in Italia. E, una volta trasferita, mi sono resa conto in fretta che sul fronte artigianale salumiero c’era ben poco in giro. Allora ho iniziato a documentarmi, a fare ricerche sulle lavorazioni, sulle carni e le spezie. Mi sono studiata le ricette dal XVI secolo in poi per prendere ispirazione e sperimentare. Tutto ciò avveniva quattro anni fa. Poi, nel 2014, ho finalmente aperto la mia società, Crown & Queue Meats». Tu sei canadese. Avete una tradizione salumiera o di trasformazione delle carni in Canada? «Solo a parole. In Canada l’influenza francese è sempre stata molto forte e io sono cresciuta con le salsicce, il pâté e le carni lavorate secondo la cultura gastronomica francese. Praticamente non ho potuto sperimentare che cosa fossero davvero i salumi fintanto che non mi sono formata come chef. Se vado indietro con i ricordi il primo luogo nel quale ho potuto assaggiare un salume tradizionale, ben fatto e assai gradevole, è stata la Spagna, con un jamón serrano. Avrò avuto 16 anni ed ero in vacanza con i miei genitori». Ti piacciono i salumi italiani? «Tantissimo! Il mio apprendistato è stato fatto principalmente sui salumi tipici del Nord Italia. Sono buonissimi e non mi stancano mai. Anche adesso che trascorro gran parte delle mie giornate a lavorare le carni, ogni tanto faccio visita al mio vicino di bottega che importa salumi dall’Italia per comprare qualche fetta di lardo di Colonnata o di prosciutto crudo di San Daniele. Ciò che io, e ora anche alcuni altri, stiamo facendo qui nel Regno Unito però è straordinario: stiamo riscoprendo e valorizzando prodotti e sapori del passato che sono però molto diversi dai vostri salumi. E ciò perché il background storico e delle materie prime è totalmente diverso. Ma c’è spazio per tutti no?». Adrienne, come scegli le carni? Visiti personalmente gli allevamenti? «Sì, prima di iniziare ad acquistare
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Un tagliere di degustazione di salumi al Crown & Queue Meats. le carni visito ogni allevamento. Nel mio lavoro la materia prima è tutto. Io posso aggiungere la grande cura nella lavorazione, un po’ di sale e pepe, tempo e passione. Ma tutti questi elementi sono secondari alla bontà e qualità delle carni. A mio parere le carni migliori provengono non solo da razze tradizio-
nali ma anche da allevamenti all’interno dei quali ci si prende cura dell’animale, di ciò che mangia, della sua qualità di vita, facendo sì che il suo allevamento sia naturale, senza stress e conforme alla tradizione di questo Paese. Ciò significa che io lavoro solo carni ricavate per il 100% da suini allevati all’aperto,
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Black pepper belly e Hoghton loin. possibilmente allo stato brado, senza mangimi derivati da sottoprodotti e con un elevato livello di benessere. Sfortunatamente questo significa che posso collaborare solo con poche aziende agricole in possesso degli elevati standard che mi sono prefissata e sui quali non cedo a compromessi».
Mi è capitato spesso di trovare su vecchi ricettari le indicazioni su come lavorare un dato taglio di carne scegliendo, indifferentemente, tra 15-20 tipi diversi di erbe o spezie a seconda della disponibilità. Insomma, c’è sempre stata una cultura improntata alla libera sperimentazione».
Mi puoi raccontare qualcosa di più sulla tradizione salumiera britannica? «Una delle prime cose da capire in merito alla produzione salumiera degli inglesi è che, di fatto, non esistono prodotti regionali storicamente conosciuti. Qui ogni allevatore realizzava i propri prodotti sulla base di ciò che aveva a disposizione in quel momento. Con la parola bacon, per esempio, si faceva riferimento alla mezzena del suino e non solo alla pancia. Anche con le salsicce non c’era distinzione tra fresche e stagionate. Queste ultime lo diventavano se non venivano consumate prima. L’approccio quindi è sempre stato — anche storicamente — molto istintivo e libero.
Un prodotto sostenibile e biologico quanto è importante per te? «Il concetto di sostenibilità è importantissimo. Chiunque oggi lavori la carne senza essere focalizzato sui temi legati alla sostenibilità ambientale è come se si sparasse addosso. Noi lavoriamo con gli animali e questi temi sono cruciali e fondamentali. Anche il bio ha un grande valore nonostante per me sia importante lavorare con chi alleva bene, in modo corretto e rigoroso, anche se non ha la certificazione biologica. Ciò che conta è il risultato di un processo di lavorazione e non solo il pezzo di carta. Dal mio punto di vista io voglio offrire ai miei clienti solo prodotti trasparenti
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e realizzati con un’etica di rispetto e di valore dell’animale. Ancor di più data la cattiva reputazione in cui versano gli insaccati, colpevolizzati spesso di contenere ingredienti di scarsa qualità o dannosi per la salute. Con Crown & Queue ho tutta l’intenzione di smontare questa cattiva immagine e, speriamo, di stimolare sempre di più gli allevatori a produrre carni “giuste”. Prima in Inghilterra e poi, magari, fuori dai confini di questo paese». Se prossimamente vi capiterà di trovarvi a Londra andate a trovare Adrienne a Spa Terminus, a pochi passi dalla scheggia di cristallo (The Shard) progettata da Renzo Piano. Con passione ed entusiasmo vi racconterà il suo mondo di salumi inglesi e vi farà assaggiare anche il suo salame di cervo. È favoloso. Elena Benedetti Crown & Queue Meats Ltd. www.curedmeats.london www.crownqueuemeats.bigcartel.com www.blog.curedmeats.london
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ANALISI DEL FOOD
Un condimento della tradizione rivalutato: il burro
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egli ultimi anni il burro è stato vittima di un immeritato ostracismo causato da miti e pregiudizi tuttora in auge. Si sente dire, infatti, che “il burro è più grasso dell’olio”; “per mantenere la linea bisogna abbandonare i condimenti grassi”; i grassi di origine animale vanno demonizzati”; “il burro va dimenticato perché contiene colesterolo”. Il libro appena uscito del nutrizionista Renzo Pellati, Conoscere e gustare il burro (Daniela Piazza editore), mette in luce le attuali conoscenze di scienza dell’alimentazione su questo alimento presente in tavola da secoli. Si tratta infatti di un condimento che trova un particolare impiego in cucina perché possiede un caratteristico sapore dovuto allo sviluppo di microrganismi presenti nella crema del latte durante la lavorazione (aldeide acetica, aldeide isovalerianica, diacetile, originati dalla fermentazione del lattosio, dalla degradazione dell’acido citrico e dei citrati). Il burro inoltre presenta un basso punto di fusione, in virtù del quale presenta una facile digeribilità che lo distingue dagli altri grassi di origine animale. Il valore alimentare è elevato (758 calorie per 100 g, pur sempre inferiore alle 900 calorie dell’olio d’oliva e di semi, per la presenza di circa il 15% di acqua), circa ⅓ degli acidi grassi totali è rappresentato da acidi grassi insaturi mentre i ⅔ sono costituiti da acidi grassi saturi soprattutto a catena corta, oggi rivalutati dalla moderna dietologia. Il burro inoltre contiene vitamine liposolubili (in particolare vitamina A), colesterolo, alcuni elementi minerali, tracce di lattosio, proteine e fosfolipidi. Negli anni Cinquanta, però, venne alla luce l’importanza del colesterolo nell’ambito delle patologie cardiovascolari e prese piede l’impiego della
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margarina, un condimento di aspetto simile al burro, ma di composizione completamente diversa. Inoltre Ancel Keys, dell’Università del Minnesota, con lo studio Seven countries (condotto in 7 paesi, prendendo in esame 13.000 uomini e donne statunitensi, europei e giapponesi), dimostrava che le malattie cardiache non erano una naturale conseguenza dell’invecchiamento, ma dipendevano da un’alimentazione scorretta e squilibrata. Nel 1961 furono emesse le prime Linee guida dell’American Heart Association contro gli acidi grassi saturi e cominciò il consenso generale nei confronti della Dieta Mediterranea, che decretò l’ascesa dei consumi dell’olio di semi, delle margarine ottenute dai suddetti oli, dell’olio d’oliva, e la diminuzione dei consumi di burro. Occorre ricordare che la margarina (inventata da un farmacista francese, Hippolyte Mège-Mouriès, nel 1870, per volere di Napoleone III) inizialmente era un’emulsione contenente una parte grassa e una acquosa. La parte acquosa era costituita da latte scremato, la parte grassa era costituita dal sego (grasso bovino raffinato). Mège-Mouriès diede il nome di oleo-margarina al suo prodotto in considerazione del fatto che il grasso in emulsione appariva al microscopio come una perla (in greco margaron significa perla). Negli anni successivi il prodotto subì varie modificazioni nella composizione per l’utilizzo di grassi animali (olio di balena, grasso di bue) e grassi vegetali (olio di soia, di arachide, mais, girasole). La situazione cambiò quando un chimico tedesco, Wilhelm Normann, nel 1903, trovò il modo di addizionare idrogeno (in presenza di un catalizzatore inerte, generalmente nichel) agli acidi grassi insaturi caratteristici degli oli di semi, i quali diventavano saturi assumen-
La storia della gastronomia conferma che il burro è sempre stato apprezzato nella cucina d’élite dei popoli settentrionali anche per le sue attività terapeutiche. Nell’ambito della pasticceria risulta poi indispensabile per conferire la struttura a “sfoglia” sfruttata dai croissant alla millefoglie
Oltre alla temuta quota di grassi saturi, questo alimento naturale, che fa parte della dieta umana da secoli, contiene vitamine liposolubili, molecole ad azione antinfettiva e anticancerogena
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Il burro ha un punto di fumo molto basso per cui è bene non utilizzarlo per le fritture, per le quali l’olio di oliva è sicuramente più indicato. Tale caratteristica dona tuttavia al burro un ottima digeribilità, soprattutto se consumato crudo.
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Conoscere e gustare il burro di Renzo Pellati contribuisce a diffondere una maggior conoscenza del burro perché questo alimento naturale fa parte della dieta umana da secoli e in questi ultimi anni è stato ingiustamente demonizzato. La sua composizione merita di essere conosciuta e, come tutti gli alimenti, va utilizzato in modo corretto perché non esistono “cibi buoni” e “cibi cattivi”: occorre mettere in atto buone abitudini alimentari, scelte e dosaggi adeguati allo stile di vita, rispettando i consigli del medico quando sono presenti particolari situazioni. L’autore si augura che il libro venga apprezzato da coloro che vogliono arricchire le loro conoscenze nel campo dei lipidi in generale e del burro in particolare, dove esistono molti pregiudizi: si sente dire che “per star bene, bisogna eliminare tutti grassi dalla dieta”, che “il burro è più grasso dell’olio”, che “tutti gli alimenti di origine animale ormai vanno abbandonati”, che “il burro contiene solo colesterolo”, trascurando la reale composizione e tutti i principi nutritivi di cui è ricco.
do consistenza solida simile al burro. L’impiego della margarina vegetale nelle ricette di cucina era ed è praticamente sovrapponibile al burro. In considerazione dell’assenza di colesterolo e del minor contenuto di acidi grassi saturi rispetto al burro, la margarina fu accolta in modo favorevole ed ebbe un largo successo di vendita. Tuttavia, studi e ricerche successive evidenziarono che il processo di idrogenazione a cui erano sottoposti i grassi liquidi di origine vegetale per diventare solidi produceva anche una percentuale di acidi grassi denominati “trans” che per il nostro sistema cardiocircolatorio erano più dannosi dei grassi saturi che si volevano sostituire. Venne così a mancare l’immagine salutistica attribuita alla margarina e fu nuovamente rivalutato il burro. In questi ultimi anni si è progressivamente affermato l’olio di palma che, a differenza degli altri oli vegetali sinora utilizzati, ha un contenuto relativamente alto di acidi grassi saturi; inoltre, ha un sapore neutro, per cui non influenza gli altri ingredienti. Il suo successo, soprattutto nell’industria alimentare, è dovuto alla capacità di resistere al calore e all’ossidazione, per cui aumenta la durabilità dei prodotti, e alla potenzialità
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Renzo Pellati Conoscere e gustare il burro con ricette squisite di rinomati Chef Daniela Piazza Editore, 2017 240 pp. – e 25,00
di conferire loro la necessaria “croccantezza” e “cremosità”. Viene prodotto soprattutto in Malesia e Indonesia (circa l’86% della produzione mondiale). L’olio di palma utilizzato per l’alimentazione viene definito “sostenibile” perché coltivato tenendo conto dell’ambiente e delle comunità che lo producono: vale a dire senza praticare una deforestazione incontrollata. Quindi ha origini conosciute e tracciabili. L’olio di palma grezzo è di colore rossastro per l’elevato contenuto di carotenoidi, praticamente assenti nel raffinato. A temperatura ambiente è solido o semisolido, ma attraverso il processo di raffinazione si può separare in una componente liquida e una solida. Non contiene colesterolo, però recenti studi messi a punto dall’EFSA (European Food Safety Authority) hanno evidenziato che, durante i processi di raffinazione che si effettuano a temperatura elevata (circa 200 °C), si formano tre sostanze tossiche creando problemi nell’ambito alimentare. I tre contaminanti sono il GE (estere glicidico degli acidi grassi), il 3-MCOD (monocloropropandiolo), il 2-MCPD (2-monocloropropandiolo). Il problema riguarda anche altri oli vegetali e la margarina, ma l’aspetto saliente è che
il grasso tropicale ne contiene da 6 a 10 volte di più. Le industrie alimentari italiane qua lificate oggi sono in grado di utilizza re il frutto di palma proveniente da coltivazioni “sostenibili” e di praticare successivamente la sterilizzazione con un trattamento di vapore. La spremitura e il processo di raffinazione e di lavorazione vengono effettuati in tempi brevi a bassa temperatura. L’ostracismo al burro oggi è dovuto principalmente al contenuto di colesterolo, però occorre precisare che una porzione di burro, 10 grammi, contiene 24 milligrammi di colesterolo, pari all’8% della dose consentita di colesterolo alimentare (300 mg). L’organismo umano, ad ogni età, ha bisogno di colesterolo e, se non lo si introduce con l’alimentazione, le cellule lo producono da sé. Oltre al colesterolo esogeno introdotto con l’alimentazione, abbiamo il colesterolo endogeno che produce il fegato. Non introdurre il colesterolo con gli alimenti stimola il fegato a produrne di più al fine di assicurare una sana e vitale risposta alla domanda personale che ogni organismo ha di colesterolo per trasformarlo in ormoni steroidei, estrogeni, progesterone, testosterone, cortisolo, essenziali per una corretta funzionalità e integrità dell’intero corpo. Le società scientifiche che si occupano di nutrizione umana oggi concordano nel proporre un totale giornaliero di grassi non superiore al 30% del fabbisogno calorico totale (perciò circa 60-70 g, di cui 20-25 g anche in forma di acidi grassi saturi, per una dieta di 2.000 kcal/die). I restanti acidi grassi saranno “insaturi” provenienti dall’olio extravergine di oliva, dagli Omega-3 provenienti dal pesce azzurro, dagli Omega-6 provenienti dai legumi e dalla frutta secca. Di conseguenza, non possiamo mangiare tutto il burro che vogliamo. Le dosi e le porzioni vanno sempre rispettate per rendere la dieta equilibrata, che però dev’essere anche varia per poter essere praticata nel tempo. Quindi è possibile allietare la tavola con il burro, che è un cibo dotato di caratteristiche degne della maggior considerazione. (Fonte: Accademia dei Georgofili) >> Link: www.georgofili.info
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Aceto Balsamico di Modena ACETAIA
20-21-22 Ottobre
Open Day Aspettando il Natale Presentazione regalistica 2017 e assaggi di prodotti
L’Acetaia Leonardi rappresenta la massima espressione della cultura legata all’Aceto Balsamico di Modena. Una tradizione secolare che ha le sue radici nel cuore della provincia modenese dove genuinità e passione per la tradizione rappresentano ancora valori, cardini dell’economia del territorio. Vi invitiamo a visitare la nostra Acetaia e il Museo, dove, da più di 130 anni, i migliori Balsamici invecchiano in una riserva di botti unica al mondo.
Visite guidate e Degustazioni tutti i giorni dalle 9 alle 19
Az. Agr. LEONARDI Giovanni Via Mazzacavallo, 62 - Magreta - Modena - Italy - Tel. +39 059 554375 www.facebook.com/AcetaiaLeonardi - www.acetaialeonardi.it
NUTRIZIONE
Viva i flavonoidi Un’alimentazione ricca di flavonoidi da tè e vino rosso, peperoni, mirtilli e fragole, sembra associata ad una riduzione del rischio di mortalità specifica e per tutte le cause
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flavonoidi, polifenoli vegetali, sono alla base di molte delle proprietà salutari di frutta, verdura e di bevande di derivazione vegetale, come il tè o il caffè. L’alimentazione ricca di flavonoidi stabilizza una molecole volatile e molto instabile, l’ossido nitrico, che agisce favorevolmente sulla funzionalità endoteliale (fungendo quindi da vasodilatatore naturale), ma riducendo anche l’aggregazione piastrinica e lo stress ossidativo. Inoltre, si ritiene che i flavonoidi entrino nel complesso meccanismo di inattivazione della carcinogenesi, attraverso un effetto antiproliferativo e di stimolo all’apoptosi (morte cellulare programmata). Questo complesso di dati può spiegare l’associazione, rilevata in molti studi epidemiologici, tra consumo regolare di alimenti ricchi di flavonoidi e riduzione della mortalità per cause specifiche, vale a dire tumori, malattie cardiovascolari e diabete di tipo 2, o per tutte le cause. L’analisi più recente al proposito viene dalla mole di dati raccolta nell’ambito del Nurses’ Health Study II, che ha monitorato con cadenza biennale 93.145
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infermiere, di età compresa tra 25 e 42 anni, al momento dell’inclusione nello studio (nel 1989). La media di assunzione quotidiana di flavonoidi totali è risultata pari a 379 mg; di questi, 257 mg erano rappresentati dalle proantocianidine assunte con tè, mele e fragole, seguiti dai flavan-3-oli presenti anch’essi nel tè, oltre a mele e mirtilli; 33 mg di flavanoni venivano dal consumo di vino rosso, arance e pompelmi sia freschi, sia come succo; le altre classi di flavonoidi, assunte con cipolle e peperoni, risultavano le meno rappresentate. Valutando l’associazione tra frequenza di consumo di questi alimenti e rischio di mortalità per tutte le cause, i ricercatori hanno messo in luce che, nei 18 anni di monitoraggio, il rischio di mortalità per tutte le cause è stato del 19% inferiore per le donne che avevano assunto più flavonoidi totali, rispetto a quelle con i livelli di consumo più bassi. L’analisi ha poi approfondito la presenza di eventuali associazioni specifiche. È così emerso che, rispetto alle non consumatrici di tè e vino rosso, le infer-
miere che sceglievano queste bevande per più di una volta alla settimana presentavano la maggiore riduzione del rischio di mortalità per tutte le cause. In confronto alle non consumatrici, le donne che mettevano più di frequente nel piatto fragole e mirtilli mostravano la maggiore riduzione del rischio di mortalità per cause oncologiche. Il consumo frequente di peperoni, invece, si associava alla riduzione del rischio di mortalità per cause diverse da quelle oncologiche. Da questa analisi emergerebbe quindi che l’effetto protettivo nei confronti del rischio di mortalità per tutte le cause possa essere attribuito soprattutto all’apporto dei flavonoidi presenti in specifici alimenti, quali tè e vino rosso, fragole, mirtilli e peperoni. NFI – Nutrition Foundation of Italy www.nutrition-foundation.it Nota Ivey K.L., Jensen M.K., Hodgson J.M., Eliassen A.H., Cassidy A., Rimm E.B. (2017), Association of flavonoid rich foods and flavonoids with risk of all-cause mortality, Br. J. Nutr., 117(10):1470-1477.
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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com
Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.
TUTTO IL BIOLOGICO, OGGI
Testo unico sul biologico Dopo anni di pressioni e richieste, giunge finalmente una norma che mette d’accordo tutti. L’obiettivo è disciplinare uno dei pochi ambiti in cui crescono inarrestabilmente tutti i valori positivi. Il bio continua a dare segnali di speranza, in un agroalimentare ancora fortemente piegato dalla congiuntura economica di Sebastiano Corona
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a crisi c’è, si vede e si sente. Eppure, ci sono produzioni che, nonostante il prezzo, vanno in controtendenza. L’esempio più evidente è quello del biologico, un ambito che mostra valori positivi su tutti i livelli, dagli occupati alle vendite, dalle imprese coinvolte, alle superfici dedicate. Secondo il MIPAAF, nel 2015 gli addetti sono cresciuti
dell’8,2%, gli ettari coltivati del 7,5%, le vendite del 20%. E la cosa positiva è che queste cifre non sono il fuoco di paglia di un fenomeno destinato a concludersi a breve. Si tratta infatti di un trend che dura ormai da tempo e che ogni anno, anziché cedere il passo, conosce un nuovo incremento, spesso a due cifre: si pensi che, sempre nel 2015, gli operatori del settore sono
passati da 55.400 a 60.000, mentre la superficie coltivata in modo bio, o in conversione, è arrivata a 1,5 milioni di ettari, pari al 12% della SAU complessiva (superficie agricola utilizzata), con un incremento, rispetto al 2014, di un punto percentuale. Incide inoltre una quota importante di terreni in riconversione, dedicati al pascolo e quindi ad allevamenti che contribuiscono in
Il testo unico sull’agricoltura biologica, dopo dieci anni di attesa, offre uno strumento che disciplina un settore in crescita (photo © SANA).
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In un’economia ancora in affanno, il biologico continua a dare segnali positivi. Secondo i dati del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, infatti, nel 2015 gli addetti sono cresciuti dell’8,2%, gli ettari coltivati del 7,5% e le vendite del 20%
maniera importante sia nella produzione della carne che nei derivati animali. Sarebbero cifre ragguardevoli di per sé, ma diventano ancor più significative se valutate nel panorama complessivo, che da tempo offre uno scenario tutt’altro che confortante. Mentre la spesa alimentare — secondo Ismea Nielsen — è prossima allo zero, perché nel 2015 ha segnato solo un +0,3% e a seguire, nel primo semestre del 2016, un –1,2%, le vendite del bio nel 2015 hanno mostrato incrementi non lontani dal 20% rispetto al 2014 e il primo semestre del 2016 ha ulteriormente confermato la linea con un +20,6%. Certamente a questa ascesa ir refrenabile sta contribuendo anche la distribuzione moderna, sebbene i consumatori abituali di prodotti bio lamentino il fatto che i retailer ancora non comprendano a pieno le loro preferenze sui prodotti. La domanda si sta infatti evolvendo molto velocemente, ma l’offerta, pur incalzante, risulta in ritardo. Il risultato è che gli assortimenti nella GDO non sempre tengono conto delle reali esigenze dei consumatori e i clienti finiscono per scegliere l’insegna anche in base al fatto che ci siano prodotti biologici in vendita oppure no. Non è chiaro se sia la GDO che, avendo introdotto molti prodotti bio, ha contribuito al loro successo o se, al contrario, siano i supermercati e gli ipermercati che, consapevoli della richiesta sempre più pressante, lo stiano introducendo, per i margini importanti che è in
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grado di generare. Resta il fatto che il bio confezionato negli scaffali delle grandi superfici di vendita nel 2015 fosse pari al 3% del totale agroalimentare e, già nei primi mesi del 2016, questo dato apparisse in sensibile aumento. Gli ipermercati e i supermercati da soli generano un fatturato annuo paria 872 milioni di euro, mentre è di 860 milioni di euro quello del dettaglio specializzato. A queste voci vanno però aggiunti i normal trade e discount, per 206 milioni, le farmacie e para farmacie, per 125 milioni, le erboristerie, per 121 milioni, i canali alternativi come la vendita diretta, on-line o i gruppi di acquisto, per 238 milioni, e, infine, il food service per 320 milioni di euro. Insomma, il biologico è entrato a far parte delle abitudini degli Italiani e degli europei passando per la porta principale. Nel Belpaese, per la verità, le vendite hanno una distribuzione poco omogenea, essendo concentrate soprattutto nel Centro Nord. Ma anche nel Sud, che pure appare da questo punto di vista più lento, nell’ultimo anno si registra un aumento pari al 33%. Cresce di pari passo il numero di famiglie acquirenti e, soprattutto, si è incrementato il numero di clienti abituali, cioè che acquistano bio tutte le settimane, raggiungendo la ragguardevole cifra del 18% del totale delle famiglie. Tra i prodotti bio più acquistati vi sono le cosiddette “gallette”, ma anche confetture di frutta, uova, prodotti ortofrutticoli freschi. In Europa, invece, il bio vale ormai 30 miliardi di euro, secondo i dati Ifoam-Fibl. L’aumento nelle vendite, nel 2015 è stato del 13%. In questo contesto era la Germania il più grande mercato del biologico in Europa (8,6 miliardi di euro), seguita da Francia (5,5 miliardi di euro), Regno Unito (2,6 miliardi di euro) e Italia (2,3 miliardi di euro). A livello globale invece, sono gli Stati Uniti, con 35,8 miliardi di euro, il primo mercato. In un’Europa in cui ogni anno i consumatori spendono sempre di più in termini assoluti per gli alimenti biologici (una media di 36,4 euro in Europa e 53,7 nell’UE), è la Svizzera a vantare la più alta spesa pro capite, con ben 262 euro, seguita dalla Danimarca, con 191 euro, e dalla Svezia, con 177 euro.
E in questo contesto i consumi salgono più velocemente dell’offerta. Il numero di produttori biologici in Europa è cresciuto del 3% (del 5% nell’Unione Europea), ma quello degli importatori è aumentato del 12% in Europa e del 19% nell’Unione Europea, a dimostrazione del fatto che la produzione biologica non riesce a tenere il passo con la domanda. L’Italia e Paesi europei sono forse ancora lontani da una strategia ben definita per il settore. Lo sono nonostante la domanda si faccia ogni giorno più pressante e col rischio che — come spesso accade in situazioni simili — si generino pericolose speculazioni, a danno del settore e dei consumatori. In Italia, però, anche a seguito dei diversi scandali che si sono verificati negli anni, si è ritenuto fosse necessario introdurre una normativa più completa ed omogenea, finalizzata sia ad un maggior controllo a tutela di agricoltori e consumatori, sia a dare nuova linfa al settore. È dunque in arrivo il Testo unico per il biologico, licenziato nei mesi scorsi dalla Commissione Agricoltura della Camera: una norma complessa che prevede, tra le varie cose, lo stanziamento di fondi dedicati e il coinvolgimento delle associazioni per la definizione delle priorità e delle azioni per lo sviluppo del settore. Un provvedimento per ora molto ben accolto dai produttori che, a gran voce, dichiarano fosse da tempo necessario un riconoscimento in termini normativi, così come era opportuno intervenire sul piano della ricerca e della formazione. Il quadro normativo che si sta de finendo è utile soprattutto a promuovere ulteriormente la crescita del settore, in particolare nei mercati internazionali. Il documento evidenzia la necessità di dedicare fondi certi per l’attuazione del Piano strategico Nazionale (PSN) sul biologico, introducendo anche novità assolute come quelle dei distretti bio. A parere delle associazioni del biologico, che rivendicano maggior coinvolgimento, ci sarebbero margini di miglioramento del documento, ma, con le dovute correzioni, il Testo Unico sarà fondamentale per un ulteriore sviluppo del settore, nei prossimi anni. Sebastiano Corona
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Biologico: chi l’ha visto (in etichetta)? Tutti! Il richiamo al biologico compare sulle etichette del 6% dei prodotti alimentari venduti in super e ipermercati. E il suo peso sul mercato è in continua crescita. Come tutti i prodotti rivolti a particolari stili di vita, come vegano e halal, che stanno conquistando nuovi consumatori
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er gli Italiani, sempre più interessati all’acquisto di alimenti biologici, individuarli al supermercato è diventato più semplice: crescono, infatti, i prodotti sulle cui etichette è evidenziata la certificazione bio. Secondo l’analisi condotta dall’Osservatorio Immagino sono ormai 2.379 i prodotti confezionati che presentano sulle confezioni un richiamo al mondo dell’organic food. Questo insieme eterogeneo di alimenti, che incide per il 6% sui 41.000 prodotti di largo consumo monitorato dall’Osservatorio, nel 2016 ha mostrato un’ottima performance, crescendo del 16,2% rispetto all’anno precedente e arrivando a rappresentare il 2,4% del giro d’affari del food & beverage in Italia. Un trend ancora più positivo se si considera che il tasso di promozionalità del biologico è tra i più bassi in assoluto
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di tutto il mass market (23%). Immagino ha rilevato che il 73% del giro d’affari complessivo di questi prodotti si deve a 3,4 milioni di famiglie e che a spendere di più per comprare prodotti bio sono le persone con redditi sopra la media e le famiglie con bambini e ragazzi, a conferma dei valori di salubrità, sicurezza e naturalità che gli italiani riconoscono al biologico. «Il successo del biologico è solo la punta di un iceberg, che abbiamo definito come l’avanzata degli alimenti collegati ai lifestyle» dichiara Marco Cuppini. «Si tratta di tutti quei prodotti sulle cui etichette compaiono indicazioni come vegano, vegetariano, halal, kosher. Complessivamente ne abbiamo censiti 3.651 per un giro d’affari di 1,5 miliardi di euro, in crescita del 10% nell’ultimo anno». L’universo più dinamico è quello del “100% veg”, che ha ormai raggiunto
lo stesso giro d’affari del biologico, nonostante numericamente abbia la metà circa dei prodotti rispetto all’offerta del bio. Nel 2016 i prodotti per vegani hanno conquistato il 2,4% di quota sul fatturato complessivo dei 41.000 prodotti analizzati dall’Osservatorio Immagino. In un anno le vendite sono salite del 10,2%, aiutate anche dalla pressione promozionale arrivata al 34%, e si devono soprattutto a consumatori a reddito alto e trasversali tra le varie classi di età. Interessante anche il fenomeno degli alimenti kosher e halal, due nicchie in crescita (rispettivamente +7,8 e +4% rispetto al 2015) apprezzate da un pubblico più ampio, fatto soprattutto di persone a reddito medio e consumatori di età matura, che premia la sicurezza garantita dai controlli rigorosi effettuati dalle rispettive autorità religiose.
Premiata Salumeria Italiana, 5/17
SANA 2017, un’ottima edizione! In vista dell’importante anniversario del 2018, che vedrà celebrare i trent’anni dalla prima edizione, SANA-Salone Internazionale del Biologico e del Naturale registra un nuovo risultato positivo confermandosi punto di riferimento nel mondo del biologico per aziende, operatori, enti, associazioni, buyer e un pubblico di consumatori, informato e motivato, che cresce di anno in anno. I sei padiglioni di SANA 2017, con i tre settori merceologici – Alimentazione biologica, Cura del corpo naturale e bio e Green lifestyle – hanno proposto il meglio della produzione biologica e naturale nazionale e internazionale. Soddisfazione e riscontri positivi arrivano dagli operatori grazie anche ai fittissimi incontri B2B — oltre 2.500 nell’ambito del programma di appuntamenti realizzato grazie all’International Buyer Program, il programma di incoming organizzato in collaborazione con ICE e FederBio — presso la International Buyer Lounge che ha ospitato buyer internazionali giunti da 30 Paesi (+11%). SANA 2017 ha consolidato ulteriormente il proprio ruolo di vetrina e di piattaforma di confronto e approfondimento con i protagonisti del comparto del biologico e del naturale, istituzionali e privati, dal Governo alle Regioni, dagli organismi europei alle associazioni e federazioni di categoria e rappresentanza, alle imprese e aziende di produzione e distribuzione ed enti di certificazione. Rafforzata anche la presenza della GDO, che dedica sempre più spazio alle diverse linee di prodotto biologiche e naturali. A tracciare lo stato dell’arte del settore il convegno di apertura “Quale regolamento per potenziare la crescita del biologico europeo?”, che ha visto la presenza del viceministro Andrea Olivero e la presentazione dell’Osservatorio SANA, promosso e finanziato da BolognaFiere con il patrocinio di FederBio e AssoBio e realizzato da Nomisma. >> Link: www.sana.it
PREMIATE SALUMERIE ITALIANE
Salumeria Bianco, eccellenze artigianali italiane e della terra dei trulli Locale storico di Putignano, dal 2013 la salumeria è stata completamente rinnovata con l’introduzione di panini gourmet, serate degustazione e l’avvio di un nuovo progetto, Puglia Food Box di Veronica Fumarola
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ello storico punto vendita in Corso Umberto a Putignano ha sede la Salumeria Bianco, fondata nel 1936 dalla nonna di Domenico Bianco, attuale proprietario. Negli anni Quaranta il locale, in cui si vendevano pasta e una ridotta selezione di salumi e formaggi,
era molto più piccolo rispetto a quello di oggi perché il retrobottega era la casa della numerosa famiglia. Un piccolo cambiamento avviene con il passaggio del testimone a Pinuccio Bianco, papà di Domenico, e a sua moglie Amadia, negli anni Settanta/Ottanta: la salumeria sposa la filosofia della qualità e Pinuccio
seleziona attentamente i migliori prodotti artigianali di tutta Italia per proporli ai suoi clienti. Nel 2013 la gestione della salumeria passa a Domenico che, dopo una laurea in Lettere, un master in comunicazione a Milano e un’esperienza lavorativa come copywriter, decide di
“Il Panino gourmet del giorno” è l’idea di Domenico Bianco, titolare dell’omonima salumeria con sede a Putignano (BA), attraverso la quale Domenico è riuscito a far scoprire ai suoi clienti alcune prelibatezze presenti a banco ma poco note.
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tornare nella sua terra e di ridare luce all’attività di famiglia, trasformandola da semplice salumeria in bottega con degusteria. «Abbiamo rinnovato e ampliato la bottega trasformandola in un posto ideale in cui apprezzare le eccellenze artigianali italiane, ma soprattutto i prodotti tipici pugliesi» racconta Domenico. L’assortimento resta il medesimo, ma si sceglie di dedicare più attenzione alle bontà locali, facendo comunque tesoro delle scelte effettuata nei decenni precedenti da papà Pinuccio. La nuova avventura prende il via con “Il Panino gourmet del giorno”. L’idea nasce da un’osservazione ben precisa. «Mi accorgevo della presenza di prodotti molto interessanti al banco, ma questi riscuotevano scarsa attenzione da parte della clientela, poiché poco conosciuti dalle nostre parti. Ho pensato che il “Panino gourmet” potesse essere il modo più semplice e immediato per far scoprire alcune prelibatezze come il Culatello di Zibello, il Salame d’Oca o il Prosciutto di maiale nero allevato allo stato brado, ad esempio». Da questa intuizione sono nati una serie di abbinamenti riproposti anche con le frise (o friselle) — tipiche ciambelle biscottate pugliesi — rivisitate sempre in chiave gourmet.
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Per un’autentica esperienza di gusto 100% pugliese Domenico, insieme a Angelo Bianco e Ivan Console, ha ideato Puglia Food Box: una scatola contenente una ricetta gourmet e il necessario per realizzarla.
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L’interno della Salumeria Bianco in Corso Umberto I a Putignano. Dopo aver avviato la “rivoluzione”, il locale diventa il posto giusto in cui parlare di storie belle e buone; dai panini gourmet hanno origine gli “Incontri gourmet”, degustazioni organizzate periodicamente in salumeria in cui, di volta in volta, i produttori delle varie eccellenze (locali e non) raccontano la loro storia. La scelta non è casuale: dietro ogni prodotto presente all’interno della Salumeria Bianco c’è una selezione accurata, negli ultimi anni unita ad un’altra delle passioni di Domenico, il racconto. Solo attraverso lo storytelling, infatti, si possono cogliere senso, lavoro e tradizione. La Farinella Proprio nell’ottica della conservazione della tradizione, Domenico ha inventato anche il Pastrocchio di Farinella, un cartoccio contenente Capocollo di Martina Franca, pomodori secchi sottolio, caciocavallo di masseria e taralli fatti a mano da mamma Amadia, serviti in un cartoccio insieme alla Farinella, prodotto tipico della città di Putignano. Si tratta di uno sfarinato di orzo e ceci tostati e pestati, oggi inserito tra i prodotti
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dell’Arca del Gusto, il catalogo on-line che raccoglie i prodotti tipici a rischio estinzione. La sua poca notorietà ha spinto Domenico a proporla nel cartoccio, per continuare la tradizione e far conoscere un’unicità della sua città. Puglia Food Box L’ultima invenzione, invece, si chiama Puglia Food Box. È una scatola che racchiude al suo interno un’autentica esperienza di gusto pugliese: una ricetta gourmet, fatta di ingredienti altamente selezionati. Ma Puglia Food Box nasconde in sé molto altro: tradizioni antichissime, creatività e le storie di tre giovani, Domenico, Ivan Console (art director di professione) e Angelo Bianco (compliance specialist), ideatori del progetto. «Tutto nasce dall’amore per la Puglia e dalla volontà di dare a chiunque abbia nostalgia della sua terra la possibilità di portare un po’ della sua regione con sé. La prima ricetta proposta è la Colazione 100% pugliese (Breakfast edition). Nella scatola si trova tutto quello che serve per preparare delle friselle artigianali: miele bio di ciliegio, confettura extra di uva Negroamaro e
mandorle di masseria, da abbinare al latte di mandorla per chi preferisce una versione morbida della frisa, per la prima volta proposta nella variante dolce. E così che la tradizione incontra l’innovazione». Questa è solo la prima di diverse proposte: nelle prossime settimane saranno presentati i nuovi abbinamenti, «che prediligeranno il salato», come anticipa Domenico. E per chi volesse acquistare le scatole, attualmente sono reperibili presso la Salumeria Bianco, nei corner allestiti a Bari e in alcune strutture ricettive a Conversano e Alberobello, che le propongono come welcome kit; presto sarà disponibile anche l’e-shop su www.pugliafoodbox.it Veronica Fumarola Salumeria Bianco Sas di Bianco Domenico & C. Corso Umberto I 100 70017 Putignano (BA) Web: www.salumeriabianco.it www.pugliafoodbox.it
Nota Photo © Puglia Food Box
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MACELLERIE D’ITALIA
Da Carlo, macelleria a Marassi A Genova c’è una piccola grande bottega delle carni che vi farà fare il giro del mondo, tra bistecche, tagli BBQ e preparati di Elena Benedetti
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he bello parlare di carne con Carlo Ferrando, un macellaio genovese di 44 anni, con all’attivo tanti traguardi, professionali e personali, che oggi gli riempiono le giornate. Tra il suo braccio destro, una validissima macellaia che si chiama Andrea, e un bravissimo aiutante albanese di nome Enti, già ottimo disossatore, sua moglie Silvia, che si divide tra la bottega e i loro tre bimbi,
1.400 amici su Facebook con i quali il butcher ha un rapporto stretto e una clientela che lo insegue su WhatsApp, Carlo ha trovato il tempo per parlare anche con noi. Se di questi tempi sembra quasi d’obbligo uno schieramento quasi ideologico tra purismo delle carni e focus sul preparato, ecco che, parlando con Carlo, si comprende che l’uno non esclude l’altro. Anzi. La macelleria Da Carlo, da 15 anni attiva in un quartiere
della Genova popolare, non lontano dallo stadio Marassi, offre al visitatore un banco che per il 50% è occupato dal fresco e per il restante 50% da elaborati. Ogni giorno metà banco ospita carni fresche, tra costate, bistecche e tagli di carne selezionata, anche frollata. L’altra metà risolve invece parecchi problemi legati alla quotidianità di noi tutti consumatori affannati con una bella gastronomia, tanti preparati da cuocere,
Carlo Ferrando e il suo staff nei locali dell’omonima macelleria di Genova.
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I salumi a marchio Levoni fanno bella mostra di sè sopra al banco carni. burger, torte di carne, bocconcini e spiedini vari.
La mia clientela è variegata come fascia d’età, abitudini di consumo, abilità nel cucinare e richieste. Io voglio accontentare tutti con un prodotto buono, fatto bene e di qualità, che alla sera posso portare a casa e cucinare per cena ai miei bambini
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Hai un cliente tipo? «La mia clientela è variegata come fascia d’età, abitudini di consumo, abilità nel cucinare e richieste» mi spiega Carlo. «Si va dal pensionato attento al prezzo alla ragazza che non sa cucinare e che mi fa un sacco di domande su tutto, dall’appassionato di barbecue alla giovane mamma sempre di corsa con le creature da sfamare. Io voglio accontentare tutti con un prodotto buono, fatto bene e di qualità, un prodotto che alla sera posso portare a casa e cucinare per cena ai miei bambini». Ma andiamo con ordine. Come hai iniziato a fare questo lavoro? «A dire la verità ho iniziato tardi. Non ho alle spalle una tradizione di famiglia come tanti miei colleghi. I miei erano fornai e io non ne volevo proprio sapere di lavorare di notte. Così, dopo qualche lavoretto, mi ritrovai quasi per caso a lavorare in una macelleria con un amico. Iniziai dai preparati per poi appassionarmi a questo mestiere che,
anno dopo anno, ho plasmato sulla mia pelle, trasformandolo per seguire ogni volta un interesse, una passione e un’evoluzione continua. Da 14 anni sono titolare della mia macelleria che segue la mia evoluzione e quella dei miei clienti. Faccio corsi, seguo la formazione di Passione Preparati con Francesca Santin e il suo bel gruppo di colleghi e sono sempre pronto a farmi contaminare da nuove idee e suggestioni». Come deve essere la tua macelleria? «La mia idea di banco è chiara: per chi entra in bottega deve essere subito ben evidente un’ampia offerta di carne. Anche oggi, nonostante stia iniziando a svilupparsi il discorso del cotto e del preparato, a me la carne fresca piace ancora moltissimo e ad essa è dedicato metà banco. Sempre. La mia regola è 50% fresco e 50% preparati». E la frollatura? Su Facebook le immagini delle tue costate sono molto apprezzate e condivise. «Anche il discorso della maturazione delle carni è partito da un mio interesse personale. Ho iniziato a raccogliere
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Da Carlo anche una ricca offerta di formaggi. informazioni, a studiare tagli e razze e a fare tantissime prove. La frollatura è un percorso lungo e complesso che però, all’assaggio, può portare risultati straordinari in termini di gusto e consistenza delle carni. Una vera avventura».
Vendi anche on-line? «Sì, attraverso la piattaforma Gustavoo (gustavoo.com), che è un ecommerce formato dai produttori, senza intermediari; spediamo in tutta Italia, isole comprese, in 24 ore».
Quali sono i tuoi punti di forza? «Sono convinto che la cura del cliente sia alla base del nostro lavoro non solo nella preparazione, ogni giorno, dell’offerta di prodotti e piatti, ma anche nella capacità di intercettare le sue necessità. E poi c’è il post-vendita, fase de licatissima e assolutamente strategica che richiede la massima attenzione in una interazione continua col cliente, spesso anche attraverso social e smartphone, per sondare l’apprezzamento di un taglio, suggerire una cottura, soddisfare una richiesta dell’ultimo momento. La comunicazione qui fa davvero tanto in termini di fidelizzazione, ma è altrettanto vero che essa comporta una dedizione totale. Io mi occupo personalmente dei due canali social, Facebook e Instagram, faccio le foto, rispondo ai commenti, seguo i tantissimi amici che ora mi seguono. È un lavoro anche quello!».
Come ti vedi tra qualche anno? Come potrebbe evolvere la macelleria Da Carlo? «Mi piacerebbe consolidare il rapporto con una bella rete di ristoranti, senza puntare alla quantità bensì alla qualità e al servizio. Nei miei progetti futuri c’è anche una mia steak house».
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L’offerta di carni oggi è davvero ampia. «Sì, decisamente. Per le razze lavoro molto la Limousine piemontese, la Rubia gallega, la scottona prussiana, la vacca austriaca e diversi tipi di Angus, la scottona irlandese e il castrato inglese, oltre ad una vera new entry, la finlandese! Sul fronte del BBQ offriamo tagli che sono la sintesi di culture e tradizioni italiane e internazionali. Ci siamo quindi attrezzati per assecondare le richieste della nostra clientela bbq con picanha, l’American style, pork ribs, il
Boston butt o il tri tips. Per la clientela che fa la spesa con più frequenza e cerca un prodotto veloce, spesso già pronto, offriamo tantissimi preparati, la cima alla genovese (fatta col cuore, seguendo la ricetta di mia nonna), gli hamburger farciti, bocconcini, e ancora spiedini, girelle di carne, oltre alle nostre torte di carne, perfette per feste ed eventi speciali». Carlo Ferrando ha trovato equilibrio nel suo banco carni, tra la ricerca delle lunghe frollature e delle più adatte razze da carne, e un mare di preparati che facilitano la vita di tutti i giorni. Insomma, un gran bel pareggio, con lo stadio Luigi Ferraris proprio a due passi. Elena Benedetti Macelleria Da Carlo C.so De Stefanis 53 R 16139 Genova Telefono: 010 870968 E-mail: macelleriadacarlogenova@gmail.com Web: www.macelleriadacarlo.it www.facebook.com/macelleriadacarlo www.instagram.com/carlonegenova Nota Photo © Francesco Zoppi.
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Contrordine: bistecche e formaggi non fanno male (e noi lo sapevamo già!)
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Nella lunga e controversa partita che si gioca sulla sana alimentazione, i grassi segnano un punto a loro favore. L’analisi presentata dai ricercatori canadesi dello studio PURE (Prospective Urban Rural Epidemiology) al recente congresso europeo di cardiologia a Barcellona punta infatti il dito sulle linee guida attuali che, limitando l’apporto dei grassi totali sotto il 30% dell’energia e i grassi saturi a meno del 10%, non terrebbero conto dell’evidenza emersa dalle loro indagini, secondo cui una dieta ricca di glucidi è associata a un maggior rischio di mortalità, mentre i grassi, saturi e insaturi, sarebbero associati a un più basso rischio di mortalità. PURE è uno studio osservazionale guidato dall’Università di Hamilton, Ontario, nato con l’obiettivo di esaminare l’impatto dell’urbanizzazione sulla prevenzione primordiale (l’attività fisica o i cambiamenti nell’alimentazione), sui fattori di rischio (obesità, ipertensione, dislipidemia…) e l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Condotto per 12 anni su oltre 154.000 persone tra i 35 e i 70 anni, arruolati tra il 2003 e il 2013 in 18 paesi ad alto, medio e basso reddito dei cinque continenti, è uno degli studi epidemiologici più ampi e completi sull’argomento. I risultati della sottoanalisi presentata sono stati pubblicati in contemporanea su Lancet. «Limitare l’assunzione di grassi non migliora la salute delle persone, che invece potrebbero trarre benefici se venisse ridotto l’apporto dei carboidrati al di sotto del 60% dell’energia totale e aumentando l’assunzione di grassi totali fino al 35%», ha detto Mahshid Dehghan, Population Health Research Institute McMaster University, tra gli autori dell’analisi. «Anche se negli ultimi vent’anni tutti gli studi hanno dimostrato che quando si tratta di fattori di rischio degli eventi cardiovascolari la parte del leone è svolta dalla correzione dei lipidi, è ragionevole pensare che il consumo di carboidrati possa essere limato al ribasso, anche se l’impatto sui fattori di rischio è minore e richiede più tempo», ha commentato Alberto Zambon, Università di Padova. «L’importante — continua Zambon — è fare attenzione alla qualità dei grassi: quelli da privilegiare sono i monoinsaturi e alcuni polinsaturi». (Fonte: www.eurocarne.it)
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SAPORI MEDITERRANEI
Legumi di montagna di Massimiliano Rella
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ochi, robiglio, ceci a “fraschetta” oppure rossi e, naturalmente, cicerchia e lenticchie di Capracotta. Non sono gli ingredienti e i nomi di fantasia di un ortolano un po’ burlone, ma i protagonisti vegetali del “Progetto legumi di montagna” che il Centro di Documentazione Ambientale dell’Abetina sta conducendo da qualche anno su un terreno di circa un ettaro di proprietà comunale, nella Riserva dell’Abetina di Rosello, in provincia di Chieti. Ogni anno qui in Abruzzo, al confine con il Molise, vengono piantate altre varietà antiche di legumi di montagna, a rischio
di estinzione, recuperate da vecchi contadini, come il robiglio — un pisello di montagna — o il mochi, più simile alla lenticchia. «Stiamo cercando di ottenere tanti semi per poi coinvolgere i produttori locali e far rinascere le produzioni di questo patrimonio alimentare e di biodiversità dimenticato» ci dice il direttore della Riserva Mario Pellegrini. All’interno della riserva regionale del lago di Serranella, sempre in Abruzzo, un altro progetto si propone di riprodurre orti medievali su terreni coltivati con antichi legumi e ortaggi addirittura precedenti alla scoperta dell’America, oltre ad un campionario di erbe medi-
cinali e piante tintorie e per la concia delle pelli. Ma anche varietà particolari di patate e fagioli che arrivarono in Europa dopo la scoperta del continente americano. La rarità, la specificità e il valore alimentare ne giustificano la ricerca e la valorizzazione, come nel caso del fagiolo “suocera e nuora”, così chiamato per le screziature e i contrasti di bianco e nero sulla buccia. Le Miccole La strada per il Molise è breve. Qui troviamo una piccola realtà privata che ha fatto un grosso lavoro di recupero sui legumi di montagna, l’azienda agri-
I fratelli Luca e Loreto Beniamino, produttori di lenticchie di Capracotta e antichi legumi di montagna.
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cola “Le Miccole” dei fratelli Loreto e Luca Beniamino. Siamo a Capracotta, Isernia, in alto Molise. I fratelli Beniamino sono impegnati nel recupero di legumi autoctoni e rari, che coltivano su 10 ettari tra proprietà e affitto tra i 1.400 e i 1.550 metri d’altezza, in un ambiente incontaminato ma difficile, capace però di dare prodotti e materie prime eccezionali. Oltre a produrre farro e pasta artigianale, ma anche patate, marmellate, prodotti trasformati del tartufo e un ottimo guanciale di suino bianco allevato in zona, i fratelli Beniamino e i loro genitori coltivano in modo naturale tanti legumi diversi. Ad esempio, le piccole lenticchie di Capracotta, la cicerchia, la roveia, diverse varietà di fagioli da ecotipi locali come il prugnarello, il ciliegiotto, il variopinto, il tenebroso, impresa non semplice in una terra ostile per quest’ultimo tipo di legumi, che ama il caldo e soffre le escursioni termiche. Ma ne vale la pena perché ogni varietà presenta caratteristiche interessanti e l’azienda molisana offre un bell’assortimento di prodotti. Sicuramente originale. Il fagiolo ciliegiotto, ad esempio, di colore rosso-violaceo, ha un sapore delicato e una buona pastosità. È un’esclusiva della famiglia Beniamino. Al contrario, il fagiolo variopinto è bianco con numerose screziature brunonocciola e marroncine. Il cannellino rosa è in realtà di colore beige e ha una buccia molto sottile, il sapore delicato e intenso insieme. Le lenticchie locali — miccole in dialetto, da cui la denominazione aziendale — appartengono a due varietà. Un primo tipo di questa lenticchia di montagna ha un colore poco definito variabile dal marrone scuro all’arancio fino al rosso mattone: non richiede ammollo, cuoce in una trentina di minuti mantenendo la consistenza soda e ha un sapore deciso e gustoso, ben esaltato anche da un filo di extravergine d’oliva.
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I fagioli dell’azienda Le Miccole di Capracotta: variopinti, ciliegiotti e cannellini rosa.
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Pancetta alle erbe di montagna dell’azienda Le Miccole. Il secondo tipo di miccole si differenzia soltanto per una colorazione quasi uniforme con leggere sfumature dal marrone chiaro al rossiccio. Molto meno conosciuta, la roveia ricorda un piccolo pisello selvatico con screziature verdi-marrone. Si può
anche ridurre in farina per preparare una specie di polenta abbrustolita. Infine la cicerchia, un altro legume che ci riporta alla tradizione contadina, ha forma schiacciata e colore verdastro, si adatta a terreni poveri e ai climi freddi, proprio come l’alta montagna
molisana. Tutti i prodotti sono venduti nel negozio di famiglia (www.altisapori.it; www.aziendalemiccole.it). Massimiliano Rella Nota Photo © Massimiliano Rella.
Il prosciutto di Modena vola a Polagra Food Trasferta polacca per il Consorzio del Prosciutto di Modena che ha preso parte a Polagra Food, fiera internazionale del food & beverage svoltasi a Poznan dal 25 al 28 settembre. È la prima volta che il prosciutto di Modena, con uno stand all’interno del Padiglione Italia, è presente a questa manifestazione porta di accesso ideale per raggiungere l’area baltica che negli ultimi anni sta dimostrando grande interesse verso i prodotti dell’agroalimentare italiano. Il prosciutto di Modena Dop si distingue per una straordinaria dolcezza e morbidezza, caratteristiche che attinge direttamente dal territorio di produzione, corrispondente alla fascia collinare e alle valli che si sviluppano attorno al bacino oro-idrografico del fiume Panaro.Tutte le fasi di lavorazione, dalla salagione alla stagionatura completa, hanno luogo in queste terre. E il Modena è l’unico prosciutto Dop che nel suo disciplinare di produzione ha stabilito una stagionatura minima di 14 mesi.
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VERONA | 31 GENNAIO - 3 FEBBRAIO 2018 IN CONTEMPORANEA CON EUROCARNE.IT
SAPORI DAL MONDO
In Giordania, nella patria del mansaf Piatto nazionale a base di carne di agnello, di origine beduina, il mansaf viene cotto in yogurt di latte di pecora, servito su un piatto di sottilissimo pane e ricoperto di riso pilaf, spezie e pinoli tostati. Da mangiare rigorosamente con le mani di Nunzia Manicardi
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iordania, ultima mia meta. Reduce da un viaggio nel Paese arabo che conserva il tesoro dell’antica Petra, antica e splendida capitale dei Nabatei immortalata nel film Indiana Jones e l’ultima Crociata, porto con me anche il ricordo di una gastronomia eccellente: leggera, sana, nutriente, che deriva
da svariate influenze mediorientali, mediterranee ma specialmente beduine (la Giordania è occupata per oltre due terzi da un territorio desertico abitato da queste popolazioni). Un pasto in genere inizia con una serie di piatti stuzzicanti (mezzeh) a base di verdure e salse che hanno la stessa funzione degli antipasti e si consumano con il pane in attesa
del piatto principale. Quest’ultimo è di carne di agnello, montone o pollo, che può essere cruda o cotta, fritta o arrosto, grigliata o bollita. È accompagnato da altre numerose e saporite verdure sia cotte che crude e da salse spesso composte da una sorta di yogurt. Alla fine del pranzo si consumano frutta e dolci. Il mansaf è il piatto nazionale:
Mansaf, piatto nazionale giordano a base di carne di agnello. Si consuma in gruppo e andrebbe mangiato con le mani (photo © migrationology.com).
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Quella giordana è una cucina molto speziata, ricca di aromi, ma non troppo piccante. Alla base ci sono carni di agnello e montone accompagnate da riso pilaf o da cuscus e salse e verdure rese saporite dall’utilizzo di spezie ed erbe aromatiche. Molto utilizzato è pure il pollo
Knafee, dolce a base di formaggio, tipico delle feste familiari e popolari (photo © www.sbs.com.au). consiste in carne d’agnello (spalla o cosciotto) cotta in un particolare tipo di yogurt secco (jameed) ottenuto dalla fermentazione e precedente cottura del latte di pecora e mescolato a spezie e pinoli tostati. Il composto viene poi depositato su di una sottile sfoglia di pane beduino (shrak), ricoperto di riso pilaf e guarnito al di sopra con pinoli dorati nel burro raffinato (samn). Il mansaf è preparato in occasione delle feste più importanti, sia familiari che pubbliche (cerimonie e ricorrenze religiose). Si consuma in gruppo e si dovrebbe mangiare con le mani, usando soltanto la destra e restando in piedi attorno alla tavola su cui è posto il grande piatto di portata ricoperto dalla sfoglia di pane. Si deve prendere la carne e il riso e amalgamarli rapidamente con la punta delle dita formando una specie di polpetta da portare alla bocca senza infilarvi le dita, oppure ci si aiuta staccando piccoli pezzi del pane sottostante e con quello raccogliendo il boccone. Il piatto è di origine beduina, cioè proviene dai pastori nomadi della Giordania che erano allevatori di agnelli. Tipico quindi della tradizione arabo-islamica, è stato
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poi ripreso anche dalla cucina arabocristiana della Giordania (dove i cristiani costituiscono circa il 6% della popolazione). Infatti il mansaf, se per un arabo musulmano segna la fine del digiuno del Ramadan, per un cristiano di quei territori rappresenta il sacrificio di Gesù (l’agnello), che lo yogurt e il riso, con il loro biancore, evidenziano ancora di più. Il shish mansaf è il kebab a spiedino, cioè agnello coperto con erbe aromatiche e cotto alla brace, condito con salse piccanti e servito con il riso. Il kebab (carne infilzata allo spiedo e fatta abbrustolire) è rintracciabile ovunque, in Giordania come in tutti i paesi arabi, e quindi non può essere considerato tipicamente giordano. L’agnello, stufato e accompagnato sempre con riso e anche con melanzane e cavolfiori, è l’ingrediente principale di un altro piatto giordano, il maqlubeh (o maqluba), e di un piatto di origine siriana, l’haruf mahshi, in cui l’agnello è ripieno di riso speziato, carne macinata e frutta secca. Troviamo sempre l’agnello anche nel kubbeh (o kibbeh), polpette cucinate con carne tritata, mescolata a semola
di grano, spezie e pinoli e poi inserita come ripieno all’interno di un sottile strato fatto dello stesso composto, poi fritto o cotto in salsa di yogurt. Può andar bene sia come antipasto che come portata principale. Queste polpette possono essere preparate anche con carne di montone, grano e cipolle. Ma non c’è soltanto la carne di agnello o di montone. In Giordania altrettanto comune è l’uso del pollo che si mangia grigliato o preparato in vario modo. Tipico è il musakhan nel quale il pollo viene cotto in una salsa con olio d’oliva, cipolle, molto sommacco (spezia usata come acidificante) e pinoli, poi avvolto in una sfoglia di pane e passato in forno. Con foglie di spinaci cotte in brodo di pollo si prepara la mulukhiya, che viene mangiata da sola oppure è usata come salsa per riso e carne di pollo, condita a piacere con succo di limone. Il fattoush è un’insalata di vari ingredienti con olio, pesce, carne di piccione e fegato. Le minestre (chorba) sono molto semplici. Si tratta di zuppe a base di legumi, spesso di mais, talvolta con l’aggiunta di un po’ di carne di pollo o di montone.
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Kubbeh o kibbeh, tradizionali polpette cucinate con carne trita mescolata a semola di grano, spezie e pinoli e poi inserita come ripieno all’interno di un sottile strato fatto dello stesso composto, fritto o cotto in salsa di yogurt (photo © www.sbs.com.au). Scarseggia il pesce, anche in considerazione del fatto che la Giordania ha soltanto uno sbocco sul Mar Rosso, con la città di Aqaba, e per un tratto di appena 26 chilometri. Tra le verdure c’è grande abbondanza di cipolle, pomodori, cetrioli, melanzane, peperoni, verze, cavolfiori e rapanelli. Un piatto della tradizione è il mahshis, a base di verdura ripiena. Ottime le olive, sia verdi che nere (la Giordania ha 10 milioni di piante d’ulivo, a distesa nella parte più settentrionale verso il confine con la Siria), e naturalmente è altrettanto ottimo l’olio che se ne ricava. Molto diffuse le erbe aromatiche quali timo, menta, coriandolo e prezzemolo, che spesso costituiscono, con l’aggiunta di olio d’oliva, limone, aglio e cipolla, delle salsine assai invitanti. Tra le spezie prevalgono cardamomo, pepe, cumino, sommacco, zenzero, zafferano, noce moscata, pepe, a cui spesso si mescolano pinoli e uva passa. La tahina, pasta di sesamo, costituisce la base di numerose salse da antipasto; la nota aspra di alcuni piatti è frutto
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dell’aggiunta di succo di melograno (rumman). Molto presenti anche i legumi, specialmente lenticchie, ceci e fagioli. Assai popolare è il mujadarra, un piatto vegetariano di antica tradizione preparato con lenticchie e riso e condito con cipolle dorate e croccanti. I formaggi, per lo più di latte di pecora e di capra, anche se non mancano quelli di mucca, sono sia cremosi che a pasta semi-dura ma friabile e leggermente salati (simili alla feta greca). Immancabile è il labneh, una specie di formaggio-yogurt di colore bianco, ottenuto anch’esso con latte di pecora, mucca o capra, spesso aromatizzato con timo o menta. Lo si conserva di solito immerso in olio d’oliva, sotto forma di palle di tre o quattro centimetri di diametro. Vale la pena di soffermarci su quegli antipasti, mezzeh, che spesso equivalgono ad un piatto completo. Costituiscono una serie di portate varie (in un pasto importante possono essere dieci, dodici e anche di più) composte di volta in volta da legumi, verdure, bocconi di pollo e di montone, pesci,
cetrioli e numerose altre verdure e salse tra le quali predomina l’hummus, a base di pasta di ceci e pasta di semi di sesamo aromatizzata con olio d’oliva, aglio, succo di limone e paprica, semi di cumino in polvere e prezzemolo finemente tritato. Non può mancare il tabbouleh, un’insalata a base di bulgur (grano parzialmente cotto a vapore e quindi macinato in differenti grossezze) con prezzemolo, cipollotti e menta tritati fini, e con pomodoro e cetrioli a tocchettini, il tutto condito con succo di limone e olio d’oliva; né mancano insalate varie, condite con yogurt e formaggi cremosi oppure con cetrioli, peperoni e formaggi. Da ricordare anche il mutabbal, un saporito purè di melanzane acidificato con yogurt, limone, aglio e pepe o analoghi aromi. Presenti quasi ovunque i felafel, polpette di legumi speziate e fritte. Tra i legumi più utilizzati le fave, i ceci e i fagioli tritati e conditi con sommacco, cipolla, aglio, cumino e coriandolo. I dolci arabi sono tutti molto, molto zuccherati e imbibiti di sciroppo. Al
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Labneh, formaggio fresco tipico della cucina mediorientale ottenuto semplicemente mettendo a scolare lo yogurt al naturale per 12-24 ore, aromatizzato con timo e menta, servito anche come antipasto in accompagnamento ad altri mezzeh, piatti di verdure e salse che si consumano in attesa della portata principale (photo © Eliane Haykal). nostro palato risultano spesso anche troppo dolci. Tra i più diffusi abbiamo il knafeh, tipico delle feste popolari e familiari, fatto di formaggio dolce posto su una sfoglia, ricoperto da sottili fili croccanti, cosparso con sciroppo dolce e servito caldo; il baklawa, una specie di pasta sfoglia farcita con pistacchi o mandorle o altra frutta secca e ricoperta da sciroppo di rose e arancia; i luqma, cubetti di pasta morbida con all’interno un frutto secco, aromatizzati con vari sciroppi e poi infarinati o inzuccherati alla superficie; i ghoraybeh, dolcetti di pasta fritta aromatizzata con l’aggiunta di burro e pistacchi. Tipici della Giordania sono anche i budini e le creme realizzati con farina di riso, mais, grano e addolciti con aromi vari. Ricordiamo il muhallabia, budino con zucchero e riso aromatizzato con arancia. La frutta è ottima e varia. Si trovano, a seconda delle stagioni e delle zone (in Giordania ci sono ben quattro differenti climi), albicocche, arance, uva, fichi, meloni, angurie, perfino mele e, naturalmente, datteri. Una segnalazione a sé merita il
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pane giordano di origine beduina: sottile, croccante e lievitato solo nel momento in cui viene sfornato. Quello destinato alla commercializzazione è solitamente cotto alla piastra, mentre quello fatto in casa viene cucinato in un particolare tipo di forno in cui il pane viene appiccicato sulla cupola calda. Sottile com’è, si cuoce in pochi secondi e risulta simile a una grande piadina nostrana (come quella riminese, che è la più sottile). Il pane viene utilizzato per accompagnare qualsiasi cibo e, se non si utilizzano le posate, anche per prendere le pietanze. Vino e birra sono vietati dalla religione islamica, anche se l’uso è consentito ai turisti (esistono appositi negozi dove è possibile comprarli senza alcuna difficoltà). I giordani, a tavola e pure in altri momenti, bevono l’arak, un tipico liquore diluito con acqua simile all’anice, al pernod francese e all’ouzo greco. Si trova ovunque, non è molto caro e può essere bevuto anche come aperitivo. Diffusissimo l’uso di tè e caffè, in qualsiasi ora della giornata, spesso
offerti anche all’interno dei negozi. Sono molto forti. Il tè, bollente e molto zuccherato (senza zucchero è molto amaro), viene servito in bicchierini di vetro. Il caffè tipico è quello turco tradizionale, con il fondo; quello detto “alla beduina” è senza fondo, è amaro e molto ristretto. Sia tè che caffè sono spesso aromatizzati con il cardamomo. Quelli descritti, di cui ho in gran parte fatto ampia e convinta sperimentazione, sono tutti cibi e bevande straordinari, specialmente perché non ancora manipolati e contraffatti. L’industria alimentare qua non esiste o, per lo meno, non è entrata nelle preparazioni gastronomiche sia della ristorazione che della vita domestica. Si mangia genuino e la prova del nove è ancora una volta data dall’osservazione della condizione fisica dei giordani, quasi tutti magri anche se palesemente ben nutriti. Però i negozi sono strapieni di bevande gassate e di snack più o meno famosi e dannosi. Quanto resisterà ancora il salutare regime dietetico-alimentare del popolo giordano? Nunzia Manicardi
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FIERE
Alimentaria, un appuntamento da non mancare
S
egnatevi una data, 16-18 aprile 2018, ma, soprattutto, un luogo, Barcellona. La capitale della Catalogna ospiterà infatti nuovamente Alimentaria, la fiera multiprodotto che con cadenza biennale chiama a raccolta gli operatori del food europei con un incoming anche da USA, Oriente e America Latina. Nel quartiere fieristico Gran Vía le aspettative sono alte e gli organizzatori stanno mettendo a punto un fitto calendario di eventi che, confermando ancora una volta l’anima internazionale della manifestazione, troverà un equilibrio tra la parte orientata al business e la valorizzazione di gastronomia e ristorazione. Con operatori in arrivo da oltre 150 Paesi, Barcellona si conferma quindi una piattaforma espositiva capace di catalizzare interesse nello scenario del food & wine. Tra le priorità di Alimentaria 2018 c’è lo sviluppo di nuove opportunità per il comparto food & drink spagnolo su di un contesto globale. Su queste premesse gli organizzatori hanno iniziato la campagna promozionale per identificare e attrarre i buyer chiave dell’Europa (non dimentichiamo che il 70% del prodotto alimentare spagnolo viene esportato sui mercati EU, NdR), Stati Uniti, America Latina (con cui Alimentaria ha da sempre un forte legame), il Magreb e tutto il bacino del Mediterraneo, oltre all’Asia. Per quanto riguarda gli espositori, ad oggi le stime parlano di quasi 4.000 aziende, mille delle quali provenienti da 78 Paesi, e di 40.000 professionisti del food che giungeranno a Gran Vía da 160 Paesi. La forza di Alimentaria, però, al di là della location strepitosa che garantisce zero problemi in quanto a logistica e accoglienza, sta anche nell’organizzazione di migliaia di incontri B2B all’interno della fiera. L’obiettivo di quest’anno è quello di superare il record dell’edizione 2016, che aveva raggiunto oltre 11.200
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Dal 16 al 18 aprile 2018 torna a Barcellona Alimentaria (photo © Wijkmark). incontri tra 800 buyer esteri. «Questo traguardo ideale ci spinge ad essere ancora più efficaci in termini di piattaforma di business per i nostri espositori e per i visitatori, catalizzando ancora una volta e ancora di più l’interesse dell’agroalimentare mondiale verso i mercati del Sud Europa» ha dichiarato J. Antonio Valls, CEO e direttore di Alimentaria. Tra le parole chiave dell’edizione 2018 troveremo innovazione, ga stronomia e attrezzature per l’Horeca, con la pianificazione di attività che legheranno il cibo all’industria e al turismo. Sono in corso di definizione 200 attività che prenderanno forma all’interno di Alimentaria Hub e Alimentaria Experience, le due grandi
aree tematiche della fiera. Alimentaria Hub ospiterà i saloni Innoval e Best Pack, oltre ai Food & Drink Business Meeting già citati, gli eventi dell’ICEX, un convegno sulla nutrizione, spazi per start-up legate al food e un’area riservata ai food blogger. Nella formula multiprodotto Ali mentaria 2018 si articolerà attraverso 6 saloni tematici specializzati: Intervin, Intercarn, Restaurama, Interlact, Expoconser e Multiple Foods. Per cogliere le opportunità di business di ogni settore, nell’ottica di export e di innovazione.
>> Link: www.alimentaria-bcn.com
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International Food, Drinks & Food Service Exhibition
FMCG and food trends show
BARCELONA Aprile 16-19 Fiera Barcellona Gran Via www.alimentaria-bcn.com
A unique Food, Drinks and Gastronomy Experience
Co-located event
RASSEGNE I vent’anni di Cheese, la manifestazione di Bra dedicata a latte e formaggi
Solo crudo
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pochi giorni dalla chiusura di Cheese 2017, gli organizzatori (associazione Slow Food Italia e Città di Bra) di quella che è stata definita da più parti “la più bella e ricca manifestazione internazionale dedicata al mondo del latte e delle produzioni casearie al mondo” gongolano, avendo dalla loro parte oltre 300.000 ragioni. “Un bilancio sorprendente — si legge in uno dei comunicati diffusi a fine evento — al di sopra delle aspettative, che pure erano rosee. E questo accade perché ogni due anni la manifestazione genera un’energia positiva che coinvolge tutti, volontari, official partner, istituzioni e gli sponsor che ci credono; infine, cittadini e commercianti che accolgono espositori e visitatori”.
Dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo «Possiamo già dire che questa edizione di Cheese è stata la più riuscita non solo per i numeri (più di 300.00 visitatori, appunto NdR), ma anche per la determinazione con cui abbiamo portato avanti le nostre scelte» “rincara la dose” soddisfatto il presidente di Slow Food Carlo Petrini, per il quale il tema del “solo crudo” alla fine ha pagato. Sì, perché la particolarità di questo Cheese è stata proprio la scelta, per alcuni in verità piuttosto drastica, di dedicare l’evento, con tanto di conferenze e mercato, ai soli produttori di formaggi a latte crudo, riservando loro anche Gli Stati Generali, attesa e partecipata conferenza di
apertura. “Parlare di latte crudo oggi ha più senso che mai” avevano spiegato gli appartenenti al movimento della chiocciola per giustificare questa netta presa di posizione. “Perché il formaggio a latte crudo è più buono. Perché il formaggio a latte crudo è fortemente legato al suo territorio. Perché il formaggio a latte crudo è espressione di biodiversità”. Una scommessa vinta anche a livello politico Per il presidente di Slow Food Italia, Gaetano Pascale, «siamo solo all’inizio di un percorso ancora lungo e complesso, che si tratta ora di comunicare bene: l’etichetta dovrebbe essere lo strumento per farlo». «Questa è la prima edizione che realizziamo senza il miserere di
Nel 2013 è nata un’associazione di produttori per tutelare e promuovere le unicità del Bettelmatt, il “grasso d’alpe” che si fa esclusivamente nell’alta Val d’Ossola (photo © Alessandro Vargiu/Archivio Slow Food).
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un disastro in campo lattiero-caseario» ricorda in proposito Petrini. «Negli anni passati facevamo la conta dei caseifici chiusi, dei continui ribassi del latte a prezzi ridicoli. Qualcosa è cambiato e, se è avvenuto, è anche per merito di chi ha accettato la sfida dell’etichettatura». Dall’aprile di quest’anno, infatti, per i prodotti lattiero-caseari l’indicazione dell’origine della materia prima è divenuta finalmente obbligatoria. Un risultato fortemente voluto dal ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali Maurizio Martina che, proprio a Bra, ha voluto rivendicare il senso di questa battaglia, condotta dall’Italia anche a rischio di incorrere in una procedura d’infrazione da parte dell’Unione Europea. La partita dell’etichettatura, ha precisato Martina, è una di quelle fondamentali perché è lo strumento per costruire rapporti nuovi tra chi produce e chi consuma: un tema di trasparenza e di diritto all’informazione che ha già portato alla commercializzazione di 1 milione di tonnellate di formaggi secondo la nuova norma. L’introduzione dell’indicazione di origine in etichetta, già portata avanti con successo anche per il riso, per la filiera del grano e per la pasta, verrà ora replicata anche nella filiera del pomodoro, ha infine annunciato il ministro. La speranza, però, è ora che questo meccanismo virtuoso diventi una strategia unica a livello europeo, dove a tre anni dall’emanazione del Regolamento 1169 del 2014 si attende ancora di entrare nella fase attuativa di un provvedimento che dovrebbe finalmente normare in maniera omogenea la tracciabilità in etichetta. «L’indicazione di origine italiana risponde a due esigenze — sottolinea Petrini — da un lato la necessità di assicurare che le norme igieniche del nostro Paese, giustamente rigorose, non vengano scavalcate da quelle meno rigorose di altri Paesi. Dall’altro, quella di richiamare l’attenzione sulla necessità di salvaguardare ambiente e paesaggio». Rivalutare le produzioni locali e il territorio è la risposta Ed è proprio questo l’argomento della campagna Menu for Change che Slow Food ha lanciato a livello mondiale a Cheese 2017. «A chi si domanda perché un’associazione che si occupa
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Formaggi a Cheese 2017 (photo © Alessandro Vargiu/Archivio Slow Food). di cultura alimentare dovrebbe promuovere una campagna sulle questioni del cambiamento climatico — dice Petrini — posso rispondere questo: è incosciente chi si bea della qualità alimentare di un prodotto senza chiedersi se a monte c’è distruzione dell’ambiente e sfruttamento del lavoro. Tutti noi siamo responsabili di quello che mangiamo e anche di quello che coltiviamo. E il più grande terreno da coltivare è la lotta allo spreco. Tutte le istituzioni internazionali ripetono che siccome nel 2050 saremo 9 miliardi e mezzo “bisogna produrre più cibo”, ma già oggi abbiamo cibo per 12 miliardi di viventi. Significa che un’ampia parte di quello che viene raccolto, trasformato e venduto finisce nella pattumiera». Conclusione: siamo tutti chiamati in causa, perché, come abbiamo visto succedere in tante occasioni, le piccole azioni moltiplicate per milioni di persone possono cambiare il mondo. Intanto, ai paradossi del mercato si aggiunge l’impatto devastante del cambiamento climatico. A Cheese lo hanno raccontato bene le testimonianze dirette dei più colpiti, gli agricoltori e gli allevatori del Sud del mondo, dal Kenya a Cuba, mentre i meteorologi hanno riportato preoccupanti dati scientifici. «Siamo in chiusura della seconda estate più calda e della quarta più secca dal 1753, in Italia e in buona parte dell'Europa mediterranea» ha
ricordato il climatologo Luca Mercalli. Dopo il record del 2003, infatti, tutte le estati sono state più calde della media. Con conseguenze che l’agricoltura e l’alimentazione pagano fino in fondo. «Un recente studio francese ha esaminato gli effetti del cambiamento climatico sulle razze animali e i formaggi. In alta montagna l’aumento delle temperature sta cambiando il modo di condurre gli alpeggi e i malgari sono costretti a tornare in pianura anche con un mese di anticipo. Siccità e parassiti arrivano dove finora non si erano mai visti». Anche la FAO ha recentemente sottolineato la necessità di andare verso un’indagine multiprospettica del comparto agricolo e dell’intera filiera a livello globale, che tenga conto degli influssi del cambiamento climatico su sicurezza alimentare, nutrizione e perdita di biodiversità. Il cibo del futuro sarà “naturale” È questa secondo Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità e responsabile scientifico di Cheese, l’altra sfida da affrontare. E questo non vale solo per i formaggi, ma anche per salumi, birre, vini e per tutti i prodotti alimentari di maggior consumo. Ma cosa vuol dire esattamente “naturale”? Partiamo dal formaggio, ovviamente, che deve essere a latte crudo, ma questo non basta. «La bio-
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Il futuro dei formaggi e l’esempio del Parmigiano Reggiano A Cheese si è parlato di mercato globale e del rischio che la concentrazione produttiva porti il settore caseario verso un inevitabile scadimento della qualità dei formaggi Dop. In particolare, è stato questo il tema della conferenza “Il futuro delle Dop è nelle mani dei giganti?” che si è tenuta nei giorni della rassegna di Bra presso l’Auditorium della Fondazione CRB. Tra i relatori, Véronique Richez-Lerouge, autrice del libro inchiesta “Main basse sur les fromages AOP. Comment les multinationales contrôlent nos appellations”, e il presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano Nicola Bertinelli. «Quello che sta accadendo in Francia – ha affermato la Richez-Lerouge – è allarmante: due terzi dei formaggi protetti da denominazioni di origine sono ormai proprietà di “giganti”, un trend che tocca ormai tutti i principali paesi produttori di formaggi nel mondo». “Le denominazioni di origine non sono più un marchio di qualità”: è questa la grande provocazione dell’autrice francese che sottolinea con dovizia di particolari come i formaggi Dop francesi stiano progressivamente perdendo il proprio valore. Colpa delle razze iperproduttive, dei mangimi a base di soia e con insilati di mais, del latte che spesso e volentieri è pastorizzato, degli additivi e dei fermenti selezionati, delle stagionature troppo veloci e realizzate in celle. Il consumatore è quindi condannato a un futuro di formaggi banali e standardizzati? A questa provocazione ha risposto Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano. «Sono convinto che il Parmigiano Reggiano non potrà mai perdere le sue caratteristiche di unicità per diventare un prodotto industriale. Questo perché ha un legame imprescindibile con un territorio geograficamente circoscritto, che comprende le province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna, alla sinistra del fiume Reno, Mantova, alla destra del fiume Po. Il Parmigiano Reggiano può nascere solo qui: è frutto di questa terra e del saper fare delle sue genti, che si tramanda di generazione in generazione. Rispetto a nove secoli fa nulla è cambiato: stessi ingredienti — latte, sale, caglio —, stessa cura e passione, stessa zona d’origine. E questo territorio, questo knowhow non sono in vendita». Bertinelli: ecco il segreto del nostro successo Questa considerazione è stata per Bertinelli il punto di partenza per sviluppare una riflessione più ampia sul significato delle Dop e sul motivo che ha spinto l’Unione Europea a tutelare il patrimonio alimentare delle diverse aree geografiche. La denominazione di origine protetta è un marchio di tutela giuridica che viene attribuito agli alimenti le cui peculiari caratteristiche qualitative dipendono essenzialmente o esclusivamente dal territorio in cui sono stati prodotti. L’ambiente geografico comprende sia fattori naturali (clima, caratteristiche ambientali), sia fattori umani (tecniche di produzione tramandate nel tempo, artigianalità, savoir-faire) che, combinati insieme, consentono di ottenere un prodotto inimitabile al di fuori di una determinata zona produttiva. Affinché un prodotto sia Dop, le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione devono avvenire in un’area geografica delimitata. Chi fa prodotti Dop deve pertanto attenersi alle rigide regole produttive stabilite nel disciplinare di produzione. «Il disciplinare di produzione è il vero perno attorno al quale ruota qualsiasi ragionamento sul va-
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lore e sul futuro delle Dop. Il disciplinare regola la qualità ed è garante delle tradizioni. È ciò che, prima di altri fattori, condiziona la ‘permeabilità’ all’invasione dei giganti. Più i disciplinari allargano le maglie e introducono innovazioni confacenti ai modelli produttivi industriali, e più il mondo delle Dop diventa attrattivo e profittevole per le grandi multinazionali che sono più interessate ai profitti che alla qualità del prodotto. Più i disciplinari rimangono fedeli ai tratti distintivi della tradizione storica, e quindi tracciano confini chiari al ruolo del fattore umano e dell’artigianalità, più rimangono immuni dall’innovazione dei giganti» ha affermato Bertinelli. Il Parmigiano Reggiano è un ottimo esempio di questo paradigma. Nel suo universo non ci sono le multinazionali: la crescita è interna. Ci sono 330 caseifici attivi e il 20% della produzione avviene in zone svantaggiate di montagna. Un business lontano anni luce dai giganti dei quali parla Véronique Richez-Lerouge, una realtà che è caratterizzata dalla presenza di ben 62 caseifici “aziendali”, antitesi più estrema del modello delle multinazionali. «Da nove secoli, il Parmigiano Reggiano riesce a rimanere fedele alle proprie tradizioni grazie ad un disciplinare di produzione che è rigidissimo. Impossibile esaurire l’argomento in questa sede, ma due sono gli aspetti che mi preme sottolineare, che sono poi i temi portanti di questa XX edizione di Cheese, focalizzata sulla difesa dei formaggi a latte crudo in quanto espressione di biodiversità. Le nostre mucche mangiano i fieni della zona d’origine e non possono mangiare altri alimenti (i foraggi fermentati) che costano meno, ma che causano problemi di qualità nella stagionatura. Secondo: la trasformazione da latte in formaggio è fatta senza l’aggiunta di additivi e conservanti che sono assolutamente proibiti per il Parmigiano Reggiano. Il nostro prodotto si fa oggi con gli stessi ingredienti di nove secoli fa, negli stessi luoghi, con gli stessi sapienti gesti rituali: non sono ammesse scorciatoie ed è questo il segreto del nostro successo». >> Link: www.parmigianoreggiano.it
Occelli: nella crisi del burro non si rinuncia alla qualità! Il burro scarseggia e il prezzo di quel che si trova sui mercati europei aumenta in maniera costante. A determinare questo aumento ci sono soprattutto due fattori: l’abbandono dell’uso di olio di palma e la recente entrata in vigore della legge che obbliga a indicare in etichetta l’origine per tutti i prodotti lattiero-caseari. «Il prezzo del latte finalmente si sta alzando, dopo anni in cui gli allevatori non riuscivano a guadagnare neanche il necessario a nutrire gli animali» ha dichiarato Carlo Petrini. «E si badi, parliamo di pochi centesimi, che non inciderebbero sulle tasche dei consumatori, ma che farebbero invece un’enorme differenza per gli allevatori. Veniamo da anni in cui si sono chiuse le stalle: spero che le industrie si rendano conto che se non avessero preso per il collo gli allevatori ora il latte per produrre più burro ci sarebbe». La tracciabilità del latte contribuisce però a valorizzare le produzioni italiane. «I consumatori leggono le etichette e vogliono sapere da dove arriva ogni ingrediente» conclude Petrini «Per fortuna anche tra le grandi industrie ci sono politiche diverse e non sono poche quelle che scelgono con orgoglio il latte italiano e lo dichiarano». Chi non è mai sceso a compressi e non ha mai rinunciato al made in Italy e alla alta qualità delle sue produzioni è senza dubbio Beppino Occelli, della Occelli Agrinatura di Farigliano, Cuneo (www.occelli.it). All’interno del magnifico spazio riservato all’accoglienza di clienti e amici a Bra, Casa Occelli, abbiamo incontrato e parlato con Beppino e il suo staff, assaggiato i suoi meravigliosi formaggi, le tume di Langa con latte crudo di pecora, l’Occelli in foglie di castagno, il Verzin… Arrivando a discutere anche dell’argomento “burro”. Per chi non lo sapesse, il burro Occelli, premiato nel corso degli anni con numerosi riconoscimenti, è, come si legge nella presentazione dell’azienda, “fatto da sempre con panna da latte rigorosamente italiano” e va considerato il punto di partenza e forse anche il simbolo di questa realtà piemontese vocata “al conseguimento della qualità assoluta”. «E a questa non rinunceremo mai» mi dice Umberto Milano, Marketing & Comunicazione della Occelli. Tra gli assaggi in purezza e i vari utilizzi in cucina, il burro Occelli ha conquistato anche le famose fettuccine dello storico locale romano Alfredo alla Scrofa, le Fettuccine Alfredo, forse il piatto italiano più famoso in USA. E queste fettuccine di burro sì che se ne intendono!
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Altri scatti tra gli espositori presenti a Cheese 2017. 1) Lo stand del Consorzio di tutela della Mozzarella di Bufala Campana Dop. 2) Stefano Busti e il suo staff. 3) Beppino Occelli. 4) Giacomo Ficco, ricercatore del CREA e produttore di formaggi.
Stefano Busti: solo crudo… davvero? E il pecorino toscano Dop intanto resta casa Il latte crudo è da sempre uno dei protagonisti delle campagne internazionali promosse da Slow Food e “di molte battaglie condotte a fianco dei produttori in tutto il mondo” si legge sul sito dell’associazione fondata da Carlin Petrini. “Il formaggio a latte crudo è un cibo meraviglioso, espressione autentica di una delle migliori tradizioni gastronomiche. È un’arte, uno stile di vita, una cultura, un patrimonio e un paesaggio amato. Ed è in pericolo di estinzione. I valori che esso incarna, infatti, sono in contrasto con la sterilizzazione e l’omogeneizzazione dei prodotti alimentari massificati” si legge nella pagina del sito di Slow Food dedicata alla rassegna di quest’anno. «E il pecorino con il Pistacchio verde di Bronte Dop, una varietà che è anche presidio Slow Food, o il pecorino Toscano Dop? Questi due prodotti non vanno forse difesi e promossi?» si chiede e mi dice Stefano Busti, titolare dell’omonimo caseificio di Acciaiolo di Fauglia, in provincia di Pisa, presente a Cheese così come al Salone del gusto di Torino dalle sue prime edizioni. «Condivido pienamente la filosofia di Slow Food quando si parla di educazione al consumo, di tutela della biodiversità e di difesa delle piccole produzioni, la grande ricchezza di questo Paese. Ma la scelta di far portare a Bra solo produzioni a latte crudo penalizza fortemente tutti quegli artigiani che hanno contribuito negli anni a fare grande e importante questa manifestazione. Che è bellissima, fortemente considerata a livello internazionale, tanto che solo qui si riescono a stabilire certi contatti commerciali. Ci è stato detto, a me come ad altri, di portare lo stesso i formaggi realizzati con il latte pastorizzato a Bra ma di non esporli, trovando modi alternativi per farli degustare alla clientela, in aree specifiche all’esterno dell’evento. E questa sarebbe una presa di posizione seria? Per produrre alcuni formaggi la pastorizzazione è necessaria. Non c’è alternativa».
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1) I pecorini della Bottega nel pascolo di Gian Domenico Negro. 2) I formaggi londinesi della Neal’s Yard Dairy. 3) I prodotti del Caseificio Il Fiorino. 4) Gli aceti dell’Acetaia Leonardi di Magreta (MO). diversità di un formaggio sta in gran parte nella sua carica batterica — ha spiegato Giampaolo Gaiarin, tecnologo caseario della Fondazione Edmund Mach — ovvero nelle migliaia di microrganismi che, presenti nel latte appena munto e non pastorizzato, conferiscono
Il discorso del naturale riguarda anche i produttori di salumi che hanno scelto di non utilizzare nitriti e nitrati e si ritrovano a lottare con rigidi regolamenti igienico-sanitari e con la diffidenza del consumatore
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al formaggio gusti e aromi tipici di un territorio». Purtroppo i fermenti naturali sono in larga parte rimpiazzati da batteri selezionati in laboratorio e riprodotti industrialmente. Anche da chi usa il latte crudo. «Questo succede perché i fermenti industriali danno maggiori certezze in termini di replicabilità e buona riuscita del formaggio. Insomma, è un modo per semplificarsi la vita, a scapito però del gusto e mortificando il ruolo del latte crudo». Ma non per tutti è così. «Chi prende la strada del naturale non deve per forza rinunciare alla quantità: ad esempio i caselli del Parmigiano Reggiano riuniti nel Consorzio producono complessivamente 3 milioni e mezzo di forme l’anno, un formaggio fatto a latte crudo e con fermentazione naturale» ricorda Sardo. Il discorso del naturale riguarda anche i produttori di salumi che hanno scelto di non utilizzare nitriti e nitrati e per questo si ritrovano a lottare sia con rigidi regolamenti igienico-sanitari che
con la diffidenza del consumatore per il quale un prosciutto cotto grigio (che sarebbe il suo colore naturale) diventa meno appetibile rispetto a uno dal colore rosa. Tobias Karlsson, membro della Eldrimner, una scuola che in Svezia insegna agli artigiani le tecniche per trattare le carni senza nitriti e nitrati, ha raccontato la storia di un produttore che era riuscito a vendere i propri prodotti solo ai clienti con cui poteva dialogare e spiegare le motivazioni di quel cambio di colore. Mentre i salumi conferiti al supermercato, dove non c’è lo stesso contatto con il consumatore, erano rimasti invenduti. Quella del cambio di colore è però solo la parte più superficiale della faccenda: l’utilizzo di nitriti e nitrati è giustificato dalla necessità di conservare i salumi, ma basta guardare alla storia della norcineria italiana per capire come si possano consumare salumi liberi da additivi in tutta sicurezza. >> Link: cheese.slowfood.it 109
FORMAGGIO Capolavori caseari
La burrata di Andria, dal cuore di stracciatella Questo prelibato formaggio fresco PAT e IGP di Andria è uno dei prodotti tipici italiani che il mondo più ci invidia di Nunzia Manicardi
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urrata… Già il nome sembra che ci si sciolga in bocca. Scelto ad arte, così come — ad arte — è stato inventato questo prodotto di latte vaccino, frutto della sopraffina abilità dei maestri caseari pugliesi e, in particolare, di quelli di Andria, fino a non molti anni fa in provincia di Bari, ma attualmente capoluogo della nuova provincia che ha formato insieme con Trani e Barletta (BT). Siamo nelle Murge, l’altopiano carsico situato nella Puglia centrale. È questa la zona tipica d’origine della burrata, indicata anche dalla Igp che la contraddistingue; tuttavia, essa viene ormai prodotta pure oltre questi confini e poi commercializzata con grandissimo successo non solo in tutta Italia ma in tutto il mondo. C’è una tradizione orale, ancora di recente origine ma già diventata una vera e propria leggenda, che racconta dell’invenzione della burrata. Sarebbe avvenuta negli anni Trenta del secolo scorso nello stabilimento Chieppa, la vecchia Masseria Bianchino di Andria. Qui il casaro Lorenzo Bianchino, non potendo trasferire il latte in città a causa di una forte nevicata, ma dovendo necessariamente trasformarlo e soprattutto utilizzare la panna di affioramento, avrebbe provato a escogitare qualcosa di adatto. Si sarebbe ispirato perciò a qualcosa di già esistente, le cosiddette mantèche (involucri di pasta filata stagionata in cui si conservava il burro). Applicando lo stesso concetto produttivo al prodotto fresco anziché stagionato,
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avrebbe ottenuto un formaggio che, per le caratteristiche e il luogo d’origine, sarebbe poi diventato famoso come “burrata di Andria”. Egli avrebbe mescolato i residui della lavorazione della pasta filata insieme con un po’ di panna e avvolto il tutto in un involucro fatto anch’esso di pasta filata. Che sia verità o leggenda poco importa: questo è il formaggio fresco Pat e Igp che è tra i prodotti tipici italiani più invidiati al mondo. Non va dimenticato, inoltre, che alla base della sua creazione potrebbe semplicemente esserci stata la necessità di riutilizzare gli avanzi della produzione, problema sempre molto sentito in qualsiasi tipo di attività produttiva.
La burrata è talmente ricca e piena di sapore che non può essere l’ingrediente di altri piatti. Va assaporata da sola, accompagnata tutt’al più da pomodori ben maturi, conditi con origano o basilico e olio extravergine d’oliva, e da fette di pane, preferibilmente anch’esso pugliese e, come da tradizione, cotto al forno. La stracciatella, invece, talvolta entra come ingrediente di altre preparazioni oppure viene venduta come prodotto a sé stante. Per accontentare tutti i gusti è stata poi introdotta anche la burrata affumicata, che offre la raffinatezza del contrasto fra il sapore esterno intenso e deciso e quello interno dolce e delicato.
Un formaggio a doppia struttura… L’aspetto della burrata è quello di un sacchetto tondo a chiusura apicale. Questa forma è accentuata non di rado dalla chiusura mediante un nastrino di rafia. Alcuni produttori legano la burrata con degli steli di vizzo, un’erba locale che cresce spontanea nella zona di Andria e trasmette al formaggio una nota aromatica e pungente; altri la avvolgono nelle foglie di asfodelo. Il sacchetto è già una delizia di per sé, ma al suo interno nasconde un vero e proprio regalo: la stracciatella, il cuore morbido e armonioso a cui la burrata deve il nome e che, come appena detto, è composto di straccetti di mozzarella amalgamati con panna freschissima. La burrata è definibile quindi come un formaggio “a doppia struttura”.
…col cuore di stracciatella La burrata, di color bianco latte e un involucro spesso circa 2 mm, differisce dunque dalla mozzarella per la consistenza molto più morbida e filamentosa, data soprattutto dalla presenza della stracciatella. Questa si chiama così proprio per il modo in cui viene preparata, stracciando a mano la pasta filata fino a formare dei filamenti irregolari. Questa massa sfilacciata e spugnosa viene poi immersa nella panna. L’aroma complessivo è di latte fresco o cotto e di burro e panna. Al gusto però risulta non soltanto dolce, ma in perfetto equilibrio con il sapido e l’acido. La produzione La burrata viene prodotta tutto l’anno. Il metodo di lavorazione, rigorosamente a mano, prevede le seguenti fasi:
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Irresistibile! Candida, morbida, dolce e saporita al tempo stesso, dalla sua creazione la burrata è velocemente divenuta popolare in Italia e nel mondo come uno dei prodotti tipici piÚ riconoscibili della tradizione pugliese (photo Š pinterest.com).
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Burratina del Caseificio pugliese Primo Latte di Andria (photo © caseificioprimolatte.com).
Da consumarsi freschissima, la burrata ha sapore delicatissimo e dolce, con retrogusto leggermente acidulo. Tradizionalmente veniva rivestita con foglie verdi di asfodelo: finché non appassivano, il formaggio poteva essere mangiato
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riscaldamento: si comincia con la pastorizzazione oppure con il solo riscaldamento del latte crudo in caldaia alla temperatura di 35-37 °C; 1. acidificazione: si procede alla fermentazione del latte in modo naturale con fermenti selezionati, latte innesto o siero innesto, oppure con l’aggiunta di acidi alimentari (acido citrico o lattico) in modo da ottenere un pH intorno a 6,1-6,2; 2. coagulazione: segue l’aggiunta del caglio naturale, di vitello o microbico vegetale, che deve favorire in pochi minuti la coagulazione del latte. A coagulazione avvenuta si procede alla rottura della cagliata fino all’ottenimento di grani della dimensione di una nocciola. Dopo la rottura c’è un periodo di riposo durante il quale il siero sgronda dalla cagliata che si assesta e acidifica per la filatura; 3. filatura: trascorso il periodo di maturazione, la cagliata, se necessario,
viene filata con acqua bollente (in alcuni casi salata); 4. formatura, raffreddamento e sigillatura: opportunamente lavorata, una parte di pasta filata deve essere ridotta in fettucce, successivamente raffreddate in acqua, poi viene sfilacciata formando quell’ammasso spugnoso che, miscelato con la panna liquida, costituirà il ripieno della burrata. La restante parte di pasta filata è modellata in sacchetti che vengono riempiti con la miscela precedentemente preparata. Dopo aver richiuso su se stesso il sacchetto con il suo contenuto e plasmata con cura l’imboccatura, la forma viene sigillata con acqua bollente e/o legata al collo con legacci e raffreddata immediatamente in acqua per un tempo che varia secondo la pezzatura; 5. salatura: la fase della salatura può avvenire mediante immersione in
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salamoia dopo il raffreddamento, oppure in pasta durante la filatura; 6. confezionamento: la burrata si presenta confezionata con un caratteristico preincarto, inserita in sacchetti di materiale plastico per alimenti, quindi avvolta in carta plastificata e legata all’apice con steli di rafia per uso alimentare. Il confezionamento può avvenire anche in vaschette immerse nel liquido di governo; 7. pezzatura e conservazione: la pezzatura di ogni confezione è compresa tra 100 g e 1.000 g. Il prodotto deve essere conservato a una temperatura compresa tra 4 e 6 °C. Veniamo al punto dolente… le calorie! Come si può facilmente immaginare, la burrata non è proprio da consigliare a chi abbia problemi o scrupoli dietetici. Per quel che riguarda i valori nutrizionali è molto simile alla mozzarella, però il suo contenuto di grassi si aggira attorno al 20% per la presenza della panna. Il conto è presto fatto: 100 grammi di pasta filante (come quella della mozza-
rella) forniscono già 250 calorie ogni 100 grammi, mentre la panna ne dà 335 (anche se quella utilizzata può avere un tenore di grasso inferiore fino al 35%). Calcolando il tutto, la burrata viene ad avere un carico calorico che varia dalle 350 alle 450 calorie per 100 grammi. E allora che fare? Privarsi di questa gioia del palato? Niente affatto. Basta, com’è logico, mangiarla con moderazione, ancor più accentuata in caso di particolari restrizioni nella propria dieta personale. Esistono poi in commercio delle burrate particolarmente “magre” che possono avere anche “soltanto” 275 calorie. In ogni caso questo formaggio non va escluso a priori perché è in grado di apportare al nostro organismo proteine di elevata qualità biologica: calcio facilmente assimilabile e vitamine B1, B2, PP e A. Ha inoltre al suo interno sodio, potassio, fosforo, tutti elementi di basilare importanza per la nostra salute. Fondamentale, ovviamente, è che sia freschissima, perché l’elevata umidità del suo interno la rende terreno fertile per i batteri. Nunzia Manicardi
Troccoli alla burrata di Andria e pomodori secchi
Ingredienti • 500 g di troccoli (o altra pasta lunga simile ai tagliolini) • 500 g di burrata di Andria • 20 pomodori secchi sottolio • olio extravergine di oliva • sale Procedimento Fate scolare i pomodori secchi e, con l’aiuto di un mortaio, di un tritatutto oppure al coltello, sminuzzateli finemente fino a creare una sorta di pesto. Aprite la burrata, separate l’involucro dalla farcitura, poi tagliate il sacchetto di pasta filata a pezzettini molto piccoli. Unite la stracciatella e i dadini di pasta filata al pesto di pomodori secchi, amalgamate il tutto aggiungendo un filo d’olio extravergine di oliva e, se necessario, un pizzico di sale. Mettete a bollire dell’acqua salata, buttate la pasta e lasciatela cuocere il tempo necessario. Scolatela e poi conditela, a crudo, con la crema di burrata e pomodori secchi.
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Latus, caseificio e cheese bar di Gian Omar Bison
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atus, caseificio e cheese bar di Orbanići vicino a Gimino (Žminj), ad un chilometro dalla strada principale Pola– Pisino, è guidato da quindici anni dai coniugi Sandi e Maja Orbanić. Una realtà che lavora oltre due milioni di litri di latte all’anno di mucche proprie e di allevatori cooperanti, con una gamma di prodotti derivati che spaziano dal latte fresco allo yogurt, alla panna, fino a diverse tipologie di formaggi a pasta dura e semidura. Tutti i formaggi sono prodotti da latte pastorizzato, non omogeneizzato, proveniente da bovine che pascolano in Istria. «Parliamo di una piccola impresa familiare — sottolineano Sandi e Maja — situata nel cuore dell’Istria, che pur in evoluzione secondo
le tendenze del settore caseario vuole preservare i fondamenti che stanno alla base del successo aziendale: tradizione, natura e famiglia. Ed è così fin dai tempi di nonna Šantina». E da nonna Šantina in poi l’arte casearia di casa continua ad essere appannaggio di abili mani femminili. Tradizione croata, infatti, vuole che la lavorazione e trasformazione del latte sia attività poco virile e per questo il settore impiega ancora in buona parte donne. «Dopo la seconda guerra mondiale — ricorda Sandi — il latte arrivava dalle mucche di razza Boscarin notoriamente poco produttive. Siccome il bovino nelle case coloniche era animale da soma fondamentale per le attività agricole, il latte veniva destinato in buona parte
ai vitellini dopo il parto. Col poco che rimaneva la nonna produceva un formaggio gustoso che nascondeva nel fieno perché i bambini non lo trovassero e mangiassero. E pensare che adesso le leggi sanitari e alimentari croate non ci consentono di affinare i formaggi nel fieno. Eppure consentono la trasformazione da latte non pastorizzato». I prodotti Latus vengono venduti nei negozi e nei mercati rionali di Pola, Pisino, Pinguente, Umago. E comunque la quasi totalità della produzione viene consumata in Croazia e solo in piccola parte in Slovenia. «In Istria fanno tutti formaggio stagionato. Noi siamo gli unici ad avere una linea per il formaggio stagionato ed una per i freschi (latte, yogurt, panna, burro).
Tutti i formaggi Latus sono prodotti dal latte pastorizzato, non omogeneizzato, provenienti da pascoli istriani.
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i t t o o d Pro archi am
Due anni fa il Caseificio ha inaugurato anche il Milk & cheese bar. Aperto al pubblico, lo spazio è dedicato a degustazioni guidate e formazione di operatori e assaggiatori professionali. Per soddisfare le nostre esigenze produttive disponiamo di una piccola fattoria con venti bovine di razza Bruna alpina e poi raccogliamo da quindici produttori di latte che lavorano
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in esclusiva per noi. In totale ottomila litri di latte al giorno ottenuto da bestie alimentate con fieno raccolto nei boschi dell’Istria e quindi con un profilo organolettico caratteristico, lavorati
da venticinque dipendenti tutti formati in house». La produzione comprende formaggi vaccini istriani, anche misti vaccino e pecorino, divisi tra formaggio fresco (acido), e poi formaggio stagionato (tre tipologie) e di media stagionatura (quattro tipologie) fino agli aromatizzati al tartufo. E poi latte fresco pastorizzato, yogurt naturale e aromatizzato alla pesca, alla mela e alla fragola, burro, ricotta che possono comprarsi anche direttamente in azienda. «Due anni fa abbiamo inaugurato il Milk & cheese bar aperto al pubblico che usiamo anche per degustazioni guidate e formazione di operatori e assaggiatori professionali. Lavoriamo insieme ad altre aziende del settore per ritagliarci uno spazio consono nel turismo enogastronomico e per questo collaboriamo con i tour operator e siamo presenti in tutti i portali tematici di Istria e Croazia». Nel 2015 il trionfo col Veli Jože (trad. Grande Giuseppe), formaggio
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I prodotti Latus vengono venduti nei negozi e nei mercati rionali di Pola, Pisino, Pinguente, Umago. La quasi totalità della produzione viene consumata in Croazia e solo in piccola parte in Slovenia. «In Istria fanno tutti formaggio stagionato. Noi siamo gli unici ad avere una linea anche per i freschi»
Il Milk & cheese bar è aperto al pubblico e viene usato anche per degustazioni guidate e formazione di operatori e assaggiatori professionali. «Lavoriamo insieme ad altre aziende del settore per ritagliarci uno spazio consono nel turismo enogastronomico: collaboriamo con i tour operator e siamo presenti in tutti i portali tematici di Istria e Croazia»
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vincitore del titolo di campione di Croazia nella categoria formaggi a pasta dura assegnato dal Dipartimento per la produzione di latticini della Facoltà di Scienze agrarie di Zagabria in occasione della rassegna annuale dedicata ai membri dell’associazione nazionale dei piccoli caseifici. Un riconoscimento che ha portato Valter Flego, presidente della Regione Istria, in visita all’azienda. «La dimensione media dei piccoli caseifici istriani è tendenzialmente troppo piccola per reggere sulla quantità la competizione nel mercato europeo» ha ricordato Flego. «Ma dobbiamo e possiamo competere con la qualità e l’originalità delle produzioni autoctone», annunciando poi lo sviluppo del progetto “Strade del formaggio istriano” per rafforzare l’offerta turistica regionale coinvolgendo anche le piccole comunità delle zone rurali. «Sarà con la tutela dei nostri prodotti tipici — ha affermato — ampliando la gamma di quelli a marchio di qualità “Istrian Quality”, che ne rafforzeremo la competitività ed il posizionamento nei mercati». In conclusione una degustazione guidata tipica che al cheese bar inizia con un calice di yogurt naturale e prosegue con formaggi progressivamente più stagionati, strutturati e saporiti. Da un vaccino giovane (10-15 giorni), delicato e invitante con olio d’oliva extra vergine, prodotto tipico da consumare anche alla griglia o da ripieno per i ravioli (costo 6,00/7,00 e/kg), passiamo alla media stagionatura fino al Veli Jože, il campione di famiglia stagionato otto mesi. Per concludere, un misto vaccinopecora (produzione limitata come poche complessivamente le pecore da latte in Istria) e un formaggio al tartufo (20,00 e/kg), messo sotto vuoto due mesi, molto aromatizzato e stuzzicante. Il tutto accompagnato da una bottiglia di tipica Malvasia istriana che ha retto decorosamente la quasi totalità degli abbinamenti. Gian Omar Bison Mljekara Latus d.o.o. Gornji Orbanići 12/D 52341 Žminj (Croazia) Telefono: +385 (0) 52 846215 E-mail: info@mljekaralatus.hr Web: www.mljekaralatus.hr
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Italiani consumatori di formaggio Gli Italiani sono tra i maggiori mangiatori di formaggio al mondo, piĂš di quanto ne possano produrre con il latte nazionale, dimostrando una grande capacitĂ di difendere le tradizioni e valorizzare il made by Italy di Giovanni Ballarini
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Sempre più diffusa anche in Italia è la consuetudine di accompagnare i formaggi con miele, confetture, composte e gelatine (photo © elfrock – stock.adobe.com).
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li Italiani sono tra i più forti consumatori di formaggio al mondo, anche se l’Italia resta un Paese deficitario di latte. Molti se ne sono accorti solo di recente, quando alcune industrie nazionali hanno chiesto di poter usare nella caseificazione di alcune preparazioni industriali — ovviamente non nelle produzioni Dop —, non soltanto il latte importato, ma anche alcuni derivati caseari, sollevando una questione che ha occupato le prime pagine dei giornali e alcune trasmissioni televisive. Secondo l’Ismea, negli ultimi anni il bilancio italiano di approvvigionamento di latte e derivati bovini si pone tra il 67 e il 70%. Tuttavia, per i formaggi di vacca, bufala, pecora o capra, freschi come la mozzarella o lo stracchino, o lungamente stagionati come i diversi tipi di grana, i nostri connazionali, con circa 23 kg a testa, occupano la parte alta della classifica mondiale dei consumatori (dati: CLAL 2016; www.clal.it). I motivi di questa preminenza sono soprattutto la lunga tradizione, le grandi varietà (si calcola che i formaggi italiani superino il numero di 600!), l’alta qualità e i loro numerosissimi usi in cucina. Non si dimentichi che la prima narrazione letteraria del formaggio, tra il 600 e l’800 prima della nostra era, è quella di Omero, che nell’Odissea descrive in dettaglio il caseificio di Polifemo, che la gran parte degli studiosi pone in Sicilia (e ancora oggi i formaggi siciliani di latte pecorino e caprino sono eccellenti). Lo stesso autore, nell’Iliade, descrive anche il primo cocktail della storia, nel quale compare il formaggio grattugiato nel vino. Una media altissima quella italiana dunque, se si considera che in Europa mediamente si mangiano tra i 17 e i 18 chilogrammi di formaggio a testa e negli Stati Uniti, Canada e Australia si scende a 15 chilogrammi (dati: CLAL). Grana Padano e Parmigiano Reggiano sono, nell’ordine, i nostri formaggi preferiti, seguiti nella classifica dei consumi da mozzarella, Pecorino romano, Asiago, Provolone Valpadana e Gorgonzola. Buoni posizionamenti hanno anche caciotte, formaggi a pasta molle come Taleggio e Fontina, e quelli freschi come la crescenza e gli stracchini e le ricotte. Tra i formaggi stranieri di cui siamo buoni importatori il podio dei consu-
mi spetta all’Emmental, il formaggio svizzero “con i buchi”, mentre stanno acquistando spazio gli yogurt, i formaggi “tipo mozzarella”, i formaggi grassi francesi e anche qualche formaggio vaccino duro a lunga stagionatura prodotto nell’Europa dell’Est con tecnologie italiane. Da notare che nel Settentrione prevalgono quelli vaccini, nel Centro quelli ovicaprini e nel Meridione a questi ultimi si aggiungono quelli bufalini. Solo una parte dei formaggi mangiati dagli Italiani è di origine nazionale, perché circa il 30% è d’importazione, soprattutto da altri paesi europei e nel quadro della libera circolazione delle merci che vige nell’Unione Europea. L’insufficiente produzione nazionale di formaggi ha diverse cause. La prima è che gli Italiani non rinunciano ai formaggi, che da tempo immemorabile fanno parte del loro DNA alimentare. Inoltre, i formaggi sono un alimento pregiato e i suoi consumi aumentano con il reddito: non si dimentichi l’antico adagio che recita Al villan non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere. L’aumento dei consumi si collega anche al fatto che molti formaggi fanno parte sostanziale di numerose ricette tradizionali sempre di moda, dal cacio e pepe per la pasta, alle parmigiane di vari ortaggi, fino alle pizze e alla caprese. I formaggi permettono con facilità e rapidità di preparare piatti e menù nei quali entrano come componenti, primi, secondi e dessert, e non di rado anche come elemento “forte” di un piatto unico. In quest’ambito vi è anche il ruolo che i formaggi stanno assumendo nell’evoluzione della cucina italiana. Per esempio, sempre più diffusa è la consuetudine di accompagnarli con miele, confetture, composte e gelatine, e anche con qualche chicco di uva, anche passita. Una sorta di riscoperta di un’abitudine alimentare del passato, che associa le proprietà di due tipologie di alimenti fondamentali nella dieta. Un secondo elemento da tenere in considerazione è la sprovincializzazione alimentare degli Italiani, che si sono aperti ai formaggi stranieri così come a quelli di tipo industriale. L’industria casearia nazionale, partendo anche dalla base dei formaggi tradizionali, ha infatti sviluppato una nuova serie
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Solo con una migliore conoscenza delle qualità dei nostri formaggi e del loro uso in cucina e sulla tavola è possibile una difesa dei nostri formaggi all’estero
Che rapporto hanno i consumatori stranieri con i formaggi italiani? Ottimo, a giudicare dai dati rilevati da Assolatte, l’associazione delle imprese italiane che operano nel comparto lattiero caseario, che ha recentemente tracciato una mappa che dimostra come il gusto del “made in Italy” è estremamente apprezzato e sempre più richiesto anche dove il “buon formaggio” non manca. L’Italia del formaggio vende, tanto e bene infatti, anche nelle roccaforti della produzione casearia come Francia e Svizzera. I Tedeschi amano soprattutto i nostri formaggi duri e sono i principali clienti esteri di Grana Padano e Parmigiano Reggiano (photo © circleps – stock.adobe.com). di prodotti più vicini ai gusti di nostri connazionali e adatti alle nuove forme d’utilizzo alimentare e di consumo. Terzo elemento che determina l’aumento delle importazioni di formaggio (e di latte e suoi derivati), è l’insufficiente produzione di latte italiano, che non ha seguito l’aumento dei consumi. Le vacche da latte sono meno di due milioni e, nonostante la loro buona produzione pro capite, non è possibile un’autosufficienza nazionale di latte sia per uso diretto che per la sua trasformazione casearia.
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Molti sono i motivi di questa mancanza, dalla scarsità di terreni agricoli e pascolativi ai costi dei terreni e degli alimenti d’importazione per animali, per cui non è prevedibile un sostanziale cambiamento della situazione presente. Se un’insufficiente disponibilità di latte non interferisce sostanzialmente sulla produzione dei formaggi Dop, diversamente avviene per gli altri formaggi, soprattutto quelli industriali. In questa situazione, l’industria casearia italiana ha dato prova e sta dimostrando un’alta capacità di valorizzazione della
materia prima importata, in un made by Italy che va dalla sua scelta alla sua trasformazione in prodotti caseari sempre più apprezzati dai consumatori. Con l’apprezzamento e la diffusione della cucina italiana nel mondo, cresce anche l’esportazione dei formaggi made in Italy (incrementi negli ultimi anni del 5–8–11% secondo la tipologia). Il fenomeno è indubbiamente positivo, ma ha anche l’aspetto negativo di indurre le imitazioni estere, con due principali aspetti: • il primo è il limite della produzione dei formaggi italiani di qualità, e soprattutto di quelli Dop, imposto dalla produzione territoriale di latte, per cui è materialmente impossibile coprire tutta la richiesta dei Paesi esteri e, soprattutto, delle grandi catene di distribuzione alimentare straniere; • il secondo aspetto riguarda il prezzo dei formaggi italiani, indubbiamente più alto dei formaggi esteri, per i maggiori costi di produzione del latte nazionale e dell’industria italiana. Spesso all’estero i consumatori non sono abituati, come invece fa ancora una buona parte degli Italiani, a valutare il costo della qualità, e raramente sono capaci d’apprezzarla. Valga tra tutti l’esempio del sostanziale insuccesso d’apprezzamento che si ebbe con il tentativo di inserire il Parmigiano Reggiano negli hamburger di una grande catena di ristorazione industriale. Solo con una migliore conoscenza delle qualità dei nostri formaggi e del loro uso in cucina e sulla tavola è possibile una difesa dei nostri formaggi all’estero. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma
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I formaggi del Fiorino conquistano l’Inghilterra Poker di successi internazionale per i formaggi del caseificio toscano “Il Fiorino”, che continuano a mietere vittorie. Dopo i recenti trionfi al World Cheese Award di San Sebastián, in Spagna, l’azienda maremmana è stata premiata anche a Nantwich, in Inghilterra, all’International Cheese Awards, uno degli eventi dedicati al formaggio più importanti al mondo, che, il 25 e 26 luglio scorsi, ha festeggiato la 120a edizione. In terra inglese Il Fiorino ha ottenuto quattro premi: la medaglia d’oro per il nuovo Pecorino al tartufo stagionato, quella d’argento per la Riserva del Fondatore e due riconoscimenti speciali per il Fior del Pastore e per il Pecorino Toscano Dop stagionato. «Accogliamo con grande soddisfazione questi premi — afferma la proprietaria del caseificio omonimo Angela Fiorini — che arrivano da un evento di grande prestigio. Gli ICA raccolgono il meglio della produzione mondiale e noi siamo orgogliosi di farne parte. Si tratta di una manifestazione molto particolare con una selezione di altissimo livello e non è un caso che la medaglia d’oro sia arrivata proprio dal nostro nuovo Pecorino al tartufo, che è uno dei nostri prodotti più particolari, realizzato con tartufi toscani selezionati. Il 2017 è stato un anno straordinario, nel quale abbiamo coronato i nostri 60 anni di attività raccogliendo tanti riconoscimenti importanti. Ringrazio di cuore tutte quelle persone che tutti i giorni collaborano con noi e che condividono il nostro progetto. Le aziende sono fatte di persone e sono loro l’anima e il cuore del nostro lavoro». Gli International Cheese Awards si tengono ogni anno dal 1897 a Nantwich, in Inghilterra. L’evento è il più importante in Gran Bretagna e uno dei più importanti a livello mondiale (nella foto in basso, Duilio Fiorini, fondatore del caseificio; photo © caseificioilfiorino.it). I premiati * Pecorino al tartufo, medaglia d’oro: formaggio aromatizzato ottenuto con latte di ovino di Maremma, tartufo toscano selezionato scorzone e bianchetto, in brisure fine e fettine per dare maggior corpo e sapore. * Riserva del Fondatore, medaglia d’argento: è il fiore all’occhiello della produzione de Il Fiorino, già vincitore del Super Gold al World Cheese Awards e di numerosi altri premi. È ottenuto da latte ovino altamente selezionato, prodotto con gli antichi metodi della tradizione e affinato in grotta. * Pecorino Toscano Dop, riconoscimento speciale: ottenuto seguendo il disciplinare della Dop è un classico caratterizzato da un sapore equilibrato e persistente. È un prodotto pluripremiato insignito anche del prestigioso Trofeo San Lucio. * Fior del Pastore Abbucciato, riconoscimento speciale: un classico, è un formaggio leggermente maturo consumato, un tempo, all’inizio della stagione estiva. Si dice “abbucciato” perché ha fatto la buccia. Link: www.caseificioilfiorino.it
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VINO
Capri Doc 2016, il vino eroico di Scala Fenicia di Massimiliano Rella
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l bianco Capri Doc 2016 di Scala Fenicia, l’ultima cantina di Capri, conquista l’argento al Mondial des Vins Extrêmes. Il vino è stato premiato alla 25a edizione del concorso enologico internazionale organizzato dal Cervim (Centro Ricerche, Studi e Valorizzazione per la Viticoltura di Montagna), con il patrocinio dell’OIV (Organisation Internationale de la Vigne et du Vin). Questa rassegna è dedicata ai vini prodotti in condizioni particolari: in pendenza del terreno superiore a 30%, in altitudine superiore ai 500 metri sul livello del mare, con sistemi viticoli su
terrazze e gradoni, da viticoltura delle piccole isole. La giuria internazionale composta da 30 enologi ed esperti degustatori ha valutato quest’anno 740 vini provenienti da 15 Paesi. Domenica 26 novembre, nella cerimonia di premiazione che si svolgerà al Forte di Bard, in Val d’Aosta, a Scala Fenicia sarà consegnata la medaglia d’argento attribuita al suo bianco, unica etichetta della denominazione rivendicata in esclusiva: un vino raffinato dal colore oro leggero appena venato di riflessi verdognoli, profumo profondo e composito con leggere note agrumate, sapore fresco,
Scala Fenicia è l’unica realtà che coltiva la vite, vinifica e imbottiglia il Capri Doc. Tutte le fasi della produzione avvengono a Capri: tracciabilità e trasparenza sono complete
Vendemmia “eroica” tra le vigne su pergolato di Scala Fenicia, cantina di Capri (NA).
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Giggino Esposito e Pia Maria Rodriguez, proprietaria della cantina Scala Fenicia.
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In alto: la cantina nasce all’interno di un’antica cisterna romana, parte di un sistema idrico del tutto simile e presumibilmente coevo a quello di Villa Jovis, la residenza caprese dell’imperatore Tiberio. Le spesse mura in pietra e la sua struttura a volta garantiscono un clima temperato durante tutto l’anno. In basso: il bianco Capri Doc Scala Fenicia. pungente, arioso, sapido. È prodotto con le varietà Greco (50%), Biancolella (30%) e Falanghina (20%), da uve capresi coltivate in vigne terrazzate ad
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un’altezza media di 80 metri dal livello del mare. La vinificazione avviene in una cantina adattata all’interno di un’antica cisterna romana, produttiva dal 1818 e prima d’allora utilizzata come frantoio, che conserva ancora una mola, una vasca e una grande vite in legno d’inizio ‘800, oltre ad un torchio per la pressatura delle uve, del 1850. L’azienda, che prende il nome dall’antica scalinata greco-romana che collegava Capri ad Anacapri, appartiene alla famiglia Koch: Andrea Koch e sua madre Pia Maria Rodriguez alcuni anni fa acquisirono una vecchia cantina e alcune vigne terrazzate, fondando la piccola realtà agricola oggi gestita con l’aiuto di manodopera locale. Appena 4.000 metri quadrati di vigneti e 5.000 di uliveti: le vigne sono coltivate in modo promiscuo con l’agrumeto, sfruttando il pergolato in legni di castagno delle limonaie. La lavorazione è interamente manuale, inclusa la raccolta, eseguita con scala, forbici, cassette e nient’altro: una conduzione particolarmente attenta alla naturalità e rispettosa delle caratteristiche dei luoghi, che non consentono l’uso di macchine.
Scala Fenicia produce il bianco Capri Doc dal 2010 con la supervisione dell’enologo Giuseppe Pizzolante Leuzzi e l’assistenza di Giggino e Gilda Esposito, custodi, ottantenni, dei vigneti. Con orgoglio Andrea Koch commenta il risultato ottenuto al Mondial des Vins Extrêmes. «Questo premio internazionale è importantissimo per far conoscere Scala Fenicia, l’unica realtà che — con grande determinazione e fierezza — coltiva la vite, vinifica e imbottiglia il Capri Doc; tutte le fasi della produzione avvengono a Capri, la tracciabilità e la trasparenza sono complete». L’azienda ha ottenuto anche altri riconoscimenti ed è stata selezionata nelle ultime quattro edizioni del Merano Wine Festival nella sezione “agricolture eroiche”. Per gli enoturisti che desiderino conoscere da vicino la viticoltura caprese organizza visite guidate al terreno e alla cantina e offre ospitalità agrituristica a gruppi familiari fino a sei persone. Massimiliano Rella Scala Fenicia Via Fenicia 15 – 80073 Capri (NA) Telefono: 081 8389403 Web: www.scalafenicia.com
Premiata Salumeria Italiana, 5/17
Il Sagrantino 2012 di Antonelli classificato primo vino “bio” in assoluto da International Organic Wine Award 2017 Su 1.094 etichette in gara da 25 Paesi, il Montefalco Sagrantino Docg di Antonelli San Marco si aggiudica il primo posto con 99/100 e la medaglia Top Gold al prestigioso concorso Internationaler Bioweinpreis. Dopo gli spagnoli, i sudafricani, gli austriaci e i portoghesi bisogna attendere l’ottavo e il nono vino per ritrovare in vetta alla classifica due altri italiani, un Valpolicella Superiore e un Amarone. Buoni risultati anche per un altro vino di Antonelli San Marco, il Montefalco Rosso 2014 Doc, che ottiene 92/100 e la medaglia Gold. Giunto all’ottava edizione, e tra i più importanti nel suo genere, il premio internazionale dei vini “bio” Internationaler Bioweinpreis è organizzato sotto la guida di esperti sensoriali e di Martin Darting, che ha sviluppato il sistema di valutazione PAR (prodotto, analisi, ranking), un metodo che prende in considerazione l’insieme degli aspetti organolettici e sensoriali e riconosce i vini biologici e i vini di varietà di uve resistenti alle malattie fungine. Il 2012 nella storia dell’azienda Antonelli San Marco rappresenta un anno importante poiché coincide proprio con la prima vendemmia biologica certificata da Valore Italia. Dopo la conversione degli oliveti della tenuta (10 ettari) quella dei vigneti (50 ettari) nella convinzione di ottenere uve più buone e più sane, grazie a una produzione condotta nel modo più naturale possibile, senza l’uso di sostanze chimiche. «Un progetto che ci ha visto impegnati per anni e che adesso ci viene riconosciuto da questo premio prestigioso» commenta il produttore Filippo Antonelli (in foto). «Il biologico è un metodo di coltivazione che ci interessa molto perché ci permette di avere non solo uve più sane, ma, crediamo, anche più buone; in quanto comporta una maggiore attenzione alle esigenze dei singoli vigneti per ottenere un maggior equilibrio vegetativo e produttivo. Una migliore qualità delle uve ci mette in condizione di produrre vini di alta qualità». >> Link: www.antonellisanmarco.it
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Premiata Salumeria Italiana, 5/17
L’Italia dei vini autoctoni in scena a Bolzano “La mostra dei particolari”: così Pierluigi Gorgoni, curatore delle due rassegne Autoctoni che passione! e Tasting Lagrein, definisce Autochtona. «Un viaggio per l’Italia dei comuni, alla scoperta di vini molto radicati ma non sempre noti» prosegue Gorgoni. «A Bolzano, dal 16 al 17 ottobre, si potranno assaggiare vini singolari prodotti da vitigni tipici, talvolta molto rari, sovente di formidabile personalità perché difficilmente replicabili fuori da quelle terre elette in cui le uve che gli danno origine si sono ambientate e acclimatate». Sono attesi oltre 100 produttori che presenteranno più di 300 etichette esclusivamente da vitigni autoctoni. Da Nord a Sud, saranno tante le varietà meno conosciute che il pubblico potrà degustare come ad esempio Pallagrello, Freisa d’Asti, Rossese, Malvasia Puntinata, Uve del Tundè, Ucelùt, Famoso, Panzale, Marzemino e tanti altri. In attesa di Autochtona, Bolzano si prepara ad accogliere operatori professionali e wine lovers presso enoteche e winebar della città. Nel week-end del 14 e 15 ottobre, coloro che sceglieranno di degustare vini autoctoni italiani riceveranno un biglietto ingresso omaggio. Un’accoglienza all’insegna della territorialità e dell’autenticità arricchita dalla confermata collaborazione con Vinum Hotels, il circuito di alberghi con soggiorni interamente dedicati al mondo del vino. L’evento si svolgerà come ogni anno a Fiera Bolzano all’interno di Hotel, appuntamento fieristico internazionale e punto di riferimento per hôtellerie e ristorazione. >> Link: www.autochtona.it — www.facebook.com/Autochtona
Acetaie aperte a Modena tra show-cooking, degustazioni, visite guidate e tesori nascosti: boom di presenze Un tino da Guinness dei primati, una riproduzione “ad aceto balsamico” di un celebre dipinto di Diego Velázquez, dimostrazioni di cottura del mosto, passeggiate alla scoperta di tesori nascosti tra natura e luoghi d’arte, aperitivi, pranzi e merende “balsamici” e show-cooking: queste sono soltanto alcune delle proposte messe in campo dalle 39 acetaie aderenti alla giornata di Acetaie Aperte, che si è tenuta domenica 24 settembre in tutta la provincia di Modena. Con la new entry dell’Acetaia Comunale di Modena nel Palazzo Comunale di piazza Grande, la quale ha aderito per la prima volta alla manifestazione aprendo le porte al pubblico, l’originalità messa in campo nei programmi di visita offerti dalle singole acetaie è l’altro elemento che ha caratterizzato l’edizione 2017 della manifestazione: pensiamo ad esempio ad Hercules, una botte che può contenere oltre 2.200 ettolitri di aceto fatta costruire all’interno dello stabilimento di Acetum a Motta di Cavezzo o alla pittrice Elisabetta Rogai che all’Acetaia Del Duca a San Vito di Spilamberto ha replicato il dipinto di Francesco I d’Este con l’Aceto Balsamico di Modena Igp. Organizzata dal Consorzio di Tutela Aceto Balsamico di Modena Igp e dal Consorzio di Tutela Aceto Balsamico tradizionale di Modena Dop con l’obiettivo principale di diffondere tra i consumatori di tutti i giorni la conoscenza del prodotto più rappresentativo del territorio modenese, Acetaie Aperte si conferma un appuntamento appetitoso e interessante per i visitatori non solo sotto l’aspetto degustativo ma altresì emozionale, perché in ciascuna goccia di oro nero non c’è solo un dosaggio sapiente di ingredienti ma una tradizione lunga secoli: il primo riferimento storico a questo aceto particolarissimo prodotto nel modenese è infatti databile al 1046 — in occasione del passaggio per la valle Padana dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Enrico III — anche se le prime dinastie di produttori iniziano ad affermarsi nel XIX secolo e alcune di loro tuttora portano avanti con successo e passione la propria attività d’impresa. >> Link: www.acetaieaperte.com
Premiata Salumeria Italiana, 5/17
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I VINI DI PREMIATA SALUMERIA ITALIANA
Degustazione: Amatriciana o Matricina di Laura Franchini
R
icetta oltremodo iconica del nostro Paese, ne vanta l’origine Amatrice, provata dal terremoto dello scorso anno e alla quale dedichiamo queste righe. Recentemente salita agli onori delle cronache per le rivisitazioni più o meno ardite di chef stellati e cuochi amatoriali, l’Amatriciana deriverebbe dalla altrettanto nota e ottima “Gricia”, che prevede l’utilizzo di quasi tutti gli ingredienti della prima tranne la salsa di pomodoro. Vede la sua nascita nel XVIII secolo — la prima testimonianza è del 1790, nel manuale di cucina “L’Apicio Moderno” di Francesco Leonardi — e acquista sempre più popolarità a Roma, grazie ai contatti commerciali e ai numerosi osti e cuochi provenienti da Amatrice in forza nella capitale. Considerata oggi una specialità della tradizione romana, l’Amatriciana conta numerose varianti, ma, contrariamente a quanto dichiarato dal famoso chef Carlo Cracco, non è previsto l’uso dell’aglio e della cipolla. Con delibera 27/2015, infatti, il comune di
Amatrice ha formalizzato le ricette sia della versione bianca che della versione rossa, in un Disciplinare di produzione nel quale non sono previsti ne l’uno ne l’altra. Imprescindibili sono invece il guanciale soffritto sfumato con vino bianco secco e il formaggio pecorino. È attestato l’uso dell’olio d’oliva così come quello dello strutto, anche se la versione originaria non li prevedeva, come quello del peperoncino e del pepe. In mancanza del pecorino, e per gusti personali, qualcuno aggiunge o sostituisce il Parmigiano Reggiano o il Grana Padano, e c’è chi utilizza la pancetta in aggiunta o al posto del guanciale. I puristi inorridiscono, ma non si può negare che alcune modifiche siano comunque molto gustose. È consuetudine condire con l’Amatriciana gli spaghetti, i bucatini, i tonnarelli o i rigatoni. Agli “Ingredienti degli spaghetti all’Amatriciana e città di Amatrice”, il 29 agosto 2008, è stato dedicato un francobollo, policromo e dentellato, emesso dalla Repubblica Italiana, del valore di 0,60 euro.
L’Amatriciana era il piatto tipico dei pastori abruzzesi e in origine era senza pomodoro. Il guanciale e il pecorino di Amatrice, indispensabili per la ricetta tradizionale, percorrevano i tratturi della transumanza insieme ai pastori verso i pascoli invernali della Puglia ma anche della campagna romana
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Bucatini all’Amatriciana (photo Š fkruger).
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Montepulciano d’Abruzzo Doc Mazzamurello 2014 Torre dei Beati Uve Montepulciano in purezza per questo calice intenso e avvolgente, già nel colore, rosso rubino carico, scuro. È anche grazie alla particolare tecnica di lavorazione sulle fecce fini alla quale vengono sottoposte le partite d’uva migliori dell’annata che si ottiene questo risultato, riscontrabile già al naso. Il vino effettua una vinificazione in acciaio con premacerazione a freddo e una macerazione complessiva di trenta giorni. Si affina poi in barriques nuove per 20/22 mesi. Caldo e equilibrato, di struttura e carattere, porge copiose note di frutta matura, visciole, prugne e piccoli frutti scuri, ricordi floreali di pot-pourri e vaniglia. Lunga nota persistente, bevibilità ottima, freschezza in equilibrio. Adattissimo a piatti strutturati di carne, anche selvaggina, non sfigurerà con una Amatriciana ricca, magari più speziata del dovuto, con note di pepe nero e una riduzione di salsa di pomodoro, per renderla più intenso al palato.
Az. Agr. Torre dei Beati Contrada Poggioragone 56 65014 Loreto Aprutino (PE) Tel.: 0854 916069 – 333 3832344 E-mail: form on-line Web: www.torredeibeati.it
Rosso Piceno Doc Superiore Roggio del Filare 2014 Velenosi Uve Montepulciano al 70% e Sangiovese per il rimanente 30% per questo calice intenso e affascinante. Le uve sono coltivate nei vigneti di proprietà di Offida e Ascoli Piceno. Vengono raccolte a mano verso la metà di ottobre e sistemate in piccole celle frigorifere prima di venire diraspate. In seguito vengono convogliate in contenitori di acciaio per la fermentazione a temperatura controllata. La macerazione sulle bucce dura circa 28 giorni. Dopo la fermentazione viene messo in barriques nuove, provenienti da tonnellerie artigianali francesi, per circa 18 mesi. Visivamente si presenta di un bel rosso rubino con leggeri riflessi granati, mentre all’olfattiva si apre pieno e ampio di frutta rossa matura, prugne e marasche, more e leggera speziatura a completamento. La sorsata è altrettanto intensa, lunga e armonica, tannino vellutato e persistenza convincente. Ottimo con la Amatriciana, anche quella con aglio e cipolla…
Velenosi Via dei Biancospini 11 63100 Ascoli Piceno Telefono: 0736 341218 E-mail: info@velenosivini.com Web: www.velenosivini.com
Grechetto di Civitella d’Agliano Ig t bianco Latour a Civitella 2015 Sergio Mottura 100% uve Grechetto in questo brillante calice per colore e resa di gusto. All’assemblaggio contribuiscono le migliori uve dei cinque vigneti di Grechetto clone Poggio della Costa e viene fermentato in barriques di rovere francese. Visivamente si presenta di un giallo dorato intenso, brillante e senza opacità. All’olfattiva è sgargiante di profumi raffinati, evidenti le note fruttate, vivide e mature con ricordi agrumati e di frutta secca, nocciole e pasticceria. Circolare la vaniglia al palato, dove tornano note fruttate, zenzero e morbidezza. In equilibrio le parti, buona la spalla acida e la sapidità, in grado di sostenere a pieno grado alcolico e soavità. Un vino non banale, intenso, strutturato, adatto a molteplici abbinamenti, certamente perfetto con un piatto di bucatini fumanti all’Amatriciana. Abbondate con il pecorino stagionato, il calice riuscirà a sostenere le note aromatiche e a ripulire il palato dalla grassezza.
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Sergio Mottura Wines Località Poggio della Costa 1 01020 Civitella D’Agliano (VT) Telefono: 0761 914533 E-mail: vini@sergiomottura.com Web: www.sergiomottura.com
Premiata Salumeria Italiana, 5/17
Cesanese di Olevano Romano Doc Riserva Tenuta al Campo 2012 Proietti
Azienda Agricola Proietti V. Maremmana Superiore 00035 Olevano Romano (Roma) Telefono: 06 9563376 E-mail: info@aziendaagricolaproietti.it Web: www.aziendaagricolaproietti.it
Questo vino è prodotto con uve Cesanese autoctono per l’80% e il rimanente 20% con uve Cesanese d’Affile, raccolte nella prima metà del mese di ottobre e fermentate sulle bucce per circa un mese. Seguono circa quattro mesi si stoccaggio in acciaio, dove avviene la fermentazione malolattica, quattordici mesi in tonneau e botte grande e altri sei mesi in bottiglia. Un calice articolato e complesso, dal ventaglio organolettico ampio e finissimo. Sono innanzitutto sentori fruttati di prugne, more e ciliegie, accompagnati da ricordi floreali di violette, bacche di cacao e cannella. Al palato è morbido e vellutato, equilibrato e persuasivo, con piglio ed eleganza. Una persistenza e incisività che lo rendono adatto ad abbinarsi con piatti strutturati, formaggi stagionati, arrosti e brasati e anche con un piatto di bucatini all’Amatriciana. Abbondate con il guanciale.
Chianti Classico Docg Riserva Il Poggiale 2014 Castellare di Castellina
Castellare di Castellina Loc. Castellare 53011 Castellina in Chianti (SI) Telefono: 0577 742903 E-mail: info@castellare.it Web: www.castellare.it
Siamo nel cuore del Chianti Classico con questo vino, una Riserva che nasce dalle uve di una sola vigna, un cru dell’azienda, che produce sempre eleganza e tipicità. Non fa eccezione l’annata 2014, dove si riconoscono le virtù di classe e carattere a cui ci hanno abituati. Dal colore rosso rubino brillante, elargisce intense e nette note fruttate di marasca, con ricordi di rose in fiore e tinte minerali. Al palato ritornano circolari le note olfattive e troviamo una decisa armonia tra parti morbide e dure, ottima beva. Fresco e sapido senza eccessi, dal tannino setoso, si presenta gioviale e brillante, senza stucchevolezze. Adatto anche ad essere dimenticato per qualche anno in cantina, se ne suggerisce il consumo con piatti strutturati di carne, tagliate e fiorentine alla brace e grigliate estive. Assolutamente adatto alla pasta condita con il sugo all’Amatriciana, ne sosterrà senza problemi speziatura e intensità.
Offida Docg Pecorino Io sono Gaia 2015 Le Caniette
Le Caniette Contrada Canali 23 63065 Ripatransone (AP) Telefono: 0735 9200 E-mail: info@lecaniette.it Web: www.lecaniette.it
Premiata Salumeria Italiana, 5/17
Siamo in provincia di Ascoli Piceno con questo vino, prodotto con uve Pecorino in purezza. Uve che fermentano a temperatura controllata per circa 30 giorni e che successivamente affinano 12 mesi in barriques di primo passaggio per un terzo, un terzo di secondo passaggio e il rimanente di terzo passaggio. Alla degustazione si presenta color giallo paglierino intenso, con riflessi dorati e brillanti. All’olfattiva si apre con note fruttate esotiche, frutta tropicale, mango e papaia e ricordi speziati di vaniglia, agrumi canditi, pepe bianco. Non delude la sorsata, morbida, avvolgente ed intensa, lunga ed elegante, con decisione. Armonia di equilibrio tra le parti, grado alcolico e morbidezza ben bilanciate da freschezze e sapidità. Si presta ottimamente a piatti di pesce, anche strutturati, e secondi di carne non troppo elaborati. Non sfigurerà con una bella Amatriciana, ma anche con la Gricia farà una splendida figura.
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BIRRA
Birrone, la birra no limits Nessun limite alla sperimentazione e nessuno spazio all’improvvisazione per Simone Dal Cortivo che nel 2008, a Isola Vicentina, è riuscito a fare di una grande passione il proprio lavoro. E oggi vende certezze di Gian Omar Bison
T
re requisiti: buona, superiore sotto il profilo gusto-olfattivo allo standard medio, economicamente accessibile. La filosofia produttiva di Simone Dal Cortivo, mastro birraio e titolare del “Birrone” ad Isola Vicentina (VI) è tutta qui. Può sembrare banale ma non lo è: trattasi di scelta aziendale e commerciale netta e tutto sommato in controtendenza ora come all’epoca in cui è iniziata l’attività. «Era il 2008
— ricorda Simone — quando, dopo dieci anni di home-brewing (produzione casalinga di birra per autoconsumo) e vent’anni di panificazione, a Isola Vicentina, con ventiquattro dipendenti e sei punti vendita, sono riuscito a fare di una passione il mio lavoro. All’epoca il 98% del mercato delle birre artigianali era appannaggio delle birre ad alta fermentazione, di tipo belga o inglese, ambrate e rifermentate in bottiglia con un titolo alcolometrico minimo di 5,5° e
dal costo tendenzialmente impegnativo, secondo gli stereotipi del tempo imposti da Teo Musso del birrificio Baladin». Ma anche visionario, se consideriamo che dal 2008 esiste un diktat aziendale indiscutibile. «Vuoi diventare mio cliente? Ti devi comperare una tantum anche l’impianto spina refrigerato. Una piccola attrezzatura fornita da noi che mi garantisce dal serbatoio al fusto al camion refrigerato fino allo spillatore di mantenere la stessa temperatura e non
Alcune delle birre artigianali firmate Birrone. Tutte naturali al 100%, senza conservanti, non sono pastorizzate né filtrate.
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Premiata Salumeria Italiana, 5/17
disperdere le caratteristiche organolettiche del prodotto. Ho rinunciato a clienti per questa convinzione. Ma oggi è una scelta che paga perché apprezzata dagli acquirenti e dai consumatori. Io vendo certezze». Al Birrone non fanno magazzino e non hanno grossisti o intermediari di sorta. Il 90% delle spedizioni fino al cliente finale parte da Isola Vicentina. «E con questo sistema ho il controllo del 100% della filiera. L’importante è seguire bene la cantina dove voglio esecutori, non interpreti, in grado di garantirmi come risultato una birra esattamente come l’ho pensata e cercata io. Oggi con la tecnologia a disposizione e i nuovi impianti è tutto sempre sotto controllo. Impianti spinti in grado di soddisfare con una capacità di 60 ettolitri per cotta, tutte le richieste del mercato e di darmi una prospettiva di crescita qualora ne fossi interessato». Tra gli ultimi clienti acquisiti il Venezia Calcio per il quale viene prodotta una birra personalizzata e XHamster, il colosso europeo del porno in grado di piazzare quantitativi importanti di birra artigianale doppio malto al miele di castagno. Guardando alle prospettive del settore Dal Cortivo ricorda due punti di svolta importanti: nel 2008, con la nascita dei primi birrifici artigianali pensati imprenditorialmente, e nel 2016, da un lato con l’acquisizione della birra Del Borgo da parte del colosso Ab InBev, il più grande gruppo birrario del pianeta, e, dall’altro, con l’evoluzione dei birrifici artigianali basata sui grandi impianti produttivi acquisiti. Vale per il Birrone così come per altri sei birrifici in Italia. «Non vedo il rischio di una bolla speculativa destinata a sgonfiarsi; di birrai artigianali improvvisati che si buttano in un settore di tendenza che rischia di implodere nel tempo. Ma non vedo neanche il rischio di diventare delle piccole industrie perdendo originalità e capacita di sperimentazione. Detto che ci distinguono dalle birre industriali una normativa che impone degli obblighi come il non filtrare ne pastorizzare e dei limiti produttivi (sotto i 200.000 ettolitri/anno) fin troppo generosi, la nostra forza sta in un prodotto che può essere fatto dappertutto, in migliaia di modi diversi, con materie prime di tutto il mondo, aromatizzato come si vuole… ma non si può improvvisare! Nessun
Premiata Salumeria Italiana, 5/17
Simone Dal Cortivo. limite a nessuno. Nessun limite alla sperimentazione, ma il prodotto finale deve essere equilibrato e per questo competitivo. Questi tra l’altro gli obiettivi che condividiamo sia in Confartigianato Veneto con Ivan Borsato che nella Confraternita della birra artigianale». Il giro di affari del Birrone? Alimentato in buona parte da fiere ed eventi street food ai quali partecipano. Il 20% arriva comunque dalla mescita direttamente dalla birreria che fiancheggia l’impianto. Nel 2008 gli ettolitri erano 370, un dipendente e 100.000 euro il fatturato. Nel 2012 1.200 ettolitri e 300.000 euro. Nel 2016, 3.500 ettolitri, 1,5 milioni di fatturato e 14 dipendenti. I primi posti in categorie diverse conseguiti al concorso Birra dell’anno promosso dall’associazione Unionbirrai quasi non si contano più dal 2011 ad oggi, per quello che nel settore è universalmente conosciuto come il re delle basse fermentazioni. «È il nostro biglietto da visita, la nostra caratteristica: bassa
fermentazione, piacevolezza e facilità di beva. Ma questo non significa che non siamo in grado di fare bene l’alta fermentazione o sperimentare, come per la birra al mango presentata a Rimini. Va detto che è un mondo in evoluzione e che deve crescere nell’ambito della sommellerie e della birrogastronomia. Sono convinto che le birre artigianali abbiano possibilità di abbinamento col cibo universali, superiori al vino, e che i nostri competitor nel mondo dell’alcol non siano solo i colleghi birrai industriali». Lo abbiamo già detto, a Simone Dal Cortivo piace sperimentare. Da questa ricerca sono nate birre in edizione limitata, con ingredienti particolari, prodotti di stagione, ricette inaspettate. Tra queste: VI, Lager vicentina; NIPA, Nippon Ipa; TIPA, American Ipa; ENGLISH WAY, bitter; SCOSTUMATA, Oud Bruin; GREEN, birra biologica; COCCA, birra con monococco vicentino. Gian Omar Bison >> Link: www.birrone.it
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PASTA
Nella battaglia del grano c’è chi lo sceglie made in Italy di Riccardo Lagorio
Lo scenario a consultazione pubblica online sulla trasparenza delle informazioni in etichetta dei prodotti agroalimentari, svolta sul sito del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali nel corso del 2016, a cui hanno partecipato oltre 26.000 cittadini, ha evidenziato che oltre l’85% degli Italiani considera importante conoscere l’origine delle materie prime per questioni legate al rispetto degli standard di sicurezza alimentare. In particolare ciò avviene per la pasta. E la pasta, come si sa, è l’alimento principe sulla tavola degli Italiani. Tuttavia, la segnalazione
L
dell’origine del frumento sulle scatole di pasta che mettiamo nel carrello della spesa risulta essere ancora tabù per molti pastai. Con l’obiettivo di chiarire l’origine del frumento, il Ministero delle Politiche Agricole ha inviato a fine dicembre 2016 a Bruxelles, per la prima verifica, uno schema di decreto che introduce la sperimentazione dell’indicazione obbligatoria in etichetta dell’origine per la filiera grano-pasta in Italia. Il 20 luglio di quest’anno, nelle more di una risposta che sarebbe dovuta arrivare da Bruxelles, il governo italiano ha giocato d’anticipo. Anche con l’intento di esercitare pressione affinché l’Unione Europea
si decida a emanare una norma sulla trasparenza dell’origine delle materie prime in etichetta e in barba a eventuali infrazioni che l’UE dovesse rilevare. È il sito stesso del MIPAAF a chiarire quali sono i punti fondamentali per l’etichettatura della pasta prodotta in Italia. Si specifica il nome del Paese nel quale il grano viene coltivato e il Paese di molitura. Se le fasi avvengono nel territorio di più Paesi si possono utilizzare le diciture: Paesi UE, Paesi non UE, ovvero Paesi UE e non UE. Se almeno il 50% del grano duro è coltivato in un solo Paese, è ammessa la menzione del Paese e altri Paesi (UE o non UE). Alla base dell’opposizione all’ingresso
Il Ministero delle Politiche Agricole ha inviato a fine dicembre 2016 a Bruxelles, per la prima verifica, uno schema di decreto che introduce la sperimentazione dell’indicazione obbligatoria in etichetta dell’origine per la filiera grano-pasta in Italia, con l’obiettivo di chiarire l’origine del frumento (photo © Christian Jung). 134
Premiata Salumeria Italiana, 5/17
Giuseppe Di Martino: il grano italiano prima di tutto
di frumento estero pare vi siano anche ragioni di tipo salutistico, come l’utilizzo di erbicidi, tra cui il glifosato, prima della raccolta. Ma con implicazioni dirette anche sull’economia di un settore, quello agricolo, minacciato dall’ingresso in Italia da frumento straniero. “Oggi il grano viene pagato 19-20 euro al quintale. Ovvero, per ogni ettaro, ad un agricoltore vanno 700-800 euro; a fronte di costi di produzione pari a 800-1000 euro. È chiaro, commenta in una nota la CIA, la Confederazione Italiana Agricoltori, che prima di tutto serve un prezzo che consenta agli agricoltori di fare reddito. Quello proposto dalla domanda di mercato è un prezzo inaccettabile: a queste condizioni non conviene produrre”. Tanto che, a luglio 2016, proprio in occasione della trebbiatura, si è determinata una situazione paradossale di immissione sul mercato di ingenti quantità di grano da Oltreoceano, tale da spingere il presidente nazionale Dino Scanavino ad invocare lo sciopero della semina. In attesa che i prezzi risalissero a livelli da permettere un minimo di redditività. Di tutt’altro parere l’Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiana (AIDEPI), che considera la formula adottata sbagliata e in grado da confondere. La vera soluzione per incentivare trasparenza, qualità e competitività della filiera sono i contratti di coltivazione tra pastai e agricoltori, mentre parlare di etichetta sposta l’attenzione dal vero problema e cioè che il grano italiano è oggi ancora insufficiente a soddisfare le esigenze dei pastai. Le risposte del mercato In questo scenario c’è chi ha privilegiato da anni l’utilizzo di frumento italiano. Come il Pastificio Sgambaro, che ha sede nel Trevigiano. Pier Antonio SgamPremiata Salumeria Italiana, 5/17
Lei ha sempre creduto nel frumento italiano. Cosa ne pensa del grano duro italiano? «Lo ritengo superiore a tutti i grani importati che nella mia vita ho avuto modo di valutare; questa superiorità, ai miei occhi, naso, tatto, papille, è indiscutibile e si conferma ogni anno, ad ogni raccolto. Quando ho iniziato a parlare di grano italiano, alcuni miei colleghi facevano spot televisivi glorificando le loro paste fatte di grani fantastici di origine nordamericana o australiana; qualcuno mi rideva alle spalle e mi diceva che ero al meglio pazzo, al peggio illuso, sembrava impossibile fare pasta buona con grano italiano».
Giuseppe De Martino, presidente del Consorzio Pasta di Gragnano Igp e consigliere nazionale di AIDEPI (Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiana), a destra, con Ciro Moccia, titolare del pastificio La fabbrica della Pasta di Gragnano.
Quindi il frumento che proviene dall’estero è da dimenticare? «Non credo che i grani importati siano il male assoluto, credo che possano essere buone materie prime, in qualche caso eccellenti. Per questo non biasimo i miei colleghi che li usano, né li giudico negativamente, nemmeno ne faccio una questione patriottica. Solo che non sono i migliori per me».
E come giudica la decisione del Governo di etichettare le confezioni di pasta con l’origine dei grani? «Ritengo che il decreto vada nella giusta direzione, mettendo in primo piano la trasparenza. Su questo punto tutti i miei colleghi di AIDEPI sono d’accordo. Semmai la critica dei miei colleghi parte dal rischio che ci possano essere semplificazioni e derive qualunquiste che queste possano gettare un’ombra sul lavoro serio e coscienzioso che l’industria pastaia italiana ha costruito da sempre, riscuotendo giusto apprezzamento da parte di clienti italiani ed esteri. Io condivido in parte questa preoccupazione, ma sono anche critico storicamente verso la nostra categoria, in quanto da sempre dico che potevamo essere più coraggiosi noi pastai, facendo in autodisciplina quello che chiede il decreto». Cioè? «Avrei preferito che noi pastai italiani avessimo deciso volontariamente di apporre una semplice dicitura in etichetta — “Semola di grani duri nazionali (o italiani)”,“Semola di grani duri comunitari (UE)”,“Semola di grani duri esteri (UE ed extra UE)”, lasciando al consumatore la possibilità di assaggiare scegliere e decidere. Oggi il decreto va nella giusta direzione ed è un passo avanti, ma ha un neo che va aggiustato il prima possibile: ci chiede di dichiarare l’origine della semola oltre e separatamente a quello del grano. Per esempio un grano duro, diciamo per assurdo tedesco, macinato in Italia diventa per legge semola italiana, ingenerando potenzialmente confusione. L’etichetta reciterebbe “Grano duro: origine UE e Semola: origine Italia”.
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Questione di numeri… Dove si coltiva il grano quotidiano. L’Italia è il principale produttore europeo di grano duro destinato alla pasta. La produzione annua è di 4,9 milioni di tonnellate, mentre la superficie coltivata raggiunge 1,3 milioni di ettari, concentrati soprattutto in Puglia e Sicilia, che da sole rappresentano il 42% della produzione nazionale. A seguire Marche, Basilicata e Campania. Nonostante ciò, sono ben 2,3 milioni di tonnellate di grano duro che arrivano dall’estero in un anno senza che questo venga reso noto ai consumatori in etichetta.
Questione di parole… A proposito di celiachia Il glutine è un componente del grano che ha funzioni di riserva per la crescita del germe. Tra i suoi composti compaiono la gliadina e la gluteina, una proteina solubile in presenza di ambiente basico ma non in ambiente acido. Il grano primitivo conteneva uno scarso quantitativo di glutine ed era dotato di un equilibrio dei suoi componenti. Anche la varietà Senatore Cappelli (in foto) garantiva queste caratteristiche. Sino agli anni Sessanta. Nel 1974, per ovviare a problemi di allettamento del Senatore Cappelli, un gruppo di ricercatori del CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare) indusse una mutazione genetica del grano duro esponendolo a raggi gamma e incrociandolo con varietà americane. Si ottenne un frumento nano, con più alta produttività e precocità. Si ottenne un grano non-OGM, ma dal corredo cromosomico alterato. Pare che la modifica genetica del frumento sia correlata alla modificazione della gliadina, in grado di produrre il mal assorbimento da parte del corpo umano. Inoltre, si importa dagli Stati Uniti, dal Canada e dall’Ucraina una varietà di grano denominata Manitoba. Questa possiede 28 coppie di cromosomi in ogni cellula. Ma per millenni nel bacino mediterraneo e in Medio Oriente si è consumato frumento con un corredo cromosomico pari a 14. Anche la variabilità genetica potrebbe contribuire, secondo alcuni, a scatenare reazioni allergiche, disordini immunitari e intolleranze. Che non sono imputabili al frumento in sé, ma alla sua manipolazione e alla sua origine.
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baro vent’anni fa decide di imprimere una svolta all’attività di famiglia con la decisione di produrre pasta biologica perché egli stesso allergico ai residui dei pesticidi. «Ma non era possibile allora», racconta. «Tuttavia, abbiamo trovato il modo per evitare di utilizzare frumento straniero, colpito da elevate quantità di pesticidi. Abbiamo coinvolto all’inizio coltivatori pugliesi ai quali garantivamo premi sul prezzo del grano per la produzione di frumento ad elevato contenuto proteico e, già nel 2001, eravamo in grado di produrre pasta di grano duro italiano certificato. Ben prima che diventasse questione di sghei. Da questa conquista è nata una sensibilità aziendale che ci ha portato a ricercare luoghi idonei alla coltivazione di grano vicini alla sede aziendale come l’Emilia e la bassa Lombardia per evitare emissioni di CO2, ma anche improntare l’azienda verso una cultura rispettosa dell’ambiente e che utilizza energia pulita. Da quella volontà è nata una filosofia di vita e un imprinting aziendale, insomma. Ma soprattutto, da apripista, abbiamo sconquassato un sistema che pensava di produrre pasta con grani stranieri» dice con orgoglio. Nel Teramano, tra le mura di un altro pastificio, si indica già l’origine italiana della semola. Anzi, nel caso del frumento San Carlo, si tratta di grano raccolto nei terreni di proprietà dell’azienda stessa, vicinissimi allo stabilimento di produzione. Massimo Di Felice, responsabile qualità del Pastificio Verrigni, non si stupisce che si possa produrre pasta con grano esclusivamente italiano, specie quando come noi si conoscono i produttori e se ne apprezza la rispettabilità da anni. Poi c’è chi, come la famiglia De Matteis, grazie alla presenza di un molino integrato nel proprio ciclo produttivo, ha portato a compimento il progetto di creare una filiera completa dal grano alla pasta. Questa prevede il coinvolgimento di tutti gli attori di questo processo: aziende agricole, stoccatori, società sementiere, agronomi e ovviamente molino e pastificio. La finalità è poter disporre di grano 100% italiano, indispensabile per produrre pasta premium, riconoscibile dall’etichettatura, Pasta Armando. «Vengono stipulati appositi contratti che prevedono la semina di varietà tradizionali di grano duro e una re-
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munerazione garantita agli agricoltori. Dal canto suo il pastificio ha la garanzia di ricevere un frumento dall’alto valore proteico, almeno il 14%», ci dicono. Le aziende agricole coinvolte sono 700 per oltre 10.000 ettari coltivati a grano. Un modo concreto per salvaguardare l’agricoltura italiana, insomma. Salvatore Curcio, ingegnere civile siciliano, è tornato in maniera prorompente alla terra e ha scelto il frumento Bidì, suggerito dall’Istituto di Granicoltura di Caltagirone, per creare una linea di pasta che da quattro anni viene utilizzata nei migliori ristoranti dell’isola. «L’idea mi è nata mentre osservavo le terre dove sono cresciuto. E, con l’obiettivo di elaborare un modello di agricoltura etica e sostenibile per ricavare dai miei campi cibo buono e sano, mi sono attrezzato per mettere a coltura i terreni che mio nonno e mio padre utilizzavano». La produzione di grano è di circa 3.800 kg per ettaro, secondo i principi dell’agricoltura bioetica, senza utilizzo di sostanze chimiche o di sintesi. Impossibile rimanere indifferenti agli intriganti nomi della dozzina di formati, tutti trafilati in bronzo: dai Soffi di Eolo, simili a gnocchetti, ai Giri di Gioia, affini ai fusilli. Ma, una volta assaggiata, diventa soprattutto difficile rinunciare a questa pasta saporita e dal colore bruno-grigiastro. Riccardo Lagorio
La pasta è l’alimento principe sulla tavola degli Italiani (photo © pilipphoto).
Questione di parole… Grano tenero o grano duro? Si tratta in verità di specie vegetali differenti, dalle quali si ottengono prodotti diversi. La farina bianca (tipo 00, 0, 1 o farina integrale) deriva dal grano tenero, mentre il grano duro dà vita alla semola. Una legge del 1967 e un DPR del 2001 prevedono che il termine pasta si possa utilizzare solo se la materia prima è semola (salvo un 3% di farina di grano tenero).
Sgambaro Spa Via Chioggia 11/A 31030 Castello di Godego (TV) Telefono: 0423 760007 Web: www.sgambaro.it Verrigni – Antico Pastificio Rosetano Srl Via Salara 9 64026 Roseto degli Abruzzi (TE) Telefono: 085 9040269 Web: verrigni.com De Matteis Agroalimentare Spa A.S.I. Valle Ufita – 83040 Flumeri (AV) Telefono: 0825 4212 Web: www.granoarmando.it Az. Agr. Salvatore Curcio Contrada Falabia snc Palazzolo Acreide (SR) Telefono: 338 3819967 Web: www.curciostoriedigrani.it
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Tutti a fare il tifo per il Senatore Cappelli Nel 1915, presso il Centro di Ricerca per la Cerealicoltura di Foggia, Nazareno Strampelli riesce a ottenere, per selezione genealogica, da un frumento nordafricano, una nuova varietà a cui viene conferito il nome di Senatore Cappelli. Il Cappelli a cui ci si riferisce è il Marchese Raffaele, senatore del Regno d’Italia, impegnato nelle trasformazioni agrarie in Puglia e sostenitore dell’attività di Strampelli per mezzo di campi sperimentali, laboratori e risorse.
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PANE
E i carboidrati? Ecco il pane quotidiano degli Italiani di Fulvio Zorzetto
A
febbraio 2017, il comparto dei Pani industriali, composto dalle categorie del pane secco e del pane morbido confezionato a peso imposto, copriva un giro d’affari di oltre 1,3 miliardi di euro; le due categorie si dividono quasi equamente il mercato, rispettivamente con 697 milioni di euro (52% del totale) e 646 milioni di euro. Per quanto riguarda le vendite a volume, invece, i pani morbidi avevano una quota del 58%, con 202.000 tonnellate di prodotto, a fronte delle 146.000 tonnellate dei pani secchi. Nell’anno terminante a febbraio 2017, il comparto ha mostrato
una crescita del +2,7% a valore, superiore alla performance del totale food confezionato (+0,9). La crescita è stata trasversale in tutte le Aree Nielsen*, con un maggiore contributo da parte della 4 e della 2. Tra i canali, hanno prevalso i contributi dei super (trend +2,9% a valore) e discount (+4,5%). Ad eccezione dell’Area 1, l’assortimento ha continuato a crescere con un incremento di 5 referenze medie nei supermercati. Gli iper (+2%) hanno visto crescere l’assortimento medio di 10 referenze; i liberi servizi di 1 (trend a valore: +1,2%); anche i traditional grocery sono cresciuti
a valore (+0,7%) grazie all’aumento dei prezzi medi, a fronte di un calo dei volumi dello 0,6%. A totale Italia e nelle Aree 1, 2 e 4, il prezzo medio e/kg è stato in contrazione. Per quanto riguarda i due principali segmenti del mercato, i pani secchi hanno ripreso a crescere a volume (+2,4%) e a valore (+3,1%) rispetto all’anno scorso, con un trend positivo in tutte le aree (importante il contributo dell’Area 4). La motivazione va ricercata principalmente nelle performance di iper e supermercati. Anche i pani morbidi hanno fatto registrare buoni incrementi (+3,4% a volume, +2,2%
I dati Nielsen Italia fotografano il comparto del pane industriale come settore in crescita sia a volume che a valore.
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a valore), grazie alla forte crescita dei discount. Il biologico ha proseguito il suo andamento positivo (+10,2% a valore) in misura maggiore al resto del mercato per entrambe le categorie, grazie al contributo dell’Area 4 e dei supermercati. In crescita le tre categorie dei pani morbidi, in particolare specialità e pani da tavola Positivo il segmento classico dei pani a fette (+0,8% a valore), esclusivamente grazie al canale discount (+9%); tra i segmenti principali calano il pan carré e il pane per bruschetta, a fronte di una crescita del pane per tramezzini e del pane in cassetta. Le performance positive per le specialità sono dovute principalmente alle piadine e ai panini, cresciute in quasi tutte le aree e canali (solo i panini calano in Area 1), con un calo del prezzo medio (–1,6% e
–2,4%); arabi e focacce hanno subito una contrazione generalizzata, nonostante la flessione dei prezzi e l’aumento delle promozioni negli iper e super per l’arabo. Il pane a lunga conservazione (+11%) è cresciuto nella distribuzione moderna e nei discount, con prezzi in calo e maggiore intensità promozionale. Il pane secco è cresciuto a volume e a valore, con prezzi in leggero aumento e performance positive in alcuni segmenti. In crescita i cracker esclusivamente grazie al segmento salutistici+speciali (+12,5%), sia nella distribuzione moderna che nel tradizionale con incremento dell’assortimento. Il trend positivo dei normali negli iper e super è stato contrastato dal calo negli altri canali; gli arricchiti hanno mostrato un trend positivo nei discount, grazie alla maggiore intensità promozionale, calando, però, nella distribuzione mo-
derna. I grissini invece sono cresciuti (+0,6% a valore) grazie a rubatà (in calo a volume), stampati e torinesi; i croccanti in crescita solo in Area 3. A spingere la crescita dei pani croccanti (+3.9% val.) panetti, taralli, friselle e pani piatti, soprattutto nelle Aree 3 e 4. Fulvio Zorzetto (Fonte: Nielsen Insights) Nota * L’Italia viene divisa in 4 aree Nielsen: 1. Area 1: Piemonte, Val d’Aosta, Liguria, Lombardia; 2. Area 2: Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, EmiliaRomagna; 3. Area 3: Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Sardegna (dal 1o gennaio 2006); 4. Area4:Abruzzo,Molise,Puglia,Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia.
La pizza di Bonci arriva a Chicago Anthony Bourdain è un suo grande fan ed è apprezzato e stimato da tutti per la ricerca delle materie prime e l’innovazione nella panificazione delle sue pizze al taglio. È il romano Gabriele Bonci, che al Pizzarium di Roma e al secondo locale di Lucca ora ne ha aggiunto un terzo negli Stati Uniti, a Chicago. Il nuovo locale di pizzeria al taglio alla romana ha aperto lo scorso 14 agosto a Sangamon Street, nella zona di West Loop, grazie alla partnership con i due soci Rick Tasman e Chakib Touhami, entrambi attivi nel mondo della ristorazione. L’apertura è stata condivisa in diretta Facebook con i fedeli appassionati di Gabriele che lo seguono nelle varie scorribande enogastronomiche e negli eventi food. Sì, perché Bonci è un orgoglio nazionale, un professionista da sempre coerente alla sua filosofia di filiera corta e, al contempo, un grande innovatore nella panificazione, con un incessante studio delle farine, dei grani antichi e delle cotture. Originale e vincente anche l’idea di aprire questo primo locale USA a Chicago e non a New York. La metropoli dell’Illinois che si affaccia sul lago Michigan è meta di appassionati di arte moderna, musica e buon cibo, grazie all’ampia offerta di cucine di tutto il mondo. In un locale di 130 m2, uno staff statunitense prepara le pizze in stile Bonci con materie prime italiane e americane. Lo spirito di Bonci, da sempre molto attento a selezionare piccoli produttori che garantiscono prodotti biologici o biodinamici, qui è confermato. Sul fronte della ricerca è stato fatto parecchio lavoro per garantire pizze realizzate con ingredienti buoni e giusti (photo © Eater Chicago). >> Link: www.facebook.com/bonciusa
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TECONOLOGIE
Otto importanti criteri per la scelta del software gestionale Sono il risultato di un sondaggio condotto tra i suoi clienti dal gruppo CSB-System, uniti all’esperienza maturata in quasi 40 anni di attività
I
l sistema ERP è il cuore centrale di un’azienda e, man mano che la digitalizzazione si espande, la funzione e il valore del ge stionale diventano sempre più significativi. È consigliabile quindi che le aziende del settore Alimenti & Bevande osservino alcuni importanti criteri nella scelta dell’ERP da implementare in azienda. Per stilare questi 8 criteri il gruppo CSB-System si è avvalso della provata conoscenza del settore derivante dalle oltre 1.200 implemen-
tazioni eseguite dal 1982 ad oggi, e dei risultati di un sondaggio condotto su un campione rappresentativo composto da 120 clienti. 1. Tagliato “su misura” per il settore Se il software è stato sviluppato specificatamente per il settore alimentare, i tempi d’implementazione saranno brevi. I produttori di pane e prodotti da forno hanno sfide diverse da affrontare rispetto a coloro che producono
nel settore lattiero-caseario; i salumi seguono una filiera diversa dalla frutta e verdura, mentre le aziende della gastronomia ricevono richieste diverse da quelle che producono piatti pronti. Ma si pensi piuttosto a tutto quello che hanno in comune tutte queste aziende: devono garantire la rintracciabilità del prodotto dal “campo alla tavola”, gestire le anagrafiche di clienti e fornitori, procedere agli acquisti di materie prime e componenti con pianificazione integrata sulla base di moduli di
Il gruppo CSB-System offre soluzioni preconfigurate per tutti i comparti del settore Alimenti & Bevande.
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disposizione e di determinazione dei fabbisogni completi, gestire produzione, trasformazione e confezionamento con stampa delle etichette secondo gli standard internazionali. Si potrebbe continuare con la gestione delle vendite, il controllo qualità, la contabilità, ma la lista sarebbe davvero lunga. Il gruppo CSB-System conosce in modo dettagliato tutti i comparti del settore alimentare e ha modellato il suo ERP offrendo soluzioni preconfigurate per ognuno di questi; e, cosa ancora più importante, l’implementazione in azienda di un software gestionale offre anche l’opportunità di intervenire sui processi per migliorarli. Grazie al gestionale CSB-System l’intero flusso di informazioni viene automatizzato e le procedure diventano trasparenti, affinché le azioni singole di un reparto possano trasformarsi in quell’ingranaggio che è l’azienda. 2. Funzionalità estese Il “gestionale” è lo strumento centrale per la gestione dell’azienda e come tale è importante che copra molte aree e offra funzionalità estese per ognuna di queste. Altrimenti si continuerebbero ad utilizzare soluzioni ad isola al di fuori del sistema ERP con conseguente necessità di interfacce e di molteplici inserimenti degli stessi dati con tutto quello che ne deriva: maggiori possibilità di errore, impiego non ottimale delle risorse umane, difficoltà nel coordinamento dei diversi fornitori IT, aumento dei costi. Molti dei clienti CSB hanno implementato strategicamente il 100% del software CSB, non solo il pacchetto base (Acquisti, Produzione, Vendite, Magazzino), per sfruttare al massimo i vantaggi di un software integrato: dalla Contabilità cespiti alla Rilevazione presenze, dal Controllo Qualità alla Gestione dei macchinari, fino alla Business Intelligence e Gestione documentale. 3. Possibilità d’ampliamento Le richieste alle aziende da parte sia dei clienti sia del legislatore cambiano continuamente. Allora è bene che il gestionale sia estendibile in maniera modulare e flessibile e non implichi l’acquisto di costose “soluzioni ad isola” o interfacce, come già detto in precedenza. Una volta implementati i moduli base del gestionale merci,
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In alto: la possibilità, per le aziende che operano con filiali in paesi o addirittura continenti diversi, di implementare e utilizzare lo stesso software a livello globale, diventa un vantaggio competitivo enorme. In basso: CSB App. collegare successivamente una linea di peso-prezzatura oppure dei tablet per la presa ordini dei rappresentanti non richiede sicuramente il dispendio di tempo e lo sforzo economico di un progetto ex-novo e garantisce una percentuale di successo maggiore. 4. Utilizzo dello stesso identico software a livello globale La possibilità, per le aziende che operano con filiali in paesi o addirittura continenti diversi di implementare e utilizzare lo stesso software a livello globale diventa un vantaggio competitivo enorme se solo si pensa alla possibilità, per la direzione aziendale, di avere una supervisione
centralizzata di dati e informazioni. E questo vale anche per le piccole e medie imprese che abbiano prospettive di crescita. Ma uno stesso identico software ERP può essere utilizzato a livello globale? I clienti CSB-System possono rispondere positivamente a questa domanda perché il software è multilingua e vi sono filiali CSB in tutti i continenti. Vale la pena aggiungere che il CSB-System dispone della contabilità specifica di ogni paese e la integra nel pacchetto base del gestionale merci già nella sua versione standard. 5. ERP stabile e facile da aggiornare del software I responsabili IT delle aziende intervi-
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sistema ERP dovrebbe supportare anche l’automatizzazione dell’intralogistica, soprattutto per soddisfare le alte richieste del settore alimentare relativamente alla freschezza del prodotto. L’automatizzazione dell’intralogistica pone anche le fondamenta per il passaggio verso l’Industria 4.0 e la Smart Food Factory. Il CSB-System offre un enorme contributo in questa direzione, grazie all’integrazione completa della logistica interna ed esterna nei processi operativi.
In futuro l’intera filiera Alimenti & Bevande sarà molto più connessa di oggi e pertanto fornirà ai produttori di alimenti informazioni sui dati di consumo in tempo reale. state ritengono che l’alta affidabilità e aggiornamenti facili e veloci siano requisiti fondamentali per un ERP. Lo stesso dicasi per la possibilità di utilizzare il software in Cloud, perché consente di non occuparsi dell’infrastruttura tecnologica, ma di dedicarsi invece quasi esclusivamente al core business della propria azienda. Un gestionale basato sul web dà inoltre l’opportunità di collegare in rete in pochissimo tempo i settori logistica, produzione e distribuzione. Il gruppo CSB-System, già nel 2009, ha costruito una Server Farm con un centro elaborazione dati all’avanguardia in grado di soddisfare le più elevate esigenze in materia di sicurezza. La capacità di calcolo in outsourcing di dati viene stimata in circa 20.000 utenti in Cloud Computing.
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6. MES integrato nel gestionale Per le società di servizi un MES (Manufacturing Execution Systems) è sicuramente inutile; per le aziende produttrici di alimenti è essenziale. Per imporsi sulla concorrenza è indispensabile per l’azienda ottimizzare continuamente i processi di produzione, dall’inserimento dell’ordine fino al prodotto finito. In questo contesto i MES acquistano un’importanza sempre maggiore. L’applicazione MES del CSB-System ha la principale funzione di gestire e controllare la funzione produttiva di un’azienda. La gestione coinvolge il dispaccio degli ordini, gli avanzamenti in quantità e tempo, il versamento a magazzino, nonché il collegamento diretto ai macchinari per ricavarne informazioni utili ad integrare l’esecuzione della produzione così come il controllo della stessa. Il FACTORY ERP® del CSB-System offre i vantaggi di un ERP e un MES contemporaneamente e fa in modo che si crei un legame tra gestione aziendale e gestione della produzione e che venga facilitato il collegamento in rete macchina verso macchina. 7. ERP come supporto al processo di automatizzazione Nell’industria alimentare l’automatizzazione semplifica il processo produttivo, evita gli errori causati da un inserimento manuale dei dati, controlla la performance dei processi con conseguente miglioramento degli stessi. Nelle aspettative degli esperti del settore, quindi, un buon
8. ERP già pronto per l’Industria 4.0 Con Internet of Things sta crescendo l’automatizzazione così come la mole di dati e informazioni che possono e devono essere gestiti. Gli esperti valutano che in futuro l’intera filiera Alimenti & Bevande sarà molto più connessa di oggi e pertanto fornirà ai produttori di alimenti informazioni sui dati di consumo in tempo reale, con vantaggi comprensibili per la pianificazione della produzione. La strada per la Smart Factory richiede però un’evoluzione consapevole e mirata e un’integrazione di tecnologie, processi e condizioni organizzative di base, perché non si può stravolgere tutto dall’oggi al domani. In altre parole la Smart Food Factory comincia con il gestionale giusto. Il sistema ERP manterrà il suo ruolo di colonna portante tecnico-informatica dell’azienda. Il gruppo CSB-System è il partner IT giusto per accompagnare le industrie del settore alimentare in questo percorso.
Referente Italia: • Dott. A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (Verona) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb-system.it
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LIBRI
Sentimenti da “assaggiare”
S
edersi a tavola ha sempre avuto molteplici significati: odiarsi, amarsi, tradirsi, arrabbiarsi, lasciarsi andare ai ricordi come alla felicità. È lì che le persone da sempre sviluppano ciò che le caratterizza in quel dato momento: le relazioni basate su sentimenti/ emozioni. In questo libro, Sentimenti da “assaggiare” Spezie segrete per superare lo sciapo del vivere quotidiano, di Enrico Smeraldi e Francesco Fresi, ne sono stati scelti tredici che, per eccesso o difetto, caratterizzano l’era moderna. Il volume propone ricette ed emozioni che partono dalle tradizioni classiche per lasciare al lettore la possibilità/ bisogno di cimentarsi in cucina con piatti, sentimenti/spezie nuovi. Tredici spezie per tredici sentimenti Parlare di sentimenti è come giocare in cucina, per questo il risultato dipenderà
dal giusto equilibrio tra gli elementi. I sentimenti possono interagire tra loro in modo sia positivo sia negativo, inducendone di nuovi se non mediati. L’esempio più classico è quello della gelosia: la sua assenza può oscurare il sentimento d’amore provato, facendoci risultare freddi, distaccati ed egocentrici, mentre, talvolta, quando appare eccessiva, la neghiamo vergognandocene, ci sentiamo in colpa. Tuttavia, è evidente a tutti come, se equilibrata, risulti “spezia” essenziale del processo di innamoramento… Ecco quindi alcuni degli abbinamenti proposti: pudore e papavero (il papavero piega la testa e le sue gote rosse mostrano timidezza e pudore; la ricetta scelta è la torta al limone ai semi di papavero); estasi e noce moscata; invidia e wasabi; amore di sé e vaniglia; tradimento e curry; gelosia e peperoncino (per la spezia gelosa la ricetta scelta è quella della “salsa caliente”).
Enrico Smeraldi, Francesco Fresi Sentimenti da “assaggiare”. Spezie segrete per superare lo sciapo del vivere quotidiano Imprimatur editore 144 pp. — € 13,00
Gli autori Francesco Fresi, psicoterapeuta, specializzato in selezione e formazione del personale, scrittore, neuropsicologo e ricercatore universitario, si occupa dei disturbi emotivi (psicologici e psichiatrici) in età adolescenziale e adulta, affrontandoli anche attraverso canali non didattici come la TV (Hotel Chiambretti), la radio (105 Kris and Kris), la carta stampata (Vero,VIP,TV, INfamiglia, Mabella) e non (All Running). Svolge la sua professione presso l’ospedale San Raffaele di Milano e il suo studio privato.
• www.francescofresi.it
Il wasabi, noto anche come ravanello giapponese (photo © www.bigodino.it).
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Enrico Smeraldi è professore emerito di psichiatria presso l’UniversitàVita-Salute San Raffaele di Milano. Ha scritto per le più prestigiose riviste internazionali di psichiatria ed è autore di numerose pubblicazioni scientifiche: I disturbi dell’ansia (1991), I disturbi dell’umore (I ed. 1993, II ed. 2010), Psichiatria clinica (1994), Competenze psichiatriche nella formazione medica (2004), Trattato Italiano di Psichiatria (I-II-III ed.) e la riproposizione commentata del Trattato di Psicopatologia di Eugene Minkowski (2003). Ha inoltre pubblicato con Sergio Zavoli I volti della mente. Viaggio nel pensiero ammalato (1977) e con Piero Coda L’Anima e la mente. Un tema a due voci (2010). Con Imprimatur ha scritto L’arte di essere nonni (2015) e Brevi lezioni di psichiatria (2016).
• www.enricosmeraldi.com
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