Premiata Salumeria Italiana 5-2018

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Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXX N. 5 Settembre-Ottobre 2018

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N. 5 Anno XXX Settembre-Ottobre 2018

€ 6,70 Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia Stampa

Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni 1732 1st Ave #27220 New York, NY 10128 Tel. 001 212 956-8566 E-mail: Stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia) Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CC 2018. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CC 2018.

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N. 5

In questo numero: Agenda

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Immagini

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Salumi & Co.

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Tendenze

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AttualitĂ

Prodotti di pregio con bollino nero: paura ingiustificata?

Sebastiano Corona

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Il food in rete

Social food

Elena Benedetti

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Aziende

I Franceschini si sono messi all’Opera

Elena Benedetti

32

Elogio alla lentezza, sorseggiando un buon nocino

Elena Benedetti

34

Speciale bresaola

Buon compleanno Consorzio!

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Antichissima origine della bresaola

Giovanni Ballarini

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Bresaola, naturalitĂ e legame col territorio

Riccardo Lagorio

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A pagina 88.

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Interviste

La Cinta senese secondo Daniele Baruffaldi

Veronica Fumarola

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Prodotti tipici

Heinrich Pöder e il segreto dello speck, anzi Bauernspeck

Riccardo Lagorio

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La salsiccia di Morteau e la salsiccia Montbéliard

Josette Baverez Blanco 60

Indagini

Italiani, nessuna paura del conto

Sebastiano Corona

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Sapori mediterranei

Latte di mandorla del Salento

Massimiliano Rella

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Tutto il biologico, oggi

L’orto di Venezia: agricoltura bio a Sant’Erasmo

Gian Omar Bison

72

Trent’anni di BIO, trent’anni di SANA

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Week-end

Le gite fuori porta e le fraschette

Nunzia Manicardi

78

Il gusto di camminare

Fino alla fine del mondo

Elena Simonini

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Eventi

Grande festa a FICO in ricordo di Massimo Zivieri

Rassegne

Terra Madre Salone del Gusto edizione 2018, il futuro è donna

Formaggio

Halloumi, il formaggio che mette d’accordo Greci e Turchi

Nunzia Manicardi

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Vastedda del Belice Dop il formaggio che fila

Riccardo Lagorio

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88 Gaia Borghi

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Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXX N. 5 Settembre-Ottobre 2018

€ 6,70

A pagina 71. In copertina: Bresaola della Valtellina Igp protagonista della tavola autunnale (photo © Massimiliano Rella).

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Vino

L’anima bianca di Montefalco

Federica Cornia

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Il vino di Sansego, piccolo paradiso di sabbia profumato d’origano

Riccardo Lagorio

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Cattunar e la Croazia slow, green e gourmet

Gian Omar Bison

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I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione: cucina thai

Laura Franchini

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Birra

La formula di B20, birrificio artigianale in Brussa

Gian Omar Bison

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Pane

La carta dei pani

Guido Guidi

124

Sono 180 grammi, lascio?

New Wave Hot Dogs

Giovanni Papalato 128

Tecnologie

Libri

Il gruppo VION si affida da anni al gestionale CSB-System

130

testo Saveris 2: affidabilità sempre e ovunque

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#Foodpeople Itinerari mediali e paesaggi gastronomici contemporanei

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A pagina 124.

A pagina 106.

A pagina 72.

www.premiatasalumeriaitaliana-online.com 8

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AGENDA

Modena e provincia C’è una nuova occasione per conoscere da vicino le storie, i personaggi e le peculiarità dell’Aceto Balsamico di Modena IGP e dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP: l’edizione 2018 di Acetaie Aperte, l’appuntamento di domenica 30 settembre con l’oro nero di Modena che i Consorzi di tutela dei due condimenti organizzano ogni anno nelle acetaie della provincia di Modena. Qualche anticipazione? La presenza dei barman dell’associazione Mixology che prepareranno cocktail a base di aceto balsamico. In ogni acetaia sono inoltre confermate le degustazioni di aceto balsamico insieme ai prodotti tipici del territorio e, in alcune di esse, nel pomeriggio di domenica, saranno presenti gli chef di Modena a Tavola che intratterranno i presenti con interessanti show cooking sull’impiego del prezioso condimento (photo © cmoj – stock.adobe.com). www.consorziobalsamico.it

Chiavenna (SO) Vi segnaliamo Dì de la Brisaola, l’evento dedicato a questo antico salume che si distingue dalla bresaola della Valtellina. L’appuntamento è per domenica 7 ottobre a Chiavenna, cittadina insignita dei titoli di Città Slow e bandiera arancione del Touring Club Italiano. La brisaola ha origini lontane: già nel 1400 si hanno notizie di produzione di carne salada, il cui nome deriva da brisa, ghiandola bovina molto salata. La si potrà assaporare lungo le vie del centro, negli angoli più suggestivi e caratteristici del borgo allestiti dai molti produttori locali (photo © facebook.com/ didelabrisaola). www.didelabrisaola.it

Modena Dopo il grande successo dello scorso anno, Club Excellence presenta la seconda edizione di Modena Champagne Experience, la più grande manifestazione italiana dedicata esclusivamente allo champagne in calendario presso il quartiere fieristico di ModenaFiere il 7 e 8 ottobre, dalle 10:00 alle 18:30. Tre gli obiettivi delle due giornate: degustare i prodotti di oltre 100 prestigiose maison (tra cui Louis Roederer, Bollinger, Bruno Paillard, Jacquesson, Mailly Grand Cru, Thiénot, Palmer & Co., Pannier, Encry, Paul Bara, Marguet, Larmandier-Bernier), scoprire le zone di produzione e partecipare alle master class, con “verticali” e degustazioni dedicate alla conoscenza di champagne d’eccellenza o annate speciali e territori di produzione (photo © svariophoto – stock.adobe.com). champagneexperience.it

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Milano Milano Golosa, la manifestazione ideata dal gastronauta DAVIDE PAOLINI, giunge quest’anno alla sua settima edizione. Milano Golosa è un viaggio tra centinaia di artigiani del gusto, piccole e medie aziende provenienti da tutta Italia che racconteranno ai visitatori materie prime di qualità, tra memoria e ricerca accompagnati da degustazioni, dibattiti e approfondimenti per parlare in particolare di osterie, innovazione e sostenibilità. L’evento è in programma dal 13 al 15 ottobre, al Palazzo del Ghiaccio di Milano, con i seguenti orari: sabato 13 ottobre dalle 12:00 alle 20:30, domenica 14 ottobre dalle 10:00 alle 20:30 e lunedì 15 ottobre dalle 9:00 alle 17:00 (in alto, la focaccia dolce di Claudio Gatti; photo © Milano Golosa). www.milanogolosa.it Instagram: @gastronauta_official

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Brisighella (RA) A Brisighella, uno dei borghi più belli d’Italia in provincia di Ravenna, paesaggio e buon cibo vanno da sempre a braccetto, anche attraverso i tanti eventi di carattere enogastronomico e di valorizzazione del territorio che nel corso dell’anno qui vengono organizzati. Domenica 21 ottobre, ad esempio, con la “Sagra della porchetta di Mora romagnola e Fiera delle biodiversità”, si celebra una razza suina autoctona che ha fatto di Brisighella la sua capitale. La Mora romagnola è una razza suina antica, di diretta derivazione dal progenitore di molti maiali europei, il Sus celticus, che arrivò da queste parti con le invasioni barbariche nel IV e V secolo d.C. adattandosi perfettamente a questi habitat. Per secoli ha rappresentato un fondamento dell’economia agricola rurale: basti pensare che le dimensioni dei boschi si misuravano con il numero di suini che erano in grado di nutrire. Per tutta la giornata nel paese saranno in mostra gli esemplari più significativi della razza e ci sarà la possibilità di degustarne i pregiati salumi e le saporite carni, sia nei ristoranti del paese che nello stand allestito per l’occasione. Visitare Brisighella, però, significa anche scoprire, oltre al borgo, una terra immersa in uno scenario naturale fatto di campi coltivati, secolari uliveti, allevamenti allo stato semibrado, aree protette e riserve naturali. A tal proposito, sempre nella giornata di domenica, sono in programma escursioni sulle colline con visita guidata tra gli olivi secolari e degustazione di olio DOP e prodotti tipici (in foto, salumi di Mora romagnola). www.brisighella.org

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Parigi L’appuntamento del 2018 con la fiera globale della filiera agroalimentare è senza alcun dubbio SIAL Paris, che si svolgerà dal 21 al 25 ottobre all’interno del quartiere fieristico di Paris Nord Villepinte. Primo network mondiale di saloni con una copertura geografica che va dall’Europa (Parigi) al Nord America (Montréal e Toronto), passando per il Sudamerica (San Paolo), Medio Oriente (Abu Dhabi) fino all’Asia (Shanghai), SIAL ha sviluppato, oltre ad una conoscenza molto approfondita di tutti gli operatori della filiera, anche un ruolo di osservatorio privilegiato e riconosciuto delle tendenze e delle innovazioni provenienti da tutto il mondo. Organizzata dal network SIAL Group, attraverso i suoi 8 saloni anche quest’anno SIAL Paris, con oltre 200 Paesi rappresentati, sarà fortemente orientata al business. Grande Distribuzione, centrali d’acquisto, hard discount, vendite al dettaglio, tutte le insegne saranno presenti all’appuntamento di Parigi che si appresta a confermare, ancora una volta, il ruolo strategico di questa manifestazione nel comparto mondiale dell’agroalimentare, richiamando nella capitale francese tutti gli operatori chiave, produttori e buyer. Sul sito www.sialparis.com è possibile acquistare in anticipo i biglietti di entrata, visualizzare l’elenco degli espositori per settore merceologico e organizzare al meglio le giornate di visita in fiera (photo © sial-network.com). www.sialparis.com

Cremona Dal 26 al 28 ottobre Cremona ospiterà la Festa del Salame, la seconda edizione della rassegna che lo scorso anno ha richiamato in città 30.000 visitatori. Nell’ultimo fine settimana di ottobre, dalle 9:00 alle 20:00, il centro storico ospiterà stand di produttori specializzati provenienti da tutta Italia (e non solo), consentendo al pubblico di gustare e acquistare salami e prodotti all’interno di un goloso percorso gastronomico. La manifestazione comprende anche un cartellone di appuntamenti pensati per valorizzare la storia e la cultura legate all’insaccato. Non mancheranno degustazioni guidate, una competizione fra agriturismi per l’elezione del miglior salame contadino e laboratori dedicati ai bambini. La festa è promossa dal Consorzio di tutela del Salame Cremona e organizzata da SGP Events. www.festadelsalamecremona.it

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Italia La Camminata tra gli olivi è in programma per domenica 28 ottobre: sono già oltre 120 in tutta Italia le città che hanno raccolto l’invito dell’Associazione Nazionale Città dell’Olio per proporre incontri, itinerari, degustazioni nella cornice di un evento che con la prima edizione dello scorso anno si è subito trasformato in un riconosciuto driver turistico a livello nazionale. Dal Trentino alla Sicilia dunque saranno tante le occasioni per camminare tra gli olivi, con itinerari dedicati a famiglie e appassionati alla scoperta del patrimonio olivicolo italiano, della storia ed della cultura dell’oro verde. Come nel 2017 ogni comune ha selezionato un tragitto unico, con un occhio di riguardo al principe della tavola mediterranea, l’olio extravergine, grande protagonista nell’Anno del Cibo Italiano, che ha visto anche il turismo enogastronomico aumentare in maniera consistente: i turisti del settore toccano infatti ormai il 30%, con una crescita di quasi il 10% rispetto al 2016 (fonte: Food Travel Monitor; photo © giadophoto – stock.adobe.com). www.camminatatragliolivi.it

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Consorzio Zampone e Cotechino Modena IGP e Massimo Bottura

LEZIONI DI GUSTO EUROPEO con le ricette 2018 degli chef di domani italiani e tedeschi a

8 Festa

dello Zampone e del Cotechino Modena IGP Modena 7-9 dicembre 2018

presenta Andrea Barbi Domenica 18 novembre 2018 Quartiere Fieristico – ModenaFiere Ore 16.00 • show cooking a Curiosa in fiera. Venerdì 7 dicembre 2018 Modena - Teatro Comunale Luciano Pavarotti

Con il patrocinio di:

Ore 21.00 • serata inaugurale con lotteria a cura di AMO, Associazione Malati Oncologici Onlus Carpi – ingresso su invito. Artisti: Duo Comico Dondarini Dal Fiume, Vito, Ivana Spagna. Sabato 8 dicembre 2018 Modena - Piazza Roma In diretta televisiva su TRC TV (Canale 15 digitale terrestre Emilia Romagna e Sky canale 827).

Comune di Modena

CAMPAGNA FINANZIATA CON IL CONTRIBUTO DELL’UNIONE EUROPEA

Ore 10.30 • lo chef Massimo Bottura e i giovani cuochi delle scuole alberghiere italiane e tedesche presentano le loro ricette a base di Zampone Modena IGP e Cotechino Modena IGP.

Ore 12.00 • degustazioni gratuite a cura di Piacere Modena. Ore 16.00 • degustazioni con ristoratori modenesi e intrattenimento con i Super Sound Stage. Domenica 9 dicembre 2018 Modena - Piazza Roma dalle ore 10.00 alle 20.00 • Consorzio Zampone e Cotechino Modena IGP in collaborazione con Piacere Modena GUSTI.A.MO La Solidarietà • Diretta tv • Attrazioni per grandi e bambini. Info e programma: tel 059 208672 • www.piaceremodena.it

Il programma completo è disponibile su www.modenaigp.it Seguici su Facebook @Consorzio Zampone e Cotechino Modena IGP


IMMAGINI

Solo carni da animali nati e allevati in Italia, solo tagli selezionati lavorati dal fresco, senza trippini, lardelli di gola, zero polifosfati e gluten free: è nata Opera, la mortadella prodotta dal Salumificio Franceschini di Castello di Serravalle (BO). Qui, sui colli bolognesi a due passi da Savigno, dal 1964 la famiglia Franceschini produce artigianalmente straordinari salumi e da oggi finalmente anche la mortadella, sinonimo gastronomico della città delle due Torri. «Lavoravamo da quattro anni a questo progetto e ora finalmente siamo pronti a partire» racconta Simone Franceschini. Il servizio di Elena Benedetti è a pagina 32.

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SALUMI & CO.

Illustrazioni e cucina YOSHIKO NODA, in arte Yocci, artista giapponese adottata dall’Italia, ha realizzato per CORRAINI EDIZIONI sei libri e una collezione di tovagliette gastronomiche, attraverso le quali narra col suo stile alcune ricette della tradizione gastronomica italiana, dal risotto ai canederli. Le potete acquistare su www.corraini.com (photo © corraini.com).

Texture e salumi Materiali, colori, superfici irregolari e texture sono essenziali per esaltare preparazioni e cibi. Anche i prodotti di salumeria diventano protagonisti su piatti e recipienti dalle forme imperfette che rimandano alla manifattura artigianale non in serie. Come quella della ceramista francese MARION GRAUX. Ogni suo oggetto è un piccolo capolavoro. La trovate a Parigi in alcune boutique della capitale francese e on-line su www.mariongraux.com (photo © instagram.com/mariongrauxpoterie).

Lettering su lavagna A volte basta poco per rinfrescare il look di una bottega di salumi e formaggi. Un modo economico e di sicuro effetto è creare uno spazio decorato con i cosiddetti lettering da lavagna, una vera e propria arte grafica che, attraverso testi dai caratteri molto stilizzati, cattura subito l’attenzione del cliente. Se poi il contenuto è una citazione o un aforisma, oggi di grande tendenza soprattutto sui social, sarete davvero moderni, come LEO GOMEZ, grafico di Tampa, Florida (photo © instagram.com/p/BV2F38kgS_v).

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Riserva del Fondatore 24 mesi. Le migliori cosce, pochissimo sale e due anni di riposo: un capolavoro destinato a soli intenditori.

L’armonia tra la dolcezza e gli intensi aromi scaturiti dai 24 mesi di stagionatura rende questo prosciutto unico nel panorama del Parma di Qualità .

GRUPPO

LANGHIRANESE PROSCIUTTI S.r.l. - Via A. De Gasperi, 1 - 43013 LANGHIRANO (PARMA) ITALIA - Tel. e Fax +39 0521 857162 www.langhiranese.it - e-mail: mail@leoncini.com


TENDENZE Patriottismo a tavola: l’origine italiana rassicura e stimola l’acquisto

Oltre il 25% dei prodotti alimentari venduti in super e ipermercati esibisce la sua italianità in etichetta: a rivelarlo è la terza edizione dell’Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy. Dietro a questi numeri non ci sono solo le norme che hanno introdotto l’indicazione obbligatoria dell’origine della materia prima per diversi alimenti — tra gli ultimi le conserve di pomodoro, per cui l’obbligo entrata in vigore dal 27 agosto 2018 — ma anche i valori di rassicurazione, di qualità e di gusto che gli Italiani riconoscono ai prodotti alimentari made in Italy e le scelte delle aziende di produzione di enfatizzare questi aspetti sulle etichette per comunicarli in modo più esplicito ai consumatori. Un mondo di prodotti tipici che continua a mietere successi: DOP e DOC vanno decisamente più veloci rispetto al 2016 (rispettivamente +6,9% e +8,1%), trainati dalle vendite di formaggi per il DOP e di vini e spumanti per il DOC. Continua l’espansione delle vendite di prodotti alimentari IGP e DOCG, con trend molto positivi (rispettivamente +7,8% e +8,7%). Il “motore” delle vendite sono i salumi IGP e i vini e gli spumanti DOCG. Dati interessanti emergono anche dall’analisi della presenza delle regioni italiane sulle etichette: il Trentino-Alto Adige si conferma la regione più valorizzata sulle confezioni, sia per numero di prodotti che per valore delle vendite. Ma è la Puglia che registra il più alto tasso di crescita rispetto al 2016 (+17,7%), seguita da Toscana e Piemonte (fonte: Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy; photo © sveta_zarzamora – stock.adobe.com).

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Senza Conservanti Senza Senza Glutine Glutine Con Con Sale Sale Marino Marino no

Strada Comunale del Cristo, 12/14 41014 Solignano di Castelvetro - MO - Italy Tel. +39 059 532007 - Fax +39 059 532038 www.bpprosciutti.it - www.suincom.it


Ismea: agroalimentare più forte dopo la crisi

Il made in Italy agroalimentare è una grande risorsa per il Paese: 61 miliardi di euro di valore aggiunto, 1,4 milioni di occupati, oltre 1 milione di imprese e 41 miliardi di euro di esportazioni. Sono i numeri che emergono dal Rapporto sulla competitività dell’agroalimentare italiano presentato a luglio da ISMEA alla presenza del ministro delle Politiche Agricole, Alimentari, Forestali e del Turismo GIAN MARCO CENTINAIO. «L’agroalimentare esce dal decennio di crisi con un ruolo più forte nell’economia italiana, dimostrando una grande tenuta economica e sociale nel corso della crisi e una buona capacità di agganciare la ripresa» ha sottolineato il direttore generale di ISMEA RAFFAELE BORRIELLO. «I segnali positivi sono stati numerosi: crescita della produttività del lavoro, ripresa degli investimenti, capacità di declinare la multifunzionalità e la qualità, con primati sul fronte dell’agricoltura biologica e delle indicazioni geografiche DOP e IGP; ottimo andamento delle esportazioni, specie di quelle tipiche del made in Italy, quali vino e prodotti trasformati ad alto valore aggiunto». Ma se l’agroalimentare italiano si è rafforzato nell’economia nazionale, a livello europeo mostra ancora segnali di debolezza. Il confronto con Paesi quali Francia, Germania e Spagna rileva un gap sfavorevole ancora elevato in termini di strutture aziendali, di efficienza, di tecnologia e produttività (fonte: ISMEA).

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ph: Franceschini Vincenzo

Da oltre 50 anni curiamo i nostri prodotti con grande amore. Selezioniamo solo le migliori carni di suini Italiani e le lavoriamo nel rispetto della tradizione.

FRANCESCHINI GINO & C. SRL Via dei Marmorari, 38 - 41057 Spilamberto (Mo) Tel. + 39 (0) 59784037 - Fax +39 (0) 59784075 - info@franceschinigino.it - www.franceschinigino.it


ATTUALITÀ

Prodotti di pregio con bollino nero: paura ingiustificata? Il made in Italy è davvero a rischio per volere dell’OMS? Cosa dobbiamo veramente temere della crociata delle Nazioni Unite contro i cibi che contribuiscono al diffondersi delle malattie non trasmissibili? Poco o nulla, forse, ma occorre stare vigili. Ci sono spinte importanti che, in nome della sintesi, rischiano di far entrare i nostri prodotti in un pericoloso tritacarne. Con grave danno economico e in assenza di vantaggio alcuno per il consumatore di Sebastiano Corona

È

successo di nuovo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità si esprime su un tema di sua competenza e scoppia la polemica. Non si comprende in realtà se l’OMS utilizzi un linguaggio poco chiaro o se si gridi allo scandalo in maniera puramente strumentale. Certe notizie si prestano per loro natura a diventare un caso, soprattutto quando vengono trasmesse in tono allarmistico. Accade tante volte che l’alimentare sia oggetto di controversie, talvolta per motivi di sicurezza o di salute, ma sempre più spesso per questioni di altra natura, non ultima quella economica e dei poteri che intorno ad essa si muovono. Quale che ne sia la ragione, è improbabile che i media si lascino sfuggire una notizia sul cibo, soprattutto se ha risvolti importanti. Lo fa però talvolta travisandone i reali contenuti, tal altra enfatizzando aspetti che nuocciono gravemente al comparto. L’ultima occasione è quella del giugno scorso quando, a seguito della pubblicazione on-line del documento Time to Deliver, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha presentato una serie di raccomandazioni in merito alla prevenzione di malattie non trasmissibili.

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I decessi da questo tipo di patologie, dovute alla combinazione di una serie di elementi negativi come uno scorretto stile di vita, un’alimentazione non adeguata, fattori genetici e comportamentali, sono, ogni anno, ben 41 milioni nel mondo. Rappresentano oggi il 71% delle cause di morte e annoverano tra i diretti responsabili diabete, tumori, malattie cardiovascolari, respiratorie, renali croniche, ictus, Alzheimer, osteoporosi, cataratta e molto altro ancora. L’incidenza, che ha davvero raggiunto livelli allarmanti, è ormai tale da aver superato le malattie trasmissibili. Per questo motivo, la più autorevole voce in ambito internazionale in tema di salute si è espressa in maniera preoccupata, predisponendo un documento in cui si esortano i Governi ad attuare misure per intervenire sullo stile di vita delle persone, soprattutto affinché intraprendano una dieta equilibrata, povera di sodio e sale, riducano il fumo e l’alcool e abitudini di sedentarietà. In quel fascicolo predisposto per la discussione del 27 settembre a New York, nel corso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, non ci sono indicazioni specifiche su quanto gli Stati

debbano nel concreto fare, né su quali prodotti intervenire. La richiesta è però quella di ipotizzare strumenti efficaci affinché i consumatori abbiamo modo di conoscere, per ogni singolo alimento, quali rischi esso può comportare. Ci sono effettivamente dei passaggi in cui vengono dati alcuni suggerimenti su metodi che scoraggino determinati consumi. Si ipotizzano tassazioni più elevate, riferimenti espliciti in etichetta o segni inequivocabili sul fatto che quell’alimento non sia del tutto salutare. Il fine è dunque quello di fare in modo che l’industria alimentare dia il suo contributo alla prevenzione e al controllo delle malattie non trasmissibili. L’OMS non può imporre coercitivamente agli Stati di adottare specifiche misure; tuttavia, suggerisce una serie di modalità utili allo scopo. Tra queste, la riduzione dell’impatto del marketing dei cibi poco sani e delle bevande non alcoliche per bambini, la promozione di prodotti alimentari coerenti con una dieta sana e la creazione di un ambiente affinché questa possa essere perseguita. Gli Stati dovrebbero altresì contribuire agli sforzi per migliorare l’accesso e

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Prosciutto crudo di Parma e Parmigiano Reggiano: due eccellenze italiane note in tutto il mondo (photo Š Marco Mayer – stock.adobe.com).

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Ci sono spinte importanti perché si introducano sistemi di semplificazione delle etichette che sull’altare della sintesi in comunicazione porranno sullo stesso piano prodotti altamente nocivi e altri dal grande valore nutrizionale. I formaggi, per esempio, per i loro contenuti di sale e grassi, sono da tempo nell’occhio del mirino e ai nostri non verrà fatto sconto alcuno. la convenienza nell’acquisto di farmaci e tecnologie per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili. Il passaggio che ha destato maggior polemica in Italia, però, è quello in cui si precisa che è necessario lavorare per ridurre l’uso di sale nell’industria alimentare. Da tempo infatti si ragiona a diversi livelli e in diversi Stati per rendere alcuni elementi di facile lettura al consumatore e garantire strumenti semplici ed efficaci affinché chiunque possa immediatamente comprendere se il prodotto che è in procinto di acquistare è salutare o meno. Tuttavia, quella sintesi, tanto necessaria quanto difficile da rendere, ha dato sinora risultati tutt’altro che edificanti, finendo — nei vari esperimenti fatti — per penalizzare alimenti di qualità e avvantaggiarne invece

altri di discutibile fattezza. Se non si considerano i prodotti nel loro apporto nutritivo complessivo ed inseriti in una dieta equilibrata, dove i consumi sono vari e moderati allo stesso tempo, è facile cadere nel tranello di credere che determinati alimenti o bevande, magari realizzati a seguito di sperimentazioni chimiche, siano più salutari di altri che da millenni fanno parte del panorama enogastronomico di Paesi come Italia, Francia o Spagna. Insomma, per citare un esempio ricorrente, con i criteri delle famigerate etichette a semaforo tanto care a certi Paesi, è possibile che la Coca Cola light risulti più sana di un’eccellenza come il Parmigiano Reggiano o di uno dei nostri prosciutti a denominazione. E questo fatto è oggettivamente inaccettabile.

Se non si considerano i prodotti nel loro apporto nutritivo complessivo ed inseriti in una dieta equilibrata, è facile cadere nel tranello di credere che determinati alimenti o bevande, magari realizzati a seguito di sperimentazioni chimiche, siano più salutari di altri che da millenni fanno parte del panorama enogastronomico di Italia, Francia o Spagna

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Allarmi e rassicurazioni: le polemiche non fanno mai bene Nel complesso l’OMS raccomanda la riformulazione e il ri-marketing del cibo contenente alti livelli di sale, zucchero e grassi saturi, ma lo propone prescindendo dalle qualità complessive del cibo in oggetto, dalle quantità assunte e dalle abitudini alimentari e di vita di ognuno. In più auspica — pur non avendo poteri reali di imporla — una tassazione simile a quella prevista per alcool e tabacco e per altre sostanze non salutari qualora vengano accertate le concentrazioni non sane. Nessun riferimento esplicito ai nostri prodotti di punta di cui tanto si è discusso negli scorsi mesi, eppure è facile immaginare che con questi parametri, che non lasciano spazio a valutazioni più ampie sul prodotto, le nostre specialità tipiche possano facilmente rientrare in una lista nera che non potrebbe che generare danni di immagine importanti e cali significativi dei consumi. E, soprattutto, senza che il consumatore ne abbia vantaggio alcuno. A seguito della polemica scoppiata a luglio in Italia dove molti organismi pubblici e privati, politici, rappresentanti delle imprese si sono espressi con grande preoccupazione, il dipartimento di nutrizione dell’OMS per la salute e lo sviluppo è intervenuto per bocca del suo direttore. FRANCESCO BRANCA ha voluto rassicurare gli operatori del settore. L’OMS infatti non criminalizza specifici alimenti, ma fornisce indicazioni e raccomandazioni per una dieta sana. Gli hanno fatto eco altre autorevoli voci del panorama produttivo nazionale, inizialmente molto allarmate per il documento dell’OMS. Non risulta infatti evidente che il Time to Deliver metta sotto accusa le eccellenze italiane, meno che mai alcune nello specifico, perché nessun prodotto è citato. Questo rimpallo di informazioni allarmistiche che per giorni, settimane, ha fatto passare l’idea che l’OMS condannasse i nostri prodotti, se da una parte ha generato un’alzata di scudi e la chiamata a rapporto degli Italiani in difesa del proprio cibo, dall’altra getta pur sempre un velo di negatività sul nostro patrimonio enogastronomico. Le polemiche, infatti, non fanno mai bene al comparto, nemmeno quando sono necessarie per smentire delle

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informazioni sbagliate. Quando si parla di cibo, insinuare il dubbio è facile e le conseguenze sono quasi sempre sproporzionate rispetto al fatto in sé. Si pensi a quanti scandali negli ultimi decenni, pur riguardando ambiti produttivi o geografici molto circoscritti, hanno avuto conseguenze nefaste su tutto il mercato di riferimento, senza distinzioni di sorta. Il sentire comune è condizionato da mille fattori e, quando vengono utilizzati toni allarmistici, gli effetti si fanno sempre sentire. A maggior ragione generare un caso quando il caso non esiste può essere un boomerang.

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buone ragioni per venire a SIAL Paris

1> Trovate le attrezzature necessarie alla vostra produzione 2> Scoprite nuovi Prodotti Alimentari Intermedi e ingredienti, soluzioni di subfornitura

3> Il 78% degli espositori svela delle novità (Fonte 2016) 4> 21 settori merceologici, dagli ingredienti alle attrezzature, tra cui l’Alternative Food… e ben altro ancora!

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Non c’è da stare tranquilli Le paure erano e sono tuttora fondate. È vero che i nostri prodotti, al contrario di quanto apparso inizialmente, non sono stati specificamente citati, ma la strada intrapresa a livello internazionale sembra ormai segnata da tempo. Occorre dunque essere vigili. Ci sono spinte importanti perché si introducano sistemi di semplificazione delle etichette che sull’altare della sintesi in comunicazione porranno sullo stesso piano prodotti altamente nocivi e altri dal grande valore nutrizionale. I formaggi, per esempio, per i loro contenuti di sale e grassi, sono già da tempo nell’occhio del mirino e ai nostri non verrà fatto sconto alcuno. Il rischio della penalizzazione di alcune specialità italiane è fortissimo e le stime sugli eventuali danni sono allarmanti. Se in Italia si può far conto di una cultura del cibo che permette al consumatore medio di valutare una serie di aspetti, all’estero — dove le nostre produzioni vivono una concorrenza importante e sono meno note — un’etichetta come quella a semaforo può essere deleteria e, paradossalmente, rischia di indirizzare l’acquirente verso cibi più scadenti da ogni punto di vista. A tutto questo contribuiscono le lobby che, ad ogni livello, in Europa quanto in altri Paesi, hanno tutto l’interesse a mettere in ombra le produzioni italiane a vantaggio di altre. È bene non sottovalutare tali spinte, né rinunciare all’idea di promuovere il made in Italy partendo dal suo valore, oltre che dalla storia, dall’identità e dal saper fare che rappresenta. Sebastiano Corona

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Per ulteriori informazioni: Saloni Internazionali Francesi S.r.l. Tel.: 02/43 43 53 27 Fax : 02/46 99 745 e-mail : adelpriore@salonifrancesi.it

Parigi L’appuntamento mondiale dell’innovazione alimentare

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Tante storie, una sola Favola.

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Delicata. Digeribile. Naturale. Da piĂš di 20 anni i salumieri e gli chef che vogliono conquistare i loro clienti con un prodotto di assoluta eccellenza sanno di poter contare sulla nostra “Favolaâ€?: la buona mortadella artigianale che tutti riconoscono prima dalla cotenna naturale legata a mano e poi dal gusto incredibilmente delicato. Ogni Favola è unica col suo timbro a fuoco: inimitabile fuori e inconfondibile dentro.


IL FOOD IN RETE

Social

di Elena

1. E-commerce salumiero Jamonprive è un negozio on-line che vende prosciutto iberico, serrano insieme ad altri salumi, olio e vini selezionati europei. Il loro modello d’impresa è quello del cosiddetto dropshipping: i prodotti arrivano al cliente direttamente dal fornitore. In questo modo si riducono i costi gestionali e di magazzino che l’azienda spagnola traduce in maggiori sconti alla clientela. Il portale in lingua italiana è accessibile al link www.jamonprive.it (photo © mateusz – stock.adobe.com).

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2. Idee per la tua bottega Si può girare il mondo andando alla ricerca degli esercizi commerciali più belli e suggestivi stando comodamente sul divano? La risposta è sì! Basta seguire The_Shopkeepers su Instagram (instagram.com/the_shopkeepers) e, insieme ad altri 100.000 followers, ecco che ci si lascia contaminare da idee e suggestioni tra caffetterie, antichi forni, salumerie e botteghe. Stupendo!

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food Benedetti

4. Campagna europea per valorizzare le produzioni di qualità

3. Panini Durini Conoscete Panini Durini? È un concept di ristorazione made in Italy nato nel 2011 che oggi conta 17 locali tra Milano e Brescia. La loro filosofia è usare solo prodotti freschi e gustosi, tipici della tradizione ma innovativi nel dare risposte ad un mercato sempre in evoluzione. Noi li seguiamo su Instagram al link instagram.com/paninidurini

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“Autentico Piacere Europeo – European Authentic Pleasure” (www.europeanauthenticpleasure.eu) è il nome del progetto di promozione dei salumi made in Italy in Italia e Germania cofinanziato dall’Unione Europea che si propone di valorizzare il settore della salumeria, aumentando il livello di riconoscimento delle denominazioni di qualità europee, facendo sì che il consumatore sia più consapevole della loro origine, tracciabilità e autenticità, del loro valore sul piano della sicurezza degli alimenti, della tradizione, degli aspetti nutrizionali e sanitari. Capofila del progetto è l’Istituto Valorizzazione Salumi Italiani con il Consorzio Cacciatore Italiano DOP, il Consorzio Mortadella Bologna IGP e il Consorzio Zampone e Cotechino Modena IGP.

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AZIENDE Il progetto del salumificio di Castello di Serravalle per la realizzazione di una mortadella come da tradizione bolognese ha preso il via

I Franceschini si sono messi all’Opera di Elena Benedetti

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iamo in località Castello di Serravalle, alle porte di Savigno, sui colli bolognesi. Qui dal 1964 la FAMIGLIA FRANCESCHINI produce salumi artigianali. E lo fa col proprio stile, come si faceva una volta, sia per la lavorazione che per la scelta delle carni migliori, anche se oggi c’è un’attenzione rigorosa al processo, al rispetto della qualità, che risponde agli standard Certiquality. Nel corso degli anni il Salumificio Franceschini ha saputo evolversi e crescere senza che ne venisse scalfita in

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alcun modo l’autenticità. Come quella che si ritrova assaggiando il salame, straordinario, apprezzato sul mercato italiano ed estero, oppure i prosciutti crudi di Parma, le pancette arrotolate, la salamella bolognese e la coppa di testa ed infine i cotti, cotechini e zamponi. Ma il mercato va ascoltato e il processo di lavorazione è un continuo sviluppare idee nuove. «Da quattro anni lavoravamo al progetto di una nostra mortadella — mi racconta SIMONE, terza generazione di Franceschini al timone dell’azienda bolognese — e finalmente

oggi siamo pronti a partire. Apparteniamo a questo territorio, riconosciuto storicamente come la patria della mortadella, da sempre amatissima dai bolognesi» prosegue Simone. Un salume aggiungiamo noi che, anche grazie allo sviluppo dell’industria di settore e al lavoro del Consorzio di tutela dell’IGP, è oggi apprezzato in tutto il mondo. «In passato la mortadella era prodotta anche dalle tantissime piccole botteghe salumiere nei retrobottega della città, con pochi mezzi e tanta abilità. Ecco, noi siamo andati a ricercare la tradizione,

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la passione di un tempo per fare una mortadella che garantisce tutti i profumi della nostra storia di bolognesi». Alla base della ricetta ci sono le carni di animali nati e allevati in Italia, solo tagli selezionati lavorati dal fresco, senza trippini, lardelli di gola, e la completa assenza di polifosfati e di glutine. Il nome scelto per la nuova nata è Opera, a voler raccontare l’operosità dei maestri salumieri. Opera è tonda, come questo salume artigianale e naturale. Opera rimanda allo zelo di chi svolge il proprio mestiere da sempre con passione e che di salumi se ne intende parecchio. Le pezzature in commercio da settembre sono 1 kg e 13-14 kg, rigorosamente in vescica. Elena Benedetti

Salumificio Franceschini Srl Via Valle del Samoggia 6927 40050 Castello di Serravalle (BO) Telefono: 051 6708010 Web: www.salumificiofranceschini.it www.mortadellaopera.it

La mortadella Opera del Salumificio Franceschini.

Franceschini fa la mortadella ma non si dimentica del salame Il Salumificio Franceschini aprì i battenti nel 1964, anno in cui venivano messi in produzione un migliaio di salami. Da allora la produzione annua ha superato i 100.000 kg tra salame Campagnolo, delicato, con lardello e con aglio, Crespone, salamella, zia ferrarese e strolghino, anche nella versione col tartufo. Franceschini è sinonimo di salami di qualità e questa linea di prodotti è e resterà sempre il fiore all’occhiello dell’azienda bolognese, che vanta la certificazione Certiquality e una presenza consolidata nelle più belle salumerie del Belpaese.

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Elogio alla lentezza, sorseggiando un buon nocino di Elena Benedetti

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Il Mallo ha saputo cogliere le tradizioni di un sapere famigliare, fatto di ricette tramandate nel tempo. Negli anni l’azienda ha dato corpo a prodotti innovativi e moderni che si adeguano ai nuovi stili di consumo. Tutto è avvenuto senza transigere dalla qualità, che coinvolge l’intero processo produttivo

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mmersi in una società i cui ritmi frenetici sono diventati la quotidianità per la maggior parte di noi, sempre a rincorrere impegni, appuntamenti, occasioni e sogni, consideriamo il tempo un lusso, una risorsa rara e dunque preziosa. Forse dovremmo davvero fermarci, abbassare la suoneria di smartphone e tablet e, semplicemente, rallentare. Assaporando l’attesa. Come quella che regola le stagioni e i suoi frutti, trasformando il mallo delle noci in un liquore profumatissimo. Perché anche qui si parte, è vero, dalla scelta delle materie prime migliori, ma poi è tutta una questione di tecnica, artigianalità, manualità e tanto tempo. Tempo che serve al mallo per macerare nell’alcool purissimo. Tempo per filtrarlo e aspettare ancora. Siamo andati a trovare GIOVANNA FRENO e la figlia ROBERTA PIRRONELLO alle porte di Maranello nella loro azienda

IL MALLO, la società modenese fondata nel 1984 da STEFANO FRENO. Fuori si sentono i rombi dei motori Ferrari F1 del vicino circuito di Fiorano e anche in azienda è tutto un correre. Ma per fortuna i distillati a riposo nelle botti seguono il loro ritmo, decisamente lento. Quali novità ha in serbo Il Mallo per i suoi clienti? «Stiamo lanciando proprio ora sul mercato il risultato di un bellissimo progetto intrapreso due anni fa con MASSIMO RIGHI di Whisky Antique di Formigine (MO), uno tra i massimi esperti e importatore di whisky, liquori rari e da collezione. Insieme a Massimo abbiamo messo a punto uno speciale affinamento del nostro nocino in botti di Rum Demerara e Barbados, dando così vita a due etichette dalla produzione limitata, che diventano a pieno titolo un prodotto da collezione» mi racconta Giovanna. «Il prodotto utilizzato in

Modena Fizz e Negroncino: come ti shakero il Sassolino e faccio incontrare il gin al nocino del Mallo Modena Fizz Ingredienti • 5 cl Sassolino Il Mallo • 3 cl succo di limone • 10 cl acqua tonica Scortese Preparazione Shakerare tutti gli ingredienti meno che la tonica e servire in un tumbler alto. Versare l’acqua tonica, miscelare e decorare con scorza di limone e una ciliegina sotto spirito.

Negroncino Ingredienti • 3 cl Bulldog London Dry Gin • 3 cl Aperol • 2 cl Nocino il Mallo • 1 lunga scorza arancia Preparazione Miscelato direttamente all’interno di un tumbler basso, decorare con scorza arancia.

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strano i tanti clienti ristoratori esteri che lo propongono nelle carte dei liquori e distillati di fine pasto» risponde Giovanna Freno. «Il nostro importatore statunitense, ad esempio, sta lavorando molto bene e sta aprendo il mercato con diversi stati degli USA».

In alto: le botti di rum nelle quali viene effettuato l’affinamento della nuova linea di nocini da collezione. In basso: Giovanna Freno e Roberta Pirronello negli uffici del Mallo, a Pozza di Maranello (MO). partenza è già invecchiato 2 anni, per poi avere un ulteriore affinamento di circa 10 mesi nelle botti dimesse di rum» sottolinea Roberta. «In questo modo il nocino acquista una morbidezza e una profumazione particolari». «All’assaggio spicca subito la differenza di questo nocino che si stacca nettamente dal classico» aggiunge Giovanna. A chi è destinata questa linea di nocini? «Certamente agli appassionati di nocino e di distillati che amano cogliere

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nel prodotto questa vena di rum» dice Giovanna. Qualche consiglio sulla degustazione? «Con del buon cioccolato e, nel caso di fumatori, con un sigaro o con la pipa» aggiunge Roberta. Il nocino si è aperto da tempo ai mercati esteri. Qual è la vostra percezione del suo sviluppo commerciale? «Il nocino sta iniziando ad essere conosciuto fuori confine e ciò lo dimo-

Cosa rende questo liquore così speciale? «Il nocino è da sempre nella memoria degli Italiani, è un liquore evocativo, che ha radici profonde nella tradizione domestica» sottolinea Roberta. «Alla degustazione risveglia emozioni che rimandano alla casa, alla famiglia. Nelle nostre terre era infatti buona abitudine fare il nocino in casa, in estate, per consumarlo nei mesi freddi dell’inverno». Elena Benedetti Nota A pagina 34 i due nuovi nocini da collezione realizzati da Il Mallo in collaborazione con Massimo Righi di Whisky Antique. Il Mallo Sas Via Maestri del Lavoro 40 41053 Pozza di Maranello (MO) Telefono: 0536 943212 E-mail: info@ilmallo.it Web: www.ilmallo.it

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SPECIALE BRESAOLA

Buon compleanno Consorzio! Il Consorzio di tutela Bresaola della Valtellina Igp compie 20 anni celebrando il salume amato da 42 milioni di Italiani. Nel 2017 cresciuti produzione (+2,4%) ed export (+1,2%)

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ipicità, tradizione, qualità, sicurezza e garanzia del marchio IGP: un connubio vincente che ha conquistato 42 milioni di Italiani. Continuano a crescere i consumi di Bresaola della Valtellina IGP (+45% dal 2000): un risultato che il Consorzio di tutela ha celebrato in occasione dei suoi 20 anni. Dal 23 maggio 1998, data dell’istituzione del Consorzio, il gradimento degli Italiani è infatti aumentato in modo costante ed

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esponenziale, elevando il salume da prodotto tipico a eccellenza di largo consumo, amato in Italia e all’estero. La ricorrenza è stata l’occasione ideale per conoscere meglio il lavoro svolto in questi anni in favore della promozione e della valorizzazione del prodotto e della soddisfazione del consumatore, nell’ottica della trasparenza. Anche il 2017 si è chiuso con un trend positivo dei volumi complessivi: la produzione totale registrata nello scorso

anno ammontava a circa 13.000 tonnellate di prodotto (pari a circa il 61% del totale di bresaola prodotta dalle aziende certificate), con una crescita di consumo del 2,4% rispetto al 2016. Il consumo in vaschetta copre quasi la metà della produzione, confermandosi la tendenza emergente. In totale, i produttori hanno avviato all’IGP 34.000 tonnellate di carne bovina, oltre il 90% dei quali di taglio punta d’anca. «Questi numeri confermano che 20 anni fa è

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A sinistra e in alto: bresaola della Valtellina Igp. Oggi 8 Italiani su 10 la consumano abitualmente e il mercato ha ulteriori margini di sviluppo in Italia e all’estero. questo prodotto un ambasciatore della qualità valtellinese, soprattutto in ambito extra-UE, è una priorità dei produttori». Export e turismo: una storia d’amore La bresaola IGP piace in Europa (Francia, Germania, UK, Spagna, Danimarca e Svezia tra i principali mercati di sbocco) ma anche in Canada, Svizzera, Emirati Arabi, Qatar, Armenia, Macedonia, e altri ancora fino ad Hong Kong. Anche il turismo gastronomico riveste un ruolo fondamentale: le presenze straniere in Valtellina sono quasi raddoppiate negli ultimi 10 anni, con un impatto direttamente proporzionale sull’export di bresaola (da 594.000 presenze nel 2006 a 960.000 nel 2017; fonte dati: Polo dell’Innovazione della Valtellina e Valtellina Turismo Consorzio Turistico).

stata fatta la scelta giusta» ha dichiarato soddisfatto FRANCO MORO, presidente del Consorzio. «Col nostro disciplinare, certificato dal marchio IGP, siamo riusciti a perpetuare passione, amore per il territorio e a comunicarlo con trasparenza verso il consumatore. E ci sono enormi margini di sviluppo, specie fuori dall’Italia. L’export oggi rappresenta oltre il 9% del totale (+1,2% rispetto al 2016) e la percentuale tenderà a crescere: attivare nuovi sbocchi e rendere

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Ferraresi: il salume light amato e “condiviso” dai Millennials Secondo un’indagine condotta dal CENSIS, tra i Millennials si registra il picco dei consumatori abituali del comparto, il 67%. Secondo MAURO FERRARESI, sociologo dei consumi e docente allo IULM, questo è il segno di come la Bresaola della Valtellina IGP abbia saputo cavalcare i trend del nostro tempo e conquistare le preferenze degli Italiani. I Millennials amano un cibo salutare, light e bello anche da fotografare e condividere. Abituati a navigare e consultare in rete

le fonti della propria informazione, rivolgono grande attenzione alle proprietà salutari e nutrizionali degli alimenti e la bresaola della Valtellina, per le sue peculiarità, è in grado di competere su tutti questi fronti. In più, è un prodotto tipico, espressione di una antica tradizione e di un territorio con cui si identifica; è l’unico salume di manzo garantito dal marchio IGP apprezzato anche nel contesto di culture e religioni diverse. Giampietro: ideale per sportivi, bambini e over 65 L’aspetto nutrizionale è un altro degli elementi di successo della Bresaola della Valtellina IGP, che può essere inserita in una dieta equilibrata anche per chi ha particolari esigenze. «La bresaola della Valtellina è un salume povero di grassi ma nutrizionalmente bilanciato perché ricco di proteine, sali minerali e vitamine» afferma MICHELANGELO GIAMPIETRO, medico specialista in Scienza dell’Alimentazione e in Medicina dello Sport e docente di Alimentazione, nutrizione e idratazione presso la Scuola dello Sport CONI Roma. «La sua alta digeribilità la rende ideale per una dieta ipocalorica e per chi ama la leggerezza senza rinunciare al gusto. Perfetto per sportivi, bambini e per gli over 65. Inoltre, non tutti sanno che è una buona fonte di triptofano, l’amminoacido essenziale che produce serotonina, contribuendo al miglioramento di umore, concentrazione e memoria».

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Il consumo di bresaola della Valtellina Igp in vaschetta copre quasi la metà della produzione complessiva. Consorzio di tutela: un ruolo in evoluzione Il successo della Bresaola della Valtellina IGP è legato indissolubilmente all’attività svolta dall’omonimo Consorzio di tutela. Costituitosi il 23 maggio 1998, e riconosciuto dal MIPAAF con Decreto Ministeriale nel 2004, il Consorzio ha seguito il complesso e rigoroso iter di attuazione dell’Indicazione Geografica Protetta ed è nato con l’obiettivo di promuovere e valorizzare, vigilare sulla denominazione e sul prodotto, tutelando produttori e consumatori. Il Consorzio opera in sintonia col territorio tipico di produzione: è infatti inserito all’interno della proposta territoriale, agroalimentare e turistica, a supporto dei produttori, dislocati nella provincia di Sondrio. Nel corso di questi 20 anni, il suo ruolo è cresciuto, abbracciando competenze sempre più

ampie, di pari passo con l’incremento di notorietà del salume, promuovendo con iniziative a tutto tondo il valore del prodotto, proteggendolo da abusi, atti di concorrenza sleale, contraffazioni e uso improprio della denominazione tutelata. Inoltre, offre un servizio di formazione e aggiornamento continuo alle aziende, cura le relazioni con le istituzioni e gestisce le proposte di modifica al Disciplinare. Igp, garanzia di qualità e made In Italy Ogni produttore ha una ricetta segreta che rende unico il suo prodotto, ma c’è una caratteristica comune: l’identificazione europea di qualità. Dal 1996 la vera bresaola della Valtellina è garantita dall’IGP, utilizzata esclusivamente dalle aziende certificate della provincia di Sondrio, che si attengono al rigoroso

In vent’anni, da quando è nato il Consorzio di tutela, i consumi di bresaola della Valtellina sono aumentati del 45%. «Orgogliosi di questo traguardo» dichiara il presidente del Consorzio di tutela Franco Moro, che aggiunge «la bresaola è un volano per il territorio e ambasciatore della qualità valtellinese, con enormi margini di sviluppo in Italia e all’estero»

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Disciplinare di produzione. Solo il prodotto stagionato che supera i controlli chimici, sensoriali e merceologici previsti dal Disciplinare può essere messo in commercio contrassegnato con l’IGP. Il documento ufficiale, che si compone di 8 articoli (denominazione, zona di produzione, materie prime, metodo di elaborazione, stagionatura, caratteristiche, controlli, designazione e presentazione), individua le caratteristiche di composizione e di lavorazione, col compito di tutelare l’identità e la tipicità artigianale del prodotto, anche nei processi di produzione su scala industriale. Il controllo è realizzato a più livelli: quello svolto dalle autorità sanitarie, l’autocontrollo del produttore e il controllo dell’ente terzo di certificazione e sorveglianza indipendente. Se non vengono rispettati tutti i requisiti previsti, la bresaola non può essere messa in commercio con la denominazione Bresaola della Valtellina IGP, che oggi rappresenta un’eccellenza della tradizione gastronomica italiana, contribuendo al prestigio del made in Italy in tutto il mondo. Innovazione al servizio della tradizione: l’intervento umano è imprescindibile La bresaola della Valtellina ha saputo evolversi, adeguandosi alle esigenze moderne. L’avvento delle nuove tecnologie ha contribuito al miglioramento delle tecniche di produzione, innalzando ai massimi livelli gli standard qualitativi e igienico-sanitari, ma rispettando comunque l’importanza dell’intervento umano, che è l’elemento imprescindibile. Il Disciplinare garantisce, infatti, l’identità del prodotto che sintetizza tradizione e innovazione, ambiente e saper fare. «La capacità di scegliere la materia prima migliore, la sapienza nel ricreare i gesti della tradizione, la pazienza di aspettare la giusta stagionatura: la Bresaola della Valtellina IGP si produce così» specifica Franco Moro. «La storia di questo salume è frutto di secoli di memoria e gesti dell’uomo tramandati nei secoli, di generazione in generazione, che oggi continuano ad essere il valore aggiunto del prodotto». Nota Photo © consorziobresaola.inc-press.com

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Antichissima origine della bresaola di Giovanni Ballarini

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no dei salumi che oggi sta avendo maggior successo nella gastronomia nazionale e internazionale è senza dubbio la bresaola. Secondo quanto stabilito nel Disciplinare dell’Indicazione Geografica Protetta che ne tutela la metodologia produttiva, la bresaola (a volte detta anche brisaola) è la carne di coscia di bovino opportunamente salata e stagionata. Le prime testimonianze letterarie sulla sua produzione risalgono al XV secolo, ma l’origine del salume è senz’altro molto più antica. Almeno fino ai primi decenni del XIX secolo veniva realizzata a livello familiare, dopo di che la produzione divenne artigianale. A partire dal 1930, complice lo sviluppo

del turismo alpino che fece conoscere il prodotto e l’ampliamento della produzione in vari centri della Valtellina, si assistette ad una sua progressiva diffusione prima nell’alta Lombardia, poi, dagli anni Sessanta, in tutta Italia e in Svizzera. Nonostante la sua notorietà, tuttavia, l’origine e il significato della denominazione “bresaola” non sono ancora stati completamente chiariti. Termine d’incerta derivazione L’etimologia del termine bresaola è stata analizzata da GUIDO SCARAMELLINI in una pubblicazione di qualche tempo fa a cura dell’Accademia Italiana della Cucina1. Partendo dal detto presente in Valchiavenna “salaa come brisa”, rife-

rito alla carne molto salata, si vorrebbe accostare l’etimo “bresaola” a quello di “brisa” della vicina Svizzera, attribuito ad una ricotta condita con sale e pepe. Un interessante riferimento che, tuttavia, non spiega molto. Secondo altri, riferisce sempre Scaramellini, bisogna muovere da un tardo latino brasaula, riduzione di brasatula, che significherebbe “carne trattata alla bracia”, dal germanico brasa, cioè bracia. Ma la brasa (e qui siamo in pieno accordo con Scaramellini) potrebbe trovare giustificazione solo nell’affumicatura della bresaola, peraltro non obbligatoria, non certo nell’essiccazione, che viene eseguita tradizionalmente in aria libera. CARLO CANTONI2, rifacendosi alle

Bresaola (photo © Silvia Poli, www.silviapoli.it).

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precedenti etimologie, ricorda che il nome di questo salume potrebbe derivare dall’espressione “salè come brisa”, per l’uso che un tempo si faceva del sale nella conservazione e per il fatto che, in Valchiavenna, brisa indicava una ghiandola dei bovini fortemente salata. Oppure al termine brasa (che in dialetto significa “brace”), perché l’asciugamento del prodotto avveniva in locali riscaldati da bracieri alimentati con carbone di legna di abete e bacche di ginepro, timo e foglie d’alloro. Sullo stesso piano è anche un altro articolo più recente del professor Cantoni3. Un etimo antichissimo Con un esame anche solo superficiale dell’etimo bresaola è già possibile individuare due componenti principali: bre e sal, oltre alla parte finale della parola (l’uscita della voce) che sembra corrispondere ad una abula. Sull’etimo sal non pare vi possa essere molto da discutere: als, alos in greco, e sal, salis in latino, significano sia sale che mare. Il fatto che il sale fosse oggetto di ampi commerci in tutta l’area europea giustifica un’unicità di denominazione, a partire dai tempi più remoti. Che una carne salata abbia una denominazione che contenda l’etimo als-sal non deve quindi stupire e, sotto certi aspetti, può indurre a pensare che si tratti di una denominazione antica, forse antichissima. Il problema sta quindi nell’etimo bre o forse bri, e qui è certamente utile rifarsi a quanto discusso da GAETANO FORNI4 per quanto riguarda i cervidi, che oggi si stima siano stati i primi grandi ruminanti cacciati e addomesticati in Italia settentrionale. Infatti, come afferma MAESTRELLI5, la denominazione dei cervidi è apparentata con il tema indoeuropeo b(h)re/ont, diffuso dal Mediterraneo al mar Baltico. A questo proposito, oltre a Brindisi (città del cervo, da brenda, “cervo” in messapico, antico dialetto dell’Italia meridionale), si può citare il norvegese brunde (renna), lo svedese brinde (alce), e anche l’italiano (b)renna, senza entrare ulteriormente nei dettagli del rapporto tra questo etimo e quello del fulmine e/o fuoco (dal greco bronte al tedesco brand, brennen), utilizzati per indicare le radure nelle quali i grandi ruminanti trovavano pascolo. A quest’ultimo significato, radure create dal fuoco, si collegano diversi toponimi (il nostro

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italiano brenta) e, per sineddoche, termini indicanti contenitori di acqua o altri liquidi (ad esempio brenta). Dall’animale ai suoi prodotti il passaggio di denominazione è facile. ALESSIO6 ha segnalato che la denominazione originaria di cervo (bre) è connessa con il nome di formaggi tipo sbrinz (lombardo), brenza (italiano antico), brânza (rumeno), primsen (tedesco), evidentemente prodotti, all’origine, con latte di cerva. In modo analogo, secondo ALESSIO, il termine scamorza sarebbe da riferire ad un formaggio prodotto con il latte di camoscio, animale affine al cervo. Come fa notare FORNI4, sembra ovvio che il termine significante bruciare sia derivato da quello che indica il fulmine, fonte di origine del fuoco. Da bruciare è derivata la denominazione degli animali (in primo luogo il cervo) e delle piante, il cui sviluppo era incrementato dalla radurazione col fuoco. Diversi altri autori (MAESTRELLI5; BUCK7; POKORNY8) aggiungono che alcuni termini affini, connessi con il significato di cervo (latino cervus) sono all’origine di denominazioni significanti “capra”, “vacca”, ecc… E questo mostra che, almeno in Europa, l’allevamento dei cervidi ha preceduto quello degli ovicaprini e dei bovini. All’allevamento brado dei cervidi, anche senza arrivare ad una domesticazione vera e propria, si devono porre i primordi di diverse tecniche che vanno dal disboscare al cavalcare e soprattutto al traino. Non dimentichiamo, infatti, l’uso rimasto a lungo delle slitte trainate da cerve e renne. Altrettanto importanti furono, in un lontano passato, le tecniche di conservazione e miglioramento degli alimenti. Abbiamo già indicato quella dell’uso del latte delle cerve nella produzione di formaggi, certamente preceduta dall’impiego della carne di questi animali. A buona ragione si deve concludere che, almeno nell’Europa continentale e soprattutto nei territori alpini e prealpini, una carne importante, se non “la” carne per antonomasia, sia stata quella di cervo (bre), anche come termine emblematico (la parte per il tutto) di ogni carne di ruminante di medie e grandi dimensioni. Senza entrare in altri approfondimenti come sarebbero quelli della presenza del cervo nella cultura nuragica sarda (ben documentata dai bronzetti), oppure il fatto che in tempi

preistorici, nelle steppe asiatiche (lo documentano le scoperte nelle tombe di notabili), i cavalli erano adornati con simulacri di corna, da quanto esposto è facile concludere che i dati paleolinguistici indicano chiaramente che dai due etimi bre e sal deriva il termine bresaola con il significato di “(carne di) cervo salata”. Un’etimologia che riconduce a una tecnica antichissima La salagione delle carni, prima di pesci e poi di altri animali, è una tecnica antichissima, scoperta forse casualmente per il pesce di mare e poi passata alle carni. Non è certamente un caso se l’etimo italiano di salame, che significa “pesce salato”, sia passato ad indicare anche la carne salata, soprattutto di maiale. La tecnica della conservazione tramite salagione degli alimenti si è poi diffusa a poco a poco lungo le vie del sale che dal mare percorrevano l’Europa, interessando anche carni di specie animali diverse. Soprattutto nell’Europa continentale la salatura delle carni, spesso associata a quella dell’affumicatura, adottata anche per risparmiare il “prezioso” sale, è stata applicata inizialmente alle carni selvatiche per poi passare alle carni di altri animali, ad esempio il maiale, come è avvenuto in pianura padana, dove è attestata, sia pure indirettamente, almeno 500 anni prima dell’era corrente. In un lontano passato la salatura delle carni di animali che non avevano un preminente destino alimentare, bensì di lavoro (come il cavallo e soprattutto i bovini), era quasi inesistente. Infatti i bovini erano utilizzati per il lavoro nei campi e il traino, lento, dei carichi pesanti; al massimo dalle femmine si ricavava il poco latte che potevano dare nel periodo primaverile, dopo il parto e lo svezzamento del vitello. Animali da latte erano invece le capre e le pecore e da carne soprattutto il maiale. È tuttavia facile intuire che, quando i bovini aumentarono di numero, e soprattutto aumentò la disponibilità di giovani femmine (scottone e manzarde), la tecnica di conservazione e di valorizzazione gastronomica della carne, tramite salatura e stagionatura, dal cervo e da altri ruminanti selvatici sia stata trasferita alle carni di bovino. Lo stesso tipo di trasferimento è avvenuto molte altre volte e per la conservazione delle carni: ricordiamo

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Fagottini di bresaola ripieni di rucola, pinoli, crema di balsamico e Parmigiano Reggiano (photo © kab-vision – stock.adobe.com). l’esempio di un altro animale, il cinghiale selvatico, quando le tecniche di conservazione della coscia (prosciutto) sono state trasferite al maiale domestico. L’indicata origine etimologica del termine bresaola pone quindi una serie di nuovi interrogativi o, se si vuole, di nuove piste di ricerca che potrebbero essere molto utili per una successiva valorizzazione del prodotto. Qual è stato, ad esempio, il ruolo della posizione geografica della Valtellina e della Valchiavenna (e delle loro comunicazioni tra il Mediterraneo e l’Europa centrale), anche come valli di passaggio di una via del sale, nello sviluppo della bresaola? Quando e come è avvenuto il passaggio, nella preparazione della bresaola, dall’uso di carne selvatica (cervo e altri grandi ruminanti selvatici e predomestici) a quello di carne domestica di bovini allevati allo stato brado? Quali rapporti vi sono tra la bresaola e altre carni salate di ruminanti, come il violin (FANTONI9) o la spàleta di capra, anche nell’ambito della “carne secca” o delle carni salate ed essiccate dell’arco alpino? Durante un lunghissimo periodo, dalla preistoria fin quasi ai nostri giorni, vi è un inspiegabile silenzio sulla bresaola:

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non sarà che la produzione, partendo da animali selvatici (i cervi e altri grandi ruminanti riserva delle classi abbienti e dominanti), avvenisse prevalentemente come un’appendice ad una caccia di frodo sulla quale era bene tacere? Quale collegamento vi è tra l’attuale constatazione che le carni migliori per produrre la bresaola sono quelle della giovane femmina (scottona e manzarda) e la domesticazione delle femmine di cervo, dalle quali le popolazioni alpine hanno ottenuto il primo latte animale? Questi e altri interrogativi dimostrano come la storia della bresaola possa indicarci nuove strade, pur sempre solidamente ancorate al passato. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma Note e bibliografia 1. AA.VV., Bresaola della Valtellina, Atti del Convegno svoltosi a Tirano (SO) il 28 settembre 1997, Accademia Italiana della Cucina, Milano, 1998. 2. CANTONI C., Le bresaole, origini e caratteristiche, PREMIATA SALUMERIA ITALIANA, n. 3/2010, p. 11. 3. CANTONI C., Salato come… una

bresaola, PREMIATA SALUMERIA ITALIANA, n. 5/2016, pp. 108-110. 4. FORNI G., Agli albori dell’agricoltura. Origine ed evoluzione fino agli Etruschi e Italici, Edizioni Reda, 1990. 5. MAESTRELLI (1976), citato da FORNI G., Agli albori dell’agricoltura. 6. ALESSIO (1968), citato da FORNI G., Agli albori dell’agricoltura. 7. BUCK (1949), citato da FORNI G., Agli albori dell’agricoltura. 8. POKORNY (1949-1950), citato da FORNI G., Agli albori dell’agricoltura. 9. FANTONI G. (1984), Il violino, in INSOR, Gastronomia e società, Franco Angeli, Milano, 1984. 10. BALLARINI G., L’etimologia documenta un’antichissima origine della bresaola, PREMIATA SALUMERIA ITALIANA n. 5/1999, p. 18. 11. BALLARINI G., Parole a fette. Nomi e soprannomi dei salumi italiani, TLC, Colorno, Parma, 2001. 12. MENON V., Bresaola di manzo della Valtellina, PREMIATA SALUMERIA ITALIANA, n. 5/1997, p. 21. 13. MONTANARI G., Bresaola e salumi equini, quando il gusto incontra la salute, in PREMIATA SALUMERIA ITALIANA n. 3/2010, p. 24.

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La Sincera, prodotta utilizzando materie prime selezionate e carne italiana aè ideale per chi esige una qualità altissima, a, pur coltivando gusto e bontà .

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Bresaola, naturalità e legame col territorio di Riccardo Lagorio

B

resaola e natura, un binomio che associa la necessità di essiccare la carne prima che deperisca per differiti consumi. Le sorelle minori della bresaola, la slinzega e la bergna, sono tuttora presenti nei panieri delle vallate alpine dove questa pratica è il ricordo più evidente di un’economia di sussistenza. Entrambe vengono prodotte con i ritagli di carne magra, bovina la prima e ovina l’altra, fatti stagionare per qualche tempo dopo avere subito la marinatura in spezie odorose. La slinzega si presenta sempre stesa, la bergna talvolta avvolta intorno a

rami di nocciolo, brandelli facilmente trasportabili. Ritagli che si destinavano ad un consumo differito nel tempo, spesso durante le transumanze che hanno sempre caratterizzato anche questo angolo di penisola. Ricordare questi due prodotti di una salumeria remota e altrettanto composita quanto quella attuale permette di interpretare meglio le offerte presenti sul mercato legate, come vorrebbe la bresaola, alla natura. Siamo andati in due valli alpine alla ricerca di bresaole bovine e ovine, cercando di riscoprirne la naturalità e il legame con il territorio.

Lüch da Ciampidel, una bresaola di spiazzante bontà È un maso storico in posizione idilliaca LÜCH DA CIAMPIDEL (via Ciampidel Str. 31, 39036 San Cassiano, Bolzano; telefono: 334 8223922, e-mail: info@ ciampidel.com, www.ciampidel.com), ai piedi del massiccio Lavarella a 1.514 metri d’altitudine nella frazione di San Cassiano, in Val Badia. Da qualche anno la gestione è passata nelle giovani mani di CHRISTIAN AGREITER, con l’aiuto dei genitori VITO e MANUELA, dopo apprendistati ad Augusta, in Germania, e a San Cassiano. I vitelli crescono in un ambiente salubre, allevati grazie al latte

La carne del maso Lüch da Ciampidel.

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delle madri e si nutrono di erba e fieno provenienti dai prati montani. «Le razze che alleviamo sono la Simmenthal e la Blu belga, due razze da carne resistenti ai nostri climi». Queste condizioni e l’alimentazione arricchita con semi di lino conferiscono alla carne un sapore inconfondibile. La carne è disponibile nella bottega del maso e può anche essere acquistata tagliata, divisa e confezionata sotto vuoto. Un pratico frigorifero dispenser posto in una capanna di legno poco distante dal maso consente di acquistare i prodotti 24 ore al giorno. Gli animali vengono macellati a San Cassiano e, oltre ai tagli di carne, opportunamente frollata da 4 a 10 settimane, nello spaccio sono in vendita piatti pronti come il gulasch, il ragù o la salsa d’arrosto (da ossa e nervetti sobbolliti per almeno due giorni). Tra i salumi (nell’azienda si allevano anche suini), la bresaola spiazza per bontà. Carne rossa e magra, al taglio leggermente profumata di spezie, ma sapida di carne matura. Agricola Maroni: la bresaola di Bergamasca è realtà Destini incrociati. SILVESTRO MARONI e VANNI FORCHINI si conoscono da una vita: il primo panettiere di fronte alla macelleria dell’altro. Poi la vita decide di separarli per un breve corso e farli incontrare di nuovo, dopo che Silvestro aveva deciso di diventare pastore. Nell’allevamento solo pecore di razza Bergamasca, cresciute libere tutto l’anno solo con erba: in estate a Malga Vodala di Spiazzi di Gromo, in Val Seriana; d’inverno nella pianura tra Brescia e Bergamo. Scocca la scintilla al primo incontro, quando si capisce che la vendita di carne e salumi è più profittevole della vendita del capo vivo. E l’esperienza di Vanni cade a fagiolo. Nascono i primi violini, anche disossati, con avanzo della punta d’anca: 700 grammi che, stagionati, potrebbero diventare la metà e quindi poco commerciabili. Così l’astuzia del norcino marita due punte d’anca, ottenendo un’unica fetta grande e magrissima. La punta d’anca è mantenuta in concia di sale, rosmarino, ginepro, aglio e alloro per 10 giorni, poi avviene l’assemblaggio e una prima legatura cui segue l’insacco in rete rinforzata per

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In alto: Christian Agreiter. In basso: bresaola di pecora gigante Bergamasca dell’azienda agricola Maroni stagionata da 60 a 90 giorni con sale, rosmarino, alloro, ginepro e aglio. chiudere l’eventuale ingresso d’aria. Dolce e fragrante, la bresaola di pecora è oggi realtà (Agricola Maroni, via Panoramica 760, 24060 Ranzanico,

Bergamo; telefono: 342 0550382, e-mail: info@agricolamaroni.it, www. agricolamaroni.it). Riccardo Lagorio

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Dalla Cooperativa Allevatori Sammarinesi una bresaola 100% made in San Marino Nel 1980 a San Marino l’agricoltura viveva un momento di fermento e sotto le tre torri ci si andava organizzando per riordinare un comparto che per alcuni decenni era stato trascurato, dato che lo sviluppo della piccola repubblica aveva privilegiato altri aspetti del settore produttivo. Con indubbia dote di lungimiranza veniva fondata allora la Cooperativa Allevatori Sammarinesi, al fine di ostacolare l’ingresso delle carni d’importazione a basso costo, ma soprattutto «per eliminare ogni intermediazione e ripristinare il ciclo naturale dal produttore al consumatore», racconta al nostro collaboratore Riccardo Lagorio Edoardo Angelini, direttore della cooperativa (si veda in proposito l’articolo “Cooperativa Allevatori Sammarinesi: lungimiranza al servizio del consumatore” su Eurocarni n. 10/2018, pagina 110). «La serietà nel processo di allevamento e i continui severi controlli igienico-alimentari effettuati dagli uffici competenti, per mezzo di cinque persone afferenti al servizio veterinario, hanno permesso di esibire il marchio di Carne Bovina Pregiata e Garantita già dal 1995», aggiunge Angelini. Tra le importanti novità che hanno contraddistinto negli ultimi mesi le attività della cooperativa, oltre alla rintracciabilità elettronica (il consumatore che acquista la carne presso un punto vendita autorizzato riceve tutte le informazioni relative all’animale da cui la carne proviene), c’è senza dubbio la realizzazione della bresaola. La bresaola elaborata dalla cooperativa è a “km 0” in quanto ottenuta da animali nati, allevati, macellati e lavorati nella Repubblica di San Marino. Ogni pezzo di bresaola è certificato e presenta la matricola del lotto, la provenienza, la data di nascita e di macellazione. La tracciabilità della carne viene garantita da un progetto unico in Europa realizzato da BovinMarche: collegandosi al sito bovinmarche.it si può verificare l’effettiva provenienza della carne. La presentazione del prodotto al grande pubblico è avvenuta lo scorso giugno presso la sede del Consorzio dei Vini di San Marino, con un aperitivo a base di bresaola proposta da sola e in diverse modalità e abbinamenti gustosi: in mousse con ricotta e panna fresca, classica con pan carré, rucola e grana, in agrodolce con ricotta e miele, in wrap, con piadina, rucola e formaggio fresco. Noi suggeriamo di accompagnarla al Briza, lo spumante rosé da Pinot nero e Chardonnay, ultimo nato dei vini sammarinesi (consorziovini.sm).

La Cooperativa Allevatori costituisce, insieme ad altre 5 filiere (in rappresentanza di vino, carne, olio, latte, cereali, miele), la cooperativa di secondo livello Terra di San Marino, che valorizza e promuove le tradizioni rurali e garantisce, per mezzo di appositi disciplinari di produzione, la tracciabilità e la sicurezza alimentare. Terra di San Marino ha saputo creare un rapporto di fiducia tra produttori e consumatori attraverso i rigidi controlli circa la genuinità ed autenticità dei prodotti. I soci di Terra di San Marino sono: Associazione Sammarinese Produttori Agricoli, Cooperativa Latte Sammarinese – Centrale del Latte, Cooperativa Allevatori Sammarinesi, Cooperativa Ammasso Prodotti Agricoli, Cooperativa Olivicoltori Sammarinesi, Consorzio Vini Tipici, Cooperativa Apicoltori Sammarinesi, Eccellentissima Camera. >> Link: www.terradisanmarino.com

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Prosciuttificio IL CONTE S.r.l. Via Sant’Ambrogio, 4 – Fraz. Bazzano 43024 Neviano degli Arduini (PR)


Bilancio di un anno di CETA per il Consorzio del Prosciutto di San Daniele Ad un anno dall’entrata in vigore, se pur in via provvisoria, del CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), il Consorzio del Prosciutto di San Daniele rinnova la propria posizione favorevole e di supporto all’accordo di libero scambio tra UE e Canada. A partire da settembre 2017, infatti, il Consorzio ha registrato dati positivi per quanto riguarda l’export in Canada, con un +35% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, oltre a un incremento del numero delle aziende esportatrici. Con l’avvio dell’accordo, il San Daniele ha ottenuto un’ulteriore garanzia per quanto riguarda la difesa della suo essere un prodotto Dop, eccellenza del made in Italy, potendo essere finalmente esportato con la sua denominazione corretta e i relativi simboli di identificazione. Sino all’avvio di questo trattato, infatti, era impossibile a causa della preesistenza nel mercato canadese di un marchio similare registrato agli inizi degli anni 70, che obbligava il San Daniele ad essere denominato Authentic Italian Prosciutto in quel paese. Sul fronte export in generale, i dati di bilancio del primo semestre 2018 vedono un incremento totale del +2,7% rispetto allo stesso periodo del 2017, con un’incidenza del 19% sul totale delle vendite. Ad ulteriore conferma degli effetti positivi dell’entrata in vigore dei trattati internazionali di libero scambio, nel primo semestre 2018 la quota delle esportazioni di Prosciutto di San Daniele verso i paesi dell’Unione Europea vale circa il 55% e verso i paesi extra-comunitari circa il 45%, in controtendenza con quanto registrato nello stesso periodo del 2017. Interessante la crescita nelle vendite nei principali paesi di esportazione della Dop friulana, che vede un incremento per quanto riguarda il mercato USA (+33,37%) e Svizzera (+7,38%); confermati i valori positivi della Francia e Australia, in flessione Germania e Belgio (photo © Consorzio del Prosciutto di San Daniele).

Nasce il Consorzio di tutela dei Pizzoccheri della Valtellina Igp Oltre 1 milione e mezzo di chili in forma secca e circa 300.000 chilogrammi in pasta fresca: questa la capacità di vendita del pizzocchero della Valtellina, piatto della tradizione contadina che, dal 2016, ha ottenuto il via libera dell’Unione Europea per l’adozione dell’Indicazione Geografica Protetta. Un notevole giro d’affari che ora finalmente, dopo anni di lavoro, vede la realizzazione di un importante traguardo: la costituzione di un Consorzio di tutela, nato il 18 luglio scorso in presenza dei suoi soci fondatori (Gastroval, Pastai inValtellina, Pastificio di Chiavenna, Pastificio Valtellinese e Raviolificio Dei Cas). «Sono felicissimo di poter finalmente dare questa notizia — ha commentato Fabio Moro, presidente del Comitato per la valorizzazione dei Pizzoccheri della Valtellina — ed esprimo il mio più sentito ringraziamento a tutti coloro che in questi anni si sono spesi per questa causa, a partire da Regione Lombardia, Camera di Commercio, la Provincia di Sondrio, il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e, ovviamente, l’Unione Europea, fino a tutti gli attori del territorio che guidando e supportando il Comitato nel lungo e difficile percorso burocratico per l’ottenimento dell’Igp, vedono realizzato questo importante traguardo. Oggi inizia una sfida non meno impegnativa e significativa, ovvero la promozione dei Pizzoccheri della Valtellina Igp attraverso il Consorzio di tutela che, mi auguro, accoglierà tutti i produttori. Al Consorzio spetterà infatti il compito di aderire, ed esserne allo stesso tempo garante, ad una filiera di qualità. Da domani, quindi, di nuovo tutti al lavoro». Il Consorzio, socio del Distretto Agroalimentare di qualità della Valtellina, collaborerà con tutti gli altri consorzi di tutela per la promozione e valorizzazione dei prodotti tipici di qualità del territorio valtellinese (www.gustovaltellina.it; photo © Silvia Poli, www.silviapoli.it).

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Ti racconto la mia storia... SONO IL PRIMO PROSCIUTTO CRUDO CHE COMUNICA CON IL CONSUMATORE MEZZO QR CODE Utilizzando il Qr Code esposto sulla carta d’identità o nel punto di vendita, scoprirai la storia del prosciutto che stai per comprare: dov’è nato il suino, dov’è stato allevato, cosa ha mangiato, dove e quanto è stato stagionato.

www.prosciuttocrudodicuneo.it Iniziativa di comunicazione realizzata per mezzo del contributo MIPAAF Direzione PQAI IV. DM n. 69236 del 25/09/2017 e DM n. 32183 del 03/05/2018

Consorzio di Tutela e Promozione del Crudo di Cuneo D.O.P. Corso Dante Alighieri 51 - 12100 Cuneo · info@prosciuttocrudodicuneo.it


INTERVISTE

La Cinta senese secondo Daniele Baruffaldi Il presidente del Consorzio di tutela della Cinta senese racconta le origini della razza, il periodo di crisi e la rinascita di questo suino nero: dal Consorzio alla Dop, al Disciplinare di produzione, senza dimenticare gli obiettivi futuri della sua presidenza di Veronica Fumarola

D

a settembre 2017 DANIELE BARUFFALDI è il nuovo presidente del Consorzio di tutela della Cinta senese. Perito agrario, dopo vent’anni passati a lavorare come amministratore di un’azienda agricola toscana, nel 2001, quasi per gioco, inizia ad allevare maiali di Cinta

Daniele Baruffaldi.

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senese: tre cinte allevate in un piccolo appezzamento di terra. È da questo momento che nasce in lui la passione per questa razza, tanto da decidere di diventare un allevatore. Oggi Daniele alleva circa 400 suini, fa parte degli allevatori del Consorzio di Cinta senese e ha aderito al Disciplinare che ne

regola la produzione. Ma quali sono le particolarità di questa razza? La Cinta senese fa parte di quel gruppo di maiali neri ufficialmente riconosciuti in Italia insieme al Nero dei Nebrodi o Nero siciliano, l’Apulo Calabrese, la Mora romagnola e il Maiale sardo. «Se potesse, vivrebbe solo di pascolo, nutrendosi esclusivamente di erba» racconta Daniele. Tra tutte le razze è l’unica a non rischiare l’estinzione grazie al numero di riproduttori (circa 1.000) iscritti al registro genealogico. Ogni anno sono macellati mediamente dai 3.000 ai 4.000 suini DOP (4.300 nel 2017), la metà dei quali destinati al consumo locale, ma Daniele vuole invertire la rotta e per farlo si è prefissato degli obiettivi precisi da raggiungere durante la sua presidenza. Ma partiamo dall’inizio. Origini e caratteristiche La Cinta senese ha radici antiche: lo testimonia anche l’affresco “Effetti del Buon Governo in città e in campagna” di AMBROGIO LORENZETTI, che risale al 1342 e si trova nella sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena. Nell’affresco sono rappresentati diversi momenti dell’epoca, compreso un contadino in compagnia di un maiale identico in tutto e per tutto ad una Cinta senese. «Questo fa pensare che la razza fosse presente nel territorio già da centinaia di anni e vivesse libera intorno alla città» afferma Daniele. Il nome, invece, trova origine dalla striscia bianca che circonda il collo della Cinta, fino a ricoprire gli

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Razza dalle antiche origini, la Cinta senese si è diffusa per la sua robustezza, rusticità e facile adattabilità all’allevamento allo stato brado e semi-brado nel bosco e nelle distese erbose adibite a pascolo da cui trae parte del suo sostentamento

Il colore della carne degli animali appartenenti a questa razza è più chiaro rispetto a quello della carne di un maiale bianco, ma la vera peculiarità risiede nel grasso: si scioglie facilmente, contiene Omega-3 e Omega-6, colesterolo “buono” e acidi grassi insaturi (photo © Beatrice Speranza ‘09).

La qualità delle carni di Cinta senese, grazie al sistema di allevamento estensivo che rafforza la testimonianza dell’antica tradizione di allevamento del suino nella regione Toscana, ha consentito agli allevatori, organizzati nel Consorzio di tutela, di ottenere nel marzo del 2012 la Denominazione di Origine Protetta

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arti anteriori. Oltre alla striscia bianca, sono diverse le particolarità di questa specie: il muso è molto allungato, le orecchie sono piegate in avanti, quasi a proteggere gli occhi, caratteristica tipica degli animali che mangiano nel sottobosco. La Cinta si differenzia dalle altre razze anche per il numero delle mammelle. La coda in origine era dritta, ma oggi non rappresenta più un carattere determinante. Ama vivere al pascolo, è un animale autoctono. «Sin dalle origini si è sempre nutrito secondo i suoi bisogni, trasformando gran parte della sua carne in grasso, che serviva da riserva nei momenti di gelo, quando avrebbe trovato poco da mangiare» specifica il presidente del Consorzio. «Il colore della carne, invece, è più chiaro rispetto a quello della carne di un maiale bianco, ma la vera peculiarità di questo animale risiede proprio nel grasso: si scioglie facilmente, contiene Omega-3 e Omega-6, colesterolo “buono” e acidi grassi insaturi».

il grasso era considerato un vero e proprio veleno — racconta Daniele — così la Cinta senese è stata completamente rifiutata, fino a raggiungere praticamente l’estinzione. Qualche anno più tardi, però, qualcuno si è accorto del patrimonio che si stava perdendo e si è impegnato per “ricostituire” la razza. Cercando nei pochi, forse addirittura solo tre, allevamenti rimasti attorno alla città di Siena, nel 1980 sono state trovate 20 femmine e due maschi, Cinte non purissime e con alcuni difetti». Da qui è iniziato il lavoro di ricostituzione della razza attraverso un’attenta selezione dei piccoli che nascevano. «Questa selezione viene effettuata ancora oggi — specifica Daniele — per combattere la consanguignità e far riprodurre solo gli animali con le caratteristiche più simili a quelle della Cinta senese delle origini». Grazie a questo impegno si è registrata una ripresa significativa, che negli anni ha portato alla nascita del Consorzio.

Rischio estinzione e rinascita L’elevata percentuale di grasso, negli anni Sessanta, ha rappresentato un problema per la razza e ne ha quasi provocato l’estinzione. «In quegli anni

Il consorzio e il disciplinare Nel 2000 nasce il Consorzio di tutela della Cinta senese, nel 2009 la razza ottiene la Denominazione di Origine Protetta, riservata esclusivamente alle

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Secondo il disciplinare, gli allevatori possono fornire ai suini parte dell’alimentazione, senza superare il 2% del peso vivo, per stimolarli a girare e cercarsi da mangiare. Ma questo 2% deve essere composto per il 60% da prodotti di origine toscana e non può includere soia, prodotti OGM o derivanti da estrazioni chimiche

Tra le caratteristiche della carne di Cinta senese risulta molto interessante la componente lipidica. Nello specifico, il non comune contenuto in grasso intramuscolare, che le assicura gusto e sapidità (photo © Beatrice Speranza ‘09). carni fresche di suini di Cinta, nel 2012, invece, viene pubblicato il Disciplinare di produzione. Del Consorzio fanno parte circa 70 allevatori toscani, che crescono gli animali nel rispetto del disciplinare, che regola le modalità di allevamento e l’alimentazione dei suini. «La Cinta deve muoversi per consumare i lipidi in eccesso e non diventare una palla di grasso» afferma Daniele. «Per permettere agli animali di muoversi, dunque, possiamo allevare solo 1.500 kg di carne viva per ettaro, peso che corrisponde circa a 10 capi. Per quanto riguarda l’alimentazione, invece — continua il presidente —, i nostri animali devono mangiare prodotti naturali, in parte erba, in parte cereali e mais, prodotti rigorosamente in Toscana».

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Secondo il disciplinare, gli allevatori possono fornire ai suini parte dell’alimentazione, senza superare il 2% del peso vivo, per stimolarli a girare e cercarsi da mangiare. «Ma — specifica Baruffaldi — questo 2% deve essere composto per il 60% da prodotti di origine toscana e non può includere soia, prodotti OGM o derivanti da estrazioni chimiche». Questa scelta è dovuta ad una motivazione ben precisa: allevare gli animali proprio come una volta. C’è un altro aspetto che caratterizza gli allevamenti: i suini non possono essere macellati prima dei 12 mesi di età, ma mediamente la macellazione non avviene prima dei 14-16 mesi perché solo allora raggiungono il peso idoneo. Fino ad ora il 99% della carne prodotta è stata trasformata in salumi:

prosciutto di Cinta, capocollo, salame, rigatino e guanciale. Daniele, invece, vuole invertire la tendenza: «Nella mia epoca presidenziale vorrei parlare, sviluppare e promuovere soprattutto la carne fresca, per far comprendere le differenze rispetto alla carne di produzione industriale». Per raggiungere questo obiettivo, però, è necessario far crescere il numero di Cinte, sempre nel rispetto del Disciplinare e della razza, che deve essere tutelata e protetta. Veronica Fumarola Consorzio di tutela della Cinta senese Strada di Cerchiaia 41/4 – 53100 Siena Telefono e fax: 0577 389513 E-mail: cinta-senese@libero.it Web: www.cintasenese.org

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PRODOTTI TIPICI

Heinrich Pöder e il segreto dello speck, anzi Bauernspeck di Riccardo Lagorio

È

una valle chiusa, la Val d’Ultimo. 40 chilometri di salita che da Lana infilano masi sparsi e piccoli centri dedicati ai santi del primo cristianesimo: Valburga, Gertrude, Pancrazio. Sopravvivono tradizioni e usanze che il XXI secolo non è riuscito ancora a scalfire, poi ci si imbatte in paesaggi d’incanto per i turisti che qui trovano occasioni di svago tutto l’anno: in inverno per scivolare sugli sci, in estate per passeggiare gli oltre 700 chilometri di sentieri al fresco dei larici. Tra le consuetudini delle famiglie

sopravvive il consumo di speck come merenda. Quasi all’imbocco della conca si può contare su un “produttore” del tutto speciale, la famiglia di HEINRICH PÖDER, che alleva maiali per la gioia dei valligiani e dei turisti. Proprio perché Pöder utilizza animali propri, li destina interamente alla produzione di speck, anzi Bauernspeck. «Sono circa 120 all’anno quelli che allevo. Tutti di razza Pietrain incrociata con Landrace di riproduttori tedeschi». Aspetto che garantisce un’elevata carnosità ai soggetti, masse muscolari

pronunciate che forniscono altissime rese al macello e copertura di grasso. Il Landrace, da parte sua garantisce carni magre. «Ma il segreto per allevare maiali adatti al Bauernspeck sta nell’alimentazione. Noi usiamo siero di latte della Latteria di Lagundo e una miscela di cereali, talvolta aggiungendovi soia. La crescita avviene lentamente e si ottengono carni mature, bene asciutte». L’occhio esperto di Heinrich controlla costantemente lo stato di salute degli animali, avviati al macello di Merano quando toccano i 140 o 150 kg di peso,

Lo speck della famiglia Pöder. Sapientemente affumicato con legno di faggio e latifoglie, è ottenuto da animali allevati in proprio e destinati interamente alla produzione di speck (photo © www.familyontour.de).

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In alto: i locali di stagionatura del maso Aussererbhof (photo © www.familyontour.de). In basso: Heinrich Pöder con la nuora Heidi. di solito al raggiungimento del decimo mese di vita. Poi le mezzene tornano nel maso Aussererbhof, dalle fondazioni di epoca medievale e di proprietà della famiglia Pöder dal 1696. Qui, ai 780 metri di altitudine, inizia il processo di lavorazione delle carni con la salatura, la speziatura e l’affumicatura, con l’aiuto del figlio Alexander e la nuora Heidi. Si affumica il suino

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a mezzena, secondo i dettami imposti dalle abitudini, grazie alla combustione di legno di faggio e latifoglie. Si taglia a mano e si consuma a striscioline. «Solo a partire dagli anni Ottanta, quando il turismo si è sviluppato e gli hotel ci iniziavano a chiedere tagli particolari, sezioniamo il suino creando tipologie di speck in base alle esigenze del cliente». Anche il processo di affumicatura e

stagionatura è lento. Per lo speck che deriva dalla coscia l’affumicatura può durare 6 settimane, durante le quali, a intervalli di alcune ore, si attiva la combustione. Per la stagionatura bisogna attendere almeno un anno intero; per il carré non meno di 7 mesi. «Bisogna porre particolare cura al tempo corretto di attivazione del fumo e dei tempi di

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stagionatura», racconta Heidi. Un’attenzione insolita e specifica di ciascun pezzo anatomico. Ma quello che più convince e stupisce della visita al maso Aussererbhof è la cantina di stagionatura. Esistono pochi luoghi della penisola con il fascino che possono trasmettere le selci grigie appena sbozzate, gli archi a tutto sesto a pietra viva, l’alternarsi di cosci e lonze, mezzene e capocolli che si alternano e si rubano spazio sulle pertiche. Una visione solo immaginata del paese di Cuccagna, dal pennello di PIETER BRÜGEL, dai versi di BOCCACCIO e di TEOFILO FOLENGO. Qui è realtà. Penzolano Kaminwurtzen di cervo, capriolo e camoscio, piccoli e stretti adatti al tascapane dei camminatori, Haussalami di carne macinata sottile, giganti insaccati tipo sopressa («perché ci sono tanti turisti dal Veneto»), spalle, fese, pancette in un’esaltazione e vaneggiamento di profumi di carne matura, fumo, petricore essudato dai massi. «Ciascuno speck sarà diverso, in funzione della parte anatomica utilizzata; avrà retrogusti e persistenze diverse» specifica Heinrich. Dalla parte con più grasso come la pancetta, rilucente come porcellana striata da ritocchi rosa vivace, alla coscia rosea brillante, al capocollo vivace e sfolgorante di grasso perlaceo. Qualunque sia la scelta, però, emergono i sentori evoluti, di carne ben lavorata e curata. Niente picchi di sapidità o, al contrario, eccessiva delicatezza. Tagliati a listarelle secondo le abitudini locali, la masticabilità è ottima anche quando manca la marezzatura. Il gusto della carne non è guastata dal fumo, che si coglie come un filato prezioso attorcigliato intorno a un raffinato tessuto. La lunga persistenza esalta le note di fumo. Il vino consigliato? Col de Réy, Vigneti delle Dolomiti Igt, della CANTINA LAIMBURG. La sua potenza e la leggera astringenza lasciano lentamente il passo a un retrogusto di fumo. Complesso e irresistibile come lo speck della famiglia Pöder. Riccardo Lagorio Speck Pöder San Pancrazio (Sankt Pankraz) Località Gegend 64 – 39010 Bolzano Telefono: 0473 787147 E-mail: heinrich.poeder@rolmail.net

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Gastronomia della Franche-Comté

La salsiccia di Morteau e la salsiccia Montbéliard di Josette Baverez Blanco

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hi di noi, al rientro dalle vacanze, non hai mai portato con sé qualche ricordo gastronomico che ha particolarmente apprezzato in loco? D’altronde, è un modo come un altro di prolungare l’evasione. I miei ricordi estivi, ad esempio, vanno alle bellezze del Giura francese e al piacere di averle fatte scoprire agli amici che mi hanno accompagnato nel mio viaggio. Questa regione, la Franche-Comté, sita

al confine con la Svizzera, a nord del lago di Ginevra, è incantevole con le sue maestose foreste di abeti, i ricchi pascoli, i fiumi che scompaiono nelle gole per poi riemergere, affaticati, e ricominciare a scorrere. La popolazione, rimasta in gran parte rurale, vive con serenità e pacatezza, benché molto impegnata nel lavoro. È particolarmente accogliente e generosa, come lo è il territorio. La città di Morteau è il capoluogo. Stupiscono e abbelliscono il paesaggio nella zona

del Haut-Doubs le imponenti fattorie, costruite sullo stesso modello dal XVI secolo. Nel mezzo della ferme si trova un cortile quadrato, che va dai 20 ai 30 m2, con i muri sormontati da un enorme camino di legno a forma di piramide, di oltre dieci metri d’altezza, chiamato in zona tuyé o tué o thué. Attorno ed adiacenti le stanze di abitazione, le stalle, le dipendenze e gli annessi. La bocca del forno e tutti i condotti delle stufe della casa si aprono in questo

Mini saucisses di Morteau. Queste deliziose salsicce artigianali, la cui produzione è molto antica, sono dette Belles de Morteau.

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camino così particolare. All’interno ci sono una grande quantità di pertiche di legno posizionate orizzontalmente alle quali, durante i lunghi mesi invernali, venivano e vengono tuttora appesi salumi e carni da affumicare: prosciutti, lardi, salsicce, spalle. In cima al camino ci sono due pannelli che vengono azionati dall’interno con un sistema di catene, in funzione della direzione del vento, da Est o da Ovest. Insomma, l’affumicatura qui è un’arte! Cugine ma non sorelle, salsicce magre e sempre appetitose In una zona famosissima per i suoi formaggi, dal Comté al Morbier, tra i tanti salumi affumicati troviamo in particolare le salsicce di Morteau e di Montbéliard, entrambe IGP rispettivamente dal 2010 e 2013. Come in Italia, nelle zone produttrici di prosciutti e Parmigiano, niente va perduto nel circolo produttivo. Le mucche dalle mammelle pesanti forniscono latte in abbondanza, data la ricchezza dei pascoli, il che giustifica l’alta qualità dei formaggi. Rimane il siero ricco in proteine che, mescolato ai cereali, nutre al meglio i maiali degli allevamenti che sorgono spesso vicini agli chalet, i caseifici. Ma quali sono le differenze tra queste due salsicce, spesso confuse tra di loro? Iniziamo con quella di Morteau, che ha un diametro di circa 40 mm, un budello naturale spesso preso dall’intestino crasso e, ad un’estremità, ha uno spago al quale è fissata l’etichetta del produttore, mentre dall’altra parte è chiusa con un pezzetto di legno. Pesa circa 450 grammi e la sua affumicatura dura al minimo 48 ore. Più semplice è quella di Montbéliard, dal diametro di 25 mm, con budello naturale più piccolo, preso dell’intestino tenue, ed estremità chiuse con un sistema di attorcigliamento. Pesa circa 250 grammi e viene affumicata molto meno (12 ore), data la sottigliezza dell’involucro. Ambedue sono fatte con i muscoli della spalla, della coscia e della schiena, ma la Montbéliard viene condita con noce moscata o coriandolo. Il grasso aggiunto, che si limita al 22%, è quello della schiena e del petto del maiale per la Morteau, mentre è quello della gola per la Montbéliard.

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Salsicce di Montbéliard e di Morteau. Il passaggio fondamentale nella produzione dei due insaccati è sicuramente l’affumicatura: le salsicce devono infatti essere affumicate lentamente, con un costante e attento controllo del fumo (photo © Sonia C. – stock.adobe.com). Salsiccia di Natale Coi pezzi migliori e un grosso budello si prepara il Gesù di Morteau (Jésus o Jésu de Morteau), riservato in passato alla cena di Natale. Anche questa salsiccia gode della tutela dell’IGP. In GDO in Francia e on-line Prodotte all’origine per uso familiare, queste salsicce rimangono prodotti artigianali di nicchia, anche se si trovano normalmente, in Francia, nella Grande Distribuzione. È possibile comunque rivolgersi ai piccoli produttori che spesso fanno una vendita diretta on-line. La loro commercializzazione soffre della stagionalità, come se le salsicce fossero un prodotto esclusivamente invernale da abbinare a legumi o farinacei. Questa non è altro che una tradizione atavica, quando c’era il problema della conser-

vazione della carne di maiale, messa bene in evidenza anche nel Meridione italiano o nei paesi caldi. Con l’affumicatura il problema è risolto e non posso che consigliare l’uso di queste salsicce anche fredde, d’estate, per un aperitivo sfizioso e originale, a dadini o a fettine su toast guarniti a piacere; ottime anche in una torta salata che si può portare ad un picnic, nella classico gratin di patate, formaggio e cipolla o per arricchire una bella e fresca insalata verde. Quindi, calde o fredde, per aperitivo, antipasto o pietanza principale, queste due prelibatezze meritano di essere conosciute, ma soprattutto non perdete l’occasione di visitare questa regione poco distante dall’Italia per scoprirne tutte le meraviglie naturali e gastronomiche. Josette Baverez Blanco

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INDAGINI

Italiani, nessuna paura del conto Un terzo del budget in alimentari finisce al bar e al ristorante. Mangiare fuori è un piacere, talvolta una necessità , quasi sempre un modo per socializzare e gratificarsi di Sebastiano Corona

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risi da noi? Ma se i ristoranti sono pieni!». Fece inalberare mezza Italia quella famosa frase che SILVIO BERLUSCONI, da premier, pronunciò pubblicamente qualche anno fa. Eppure, a distanza di tempo e dati alla mano, non gli si può dare completamente torto. Mangiare fuori casa, nelle sue diverse forme, non è infatti tanto o solo una questione di disponibilità economica, ma anche di modelli di consumo. Non a caso, ci sono Paesi dove il reddito pro capite è elevato, ma la frequentazione dei locali è poco marcata e, viceversa, altre realtà dove c’è meno benessere, ma l’abitudine di consumare pasti fuori casa è, in confronto, molto più diffusa. In Italia, patria del buon cibo, all’insuperabile manicaretto preparato dalle amorevoli mani della mamma, si preferisce sempre più l’esperienza sensoriale di una pietanza esotica in un ristorante etnico o anche semplicemente un pasto frugale e veloce sotto l’ufficio, durante la pausa pranzo. Piacere & necessità Che sia per piacere o necessità, che sia di chef stellato o povero e scarno, il piatto lontano dalle mura domestiche si mostra sempre più accattivante. Un’abitudine, questa, che sta diventando sport nazionale. Una disciplina per la quale gli Italiani sono disposti a spendere cifre sempre più alte e che nel 2016 ha raggiunto la spesa di 78 miliardi di euro (dati CENSIS e COLDIRETTI), a fronte di una complessiva stagnazione dei consumi in alimentari. Non solo si preferisce mangiare fuori, ma se proprio si deve restare in casa, che sia almeno un prodotto su ordinazione e magari consegnato a domicilio a gratificare il palato. Ed è così che, di pari passo con il trend positivo della ristorazione, schizza la richiesta dei cibi da asporto, talvolta non più cari di quelli preparati in prima persona, soprattutto se si considerano sprechi ed esperimenti mal riusciti. Non si è dunque persa l’abitudine di mangiare bene, ma certamente, anche alla luce delle nuove composizioni delle famiglie moderne, le esigenze sono mutate. Un tempo, quando era forte il piacere di riunire amici e parenti attorno alla tavola, lo si faceva nella propria abitazione e la padrona di

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casa passava ore a cucinare e giornate intere a riordinare. Oggi, complice il lavoro femminile, talvolta la poca dimestichezza in cucina, il fatto che le famiglie siano sempre meno numerose e più disgregate, riunirsi tutti per una cena fuori casa è diventato piacere ma finanche necessità. Ed è così facendo che i consumi in ristoranti e trattorie hanno raggiunto un terzo del nostro budget in alimentari. Quasi 9 persone su dieci consumano un pasto fuori dalle mura domestiche una volta all’anno, ma sono la metà circa quelli che lo fanno regolarmente. Il costume — questo è diventato, un fatto di costume — è più diffuso tra i giovani, in particolare i cosiddetti Millennials, ovvero i nati tra gli anni ‘80 e il 2000. Man mano che si va verso la terza età, la tendenza è invece sempre meno diffusa. Stesso dicasi per la distribuzione geografica: le campagne sono meno investite dal fenomeno, a favore delle aree urbanizzate, dove invece l’offerta è maggiore e più varia e anche la domanda non si fa attendere. Nelle grandi città i ritmi sono frenetici e la vita professionale invade ogni spazio possibile. Fare la spesa e cucinare dopo una lunga giornata di lavoro è considerata un’ulteriore incombenza, pertanto tutto porta a consumare uno o più pasti lontano dalle mura domestiche e, se possibile, a concludere la serata, dopo il lavoro, direttamente al ristorante, senza interruzioni di sorta. A conferma del fatto che mangiare fuori sia un’abitudine soprattutto per i piccoli nuclei famigliari, la maggior richiesta, dopo quella dei Millennials, viene dalla fascia di età prossima ai quarant’anni, rappresentata in particolare da coppie senza figli o con figli ormai indipendenti. La cucina regionale e nazionale resta la preferita, sebbene ci si faccia spesso tentare da alternative esotiche, di diversa estrazione e con prezzi anche molto differenti tra loro. Chi non avesse grandi disponibilità finanziarie, può sempre contare su offerte di prezzo, non meno varie, ma talvolta più sbrigative nel servizio. E c’è anche un proliferare di app e strumenti tecnologici che permettono di fare valutazioni oculate della destinazione per la serata e di risparmiare discretamente, con l’utilizzo di coupon o di formule decisamente vantaggiose.

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Quasi nove persone su dieci in Italia consumano un pasto fuori dalle mura domestiche una volta all’anno, ma sono la metà circa quelli che lo fanno regolarmente. Il costume è più diffuso tra i cosiddetti Millennials, cioè i ragazzi nati tra gli anni ‘80 e il 2000 (photo © estradaanton – stock.adobe.com). Un settore sempre più ricco e variegato in tutta Europa Ed è così che il mondo della ristorazione si fa ogni giorno più ricco e variegato e mostra numeri sempre più ragguardevoli di imprese, addetti e fatturato. È il Rapporto Annuale FIPE 2017 a darci un quadro completo ed esaustivo anche sui consumi e sulle caratteristiche del settore. Secondo la Federazione Italiana Pubblici Esercizi, la spesa delle famiglie in servizi di ristorazione è stata nel 2016 di 80.254 milioni di euro in valore, con un incremento reale sull’anno precedente pari al 3%. Nonostante la crisi finanziaria internazionale, che pareva aver inizialmente riportato molti consumatori davanti ai fornelli di casa, la ristorazione è andata in controtendenza rispetto ai

consumi alimentari in generale, che hanno invece subito una forte contrazione tra il 2007 e il 2016 (–10,5%, pari ad una flessione di 15,9 miliardi di euro). Il fuori casa vale oggi oltre il 35% del totale dei consumi alimentari delle famiglie, con un trend di moderata ma costante crescita. Dal 2007 ad oggi i consumi nella ristorazione hanno infatti registrato un aumento pari a 2,4 miliardi di euro. Anche nel lungo periodo, la tendenza si è rivelata positiva, seppur meno marcata. Dal 2000 al 2016 il trend della domanda nella ristorazione è stato infatti dello 0,6% complessivo, per l’azione combinata dell’aumento nella prima parte (2000-2007), una flessione nella seconda (2007-2013) ed infine una nuova fase di crescita nell’ultimo

La gratifica, nel tempo libero o in una pausa dal lavoro, passa spesso per un piatto di lasagne fumanti. Così come accade per motivi professionali: si pensi a quanti accordi si sono fatti nella storia ad una cena di gala o durante una colazione di lavoro. Di fronte ad un buon cibo e ad un ottimo bicchiere di vino, si chiudono affari di ogni genere. La tavola mette d’accordo tutti, o quasi, e gli Italiani se ne sono accorti da un pezzo

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triennio (dati FIPE). Il tutto nel bel mezzo di una crisi economica mondiale senza precedenti nell’ultimo secolo. In ambito europeo la ristorazione ha un ruolo fondamentale: i consumi alimentari ammontano nel complesso a 1.522 miliardi di euro e si dividono per il 63,1% nel consumo nel canale domestico e per il restante 36,9% nel fuori casa. La ristorazione vale in Europa 561 miliardi di euro all’anno ed è frutto non solo della salute delle diverse economie nazionali, ma soprattutto di abitudini e stili di vita che caratterizzano le società, al di là della disponibilità finanziaria. Ne sono esempio realtà diverse di livello economico poco differente tra loro: la ristorazione rappresenta meno del 30% del totale dei consumi alimentari in Germania, mentre lo stesso valore sale al 47,6% nel Regno Unito, al 53,6% in Spagna e al 59% in Irlanda. In Italia la quota si attesta poco al di sotto della media europea (35%) e 6 punti percentuali al di sopra della Francia. In valori assoluti, invece, l’Italia è il terzo mercato della ristorazione in Europa dopo Regno Unito e Spagna con oltre 80 miliardi di euro. Questo elemento potrebbe forse rivelare una certa attenzione in più, degli Italiani, per la qualità del cibo. In Italia, alla fine del 2016 le imprese del settore (bar inclusi), erano quasi 330.000 (dati Camere di Commercio), con una presenza importante in Lombardia (15,4% delle aziende sul totale nazionale), nel Lazio (10,9%) e in Campania (9,5%). Ristorazione 2017: il rapporto annuale In questa ampia ed articolata rete di pubblici esercizi, la ditta individuale resta la forma giuridica prevalente, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno dove la quota sul totale raggiunge soglie che arrivano ad oltre il 70% del numero complessivo delle imprese attive (è il caso della Calabria). Le società di persone si confermano opzione diffusa soprattutto nel Settentrione. Le società di capitale continuano a rimanere marginali anche se in alcune regioni, il Lazio in particolare, raggiungono una presenza significativa. Di recente, e con grande sorpresa, il numero delle imprese registrate con il codice di attività Ateco 56.1, riferito a ristoranti e attività di ristorazione mobile, ha raggiunto la

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cifra di oltre 177.240 unità, facendo registrare per la prima volta il sorpasso dei ristoranti sui bar. Una svolta importante che non è però solo dovuta alla modifica delle abitudini nel Paese, ma è anche da ricondurre ad aspetti più tecnici. C’è infatti in atto un’evoluzione del mercato, ma è anche sempre più diffusa un’offerta ibrida. È vero che al bar si può consumare un pasto caldo, ma sempre più spesso al ristorante — soprattutto nelle formule più moderne —, ci si può fermare unicamente per sorseggiare una bevanda o consumare uno snack veloce. Sono in più mutate parte delle regole sull’esercizio delle attività e gli imprenditori privilegiano oggi qualificarsi come ristoranti anziché bar per motivi legati ai vincoli nello svolgimento del lavoro. Una buona fetta di mercato è inoltre assorbita da aziende che effettuano banqueting, mense e ristorazione collettiva. Sono poco più di 3.000, concentrate principalmente in Lombardia, Lazio, Campania e Toscana, dove la presenza di importanti scali aeroportuali e di grandi industrie giustifica sia la diffusione, sia

la struttura e l’organizzazione interna. La forma giuridica di queste aziende è infatti prevalentemente di società di capitali, talvolta di cooperative, che si rapportano al cliente in una relazione B2B e spesso passando per gare d’appalto. Gratifichiamoci! In generale, il mondo del pasto fuori casa è fortemente variegato e presenta formule gestionali e di offerte tra le più disparate. Si pensi alle gastronomie senza servizio di somministrazione al tavolo, dove in un locale con qualche tavolino o con semplici punti d’appoggio è possibile consumare un pasto caldo, semplicemente ritirandolo in prima persona al banco e fornendosi direttamente dal frigorifero per le bevande. Gli stessi locali offrono il servizio take away e talvolta la consegna a domicilio o in ufficio. I bar e finanche le pasticcerie, le pizzerie da asporto o le gelaterie hanno un’offerta sempre più varia e interessante di ulteriori piatti caldi e freddi, pietanze adatte ad una pausa

pranzo, un semplice snack, un aperitivo, spesso con l’offerta veg o senza glutine, solo per citarne alcune. Le occasioni per mangiare fuori casa, passando un po’ di tempo, fosse per svago o per lavoro, davanti ad una pietanza, non è più un lusso per pochi. In certi casi è una necessità dei nostri tempi, in altri un piacere a cui non si riesce a rinunciare, pena l’allontanamento dalla ordinaria vita sociale. La gratifica, che sia nel tempo libero o in una pausa dal lavoro, passa spesso per un piatto di lasagne fumanti. Così come accade per motivi prettamente professionali. Si pensi a quanti accordi si sono fatti nella storia dell’umanità ad una cena di gala o durante una colazione di lavoro. Di fronte ad un buon cibo e ad un ottimo bicchiere di vino, si chiudono affari di ogni genere. La tavola mette d’accordo tutti — o quasi! — e gli Italiani se ne sono accorti da un pezzo. Sebastiano Corona Nota Alle pagine 62 e 63, photo © zinkevych – stock.adobe.com


SAPORI MEDITERRANEI

Latte di mandorla del Salento Due sorelle, la passione per la terra ereditata dai genitori, tre varietà di mandorla da cui nascono un latte delicato e fresco, fiore all’occhiello dell’azienda, una linea di creme dolci e una linea di pesti. A San Vito dei Normanni, a pochi chilometri da Brindisi e Ostuni, Caterina e Bice Scarafile trasformano e reinterpretano la mandorla di Massimiliano Rella

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resco, delicato, del Salento. Il latte di mandorla, un antico sciroppo riportato in auge da due sorelle, una musicista e un’insegnante di latino, che hanno riscoperto la passione per la terra ereditata — sia la passione che la terra — dai propri genitori. Siamo a

San Vito dei Normanni, non lontano da Brindisi e Ostuni, in un’area prevalentemente d’ulivi e muretti a secco. Una presenza sconfinata nel paesaggio agrario pugliese, alberi maestosi e attorcigliati che ritroviamo anche nella proprietà delle sorelle CATERINA e BICE SCARAFILE.

L’azienda nasce negli anni ‘70 su iniziativa del papà DOMENICO, oggi novantunenne, e della mamma MARIA. Entrambi appartenevano a due famiglie di cosiddetti massari di Puglia, figure di un lontano mondo rurale che, in virtù di un contratto con un latifondista, ne gestivano l’azienda per suo conto.

Bevanda rinfrescante al latte di mandorla con acqua e ghiaccio.

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Nella gerarchia contadina i massari erano sul gradino più alto, al di sotto c’erano i fattori, gli operai e i braccianti. In quegli anni, però, Domenico e Maria cominciarono un po’ alla volta ad acquistare lotti di terreno. Per farla breve, oggi l’azienda conta 60 ettari di proprietà, divisi in due tenute nel territorio di San Vito dei Normanni: la tenuta Poggio Reale, 24 ettari d’uliveto, mandorleto, frutteto, casa padronale, e la tenuta Zambardo, 36 ettari con uliveto e agrumeto, molto produttivi. Anziani ma vivaci, da qualche anno ai coniugi Scarafile sono subentrate le figlie Caterina e Bice. La prima è di professione musicista, per la precisione contrabbassista. La seconda è insegnante d’italiano e latino. «Nel 2014, mosse dall’emergenza, abbiamo deciso d’aiutare i nostri genitori» racconta Bice. «Ma abbiamo capito subito che dentro di noi si era risvegliata la passione per l’agricoltura e così pian piano abbiamo creato delle linee di prodotti utilizzando i frutti della terra, espandendo l’attività aziendale al settore della trasformazione».

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In alto: le sorelle Caterina e Bice Scarafile. In basso: la raccolta delle mandorle presso l’azienda agricola Scarafile. Olio, marmellate e mandorle A quattro anni di distanza Caterina e Bice possono dirsi soddisfatte. Producono olio extravergine d’oliva con estrazione a freddo (cultivar: Leccino, Coratina, Ogliarola, Cima di Melfi, Cellina di Nardò, Picholine), marmellate d’agrumi (arance e limoni), confetture

di frutti e verdure dell’orto (fichi d’India, albicocche, fichi, cocomerini, zucchine, ecc…). Ma, soprattutto, trasformano la mandorla, anzi tre varietà di mandorle: la mandorla Alta Salentina (piccola, a forma di cuore), la Filippo Cea (mandorla di Toritto) e la Genco. Quest’ultime due varietà sono caratterizzate da una

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In alto: essiccatura delle mandorle. In basso: prodotti a base di mandorla, fichi, carrube e olio extravergine d’oliva dell’azienda agricola Scarafile. fioritura tardiva — a marzo inoltrato anziché a gennaio — dunque al riparo dalle gelate invernali, salvo casi eccezionali. Dalla lavorazione delle mandorle le sorelle Scarafile producono uno sciroppo — o latte di mandorla — davvero squisito. Producono anche una bevanda

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di mandorla, un latte vegetale pronto da bere che conserva la polpa del frutto, una linea di creme dolci alla mandorla (anche di mandorla e carrube) e una linea di pesti alla mandorla: con il timo, con aglio e peperoncino, con il rosmarino, ecc…, ottimi per condire la pasta o da spalmare sui crostini.

Tutto buono, tutto delicato, tutto di qualità. Il prodotto di punta, però, è proprio il latte o sciroppo di mandorla, una bevanda fatta artigianalmente secondo un’antica usanza araba. Grazie allo sciroppo e agli altri prodotti le sorelle Scarafile sono state le prime in provincia di Brindisi a riprendere la trasformazione delle mandorle. «Questo ci ha consentito anche di salvaguardare i nostri 2 ettari di mandorleto», sottolinea Bice. Dolce senza essere stucchevole, il latte di mandorla si mescola ad acqua e ghiaccio per farne una bevanda rinfrescante; un toccasana nelle torride giornate estive del Salento. Oppure si aggiunge un goccio di sciroppo in un fondo di bicchiere con ghiaccio per farne un caffè alla Salentina. Il procedimento di lavorazione del latte di mandorla è lungo e laborioso. Una volta decorticate, le mandorle sono immerse in acqua bollente e spellate una ad una. Poi sono triturate dolcemente in macchine raffinatrici (anticamente si usava un pestello a mano). La poltiglia creata è versata in una pressa insieme ad una percentuale d’acqua. Segue la spremitura con un torchio e il liquido bianco ottenuto viene bollito insieme allo zucchero per 10 minuti, fino ad ottenere uno sciroppo. «La nostra azienda si basa sul rispetto della natura e delle stagioni» concludono le sorelle Caterina e Bice Scarafile. «Coi nostri prodotti vogliamo promuovere un’autentica cultura del gusto, rendendo i clienti protagonisti di scelte alimentari consapevoli». Parliamo anche di prezzi? Onesti, onestissimi: per un barattolo di pesto si spendono 4 euro; un litro d’extravergine dai 6 ai 9 euro, a seconda della varietà d’olive; 9 euro la bottiglietta di sciroppo di mandorla da mezzo litro. Dove li compriamo? In varie botteghe del gusto in Puglia o direttamente in azienda. Massimiliano Rella Azienda agricola Scarafile Contrada Poggioreale 72019 San Vito dei Normanni (BR) Telefono: 347 0686375. FB: www.facebook.com/pg/aziendescarafile Nota Photo © Massimiliano Rella.

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Solo le cose buone nascono per essere condivise. In un piccolo angolo della Toscana, luogo di simbiosi perfetta fra uomo e natura, in mezzo alle colline pisane, nascono le idee ed i progetti del Caseificio Busti che continua a rinnovarsi a partire dall’anno della sua fondazione nel 1955. Nell’attuale e moderno sito produttivo di Acciaiolo vengono ideate le nuove ricette, frutto di un lavoro lungo e paziente, alla ricerca del perfetto equilibrio tra gusto, profumi e segreti di lavorazione, il tutto mantenendo invariati i tradizionali metodi di lavorazione artigianali, vero punto di forza dell’Azienda.

Busti Formaggi S.r.l. Via Marconi, 13 A/B, 56043 Loc. Acciaiolo - Fauglia (PI) Tel. +39 050 650565 - Fax +39 050 659057 commerciale@caseificiobusti.it - www.caseificiobusti.it


Il museo delle 200 mandorle siciliane Sono l’essenza della Sicilia e, giustamente, hanno diritto ad un museo tutto loro. Marzipan, il museo dedicato alle mandorle siciliane, si trova nell’entroterra agrigentino, più precisamente nel centro storico di Favara, in via Vittorio Emanuele. Inaugurato lo scorso aprile, si inserisce nel circuito di valorizzazione delle eccellenze agroalimentari dell’isola e, non a caso, si trova proprio a Favara, famosa per la sua sagra dell’agnello pasquale, gustoso dolce realizzato con la pasta di mandorla. Il complesso espositivo guida i visitatori nella scoperta della storia della mandorla, delle sue proprietà, della raccolta e della sua lavorazione (compresa l’esposizione degli strumenti di lavoro) e, soprattutto, del suo utilizzo in pasticceria, naturalmente, e più in generale in cucina. Il museo ospita circa 200 varietà di mandorle presenti in Sicilia, uniche al mondo. Marzipan, infine, si pone come vetrina in cui gli imprenditori e le aziende agricole locali possono mettere in mostra i loro prodotti. All’interno del museo è presente anche una ludoteca per sensibilizzare i bambini ad una corretta e sana alimentazione in cui privilegiare i prodotti siciliani e made in Italy (fonte: Corriere del Gusto; photo © Lindas Photography).

Anguria Pontina, rurale, eccellente, differente Oltre 1.500 ettari tra campo aperto e serra, 70 cooperative agricole coinvolte, 6 centri di imballaggio, 8 vivai per la coltivazione di piantine innestate. Questi in sintesi i numeri sul valore economico dell’Anguria Pontina, un cocomero di qualità, coltivato in una zona ideale per terreni e microclima, un prodotto che da qualche mese è stato candidato per il riconoscimento del marchio Igp. L’area di maggior produzione di angurie in Italia è l’Agropontino — vasta area pianeggiante in provincia di Latina a forte vocazione agricola — in particolare nel territorio tra Sabaudia, Terracina, San Felice Circeo e Fondi, dove si concentra la maggior parte del raccolto. A favore dell’Anguria Pontina è stato realizzato anche un progetto di promozione dal titolo RED (Rurale, Eccellente, Differente), voluto dalla cooperativa Latina Ortaggi col patrocinio di Coldiretti, che ha coinvolto una rete di coltivatori e 5 ristoranti top del territorio, chiamati a realizzare piatti a tema con l’utilizzo di anguria, dall’antipasto al dolce. Obiettivo? Sensibilizzare i consumatori verso il cocomero made in Latina. I cinque ristoranti sono Chinappi di Formia, Il Caminetto di Terracina, Satricum di Latina, Incontramare di Sabaudia e Centosedici di Terracina. L’evento è stato inserito nel programma del decennale Vinicibando, salone del gusto nomade ideato dalla giornalista Tiziana Briguglio. «L’Anguria Pontina è un’eccellenza tutta italiana che va salvaguardata e fatta conoscere» ha dichiarato Claudio Filosa, presidente della cooperativa Latina Ortaggi. «Le piantine per la produzione vengono messe in terra tra aprile e maggio e il prodotto raccolto da giugno ad agosto. Fondamentale è la figura dello stacchino, che decide quando è il momento esatto per raccogliere i cocomeri, quando la buccia tende al biondo, la polpa è di colore rosso acceso, lo strato gelatinoso che avvolge i semi è scomparso. Il peso di ogni anguria è compreso tra i 5 e i 12 kg per il tipo tondo, 7-16 kg per la tipologia ovale e 7-20 kg per l’allungato».

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La Coppa di Parma Igp al fianco delle Zebre Il marchio del Consorzio di tutela della Coppa di Parma Igp campeggia a partire dalla nuova stagione sulla maglia da gioco di Tommaso Castello e compagni ovvero le Zebre Rugby Club, che diventano così ambasciatori nel mondo di uno dei prodotti tipici della salumeria parmense prodotto nel territorio che ospita la franchigia di Guinness PRO14 e l’EPCR Challenge Cup dal 2012. «Sono convinto che le Zebre rappresentino un’ottima vetrina ed una porta d’ingresso al mondo per la Coppa di Parma Igp» ha dichiarato il presidente del Consorzio Fabrizio Aschieri. «Il rugby è uno sport di valori: sano ed educativo, come testimonia la tradizione del terzo tempo a fine partita. L’abbinamento tra il Consorzio e lo Zebre Rugby Club è quindi naturale. Siamo felici di poter sostenere una realtà sportiva prestigiosa che contribuisce a dare visibilità internazionale a Parma ed al suo territorio. Una realtà che ha compreso l’importanza dell’enogastronomia come leva di marketing per la promozione turistica, portando da due anni sulle maglie da gioco il brand di Parma, UNESCO City of Gastronomy». «Per noi è molto importante che aziende ed enti del territorio di Parma credano nel nostro sport e soprattutto nel progetto dello Zebre Rugby Club» ha ribattuto il direttore commerciale della franchigia federale Enzo Raisi. «A maggior ragione siamo contenti di poter accogliere tra i nostri partner uno dei consorzi di prestigio del territorio parmense». Insieme al consorzio, nel corso della stagione, verranno poi organizzate tante attività in occasione delle gare interne allo stadio Sergio Lanfranchi di Parma. >> Link: www.coppadiparmaigp.com


TUTTO IL BIOLOGICO, OGGI

L’orto di Venezia: agricoltura bio a Sant’Erasmo di Gian Omar Bison

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i fa presto a dire frutta e verdura. SAVINO CIMAROSTO nella sua azienda agricola biologica I&S FARM IL BIOLOGICO DI SANT’ERASMO ha scelto la via della coltivazione biologica certificata, dell’a-

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gricoltura ecologica. Più che una scelta produttiva un cammino esistenziale da percorrere in laguna di Venezia nell’isola di Sant’Erasmo, la sua Itaca. Un’odissea iniziata negli anni Venti del secolo scorso con ENRICO, nonno

paterno, proseguita con papà GINO e mamma LINDA e che Savino dal 2012 ha voluto continuare, cinquantenne, dopo una laurea in giurisprudenza, un master, un percorso professionale manageriale. Un richiamo alle origini,

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catartico, nell’isola conosciuta dai tempi della Repubblica Serenissima come l’Orto di Venezia. Ha vinto la voglia di riscoprirsi in agricoltura. E la capacità di queste terre di dare prodotti ortofrutticoli di qualità a chi ha la pazienza

A sinistra: veduta aerea di Sant’Erasmo (photo © Karl Johaentges, Die letzen Venezianer, tour.slowvenice.it). In alto: Savino Cimarosto, titolare dell’azienda agricola i&s Farm Il Biologico di Sant’Erasmo. In basso: uno scatto nell’orto estivo di Savino (photo © i&s Farm).

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La Torre Massimiliana, una massiccia fortificazione militare asburgica che si affaccia sulla bocca di porto del Lido, domina la spiaggetta del Bacàn dove i veneziani, in barca, vanno per tradizione a fare il bagno e le scampagnate estive. di aspettare il sole, l’acqua, gli insetti giusti. Nota ai più per il carciofo violetto, l’ortaggio di Sant’Erasmo è il risultato di terra lagunare, salsedine e brezze marine, competenza e passione dei suoi contadini. «Ero stanco, insoddisfatto del mio lavoro» afferma Savino. «Con mia moglie Ilaria abbiamo pensato di riutilizzare il terreno ereditato a Sant’Erasmo, dove ho vissuto fino ai diciotto anni, per una produzione limitata ma di altissima selezione e qualità, seguendo rigorosamente il metodo biologico certificato con uno sguardo anche al biodinamico. Un ritorno alla terra è un

po’ un ritorno alle origini». Savino ha frequentato i corsi della Scuola Esperienziale Itinerante di agricoltura biologica tenuti da LUCA CONTE, dottore in scienze agrarie, agroecologo, specialista nella coltivazione biologica degli ortaggi. E da qui è partito il suo disegno imprenditoriale nonostante l’esordio non sia stato dei migliori. «Il frutteto lo abbiamo messo a dimora a marzo 2012 e poi le prime piante di ortaggi. Tutto per solo autoconsumo. A giugno una tromba d’aria ci ha distrutto tutto. Col morale sotto i tacchi siamo tornati nell’orto dopo alcune settimane e con nostro grande

stupore abbiamo visto che i pomodori erano rigogliosissimi e così le zucchine e tutto il resto. Per noi è stato il segno del destino». Studio, applicazione dei principi dell’agroecologia per arrivare a coltivare estensivamente quasi due ettari ad ortaggi con un sesto d’impianto ampio al punto da favorire una ventilazione d’aria di mare adeguata, rinfrescare e asciugare evitando il ristagno di umidità negativa tra le piante. E poi controllo continuo degli insetti e valutazioni sulla loro competitività e interazione per lo sviluppo dei vegetali. Analisi chimiche e batteriologiche ripetute sulle condizioni delle acque di irrigazione e sui terreni stessi. «Nel nostro orto — puntualizza Savino — non usiamo concimi chimici, diserbanti, insetticidi o qualsiasi altra sostanza chimica di sintesi. Stiamo sperimentando nuove metodologie di fertilizzazione con l’utilizzo di elementi naturali della laguna, per accrescere il sapore dei nostri ortaggi e della nostra frutta, al fine di favorire un legame ancora più forte tra i nostri prodotti e l’ecosistema in cui nascono, si sviluppano e crescono. La prima sfida dell’azienda, nel 2013, è stata quella di trasformare un terreno incolto da decenni, ma per fortuna non troppo compattato, in un terreno attrattore di microrganismi, insetti, lombrichi capaci di produrre humus e aumentare naturalmente la fertilità del terreno.

Carciofi, vigne e frutteti Sant’Erasmo è un’isola della laguna veneta settentrionale, la seconda per estensione dopo Venezia con i suoi quattro chilometri di lunghezza e i cinquecento metri/chilometro di larghezza. Poco abitata (settecento persone circa in progressiva diminuzione), è posta tra Burano e Murano. Il periplo stradale asfaltato che corre lungo l’isola è un anello di quasi nove chilometri che solo gli isolani residenti possono percorrere con autovetture. Sono presenti esercizi di noleggio bici per i turisti interessati e qualche spiaggetta, tra le quali la più famosa e frequentata in particolare dai veneziani è quella del Bacàn. La particolare posizione insulare e la natura fertile dei terreni ne hanno determinato il carattere agrario-lagunare: è ricca di orti e vigneti e famoso è il carciofo violetto di Sant’Erasmo (in foto). Da visitare la chiesa di stile romanico bizantino dedicata ai Santi Martiri Erme ed Erasmo (consacrata a Cristo Re solo nel 1929) e la Torre Massimiliana (forte di guerra asburgico) utilizzata per esposizioni ed eventi culturali.

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i&s Farm Il Biologico di Sant’Erasmo Via de la Toreta 1 30141 Isola di Sant’Erasmo (VE) Telefono: 339 3640736 E-mail: info@iesfarm.it Web: www.iesfarm.it

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BEVI RESPONSABILMENTE

www.enzopancaldi.it - ph: Carlo Guttadauro, Archivio www.lambrusco.net

Una sfida vinta nel tempo con lo studio e l’applicazione in campo di buone prassi per attrarre biodiversità e restituire naturalmente la vita al nostro terreno. Un terreno dove si vede tanta erbe, volutamente. Non un giardino pettinato. Un appezzamento nel quale abbiamo iniziato ad utilizzare teli di mais bianco, quindi biodegradabili, per una pacciamatura che ci sta dando ottimi risultati. Fondo riscaldato, minor consumo d’acqua e piante migliori». Nel 2016 I&S FARM è cresciuta ampliando i terreni coltivati, acquistando un nuovo frutteto dove crescono rigogliosi alberi da frutto delle specie tipiche dell’ambiente lagunare, con l’inserimento di azotofissatrici, tipo eleagno, mimosa, oltre ad arbusti e piccoli frutti. «Continueremo con convinzione, gli unici della laguna di Venezia, a coltivare ortofrutta bio e utilizzare tutto quanto di buono la nostra isola sarà in grado di darci» evidenzia Savino. «Ci stiamo relazionando con realtà che sposano la nostra filosofia produttiva in ambiti differenti, dalla nutraceutica alla cucina naturale alla trasformazione dei prodotti nell’ambito della ristorazione, dell’agriturismo organizzato. Facciamo serate gastronomiche e di degustazione guidata. E siamo convinti che il futuro saprà darci le giuste soddisfazioni». Progetti? «Tantissimi! Insieme a mia moglie Ilaria, che è un vulcano di idee, tra le altre cose stiamo pensando all’introduzione in parte degli appezzamenti di un allevamento di specie avicole tra quelle autoctone venete da crescere sempre con metodo biologico. E su questo ci stiamo relazionando con i tecnici di VENETO AGRICOLTURA. E poi acquisire qualche terreno e valutare la messa a dimora di qualche filare di vite. La vendita dei prodotti freschi e trasformati viene fatta in centro storico a Venezia, in Strada Nuova Cannaregio 3818, nel nuovissimo punto vendita diretta e ai clienti che lavorano nel mondo della gastronomia d’eccellenza». Gian Omar Bison


Trent’anni di BIO, trent’anni di SANA Il mercato del biologico e del naturale cresce e si rinnova la sua manifestazione di riferimento in Italia, che festeggia la trentesima edizione

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rescono le superfici coltivate, aumentano i consumi, si differenzia l’offerta: da mercato di nicchia a mercato di massa, è questa la rivoluzione degli ultimi trent’anni per il mondo del biologico e del naturale. Con 1,9 milioni di ettari di terreni a coltura bio (+6,3% sul 2016, il 15,4% sul totale), più di 1.400 punti vendita specializzati e la GDO in crescita, il mercato risponde a una domanda che si fa di anno in anno più consapevole ed esigente, in cui prodotti biologici e naturali rappresentano una scelta preferenziale per quasi un italiano su due. Ed è per rispondere a questo tipo di richiesta — individuando soluzioni e strategie per un mercato in espansione, rimanendo fedeli ai propri valori di riferimento — che le aziende e i professionisti del biologico e del naturale si sono dati appuntamento a SANA, confermatosi occasione irrinunciabile per sviluppare contatti commerciali, fare il punto sul settore e trovare linee di indirizzo spendibili per il futuro.

Il Bio è per tutti Suddivisi nelle tre aree Alimentazione biologica, Cura del corpo naturale e bio e Green lifestyle, i 7 padiglioni di SANA 2018 hanno proposto alle migliaia di visitatori presenti il meglio della produzione biologica e naturale nazionale e internazionale. A crescere in fiera anche la presenza di buyer internazionali provenienti da 30 Paesi. Circa 2.000 gli incontri organizzati fra gli operatori stranieri e gli espositori nell’ambito dell’International Buyer Program, il programma di incoming organizzato in collaborazione con ICE e FEDERBIO alla International Buyer Lounge. Presenti un migliaio di aziende tra distributori e produttori, con un incremento significativo della GDO, che contribuisce a rendere accessibile il prodotto biologico aumentando profondità ed estensione del proprio assortimento. A Bologna anche il mondo delle associazioni e delle federazioni di categoria e i rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali. Sempre più incisivo

l’ambito “formazione professionale” in fiera, come dimostrano i numeri di SANA Academy, che ha registrato un +27% nel numero di partecipanti agli appuntamenti, ribadendo il ruolo di piattaforma culturale di confronto e aggiornamento per gli operatori del settore. Forte la presenza della stampa, con oltre 750 giornalisti accreditati, inviati dei quotidiani e periodici, delle emittenti radio-televisive e testate web, in arrivo dall’Italia e dall’estero (Germania, Gran Bretagna, India, Marocco, Romania, Svizzera e USA). Significativa l’attenzione dei media, con numerosi speciali realizzati sui principali quotidiani nazionali e servizi sulle testate e le web TV di settore. Ottimi riscontri sono arrivati dalla piattaforma digital di SANA, che si conferma hub integrato di strumenti e servizi on-line capace di amplificare e ottimizzare l’esperienza fieristica: oltre 1,5 milioni le pagine del sito dedicato consultate, con visite che superano le 290.000 unità (+9% sul 2017). Quattro i canali social attivi: oltre 24.000 professionisti su Facebook (primi tra i competitor italiani e internazionali), 4.600 su Twitter e 6.000 su Instagram. • SANA 2018 è 52.000 m2 di superficie espositiva su 7 padiglioni, più di 950 prodotti novità e circa 2.000 incontri B2B con buyer da 30 Paesi, decine di convegni e più di 100 iniziative in città. SANA è organizzato da BolognaFiere in collaborazione con FEDERBIO, i patrocini del MIPAAFT, del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e del MISE, e il supporto di ICE.

Sanny, la mascotte di SANA 2018. 76

>> Link: www.sana.it Premiata Salumeria Italiana, 5/18



WEEK-END Castelli Romani, i luoghi antichi della socializzazione culinaria dei Romani

Le gite fuori porta e le fraschette di Nunzia Manicardi

“Lo vedi, ecco Marino la sagra c’è dell’uva fontane che danno vino quant’abbondanza c’è…”

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ggi si fanno ancora. Soltanto che spesso, per non dire quasi sempre, si aprono e si chiudono con interminabili code di vetture ferme sotto il sole o sotto la neve in attesa di poter “finalmente” riprendere il tran tran della vita quotidiana. Stanchi più della vacanza che del lavoro. Le gite fuori porta un tempo non presentavano questo problema. Si andava a piedi, in bicicletta, tutt’al più sul carretto o in carrozza. Poi anche in treno, i primi sferraglianti treni a vapore che portavano per qualche ora su una spiaggia libera per tutti o in una campagna a pochi chilometri da casa. Per approdare, con il boom economico, alle automobili stipate all’inverosimile di parenti e amici aggregatisi anche all’ultimo momento per quello che prometteva di essere, per molti, un avvenimento indimenticabile. E arrivati a destinazione… si mangiava e si beveva! Il divertimento non di rado consisteva solo in questo: sedersi da qualche parte a chiacchierare e poi tirar fuori un cesto con le vivande preparate al proprio domicilio. Due calci a un pallone e chiacchiere a non finire. Sul calar della sera, il ritorno. Forse che oggi, tutto sommato, non si fanno le stesse cose?

Tipica fraschetta romana (photo © intheshadeofthepersimmontree.wordpress.com).

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Il trionfo dell’enogastronomia popolare, dai salumi al vino Spesso, nei dintorni di Roma, la meta delle gite fuori porta era la fraschetta. Con questo termine, tuttora ricordato

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nel suo significato originario dai più anziani o dai cultori della tradizione, si intendeva un particolare tipo di osteria caratteristico della zona dei Castelli Romani. Con il nome di Castelli Romani si indica a sua volta un insieme di paesi o cittadine dei Colli Albani posti a breve distanza da Roma, in parte del territorio del Latium Vetus (Lazio antico). La denominazione risale al XIV secolo quando molti abitanti di Roma, per sfuggire alle difficoltà economiche e politiche derivanti dalla Cattività avignonese (periodo in cui il Papa si trovò costretto ad andare in esilio ad Avignone, in Francia), si rifugiarono nei castelli delle famiglie feudali romane dei Savelli, degli Annibaldi, degli Orsini e dei Colonna. La zona è bellissima. MASSIMO D’AZEGLIO, ne “I miei ricordi” scritto nel 1863 (BUR, 1966), così la descriveva: “Per chi non è stato a Roma dirò che dalla Porta San Giovanni in Laterano, guardando a scirocco, si scorge dopo quattordici miglia di una pianura leggermente ondulata, ove non sorge un albero ma solo sepolcri e infranti acquedotti, si scorge, dico, nel vapore de’ giorni sereni, una linea di monti azzurri di grandiose forme che, partendo dalla Sabina, si vengono alzando con variati e graziosi contorni sino ad una punta più elevata di tutte, detta Monte Cavi. Da questa s’abbassa di nuovo la catena e, con un declivio moderato ed una lunghissima linea, scende alla pianura e vi si perde a non gran distanza dal mare”. Le località di questo fascinoso territorio di origine vulcanica sono 14, raggruppabili in tre gruppi: l’area tuscolana incentrata su Frascati e comprendente

La tradizione della fraschetta resiste e con aumentato successo. Venuta meno la loro funzione sociale, le fraschette sono oggi locali che attirano per la loro semplicità, gradita a chi ama il fascino dei tempi andati

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Ubriachelle, ciambelline al vino rosso (photo © www.laforchettasullatlante.it). anche Colonna, Grottaferrata, Monte Porzio Catone, Monte Compatri, Rocca di Papa, Rocca Priora; l’area appia o albana che fa perno su Albano Laziale, con Ariccia e Castel Gandolfo, e l’area lanuvina che, oltre a Lanuvio, comprende Genzano di Roma e Nemi. Fanno storia a sé Velletri e Lariano e, ancora più autonoma, Marino. Qui, in queste 16 località, è il regno della fraschetta. Le fraschette, queste tipiche osteriole, potrebbero sembrare luoghi di scarsa importanza, invece racchiudono in sé tanta millenaria storia. Risalgono sicuramente al Medioevo, ma — sia pure in altre forme — si possono ricollegare all’antica Roma. Sarebbero infatti nate come punti occasionali di sosta e ristoro per i contadini delle campagne in viaggio di ritorno o di andata da o verso Roma per vendere i propri prodotti. Per segnalare la loro presenza nacque l’usanza, in epoca medievale, di apporre sulla porta d’entrata una frasca carica di foglie che svolgeva le stesse funzioni delle moderne insegne. Chi cercava un posto dove fermarsi un po’ per bere e mangiare qualcosa vedeva la frasca e si indirizzava senza paura di sbagliarsi. Era anche una non indifferente fonte di reddito aggiuntivo per i viticoltori e i vinai del tempo, per i quali il vino non offriva ancora gli sbocchi commerciali dell’età moderna. Il vino infatti che veniva venduto era soltanto quello dell’annata. Secondo alcuni, però, le origini della denominazione “fraschetta” sarebbero

da ricercare nell’antico borgo di Frascata (l’odierna Frascati), chiamato così poiché in epoca medioevale i boscaioli della zona erano soliti costruire e vivere in capanne di frasche, probabilmente per costruire ripari di fortuna dopo la distruzione (definitiva) della potente Tusculum nel 1191 ad opera del Comune di Roma per lotte di potere. L’ambiente delle fraschette era semplicissimo e disadorno. Non di rado uno stanzone o una sola stanza, anche piccola, che generalmente terminava, su un livello interrato, con la cantina (io stessa ne conservo piacevolissimi ricordi per quanto riguarda Frascati), quasi sempre scavata nel tufo che qui è costituito dal peperino. In questi locali un po’ bui l’arredamento era ridotto all’essenziale: qualche sedia o panca, due o tre tavolini di legno, un banco di mescita. A dominare erano le botti di vino, di solito disposte su di un lato. Sui muri alcune attrezzature per la lavorazione del vino per cercare di abbellire il tutto e, soprattutto, per ricordare agli avventori che lo scopo per cui erano lì era uno solo: bere. Le fraschette si differenziavano infatti dalle osterie perché erano sprovviste di cucina. Veniva offerto solo il vino, del pane ed eventualmente delle uova sode con un po’ di sale per facilitare la bevuta e spingere a bere ancora. Chi voleva mangiare qualcosa doveva portarlo con sé. Spesso queste modeste cibarie venivano raccolte in fagotti di canapa, da cui derivò il nomignolo di “fagottari”,

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Quando si parla di Castelli Romani è d’obbligo menzionare la porchetta. Fraschetta e porchetta sono diventati nel tempo un binomio pressoché indissolubile, soprattutto ad Ariccia. anche in senso un po’ canzonatorio, per chi se le doveva portare dietro. Ma i vinai più intraprendenti fiutarono l’affare per cui ben presto invalse l’abitudine di proporre anche alcuni generi alimentari di facile e immediato consumo quali salumi e formaggi, il companatico ideale per un pasto rustico, veloce e di poco prezzo. Poi arrivò la porchetta… E da allora fraschetta e porchetta sono diventati un binomio pressoché indissolubile, soprattutto ad Ariccia. Oltre a porchetta e vino, gli altri prodotti tipici offerti dalle fraschette moderne rappresentano il meglio della tradizione gastronomica di zona: salumi, formaggi freschi (mozzarelle, fior di latte, ricotte, caciotte) e stagionati (pecorino romano), olive (grosse e sugose, ottimo l’olio extravergine di produzione locale), sottoli e sottaceti insieme con l’eccellente pane locale, cotto al forno a legna e tagliato in grosse fette (ideali per la bruschetta al pomodoro strofinata con aglio, anch’essa tipica di questi posti). Immancabili le tipiche ciambelline al vino rosso (tanto per restare in tema!) da pucciare nel bicchiere. A Frascati sono dette ubriachelle (mbriachelle) e si accompagnano pure con una grappa chiamata cacchietto perché di uva bianca pizzutella. A Monte Porzio Catone si mangiano le serpette (biscotti di pasta frolla a forma di esse) e gli stinchetti che, di origine

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etrusca, in marzapane all’anice e con le mandorle, sono realizzati in forma di tibia (rientrano quindi nella categoria dei dolcetti anatomici di natura rituale). Questi prodotti si mangiano tutti in grande abbondanza, favoriti dall’ottimo vino locale. Non di rado però le moderne fraschette propongono primi piatti della cucina romana, come pasta alla carbonara, all’amatriciana o all’arrabbiata. Rari i secondi piatti. Non si riesce ad arrivarci! Per quanto riguarda i vini bisognerebbe scrivere un articolo a parte. I vini dei Castelli Romani, immortalati insieme con le gite fuori porta in alcune celebri canzoni come quella citata nel sottotitolo, sono considerati tra le migliori Doc dell’intera regione (in particolare il Frascati e il Marino) e commercializzati ovunque. La scelta, ricchissima anche per le straordinarie qualità del territorio di origine vulcanica, è tra bianchi, rosati e rossi nelle tipologie secco, amabile, frizzante e novello (solo per il rosso). I vitigni consentiti sono Malvasia di Candia e puntinata, Trebbiano e altri sino a un massimo del 30% per i bianchi. Per i rossi e i rosati sono leciti Cesanese, Merlot, Montepulciano, Nero buono e l’onnipresente Sangiovese. Particolarmente diffuso è un vino rosso leggermente frizzante, la “Romanella”, che scivola giù con grande scioltezza. La tradizione della fraschetta, anche sprovvista di cucina (ma ormai

raramente), resiste ancora oggi e con aumentato successo. Le fraschette sono diventate infatti abituale ritrovo anche per i giovani. Venuta meno la loro funzione sociale, sono locali che attirano per la loro semplicità in controtendenza, soprattutto gradita a chi cerca (anche se raramente trova…) il fascino “selvatico” dei tempi andati. Conferiscono inoltre elementi caratteristici alle località di appartenenza, contribuendo in modo determinante al reddito degli abitanti della zona e alla qualificazione turistica dei luoghi. E questo succede già dall’Ottocento, da quando appunto prese piede l’abitudine dei Romani delle gite fuori porta. Pur con tutti gli inevitabili distinguo, infatti, rimane invariato il fatto che ci si può riunire lì dentro anche soltanto per bere il vino “sciolto”, venduto in caraffe di varie dimensioni. Tradizionalmente ogni caraffa aveva un suo nome: quella da 2 litri boccale o barzilai, dal nome di un uomo politico romano di fine ‘800 noto per la non raccomandabile abitudine di offrire vino in grandi quantità ai suoi elettori; quella da un litro mezzo boccale o tubbo; quella da mezzo litro fojetta e quella da un quarto, chiamato naturalmente quartino. Un quartino, un po’ di porchetta tra due fettone di pane, olive e ciambelline. La gita fuori porta sarà sempre un successo. Nunzia Manicardi

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


IL GUSTO DI CAMMINARE Santiago de Compostela – Fisterra

Fino alla fine del mondo di Elena Simonini

“Camminare è naturale, è bello, ed è semplice, proprio come mangiare”: inizia così, con un primo articolo dedicato al cammino che da Santiago de Compostela arriva fino a Fisterra, una nuova rubrica a cura di Elena Simonini dedicata appunto al “gusto di camminare”. Elena è nata a Bologna e lavora nell’ufficio cultura di un piccolo comune della provincia di Modena. Si occupa di organizzazione di eventi, di comunicazione, e di scrittura creativa. Quando ha tempo prende, va, e cammina.

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Cabo Fisterra (in lingua galiziana; in castigliano: Cabo Finisterre). Il promontorio sull’Oceano Atlantico del nord-ovest della Galizia è punto d’arrivo del Cammino di Santiago di Compostela (photo © mrks_v – stock.adobe.com).

amminare è naturale, è bello, ed è semplice, proprio come mangiare. Ma la ricchezza delle cose più facili non è mai scontata, anzi, spesso necessita di pratica, passione, pazienza, e talvolta anche di un pizzico di curiosità, affinché si possa apprezzare e preservare. Ed è con questo spirito che qualche anno fa, in un momento in cui sentivo impellente il bisogno di arricchire la vita semplificandola, ho deciso di iniziare a camminare. Scelsi quindi di cominciare dal Cammino di Santiago de Compostela, uno dei più noti in Europa e nel mondo, il quale si sviluppa attraverso la Spagna del nord, fino alla regione della Galizia. Sono partita dalla fine però, prendendo il via dalla Cattedrale di Santiago (che infatti per i pellegrini costituisce tradi-

zionalmente la meta ultima del viaggio) per arrivare così fino all’oceano, fino alla “fine del mondo”, e cioè a Fisterra, località il cui nome trae origine dal latino Finis terrae che significa appunto confine, e quindi fine, della terra. Il percorso da Santiago a Fisterra consiste in un cammino di circa novanta chilometri, percorribile in tre tappe, sul quale sin dal medioevo si avviavano soltanto i pellegrini più avventurosi, quelli che, dopo aver raggiunto la città di Santiago e dopo aver pregato sulla tomba dell’apostolo San Giacomo, ritenevano di provare a spingersi ancora oltre, fino al punto più estremo della costa europea (e quindi del mondo) per bagnarsi nelle gelide e impervie acque dell’Atlantico. Infatti non è certamente un caso che il simbolo del Cammino, la famosa conchiglia, la

Jamón ibérico e pane, la perfezione Non chiamatelo Pata negra. Il prosciutto iberico merita più attenzione e conoscenza di un semplice appellativo che ne identifica solo lo zoccolo nero del maiale da cui proviene la sua carne. Lo Jamón ibérico, il prosciutto ottenuto da suini di razza Iberica, quelli con il mantello grigio e, spesso ma non sempre, unghie scure alle zampe, è il vanto gastronomico e una delle migliori produzioni dell’agroalimentare spagnolo, specialità che si tramanda fra tradizione e modernità. La carne è di colore rosso intenso con sottili venature di grasso, quel tanto che è sufficiente a renderlo più saporito, ma si tratta di un grasso animale simile dal punto di vista organolettico e chimico a un grasso vegetale, ricco di colesterolo “buono”. Ciò dipende dall’alimentazione dei maiali che si nutrono di ghiande, ad alto contenuto di acido oleico. Si gusta tagliato rigorosamente a mano, anche semplicemente con pane e un filo d’olio extravergine di oliva. Uno spuntino perfetto per i camminatori del Nord della Spagna (photo © Alexander Smushkov).

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Concha de Santiago, sia proprio quella che i pellegrini raccoglievano sulla spiaggia di Fisterra e che portavano poi con loro a testimonianza e ricordo del fatto di aver percorso interamente il lungo tragitto. La strada che conduce da Santiago a Cabo Fisterra non presenta particolari difficoltà, né forti dislivelli, tuttavia richiede un minimo di abitudine al cammino per poter affrontare un certo numero di chilometri giornalieri (fino ad una trentina). Ma ne vale assolutamente la pena! Il percorso è davvero incantevole e vi condurrà attraverso boschi, pianure e meravigliosi luoghi di eccezionale e immensa bellezza. Immensa come la distesa dell’oceano Atlantico che ad

un certo punto, da dietro una collinetta, spunterà improvvisamente in una infinità di accecanti brillii argentati. Questo momento qui, che per i viandanti più mattinieri accade verso il mezzogiorno del terzo giorno di cammino, credetemi, è una esperienza davvero unica e stupefacente perché, per quanto si possa averlo già visto l’oceano, e conosciuto, o magari anche navigato, arrivarci con la sola forza delle proprie gambe, sui propri piedi, passo dopo passo, respiro dopo respiro, ha tutto un altro senso, tutto un altro valore. Ma questo, sappiate, non riguarda solo l’oceano di Fisterra. Perché c’è, in generale, una sorta di particolare stupore, sensibilità e anche consapevolezza che la lentezza del camminare è in

grado di restituirci, e tutto assume così una dimensione diversa, più semplice, più diretta. I profumi, i silenzi, i colori, sono più intensi. E anche i sapori, sì. E infatti è stato proprio durante il mio cammino verso Fisterra che ho assaggiato il miglior petto di pollo di tutta la mia vita (pechuga de pollo a la gallega), e un polpo tra i più teneri e gustosi. E così, questo è per me il gusto di camminare. L’opportunità di andare semplicemente al passo, di saggiare la strada, le salite, le discese, gli scorci e, quando capita, anche di assaggiare i prodotti, le specialità, e i cibi che il cammino mi dà l’occasione di conoscere o semplicemente di riscoprire. Io parto, incamminatevi con me… Elena Simonini

Santiago(è)Tapas A novembre Santiago de Compostela ospita una kermesse enogastronomica che in un paio di settimane offre oltre 100 tipi di tapas, da degustare in una settantina di locali. È Santiago(è)Tapas, arrivata quest’anno alla sua undicesima edizione. Saranno oltre 34.000 i bocconcini preparati da chef e gestori di locali del capoluogo della Galizia, a base di jamón, queso del territorio, pulpo a la gallega, acciughe, pimentón e altre delizie (photo © Leszek Czerwonka). >> Link: www.santiagoetapas.com

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Las conchas de Santiago Si narra che “San Giacomo il Maggiore, dopo l’ascesa di Gesù al cielo, iniziò la sua opera di evangelizzazione della Spagna spingendosi fino in Galizia, remota regione di cultura celtica all’estremo ovest della penisola iberica. Terminata la sua opera, Giacomo tornò in Palestina dove fu decapitato per ordine di Erode Agrippa. I suoi discepoli, con una barca, guidata da un angelo, ne trasportarono il corpo nuovamente in Galizia per seppellirlo in un bosco vicino ad Iria Flavia, il porto romano più importante della zona. Nei secoli le persecuzioni e le proibizioni di visitare il luogo fecero sì che della tomba dell’apostolo si perdessero memoria e tracce. Nell’anno 813 l’eremita Pelagio (o Pelayò), preavvertito da un angelo, vide delle strane luci simili a stelle sul monte Liberon, dove esistevano antiche fortificazioni probabilmente di un antico villaggio celtico. Il vescovo Teodomiro, interessato dallo strano fenomeno, scoprì in quel luogo una tomba, probabilmente di epoca romana, che conteneva tre corpi, uno dei tre aveva la testa mozzata ed una scritta: Qui giace Jacobus, figlio di Zebedeo e Salomé”. Per questo motivo si pensa che la parola Compostela derivi da Campus Stellae (campo della stella, facendo riferimento alle stelle viste dall’eremita) o da Campos Tellum (terreno di sepoltura). Il Santuario di Santiago de Compostela è divenuto un luogo di culto che ogni anno accoglie numerosi fedeli provenienti da tutta Europa. Nel corso dei secoli il pellegrino che compiva il cammino lungo la Francia e la Spagna per giungere al Santuario, giunto sulle spiagge galiziane o sulla costa di Finis Terrae, raccoglieva le conchiglie delle capesante per poi cucirle sul mantello, sul cappello oppure appenderle al bastone. Il gesto rappresentava un simbolo di devozione, l’indicazione che il pellegrino aveva raggiunto e visitato la tomba di San Giacomo. Nel Medioevo e nei secoli successivi las conchas di San Giacomo divennero quindi una sorta di certificazione simile ad un documento con sigillo dell’avvenuto pellegrinaggio nella città di Santiago de Compostela e della visita alla tomba dell’apostolo di Gesù. Le strade francesi e spagnole che compongono l’itinerario sono state dichiarate Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Si tratta grossomodo (a seconda del sentiero e dell’allenamento) di un percorso di 800 km da percorrere in un mese.




EVENTI I dieci anni di Chef… al Massimo

Grande festa a FICO in ricordo di Massimo Zivieri

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ologna, 2 settembre 2018: una giornata piena di emozioni che celebra il bello della vita. “Chef… al Massimo” nasce dieci anni fa da un’idea della FAMIGLIA ZIVIERI per ricordare MASSIMO, figlio e fratello prematuramente scomparso a soli 37 anni, la sua passione per il lavoro di macellaio, la dedizione e la ricerca con i quali riuscì a trasformare la piccola macelleria di Monzuno in un punto di riferimento a livello nazionale per la qualità delle sue carni, legate a principi etici e sostenibili. E così puntuale, la prima domenica di settembre, anche quest’anno gli Zivieri, che portano avanti nelle proprie differenti attività quotidiane la professionalità e i valori che Massimo ha lasciato loro in eredità, hanno chiamato a raccolta gli amici

di Massimo, grandi chef, produttori di vino, birra, salumi, pasticcieri, arrivati carichi di “buone cose” ed entusiasmo da diverse regioni italiane. Con loro, le tante persone (oltre 2.000)che da dieci anni rispondono puntualmente a questo appello dedicato anche e soprattutto al piacere di stare insieme, al “bello della vita” appunto, e che, festanti, hanno invaso lo spazio esterno di FICO Eataly World, occupando le lunghe tavolate allestite tra gli stand. Prima di entrare nel vivo della giornata, ALDO ha ricordato il fratello Massimo sulle note del maestro FIO ZANOTTI e c’è stata la consegna del premio a lui dedicato per l’innovazione, la passione e la professionalità assegnato da CONFCOMMERCIO ASCOM ed EMIL BANCA a due imprenditori associati under 40. A vincere quest’anno

sono stati GIACOMO GUIZZARDI (I Signori del Barbecue) e MARIANGELA SALADINO (Clorofilla fiori). Il “sogno” di una carne di qualità nei piatti degli amici di Massimo Tante le proposte gastronomiche offerte ai partecipanti, suddivise in cinque colorati menu, preparate dagli chef con le carni della macelleria Zivieri: dai rigatoni al sugo di coda alla vaccinara e pecorino romano di FABIO FIORE del bolognese QuantoBasta alla pizza con salsiccia di pollo, patate al curry e salsa di peperoni di MATTEO ALOE di Berberè, passando per il carpaccio di Fassona piemontese al cacao, finta granita di pesca e noci di FRANCESCO MANOGRASSO e ROBERTO CORTESI del

Grandi chef, ottime proposte “carnivore”, come il panino con würstel di Mora romagnola al BBQ di Igles Corelli, e altrettanto ottimi vini e birre artigianali, un’atmosfera allegra, gioiosa, uniti in un evento che celebra la passione e l’amicizia, la buona tavola e il piacere di stare insieme: tutto questo e molto di più è Chef… al Massimo. 88

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Per i dieci anni di “Chef… al Massimo” la famiglia Zivieri ha scelto gli spazi di FICO. «Ci fa piacere essere i primi a proporre un grande evento nella parte esterna del parco» ha detto Aldo Zivieri. «FICO è uno spazio dove la sapienza dei mestieri antichi è raccontata attraverso forme innovative, un concentrato di qualità, comfort e accoglienza». Premiata Salumeria Italiana, 5/18

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Alcuni piatti preparati dagli chef e altri protagonisti della decima edizione di “Chef‌ al Massimoâ€?. 90

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ristorante IL PALAZZO e l’Emilian Fried Chicken di FRANCESCO VINCENZI. E ancora, il Gin Beef di DEMIS ALEOTTI dell’omonima Bottega di Crevalcore, lo zampetto di maiale con limone candito firmato da ANDREA SERRA del Caminetto d’Oro, la coscia di daino di ALBERTO BETTINI della Trattoria Amerigo 1934 di SavignO, le polpette in maschera veneziana di MAURO LORENZON, il tortino di coda di Mora romagnola con trota affumicata di FRANCESCO BALDISSARUTTI del Perbellini di Isola Rizza (VR), EMILIO BARBIERI, del

ristorante modenese Strada Facendo, col suo meraviglioso Parole, parole, parole, cioè lingua con salsa verde e gialla, rafano, macaron alla nocciola e croccantino alla mostarda, il würstel di Mora romagnola al BBQ di IGLES CORELLI… «Grazie a tutti i presenti, grazie agli amici di Massimo e a tutti gli chef per essere qui con noi anche in questa nuova location, questo parco dell’agroalimentare dove abbiamo una nostra attività, il Teatro della Carne, insieme agli amici de LA GRANDA. Siamo

certi di aver scelto col cuore, sognando il meglio per tutti voi» ha detto Aldo, affiancato sul palco dai genitori GRAZIANO e ADUA, dai fratelli FABRIZIO e STEFANO e dalla sorella ELENA. Grazie alla famiglia Zivieri, aggiungiamo noi, che è stata capace di trasformare un dolore immenso in un regalo per gli altri fatto di bontà, sorrisi e felicità, che si rinnova di anno in anno. >> Link: www.chefalmassimo.it www.macelleriazivieri.it

Zivieri, una famiglia e una macelleria in evoluzione

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La storia della Macelleria Zivieri inizia nel 1987 a Monzuno (BO) con l’apertura in una bottega nel centro del paese. All’attività tradizionale della macelleria sono seguite via via negli anni tante, tantissime altre iniziative: un florido allevamenti di suini di Mora romagnola sull’Appennino bolognese, la gestione diretta del macello di Castel di Casio (BO), la creazione della prima filiera italiana di selvaggina cacciata, l’apertura insieme a Fabio Fiore di RoManzo, macelleria con cucina nel cuore di Bologna, un nuovo laboratorio e punto vendita delle carni di Zola Predosa, l’ideazione del Teatro della Carne a FICO insieme a Sergio Capaldo. In attesa di un nuovo progetto basato sull’artigianalità dei salumi storici bolognesi, la guida dall’alto di Massimo ispira i fratelli che quotidianamente, insieme all’aiuto degli oltre 50 collaboratori, gestiscono un’azienda in continua evoluzione, ma fermamente ancorata ai principi del suo fondatore.

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RASSEGNE

Terra Madre Salone del Gusto edizione 2018, il futuro è donna L’evento numero uno targato Slow Food dedicato ai cibi del mondo rientra negli spazi del Lingotto dopo l’esperienza open air di due anni fa e il suo fondatore, Carlo Petrini, lo inaugura sottolineando il valore e la forza delle donne, spina dorsale dell’alimentazione, dalla cucina all’agricoltura a livello globale. Sono le donne che alimentano il pianeta di Gaia Borghi

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ello spazio riservato ai convegni delle fiere del Lingotto, inaugurando la 12a edizione del Salone del Gusto, l’ottava per Terra Madre, il fondatore di Slow

Food CARLO PETRINI parla ad una sala gremita, di giornalisti, rappresentanti istituzionali, uomini e donne del cibo arrivati a Torino da ogni parte del mondo. A loro Petrini racconta della soddisfa-

zione del lavoro fatto in ventidue anni dal movimento della chiocciola, lenta sì, ma tutto sommato non così tanto se si guarda “da dove” si partiva, se ci si ferma ad ammirare orgogliosamente gli

Tutto al femminile lo staff allo stand del presidio Slow Food “Infusi e frutti spontanei del Rosson”. Il distretto di Rosson si trova nel nord della Bielorussia, non lontano dai confini con Russia e Lettonia. Una delle tradizioni più antiche dei suoi abitanti è la raccolta di bacche ed erbe spontanee: sono infatti circa 12.000 le persone che in quest’area si dedicano alla raccolta di mirtilli neri e rossi, molto grandi e succosi, di funghi, di rosa canina e di erbe selvatiche. Bacche e erbe vengono poi sottoposte ad essiccazione per la produzione di infusi (photo © Elena Cerino Abdin / Archivio Slow Food).

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importanti traguardi raggiunti. «Quando abbiamo iniziato questa avventura — dichiara Carlo Petrini — la sensibilità sulle tematiche del cibo non era assolutamente paragonabile a quella di oggi. Ricordo anzi che in apertura della prima edizione del Salone del Gusto dissi “il giorno in cui il cibo avrà la stessa attenzione della moda forse potremo dire che abbiamo risolto un problema di dignità e valorialità”. Oggi ci siamo arrivati, anche se l’approccio mediatico alla gastronomia non rende giustizia del percorso intrapreso in questi due decenni». Eh sì, perché il cibo oggi è davvero sotto i riflettori, al centro dei discorsi della gente, protagonista della comunicazione a 360 gradi, web, TV, carta stampata. «Pure troppo» ironizza Carlin. «Non se ne può più di programmi televisivi deliranti nei quali ci sono persone che spignattano ad ogni ora del giorno e della notte. Tra l’altro, dietro ai fornelli, ci sono quasi sempre uomini. Eppure la “cultura del cibo” è donna. Sono le donne la spina dorsale della cucina e, prima ancora, dell’agricoltura, dell’allevamento, della pesca». La parola alle donne Diversi gli appuntamenti nei quali le donne hanno avuto un ruolo di primo piano, con dibattiti specifici sugli stereotipi ancora vivissimi nella società contemporanea, dalla caduta dell’angelo del focolare alla manager in carriera, e sulla ricerca di un nuovo equilibrio. Valga su tutti il forum Dal campo ai ristoranti: potere alle donne, durante il quale LELLA COSTA ha coordinato alcuni interventi di produttrici e cuoche della rete di Slow Food, partendo da un concetto fondamentale. «La questione femminile si fonda su un equivoco: che riguardi solo le donne» ha detto l’attrice. «È un errore stupido, perché le questioni femminili non riguardano solo le donne ma tutti. Anche e soprattutto gli uomini. Il talento delle donne è una risorsa straordinaria. Da valorizzare, sostenere, ammirare». Perdersi e innamorarsi al Salone del gusto Girovagando tra i padiglioni 1, 2, 3, quelli dedicati agli espositori italiani e alle collettive regionali, abbiamo incontrato vecchie conoscenze, ne abbiamo fatte di nuove, abbiamo ritrovato amici,

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In alto: Simonetta e Annarita Coccia dell’omonimo salumificio viterbese specializzato nella produzione dei salumi tipici del territorio, susianella in primis. Tra le novità portate a Torino, il salame al vino Violone e “Guancia mia”, il primo brevetto per un guanciale! Al centro: tutte le sfumature della nocciola nello stand della Maison della Nocciola, da 150 anni specializzata nella sua lavorazione. In basso: l’Acetaia Giusti di Modena.

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Vecchi amici e nuove conoscenze al Salone del Gusto. 1) Chiara, Sara e Luca nello stand dell’azienda agrituristica Corte San Ruffillo di Dovadola (FC). Composte di frutta e confetture, chutney di verdura, vini, olio, salumi, sughi… Bio made in Romagna: ne sentiremo parlare. 2) Donatella De Pietri e il figlio Francesco nello stand dell’acetaia La Bonissima di Casinalbo (MO). 3) Caseificio, salumificio, forno: tutte le eccellenze della dispensa di San Patrignano in bella mostra a Torino. Da provare assolutamente il loro pecorino affinato in barrique con fave di cacao. 4) Speck al naturale, mortandela, salami e chi più ne ha più ne metta nello stand della Macelleria Corrà – Dal Massimo Goloso di Coredo (TN). 5) Armando Benedetto dell’omonimo salumificio di Campo Calabro, in provincia di Reggio Calabria. 6) Dalla Campania lo stand Cooperativa agricola Bagnolese carico di ottimi pecorini. 7) La porchetta della Porchetteria Giorgini di Selci (RI), tradizione dal 1890, con Damiano Giorgini. 8) Manuele Avagliano con gli straordinari salumi di suino e di cinghiale della sua macelleria-norcineria di Sabaudia. 9) Tutta la gamma preziosa degli aceti dell’azienda agricola Leonardi di Magreta di Formigine (MO). 10) Luciano Catellani con i formaggi de I Sapori delle Vacche Rosse di Reggio Emilia. 11) Lo straordinario prosciutto di San Daniele targato la Glacere. Un prodotto artigianale, totalmente naturale, profumato e buonissimo. 12) Una pioggia di Culatelli di Zibello Dop nello stand dell’Antica Corte Pallavicina di Polesine Zibello (PR). 13) Il Salumificio Nadia di Caluso (TO), produttore dei salumi tipici del Piemonte, come il salampatata del Canavese. 14) I sapori delle montagne del Trentino nei salumi della Macelleria Magnani di Salorno (BZ) di Loris Ferrari. 94

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In alto: Sergio Falaschi, grande macellaio, norcino e, soprattutto, “venditore di salubrità”. Al centro: allo stand del presidio della mortadella classica e dei salumi rosa tradizionali bolognesi, Vidmer Cantelli, Dino Negrini, Giuseppe Cavalli e Pierluigi Porzi. In basso: le bontà di Langa del Salumificio Chiapella di Clavesana (CN).

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storici produttori da sempre seguaci della filosofia del buono, pulito e giusto e siamo incappati in alcune interessanti novità, anzi, veri e propri colpi di fulmine. Come il salame con i fiori di montagna della Macelleria Magnani di Salorno, Bolzano (telefono: 0471 884536), indirizzo arcinoto in Sud Tirolo per le golosità salumiere che escono dalla sua soglia. Questo salamino viene privato del budello, stagionato per 60 giorni circa e ricoperto con una gelatina che consentirà ad una delicata miscela di fiori secchi finemente spezzettati di restare attaccata: davvero delizioso. A rappresentare la quarta generazione di macellai della sua famiglia (www.avaglianocarni.it), MANUELE AVAGLIANO è qui a Torino con gli straordinari salumi della sua macelleria-norcineria di Sabaudia, i prosciutti e i salami di suino — un occhio di riguardo per quello aromatizzato alla paprika con una tavoletta di legno che gli dona una forma appiattita e lo rende simile ad una soppressata — le tipiche coppiette di vitellone ma, soprattutto, i salumi realizzati con la carne di cinghiali provenienti da aree naturalistiche protette della provincia di Latina (Parco Nazionale del Circeo e Parco Naturale Regionale di Gianola e Monte di Scauri, «con i quali abbiamo apposite convenzioni per la cattura degli animali vivi», mi dice Manuele), perfetta espressione della territorialità, della tracciabilità e della filiera corta. La Pasticceria Dolcemascolo di Frosinone (www.pasticceriadolcemascolo. it), per la sua terza volta al Salone del Gusto, oltre alle proprie specialità dolci come gli amaretti morbidi alle mandorle, ha voluto proporre la versione salata del maritozzo laziale, la tipica pagnottella soffice dalla particolare forma un po’ allungata che solitamente viene spaccata a metà e riempita di panna montata o di crema. SIMONE DOLCEMASCOLO mi racconta che l’idea del maritozzo salato nasce dalla volontà di collaborare con altre aziende “vicine di casa” e dar voce su un palcoscenico importante come quello del Salone ad un intero territorio quindi: il maritozzo Dolcemascolo, realizzato con farine macinate a pietra, diventa un involucro per ospitare altre specialità della Ciociaria, come la mortadella della Macelleria Sella di Arpino, la salsiccia di Amaseno della

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1) Marco Busti e lo staff (Chiara, Alessandra e Vania) del Caseificio Busti di Acciaiolo di Fauglia (PI). 2) Francesco Brunazzi e i ragazzi dell’azienda agricola Tenca di Casalmaggiore (CR), che produce salumi artigianali dal 1957. 3) Raffaele, super “cortador” nostrano, e Moreno allo stand del Salumificio Pedrazzoli di San Giovanni del Dosso (MN), leader nella produzione di salumi biologici. 4) Carlo e il papà Beppino Occelli, al salone del Gusto con il burro e tutta la gamma di formaggi prodotti nel Cuneese, tra Farigliano e l’affascinante borgo di Valcasotto.

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Maritozzo con la panna, traboccante di crema o… con la mortadella? Al salone del Gusto di Torino ci siamo innamorati dei maritozzi salati che la Pasticceria Dolcemascolo di Frosinone ha proposto per l’occasione. Quelli in foto sono con la mortadella della macelleria Sella di Arpino. Fattoria Lauretti e, in versione green, il carciofo di Cori, il peperone Pontecorvo DOP e la salsa di cavolo nero bio. Lo speck di Nero calabrese di ARMANDO BENEDETTO dell’omonimo salumificio di Campo Calabro, in provincia di Reggio Calabria (salumibenedetto.it), aromatizzato alle erbe grecaniche e al bergamotto. Grande attenzione alla scelta della materia prima, proveniente da maiali di proprietà allevati allo stato semi-brado in zone di alta collina ricche di querce e castagni. «Lo speck calabrese nasce dalla rivisitazione di un’antica ricetta della tradizione grecanica, impreziosita attraverso l’impiego di sapori tipici della nostra terra, come il bergamotto, il rosmarino e l’alloro» mi racconta Armando. «La stagionatura lunga e lenta esalta il sapore della coscia dei nostri maiali, rendendola dolce e aromatica». Il Salumificio produce anche diversi salumi completamente naturali, senza alcun tipo di conservante aggiunto, come il salame casereccio o la salsiccia, anche in versione piccante. Natura made in Calabria. Il Blu di bufala delle Bufale di Cuneo Moris (www.caseificiomoris.it), il cui caseificio è situato a pochi passi dall’allevamento di proprietà, è un formaggio erborinato a pasta semidura realizzato con solo latte di bufala pastorizzato e fermenti del Roquefort e stagionato minimo tre mesi. “In ogni goccia di

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questo latte, puoi assaporare tutto il buono prodotto da bufale che vivono all’aperto, respirano aria buona e si cibano delle nostre coltivazioni. Se il latte è di una bufala allevata nel rispetto dei suoi ritmi e spazi, si sente” scrivono sul sito dell’azienda. Beh, è vero! Il Piemonte va alla Granda! Allo stand dell’associazione di allevatori e Consorzio La Granda (www.lagranda. it) del veterinario SERGIO CAPALDO ci siamo letteralmente innamorati della Gradisca, un prodotto speciale, «il nostro cavallo di battaglia» mi dice lo chef LUCA CANTÙ. Si tratta di carne marinata, il cuore della coscia di un bovino adulto di razza Piemontese, lasciata in infusione 40 giorni con miele e tè affumicato cinese Lapsang Souchong. Ha una consistenza simile ad un carpaccio o ad una bresaola tagliata non troppo sottile. Da gustare condita con solo olio extra vergine d’oliva: dolcissima, indimenticabile! Il concentrato dell’Emilia in un involtino? Si può fare! Prendete una fetta di culatello di Zibello Dop 24 mesi dell’Antica Corte Pallavicina di Polesine Zibello (PR) dei FRATELLI SPIGAROLI (www.anticacortepallavicinarelais.it), adagiatevi un paio di scaglie del dal formaggio di vacche rosse di razza Reggiana sempre 24 mesi di LUCIANO CATELLANI (I Sapori delle Vacche Rosse, www.isaporidellevaccherosse.com) di Reggio Emilia e conditelo, infine, con

qualche goccia di aceto balsamico tradizionale di Modena DOP di 80 anni di invecchiamento dell’Acetaia La Bonissima di Casinalbo (MO) della FAMIGLIA DE PIETRI (www.acetaialabonissima.it). Ora mangiatelo e siate felici, soprattutto di vivere in un Paese come l’Italia, così ricco di prodotti che il resto mondo ci invidia e, sempre più spesso, e ci auguriamo continui a farlo in abbondanza, viene a cercare, mangiare e comprare. Il panettone della pasticceria Olivieri 1882 di Arzignano (VI), premiata lo scorso anno dal GAMBERO ROSSO tra le migliori colazioni d’Italia. Il panettone classico, la fetta di un bel giallo carico, è realizzato con lievito madre, farine macinate a pietra, burro fresco belga, uova biologiche da galline allevate a terra, arancia e limoni canditi in proprio, uva sultanina australiana grande e sugosa, vaniglia Bourbon. Grazie ad un packaging curatissimo può essere messo sotto l’albero senza aggiungere nulla, così come quello in vasocottura, contemporaneo nella proposta, super tradizionale nel gusto. Non mancheremo di assaggiare quello impreziosito dalle amarene di Cantiano, quello con pere e cioccolato fondente Valrhona 55% o il Gianduia con pasta di nocciola delle Langhe IGP. Enjoy Christmas time. Bilanci e prospettive per il 2020 I dati finali forniti dall’ente organizzatore parlano di numeri in linea con la manifestazione di due anni fa (i passaggi registrati al Lingotto sarebbero 220.000), l’esperienza all’aperto tra il centro e il Parco del Valentino che tanto aveva diviso gli operatori, chi entusiasta e chi totalmente insoddisfatto per le difficoltà logistiche incontrate e per l’impossibilità reale di affrontare l’orda barbarica, che si ritrova spesso negli eventi a carattere alimentare, fatta di persone che pensano solamente a riempirsi la bocca senza rendersi nemmeno conto di ciò che hanno di fronte. In barba alla famosa “educazione” del consumatore. Qualcosa di simile si è visto anche quest’anno e, raccolte tante e diverse opinioni in giro per i padiglioni, apparsi in generale un po’ sottotono rispetto alle aspettative, può essere sia arrivato il momento di fermarsi un attimo e “ripensare” un appuntamento che è davvero unico nel suo genere, così importante

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Il Parmigiano Reggiano e il dilemma della formaggiera A Torino il Consorzio del Parmigiano Reggiano è stato protagonista di una tavola rotonda dal titolo curioso sul ruolo che il mondo ho.re.ca. può avere nella promozione e nella comunicazione del valore del “re dei formaggi” e, più in generale, dei prodotti Dop: “Parmigiano Reggiano al ristorante: il dilemma della formaggiera”. La premessa è che nel nostro Paese il fuori casa incide per il 35% dei consumi delle famiglie: si stima che in Italia il mercato della ristorazione pesi per 80 miliardi di euro. «Si tratta di un settore estremamente ramificato, fatto di 330.000 imprese, di cui 175.000 ristoranti e 3.000 mense. Un universo difficile da controllare» spiega Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano. In Italia, il canale ho.re.ca. incide per il 6-7% del mercato del Parmigiano Reggiano, pari a 90.000 tonnellate. Secondo i dati forniti dagli organismi di vigilanza del Consorzio, riferiti a 620 visite — effettuate dagli ispettori del consorzio stesso — in ristorante nel biennio 2015/16, il 26% delle strutture ristorative dichiara l’utilizzo di Parmigiano Reggiano nel proprio esercizio. Al contempo, secondo un’indagine Ipsos 2017 (campione di 1.000 interviste), il 60% dei clienti di ristoranti chiede di poter avere al proprio tavolo Parmigiano Reggiano. «Proprio dal confronto tra i dati emerge quello che noi abbiamo definito il “dilemma della formaggiera» continua Bertinelli. «A fronte di una richiesta di Parmigiano Reggiano nel caso del 60% dei clienti, solo il 26% dei ristoranti dichiara di averlo in carta. Questo significa che almeno 2 formaggiere su 3 non contengono Parmigiano Reggiano». Eugenio Signoroni, curatore della guida “Osterie d’Italia”, ha una posizione ben definita sul tema. «Tra gli elementi che riteniamo centrali quando valutiamo un’osteria ci sono l’accoglienza e l’attenzione per le materie prime utilizzate. Il bravo oste non è solo colui che sa accogliere con il sorriso il suo ospite, ma è anche colui che sa valorizzare e raccontare nel modo giusto gli ingredienti che utilizza. La formaggiera è un modo certamente comodo per portare il formaggio grattugiato a tavola, ma è il modo peggiore se lo si vuole valorizzare e se si vuole fare un servizio al cliente. Un ristorante attento e realmente interessato a proporre al suo cliente il meglio dovrebbe portare al suo ospite un pezzo di formaggio a tavola con una grattugia e poi o dovrebbe occuparsi di grattare direttamente il formaggio sul piatto o dovrebbe trovare un modo per lasciarlo fare a lui. Solo così si ha la certezza di ciò che viene servito e si è sicuri della freschezza del prodotto». Dietro il “dilemma della formaggiera” si nasconde quindi il tema della trasparenza e della corrispondenza tra quanto i ristoratori dichiarano nel menu e quanto viene effettivamente usato in cucina come ingrediente o portato in tavola. Per il Consorzio, la soluzione passa attraverso tre azioni. La prima è rappresentata da un maggior numero di controlli sulle attività ristorative, col necessario sostegno fornito ai Consorzi delle istituzioni; la seconda strada è rappresentata da un’attività di sensibilizzazione e formazione focalizzata sulle imprese ristorative stesse; il terzo cardine della strategia, infine, è rappresentato dal consumatore. «È il nostro primo e più forte alleato» conclude Bertinelli (photo © Paolo Properzi / Archivio Slow Food). >> Link: www.parmigiano-reggiano.it

per Torino, l’Italia tutta e oltre. Quello che rende magici il Salone del Gusto e Terra Madre, infatti, sono la “rete” che ne sottende la realizzazione, il principio di accoglienza, i produttori che lottano da sempre contro l’omologazione del gusto, per la salvaguardia del proprio territorio, di antichi saperi e tradizioni millenarie, sono i 7.000 delegati giunti da tutto il mondo che, come ha ricordato

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DANIELE BUTTIGNOL, segretario generale di Slow Food, «fanno sì che da qui partano nuovi progetti per il futuro del nostro movimento e, soprattutto, la nostra proposta per una società migliore». «Terra Madre è vedere chef israeliani e libanesi che cucinano insieme, delegati russi e statunitensi che discutono di un futuro comune, in cui è il cibo a rappresentare la soluzione», ha detto

RICHARD MCCARTHY, direttore esecutivo di Slow Food USA, presentando Food for Change, la nuova campagna di Slow Food che si concentra sulla relazione tra cibo e cambiamento climatico. Tanto è stato fatto, tanto c’è ancora da fare e il 2020 non è poi così lontano. Gaia Borghi >> Link: www.slowfood.it

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Crudo di Cuneo Dop: più trasparenza verso il consumatore «Il Salone del Gusto rappresenta la principale manifestazione del food in Piemonte e per il Consorzio di tutela e promozione del Crudo di Cuneo è un appuntamento irrinunciabile» ha dichiarato Chiara Astesana, presidente del Consorzio, presente all’evento con un grande stand allestito con la collaborazione della Carni Dock di Lagnasco, unico produttore del crudo di Cuneo Dop. «Torino rappresenta per il prosciutto Crudo di Cuneo, unico salume piemontese a potersi fregiare del riconoscimento Dop, la principale area di mercato del prosciutto stesso con oltre 120 punti vendita tra salumerie e macellerie e circa 30 ristoranti che servono il nostro prodotto. Quest’anno, in particolare, celebriamo il gemellaggio con la Molini Bongiovanni, che produce farine speciali per fare del buon pane e delle ottime focacce. Non c’è infatti modo migliore per gustare il prosciutto crudo di Cuneo se non in mezzo a due buone fette di pane o con una focaccia». Implementato un sistema di etichettatura elettronica per comunicare con chiarezza e completezza le caratteristiche del prosciutto al consumatore Nel corso della manifestazione è stato presentato ai visitatori il sistema di etichettatura elettronica che consente di conoscere, di ogni singolo prosciutto, ogni dettaglio e informazione sulla sua storia produttiva. «L’etichettatura dei prodotti alimentari è oggetto di grande dibattito e contesa negli ambienti politici e del settore da alcuni decenni» ha raccontato durante la presentazione la presidente Chiara Astesana. «L’indicazione in etichetta dell’origine del prodotto è senz’altro il principale oggetto del contendere.Tale contesa ha visto, nella maggioranza dei casi, il Nord Europa confrontarsi con il Sud Europa sull’opportunità o meno di indicare in etichetta l’origine del prodotto o delle materie prime che lo compongono. L’etichetta rappresenta infatti il primo mezzo di comunicazione verso il consumatore, soprattutto per i prodotti confezionati. Un po’ diverso è il caso dei prodotti che vengono serviti al banco, i salumi, i formaggi, ecc… Il prosciutto crudo di Cuneo Dop è venduto, al momento, solo nelle salumerie e macellerie tradizionali con taglio al banco. Nella fattispecie si ha un prosciutto a denominazione di origine protetta con origine ben definita dal disciplinare di produzione e controllata da ente terzo. Il problema che si sono posti il Consorzio di tutela e promozione della Dop e i suoi soci era come comunicare in modo completo e trasparente al consumatore “la storia” del prosciutto che si accinge ad acquistare. Tenendo conto che non si può chiedere al consumatore di conoscere a menadito i disciplinari delle diverse produzioni Dop o Igp — prosegue la Astesana — siamo però in presenza di un consumatore più attento ed esigente che chiede informazioni complete e sicure sull’alimento che acquista. Occorreva dunque implementare uno strumento che consentisse di utilizzare la base dati costituita dal sistema qualità della Dop, verificata dall’ente terzo, trasferendo al consumatore le informazioni di suo interesse». La rintracciabilità «Alla base del sistema qualità della Dop crudo di Cuneo ci sono quattro segni/ tracce indelebili che vengono fissare sulla coscia del maialino, sulla coscia e poi sul prosciutto stagionato. Senza questi segni non sarebbe possibile ricostruire il percorso del prosciutto e dare alcune garanzia al consumatore» ha spiegato il segretario del Consorzio Giovanni Battista Testa (in foto, al centro dello stand, nella pagina a lato, con i collaboratori Maria Bonaria Bozzo e Gianfranco Moine). «Tutti i passaggi sono verificati e controllati dagli enti terzi incaricati dal MiPAAFT. Un attento esame rivelerà quindi tutto il percorso di ogni singola coscia». A partire dal tatuaggio sulla coscia del maialino, uno speciale tatuaggio indelebile posto dall’allevatore su entrambe le cosce del suino, con il proprio codice di identificazione e il mese di nascita dell’animale; il timbro a fuoco sulla coscia apposto al

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macello (PP) e l’identificativo dello stabilimento di macellazione; il timbro a fuoco di inizio stagionatura con giorno, mese e anno riportati sulla cotenna del prosciutto (la data di entrata in salagione costituisce anche il numero di lotto di lavorazione); il marchio a fuoco della Dop. «Al termine di questo lungo processo produttivo, dopo un attento esame di verifica della conformità di ogni lavorazione, l’ente terzo imprime il marchio a fuoco sui due lati maggiori della coscia e su ogni trancio nel caso di porzionatura. La marchiatura è realizzata direttamente dall’INOQ incaricato dal Ministero delle Politiche agricole. Il marchio simboleggia tre importanti elementi dell’area di produzione: la forma a punta delle montagne che circondano la zona di produzione, la città capitale che ha pianta topografica a forma di “cuneo” e la forma stilizzata del prosciutto Crudo di Cuneo. Il crudo di Cuneo per essere autentico deve riportare sulla cotenna il marchio a fuoco ben visibile». Il sistema di etichettatura elettronica «Ogni singolo prosciutto crudo di Cuneo Dop è identificato con una carta d’identità che illustra i connotati del prodotto e sulla quale è fissato il QR Code che contiene tutti i dati della storia del prosciutto stesso» conclude Sergio Manzone, responsabile qualità di Carni Dock. «Il QR Code viene esposto nel punto vendita e può essere letto dal consumatore con un semplice click del proprio smartphone o altro dispositivo. Esso contiene le seguenti principali informazioni: l’allevamento dove è nato e dove è stato allevato il suino, cosa ha mangiato, dove è stato trasformato, dove sono state salate le cosce e per quanto tempo è stato stagionato il prosciutto. In questo modo la tracciabilità è certa, completa e messa in vetrina. Una semplificazione e una garanzia in più per il consumatore».

A Torino il Gruppo Raspini presenta un nuovo brand Raspini ha scelto Terra Madre Salone del Gusto per presentare al grande pubblico un’importante novità. L’azienda, con oltre 70 anni di tradizione artigianale e innovazione industriale alle spalle, ha infatti recentemente acquisito il Prosciuttificio San Giacomo, realtà familiare specializzata nella produzione di prosciutto di Parma, sito a Sala Baganza (PR), potendo così completare la proprio offerta di prodotto. Il prosciutto di Parma San Giacomo è un perfetto mix di tradizione ed innovazione, un risultato reso possibile dalla meticolosa scelta della materia prima e dal rispetto dei metodi naturali e tradizionali di produzione, al fine di garantire un prodotto con caratteristiche inconfondibili, come il color rubino chiaro e uniforme, l’elevata stagionatura bilanciata con la morbidezza, il gusto dolce e fragrante. Fondato nel 1975 e oggi con una produzione annua di circa 70.000 Prosciutti Parma Dop, il Prosciuttificio S. Giacomo va dunque ad aggiungersi agli altri due brand del Gruppo, Raspini e Rosa. Il prodotto sarà destinato soprattutto all’export e a canali distributivi attenti all’alta qualità. >> Link: www.raspinisalumi.it

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FORMAGGIO Riconosciuto dall’Unione Europea come Igp tradizionale di Cipro

Halloumi, il formaggio che mette d’accordo Greci e Turchi Arricchito con foglie di menta a scopo antibatterico, di gusto salato, è ottimo sia crudo che alla griglia o fritto oppure come complemento di insalate ed è diffuso in entrambi i territori in cui è diviso il territorio dell’isola. La ricetta originale prevede latte crudo di capra e di pecora, però l’industria oggi impiega anche quello di mucca di Nunzia Manicardi

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e e quando viaggerete nel Mediterraneo orientale, ricordatevi di fermarvi a Cipro a gustare l’halloumi, il formaggio tipico riconosciuto dall’Unione Europea — di cui Cipro è stato membro dal 2004 — come prodotto IGP tradizionale dell’isola. Riconoscimento ancor più significativo quando si pensi che il territorio cipriota dal 1974 è diviso in due parti: quella greco-cipriota della Repubblica di Cipro a sud della

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linea verde di demarcazione e, al di sopra di essa, quella turco-cipriota della Repubblica Turca di Cipro Nord (riconosciuta però come stato soltanto dalla Turchia), così come da un muro è tuttora divisa la capitale Nicosia, situata nel Nord. Ma l’halloumi sfugge alle ragioni degli opposti stati e delle divergenti regole storico-politiche; è cipriota e basta, anche perché la sua origine probabilmente non né greca né turca. Si presume infatti che sia stato

introdotto a Cipro da Arabi mercenari provenienti dalla Siria e dalla Palestina che si stabilirono sull’isola durante il dominio dei Franchi (1192-1489 d.C.). Araba sarebbe anche l’origine della parola, derivata forse da helime che significa “formaggio”, benché alcuni abbiano ipotizzato una derivazione dal termine greco antico che indicava il sale o dall’italiano “salamoia”. Quel che è certo è che l’halloumi, secondo testimonianze scritte e orali, viene pro-

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dotto nell’isola da centinaia di anni. I primi riferimenti risalgono al 1554 d.C. con la citazione dello storico FLORIO BUSTRON di pecore e capre di Cipro e di un formaggio denominato halloumi (in italiano calumi) prodotto con un misto di latte ovino e caprino. Anche MONK AGAPIOS, nel suo libro Agronomics del 1643 d.C., cita una ricetta di Cipro per la preparazione dell’halloumi mentre KYPRIANOS (come ricorda Slow Food che di questo formaggio ha fatto un proprio presidio) nel suo repertorio storico del 1788 d.C. descrive l’halloumi come un formaggio “delizioso” e “venduto dovunque in quantità”. La ricetta originaria prevede l’impiego di latte crudo di sola pecora o misto pecora e capra. L’industria però in tempi recenti ha introdotto anche il latte di mucca, ormai diventato prevalente in questo tipo di produzione, abbassando il prezzo ma portando ad un’inevitabile alterazione del sapore e perdita di parte di quelle tipiche caratteristiche organolettiche che derivano dalla microflora presente nel latte di capra e di pecora. L’evoluzione dell’aroma è inoltre favorito, durante la fase di maturazione, dai lieviti presenti nel siero salato usato per lo stoccaggio delle forme e dai batteri acido lattici non starter provenienti dall’ambiente di caseificazione. Tutti elementi, anch’essi, che nel prodotto industriale con latte di mucca tendono a scomparire o a uniformarsi appiattendosi. Del resto, sta scomparendo anche la piccola pastorizia, tradizionale e millenaria fonte di reddito dell’isola di cui l’halloumi è simbolo, sostituita dagli allevamenti bovini su larga scala, senz’altro più remunerativi anche se più impattanti. Sono state introdotte razze altamente produttive, anche ovicaprine, e questo ha provocato un aumento della produzione zootecnica in stalla a scapito di quella praticata nei pascoli. Le razze industriali, sia bovine che ovicaprine, hanno poi bisogno di alimenti adatti che non sono quelli offerti dal magro pascolo delle brulle terre dell’isola, a parte il fatto che non tollerano le alte temperature abituali. Tutto questo sta provocando una pericolosa perdita delle popolazioni e razze locali di capre (in particolare Machaeras e Ntopia) e di pecore (soprattutto Chios) oltre, come già ricordato, a favorire la

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Insalata di halloumi e quinoa. produzione di un halloumi che sempre più va discostandosi dall’originale. Lo si trova ovunque, dai banchetti dei mercatini alla Grande Distribuzione, essendo inoltre uno dei pochi formaggi prodotti e consumati a Cipro. È reperibile facilmente anche in Italia nel contesto della Grande Distribuzione. Si rafforza così l’elemento identitario, però diminuisce quello tradizionale. Sono passaggi, del resto, inevitabili oggi in qualunque parte del mondo. Fritto, alla piastra, con l’anguria, le melanzane o la salsiccia d’agnello L’halloumi è un formaggio a pasta molle, di colore bianco lucente e, come ricordavano le succitate ipotesi linguistiche, di sapore piuttosto salato perché nell’epoca a cui risale la sua origine il sale era un valore nutrizionale da aggiungere quando possibile essendo un prodotto di non facile reperimento e indispensabile per la sopravvivenza. Oggi per noi è il contrario, per cui chi soffre di ipertensione dovrebbe consumare l’halloumi con parsimonia oppure, quando lo mischia con altri ingredienti come in insalate, evitare di salare ulteriormente. Ricco di proteine e di grassi, ha circa 330 calorie per 100 grammi. Contiene abitualmente all’interno foglie di menta (Mentha viridis)

che, oltre a conferire aroma, servono per prolungare la conservazione grazie alla loro azione antibatterica. La menta viene non a caso definita “disinfettante verde” per la presenza di un principio attivo, il mentolo, eccellente in caso di disturbi gastrointestinali e come disinfettante alimentare. Foglie di menta secca sono utilizzate anche per avvolgere le forme quando sono fatte riposare dopo la cottura. Seguendo il metodo di lavorazione tradizionale, il latte di pecora e di capra è fatto coagulare con il caglio animale in vasche con una capienza di circa 500 litri, poi la cagliata viene tagliata manualmente in piccoli cubi che sono lasciati a riposare e a depositare per qualche minuto. Successivamente, questi cubetti sono sistemati dentro piccoli stampi forati, oggi di plastica e un tempo di paglia, alti una decina di centimetri e a forma leggermente conica, e lì lasciati a sgocciolare, senza premere, per circa un’ora. Il siero è poi trasferito in una caldaia dove è cotto a 90-95 °C mescolando in continuazione per provocare la denaturazione delle proteine che, di conseguenza, si separano salendo in superficie. Con l’aiuto di un mestolo si raccoglie questa parte proteica e la si deposita a scolare in forme di plastica perforate, anch’esse originariamente

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L’halloumi sfugge alle ragioni degli opposti stati e delle divergenti regole storico-politiche: è cipriota e basta. Si presume sia stato introdotto a Cipro da Arabi mercenari provenienti da Siria e Palestina che si stabilirono sull’isola durante il dominio dei Franchi

Spiedini con pollo e halloumi (photo © vanillla – stock.adobe.com).

Lo si trova ovunque, dai banchetti dei mercatini alla GD, essendo uno dei pochi formaggi prodotti e consumati a Cipro. I locali lo consumano d’estate con l’anguria, in inverno con carne di maiale affumicata o agnello. È reperibile facilmente anche in Italia

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di paglia. Il risultato dell’operazione è una specie di ricotta chiamata Anari che può essere consumata fresca e non salata, a due giorni dalla produzione, oppure salata in salamoia di siero ed essiccata, e in questo caso può essere conservata per oltre un anno. Il passo successivo prevede la cottura delle formaggette nel siero per almeno 30 minuti a 90 °C. Questa fase va eseguita con particolare attenzione perché da essa deriva l’elasticità finale. Terminata l’operazione, ogni forma viene salata a secco e cosparsa con le foglie sbriciolate di menta secca. Segue il raffreddamento per alcune ore. Le piccole forme sono poi distribuite all’interno di contenitori di capienza variabile fra 1 e 5 kg e coperti con siero salato, cioè con quello utilizzato per la cottura e conservato a cui è stato aggiunto del sale. A 24 ore dalla produzione l’halloumi può essere già immesso sul mercato con la dicitura “fresco”. Quello “maturo” arriva invece almeno 40 giorni dopo.

Il consumo può avvenire in diversi modi: l’halloumi può essere fritto, grigliato o utilizzato come ingrediente per un’insalata. Si accompagna benissimo sia con verdure fresche che con ortaggi cotti come, per esempio, le melanzane. Cucinato alla piastra permette di avere un interno tenero e delicato e una crosta croccante e squisita. In tal caso va tagliato a fettine molto sottili (non più di mezzo centimetro) da adagiare per qualche minuto per parte, finché non saranno dorate, sulla piastra ben calda unta leggermente con olio extravergine d’oliva. A Cipro gli abitanti lo consumano anche in altre combinazioni: d’estate con l’anguria, d’inverno con la carne di maiale affumicata o la salsiccia di agnello. Nunzia Manicardi Nota A pagina 102, photo © Moving Moment – stock.adobe.com

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Haripro, leader in Italia nella produzione di proteine e aromi naturali, fornisce le piĂš importanti aziende produttrici di ingredienti per la salumeria. Haripro grazie ad una continua ricerca, ha sviluppato negl'anni prodotti sempre piĂš all'avanguardia, come proteine funzionali ed aromi naturali anallergici ad alto valore nutrizionale. Haripro is a leading producer of proteins and natural flavours in Italy. It supplies the most important Companies which blend ingredients for the meat industry. Haripro, thanks to a continuous research, had developed through years more advanced products like functional proteins and hypoallergenic natural flavours with high nutritional value.

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Vastedda del Belice Dop il formaggio che fila Se non l’unico, la vastedda è uno dei pochissimi formaggi ovini a pasta filata. Ha un gusto particolare, con note lievemente acidule e mai piccanti. La pasta è bianca, compatta, e la caratteristica forma a focaccia la rende inconfondibile di Riccardo Lagorio

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a Valle del Belice richiama alla memoria i paesaggi con mestizia noti del terremoto di cinquant’anni fa e oggi destinati a vigneto e pastorizia. Il bianco sudario di ALBERTO BURRI steso sulle rovine di Gibellina, i palazzi e le piazze ferite della Poggioreale vecchia sono due interpretazioni di leggere quello sconquasso che il tourista sta lentamente riscoprendo. Del resto, se lo stereotipo del paesaggio siciliano fosse un quadro, sulla tela troverebbe spazio un pastore circondato da placide greggi incorniciate sotto l’antico tempio greco di Segesta. Uno straordinario affresco in cui è possibile leggere il passaggio delle popolazioni passate per questo crocevia del Mediterraneo, popolazioni di pastori più che di navigatori. Ma una popolazione ha colonizzato gli ampi spazi della Sicilia interna più di altre; grazie ad occhi vigili e curiosi sterminate batterie belanti, in bianca

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uniforme termoprotettiva, assediano fontanili e ovili. Malgrado greggi e pastori siano elementi sempre più rarefatti del paesaggio siciliano, ogni mattina, da millenni, questo esercito abituato a marciare per praterie e pascoli, si presenta a rapporto con la bianca uniforme pronto per essere munto. Nella Valle del Belice i pastori hanno selezionato da razze locali e non truppe di taglia media, dal vello bianco e gli occhi contornati da una leggera passata di rimmel nero, con uno straordinario record di produttività, intorno a 1,5 litri di latte al giorno. Non solo: il latte della pecora della Valle del Belice possiede un alto livello di grasso e proteine e gode di un’ottima coagulabilità. Il che si traduce in pecorini, ricotte e Vastedda DOP, uno dei pochi formaggi al mondo di pecora a pasta filata. La zona di produzione comprende un vasto territorio di 18 comuni a cavallo delle province di Trapani, Palermo e

Agrigento, punteggiato da rocche, insediamenti rurali e campi seminati di viti, ulivi e storia. Il fiume Belice è colonna dorsale della valle, un lungo serpente che si forma grazie a due affluenti, da destra e sinistra e fluisce sino al mare tra Menfi e Campobello di Mazara. Difficile pensarlo come il Flumen Magnum che il nobiluomo MATTEO BONELLO descrive nel 1160 in un atto testamentario, da poco liberata Palermo dalle milizie arabe: lo sbarramento sull’affluente di destra negli anni Ottanta del XX secolo ha creato il lago Garcia per l’approvvigionamento idrico della valle e l’invaso blocca lo scorrere a valle dell’acqua del fiume. D’estate, quando le altre razze vanno in asciutta, la pecora del Belice insegue i profumi di erbe selvatiche, accentuati dalla calura. Con beneficio diretto al gusto del latte e della Vastedda. L’origine del formaggio, si dice, derivi dall’aggettivo guasto, nasce dal tentativo di salvare i formaggi prodotti

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nel periodo estivo, che potevano subire alterazioni a causa delle temperature elevate. Il metodo escogitato fu la filatura della cagliata. «Un’altra ipotesi — confida MASSIMO TODARO, presidente del Consorzio di tutela (consorziovastedda. it) — è legata al nome delle vastedde, i piatti fondi di ceramica che raccoglievano la cagliata una volta filata, la fase della cosiddetta cuppatura, per conferire ad essa la caratteristica forma di pagnotta». Filatura che avviene tassativamente a mano, immergendole in acqua a 80 gradi, dopo che la cagliata è stata preparata con caglio in pasta di agnello. «Oltre all’abilità necessaria a filare la cagliata che proviene dal latte di pecora, vi sono altri elementi che non consentono una industrializzazione del sistema produttivo, come l’utilizzo di canestri di giunco e le tine di legno. Per questa ragione stiamo stimolando i produttori di latte a diventare produttori di formaggio, di Vastedda DOP, perché la vendita del loro latte possa essere adeguatamente ricompensata a seguito della trasformazione. Trattandosi di un formaggio fresco, le vendite assicurano incassi quasi immediati». La forma della Vastedda del Belice, che dal 2008 vanta la tutela del nome impartitegli dalla DOP, richiama un pane rotondo di 15 cm e alto 4. I 40 quintali di Vastedda del Belice DOP prodotti ogni anno dalle 8 aziende agricole aderenti al consorzio viene venduto per il 50% in Sicilia. «Piace ai giovani» racconta Todaro. «Ma soprattutto ci siamo fatti conoscere perché produciamo un formaggio che presenta una grande versatilità in cucina: può entrare in numerose pietanze perché fila». Dal leggero sentore acidulo iniziale, si avverte un retrogusto sapido e persistente premendo con le labbra la piacevole consistenza della pasta filata che rilascia il sentore di latte. L’accompagnamento ideale è con il Catarratto DOC Sicilia, di almeno due anni di affinamento. Riccardo Lagorio Nota A pagina 106, il Cretto di Burri. Opera di land art, sorge nel luogo in cui si trovava la città vecchia di Gibellina, distrutta nel 1968 dal terremoto del Belice (photo © Agostino Curto).

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In alto: Massimo Todaro, presidente del Consorzio di tutela della Vastedda della valle del Belice Dop. In basso: la vastedda si ottiene esclusivamente dal latte di pecora razza valle del Belice (photo © www.centroform.eu).

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VINO

L’anima bianca di Montefalco di Federica Cornia

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leganza, grazia e semplicità abitano nel cuore verde dell’Umbria, si annidano tra le colline, le vigne, gli ulivi e può capitare che con la loro silenziosa potenza rubino il cuore a chi questa terra la visita. La cattura è lenta, avviene a poco a poco, al suono di una bellezza

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pacata e profusa, che emana dai luoghi e dalle persone, che si schiude in un abbraccio gioviale e ospitale di cui si sente la mancanza non appena questa terra la si lascia. Siamo a Montefalco, in provincia di Perugia, la Ringhiera dell’Umbria la chiamano, perché lo sguardo da qui

spazia sull’intera vallata fino Spoleto. In origine antico insediamento romano di Falisco, poi Coccorone, oggi comune italiano che fa parte del club dei Borghi più belli d’Italia, santuario dell’arteumbro-toscana e punto di riferimento della regione vinicola in cui si producono il Sagrantino di Montefalco e il

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Antonelli San Marco è un’azienda vitivinicola di 175 ettari in un corpus unico al centro della zona Docg Montefalco. Le varietà coltivate a bacca rossa sono soprattutto Sagrantino e Sangiovese, ma anche Montepulciano, Merlot e Cabernet Sauvignon; quelle a bacca bianca sono Grechetto e Trebbiano Spoletino (photo © Marco Baldovin).

In alto: Filippo Antonelli nella bottaia. Dal 2015 è iniziata la sperimentazione della macerazione in anfora, 2 in ceramica e 2 in terracotta, delle uve di Sagrantino e Trebbiano Spoletino (photo © Massimiliano Rella). In basso: uva Grechetto.

Montefalco rosso. Lo scorso settembre FORBES, la rivista americana di economia e finanza, ha inserito Montefalco tra le migliori sei città vinicole in Europa in cui è possibile trovare “quella perfetta combinazione di città bellissime, paesaggi meravigliosi e annate eccellenti” insieme a Montepulciano e Montal-

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cino, in Italia, Sancerre (Valle della Loira), Saint-Émilion (regione vinicola del Bordeaux) e Cassis, (Provenza) in Francia. In visita alla cantina ANTONELLI SAN MARCO — 175 ettari, dei quali 10 ettari dedicati a oliveto e 50 a vigneto, al centro della zona di DOCG Montefalco, certificata bio a partire dal 2012, una

cantina interrata (così come la bottaia e il locale per l’affinamento) progettata per la vinificazione a caduta (che prevede l’ingresso del pigiato nei fermentini e il successivo scarico delle vinacce senza l’uso di pompe, ma per forza di gravità, evitando così di danneggiare le bucce), 350.000 bottiglie prodotte —,

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I salumi della linea Pork and Cork di produzione propria (photo © Marco Baldovin). abbiamo incontrato FILIPPO ANTONELLI, a capo dell’azienda dal 1986 e da luglio nuovo presidente del Consorzio Vini di Montefalco, per riscoprire sotto la sua guida l’anima bianca di un territorio identificato soprattutto coi rossi, Sagrantino in primis. Riscoperta che procede di pari passo con la valorizzazione dei vitigni autoctoni e la reinterpretazione delle uve del vino portabandiera del territorio con il Contrario Umbria IGT. Vino godibile e fresco, di facile beva, 100% da uve Sagrantino coltivate e vinificate al contrario: vendemmia anticipata, macerazione breve, affinamento solo in acciaio e poi in cemento. Della DOCG Montefalco, ci tiene a sottolineare Antonelli, fanno parte anche vini bianchi. Al di là dei noti rossi della cantina, come il Montefalco Rosso DOC, il Montefalco Rosso DOC Riserva (da uve di Sangiovese e Sagrantino, in cui il nuovo Disciplinare di produzione del 2015 non prevede più l’inserimento di uve Montepulciano), il Sagrantino DOCG, il Sagrantino Passito DOCG e il Sagrantino DOCG Chiusa di Pannone, vino di punta della cantina ottenuto dalle vigne più vecchie, s’intravede l’interessante panorama dei bianchi. Grechetto in testa, che Antonelli produce in purezza. E in cantina le uve bianche sono oggetto di continua attenzione e garbata sperimentazione, anche fuori dalla denominazione Montefalco: dal vitigno

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di Trebbiano Spoletino, infatti, nasce il Trebium Spoleto DOC, vino in purezza nel 2016 insignito dei tre bicchieri dal GAMBERO ROSSO. Nel 2015, sempre il Trebbiano Spoletino, a fianco del Sagrantino, è stato protagonista di prove di vinificazione, lasciandolo macerare sulle bucce in anfora, da ottobre a giugno. È nata così Anteprima Tonda, le annate 2013 e 2014 presentate al Vinitaly nel 2016, a preannunciare il Cru Vigna Tonda, dalle uve del vigneto a forma circolare ripiantato nella tenuta di Montefalco sullo stesso sito in cui sorgeva una vigna di forma tonda nell’800. Sempre il Trebbiano Spoletino si è conquistato un posto nella denominazione Montefalco entrando nell’uvaggio in sostituzione del Trebbiano Toscano. Così, giusto per ribadire con Antonelli che «Montefalco non è più solo sinonimo di rossi e la produzione si è aperta a bianchi di grande qualità come il Grechetto e il Trebbiano Spoletino». Dichiarazione con cui il produttore esprime l’intento a livello consortile di ampliare la gamma dei vini della denominazione nell’immaginario collettivo fino a comprendere i bianchi di Montefalco e che si unisce allo sforzo di raccontare la maturità e l’eleganza del Sagrantino di oggi, un vino ben diverso da quello che la gente conosceva e beveva 25 anni fa e frutto della sua evoluzione nel tempo.

Elegante sperimentatore coi piedi saldamente poggiati sul territorio e attento alla tradizione, con Filippo Antonelli quella del Consorzio Tutela Vini Montefalco sarà sì una nuova stagione, ma comunque all’insegna della continuità. Con 60 soci su un totale di 70 cantine, 1.300.000 bottiglie di Sagrantino imbottigliate all’anno e oltre 2.000.000 quelle di Montefalco (Rosso, Bianco e Grechetto). farsi conoscere all’estero rimane uno degli obiettivi principali. Si punta soprattutto sugli Stati Uniti, mercato in cui il Sagrantino è molto apprezzato e dove l’anno scorso ha preso il via l’iniziativa “Sagrantino and Steak”, un mese di promozione del Sagrantino in abbinamento alla bistecca, iniziativa che proseguirà anche quest’anno. E mentre si guarda alla Scandinavia con interesse, si continua a lavorare sull’incoming, sul turismo organizzato che miri a far conoscere il territorio e le sue bellezze, comprese quelle enogastronomiche, all’Europa e non solo. In questo senso Antonelli San Marco si è messa avanti con l’ospitalità offerta nell’antico casale Satriano, 6 appartamenti dotati di piscina e circondati dai vigneti con la possibilità di misurarsi con la gastronomia tradizionale umbra preparando piatti tipici nella scuola Cucina in Cantina, nata una decina di anni fa, con le degustazioni dei vini presso le sale dell’enoteca aziendale in cui è contemplato un angolo, vessillo la rossa Berkel, dedicato al prosciutto di produzione propria Del macchione, così detto perché ottenuto da suini Duroc, poco più di una trentina, allevati nel bosco dell’azienda, alimentati a orzo, favino e vinacce di uva bianca. Le carni affinate in Valnerina sono destinate alla linea di salumi Pork and Cork che accompagna la degustazione in azienda. E sembra che in progetto ci sia di arricchire la cantina con locali di affinamento, per un’esperienza unica e a 360°, per non farsi mancare davvero nulla. Federica Cornia Antonelli San Marco Viticoltori in Montefalco Località San Marco 60 06036 Montefalco (PG) Telefono: 0742 379158 Web: www.antonellisanmarco.it

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Tradizione di grande Nobiltà

Un grande aceto che viene dalle tradizioni della nobiltà modenese

L’aceto balsamico ha avuto origine dall’antichissima usanza dei Romani di cuocere il mosto dell’uva, grazie alle caratteristiche delle uve del territorio modenese. Oltre alla produzione dell’Aceto Balsamico di Modena IGP, ottimo per l’uso quotidiano, nelle acetaie delle famiglie più ricche e nobili si è nei secoli sviluppato un processo lentissimo e laborioso che produce un aceto senza eguali, raro e prezioso. Arrivato ai nostri giorni è chiamato “Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP (Denominazione di Origine Protetta); in passato veniva citato nei lasciti testamentari ed era dote prestigiosa per le giovani spose di aristocratiche origini. Era gelosamente conservato nei sottotetto e amorevolmente curato in famiglia, di generazione in generazione. Era considerato una sorta di Panacea dai principi medicamentosi in grado di curare tutti i mali e, nell’occasione, era considerato un regalo degno di “Re e Principi”.

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Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP La tradizione produttiva è certamente antichissima, ma... che l’aceto invecchi è un dire tutto modenese. In realtà chi invecchia è il padrone, mentre l’Aceto Balsamico Tradizionale DOP matura nelle botticelle e sublima a pura essenza attraverso un lunghissimo processo produttivo. Si tratta di un processo “in continuo” che segue la famiglia e unisce le generazioni, e che solo dopo almeno 12 anni di attività, inizia a dare una piccola

aliquota annuale di prodotto finito. Si dovranno poi attendere almeno 25 anni per ottenere la qualità ”Extra Vecchio”. Solo dopo aver superato l’esame degli assaggiatori esperti, il prodotto viene imbottigliato presso il centro di imbottigliamento autorizzato, naturalmente nella famosa bottiglietta da 100 ml detta “di Giugiaro”, il famoso designer che la realizzò nel 1987 perchè fosse il simbolo di questo aceto unico nel mondo.

Consorzio Tutela Aceto Balsamico Tradizionale di Modena Viale Virgilio 55, 41123 Modena tel. 059 208604 fax 059 208606 consorzio.tradizionale@mo.camcom.it www.balsamico.tradizionale.it


Il vino di Sansego, piccolo paradiso di sabbia profumato d’origano di Riccardo Lagorio

È

una piccola grande meraviglia della natura, diversa da tutte le sue sorelle incastonate nel mare Adriatico. A renderla unica sono gli spessi strati di sabbia minuta di origine eolica che coprono in profondità le fondamenta calcaree dell’isola. Benvenuti a Sansego, profumata d’origano, l’isola di canne e bambù che il naturalista ALBERTO FORTIS, nel terzo quarto del Settecento, ipotizzava, non senza temerarietà, d’essere figlia dei sedimenti portati dal fiume Po.

Defilata dalla costa dalmata, Sansego vanta eccezionalità anche sotto il profilo culturale. Valgano su tutto i costumi un tempo indossati nei giorni festivi dalle donne, dai colori sgargianti, inamidati sopra calzemaglia di colore rosa acceso. Sansego, isola di contadini-pescatori-viticoltori che negli anni Trenta del secolo passato ne ebbero tanta cura da trasformarla in un paradiso verde cucito sulla distesa cobalto. Su tutto, la produzione di vino, che finiva a

Fiume e Abbazia. Ma anche a Venezia e Trieste. Una cooperativa fu attiva dal 1936 al 1969 e negli ultimi anni di vita la capacità produttiva era di circa 6.000 ettolitri, in prevalenza da uva rossa, la Sansegota, assai resistente alle malattie crittogamiche. Ancora nel 1957 i suoi acini venivano coltivati su 140 ettari, circa la metà di quanto impiegato dell’isola. Nei vigneti si contavano anche uve bianche locali come la Krizol

Sansego, in croato Susak, è una piccola isola del Nord dell’Adriatico. Il nome deriva dalla parola greca “sansegos”, che significa origano (photo © www.visitlosinj.hr).

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(simile alla Malvasia del Chianti), la Boldun (parente stretta dell’Insolia) e Ranac Bijeli, di cui qualche pianta superstite si trova oggi sulle isole di Pago e Selve. Intanto l’emigrazione di massa verso gli Stati Uniti spopolava l’isola dalla fine della seconda guerra mondiale e, solo negli ultimi anni, quelli della democrazia e della Croazia, a Sansego si è spinto il turista tedesco e del Nord Europa, specie grazie ai corposi investimenti di Zagabria. Oggi vi si affacciano nuove imprenditorie di matrice enoica, ovviamente italiane, mentre il porto, le calette e i promontori sono ancora uguali a quelli che lo stesso Fortis descrive nel suo Viaggio in Dalmazia del 1774. La riscossa della vite a Sansego iniziò nel 1994, quando FRANCESCO COSULICH, trevigiano di origini lussinesi, accettò la sfida di impiantare 30 ettari nella parte alta dell’isola. L’inizio non fu facile poiché mancavano le conoscenze di base su come si sarebbero comportate le piante; si partiva comunque da una storia plurisecolare e dall’esperienza tecnica maturata dal Cosulich in alcune aree d’Italia. Difficoltà logistiche numerose: fare arrivare i piccoli trattori e tutte le attrezzature via mare, e da lì condurle, per scalinate e viottoli, alla vecchia cantina, nella parte superiore dell’isola. Alla fine, anche grazie ad una squadra affiatata, le prime bottiglie cominciarono ad essere commercializzate. «Sansego è fatta tutta di sabbia, dove si nascondono resti di lumache terrestri, ma non ci sono resti di organismi marini e non c’è filossera. Questo ci ha consentito di impiantare

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In alto: Sansego bianco, prodotto con uve di Moscato Pinot bianco e Chardonnay. In basso: vigneti sull’isola.

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Sansego è geologicamente diversa dalle altre isole croate perché è formata principalmente da sabbia fine su una base calcarea. Gli abitanti si concentrano tutti nell’insediamento omonimo, che si divide in una parte alta, la più antica, e in una parte bassa, vicino al lungomare e al piccolo porto (photo © www.visitlosinj.hr e www.balcanicaucaso.org). i nostri 30 ettari per la quasi totalità senza portainnesti e di avere anche un riscontro di estratti e di maturazione assolutamente diverso da quello che abbiamo in altre zone». Con l’intervento dei vivai cooperativi di Rauscedo si sono individuate le varietà messe a dimora. Delle uve autoctone a bacca rossa si sono salvate alcune piante di Trojšćina, poi la scelta è caduta su vitigni di Merlot, Barbera, Refosco dal peduncolo rosso e Cabernet. Si è così ottenuto un vino rosso, capace, per vocazione vinosa della terra, di giungere a notevole completezza. Dell’annata 2014 il

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ricordo va al bel colore rosso rubino carico e all’odore vinoso vivo e grasso, alla bocca dritta e asciutta dal finale morbido e arrendevole. Del bianco, senza pari, di Moscato (con parentela dichiarata al Fior d’arancio), Pinot bianco e Chardonnay, al colore giallo limoso della sabbia, bouquet di cedro candito, salvia e timo, di bocca larga e armonico rimando di ribes bianco con vistosa uscita dialettica. Di sobria eleganza le etichette, che riportano, nella forma simile a un grappolo d’uva, l’isola di Sansego. In cantina, vetusta e sincera (telefono: 00385 51 211859), durante il periodo estivo si

La riscossa della vite a Sansego inizia nel 1994, con Francesco Cosulich che accetta la sfida di impiantare 30 ettari nella parte alta dell’isola. Oggi si affacciano nuove imprenditorie di matrice enoica, ovviamente italiane

scambiano avvincenti conversazioni con il cantiniere ANTONIO ANDREETTA. Nelle altre stagioni si va su appuntamento e sulla sorte delle condizioni del mare. Ma se il Toni c’è senza marmaglia, con lui entri nel profondo delle potature e della vinificazione. Con un po’ di fortuna, se insisti, ti porta ai vigneti e le parole gli escono a frotte. Alla fine sarà semplice la via per la Trattoria Barbara, a pochi passi dalla cantina, dove i vini di Sansego sbracciano tra pesce fresco e carni. Prenotate l’agnello di Canidole arrosto (konoba. barbara-susak.org). Riccardo Lagorio

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Gourmet Arena, il lato culinario di Merano WineFestival Manca poco, anzi, pochissimo all’inizio della 27a edizione di Merano WineFestival, che dal 9 al 13 novembre prossimi animerà la città di Merano per la gioia dei numerosi wine&food lovers italiani e internazionali. Per il WineHunter e patron Helmuth Köcher (in foto) è quindi arrivato il momento di condividere con tutti i partecipanti al Festival il proprio “banchetto di caccia”, a celebrazione di un anno di degustazioni e ricerche per individuare sempre nuove eccellenze in ambito vitivinicolo e culinario. Nasce così The Official Selection, costituita da salumi, latticini, prodotti ittici, da pane e pasta, olii e aceti, passando per salse, marmellate, conserve e mostarde, funghi e tartufi. E ancora dolci, caffè, la selezione di birre Beer Passion e quella di distillati e liquori Aquavitae. Un insieme di prelibatezze con 77 aziende di culinaria, 14 distillerie, 10 birrifici, per un percorso di degustazione che coinvolge praticamente tutta l’Italia e non solo. Sono infatti presenti anche prodotti provenienti dall’Olanda, da degustare all’interno dello storico spazio della Kurhaus e della più recente Gourmet Arena, che si trova tra la prestigiosa location e la passeggiata di Sissi, lungo il fiume Passirio. Sempre nello spazio della Gourmet Arena, si collocano anche 15 tra consorzi di tutela e gruppi rappresentativi di specifici territori, tra i quali spiccano Territorium Abruzzo e Territorium Campania.Tutti i prodotti presenti nella Gourmet Arena sono presenti all’interno della guida The WineHunter Award, consultabile on-line su award.winehunter.it. Per quanto riguarda l’evento, è già possibile acquistare il proprio biglietto direttamente on-line dal sito www. meranowinefestival.com/biglietti

In arrivo un’emoji per il vino bianco La cantina che ha rivoluzionato le abitudini di consumo del vino degli Americani è pronta a cambiare il modo di comunicare il vino. La californiana Kendall-Jackson ha infatti annunciato il suo impegno nella creazione della White Wine emoji, l’icona del bicchiere di vino bianco, e invita tutta la comunità dei wine lovers a condividerla. La proposta della Kendall-Jackson è stata selezionata dalla commissione tecnica dell’Unicode Consortium, l’organizzazione no-profit che si occupa di creare codici universali standard per le lingue di tutto il mondo e che voterà per lo sviluppo dell’emoji nella primavera del 2019. Da più di 35 anni Kendall-Jackson è tra i più importanti produttori americani di vino bianco e il suo Vintner’s Reserve Chardonnay è stato per ben 25 anni il vino bianco più venduto in tutti gli Stati Uniti (fonte: © World Food Press Agency).

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Cattunar e la Croazia slow, green e gourmet di Gian Omar Bison

V

erteneglio (Brtonigla) è un borgo pittoresco e confortevole della Repubblica di Croazia situato nell’entroterra istriano, a dieci chilometri circa dalla costa occidentale adriatica, tra Cittanova (Novigrad) e Parenzo (Porec). Una distesa di ulivi e vitigni, di terre nere e rosse, di sole e brezza. Colori, profumi e silenzi di collina che accompagnano la mite quotidianità degli abitanti e una vocazione naturale al turismo slow, green e gourmet non solo estivo, non solo marino, non solo di scampi, ricci e calamari. Terra di migrazioni, di mescolanze culturali e di religiosità, quasi esclusivamente cattolica, profonda e radicata come testimoniano le numerose

chiese (di San Zenone e San Rocco in particolare), cappelle e capitelli. FRANCO CATTUNAR, coi suoi 56 ettari di superficie vitata e oltre 350.000 bottiglie prodotte all’anno, è il più grosso imprenditore privato dell’Istria. Tante le varietà coltivate e vinificate ma il prestigio e la nomea internazionale lo deve alla sua Malvasia declinata nelle tipologie bianca, grigia, rossa e nera, diverse sotto il profilo organolettico come diversi sono i colori dei suoli (bianco, grigio, rosso e nero) sui quali dimorano le viti. E poi lo deve al Terrano istriano croato, al centro di una querelle europea sulla tutela della denominazione d’origine richiesta nel 2004 dalla Slovenia, col conseguente utilizzo

esclusivo del nome, del quale Franco è cultore e, contemporaneamente, templare nel difenderne l’autoctonicità croata, checché ne dicano i dirimpettai colleghi produttori di Terrano, sloveni o italiani che siano. Sorriso grasso e guascone ma piglio deciso. «È stato dimostrato abbondantemente con documentazione storica e d’archivio che io stesso ho recuperato e messo a disposizione della Commissione Europea, che il Terrano (o Teran che dir si voglia) vino che ha una spiccata similarità genetica col Refosco dal peduncolo rosso, è stato da sempre prodotto nel Carso sloveno, nei territori di Trieste e Gorizia ma in misura preponderante in Istria. Che la Slovenia ritenga

L’azienda vinicola Cattunar si trova a Villanova presso Verteneglio. La cantina di nuova costruzione ha una capacità di 5.000 hl ed è circondata dai vigneti che si estendono su una superficie di più di 56 ettari (photo © Studio Web Art).

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di rivendicare un utilizzo esclusivo del nome è ingiusto oltre che antistorico. E per questo credo e spero che i nostri politici e amministratori giungeranno a più miti consigli riconoscendo una DOP territoriale tra l’Italia e la Croazia passando per la Slovenia che si chiami Terrano autorizzando da disciplinare, ad esempio, delle sotto zone come “italiano”, “del Carso sloveno”, “istriano croato” o simili». Con la moglie VESNA e i figli EDI e NICOLE i Cattunar rappresentano un’azienda moderna che, dopo aver lavorato sulla zonazione (le terre diversamente colorate) per anni, stanno collaborando con l’università di Zagabria e l’istituto enologico di Parenzo per l’utilizzo esclusivo dei lieviti indigeni. E anche sul legno da utilizzare per i diversi affinamenti in barrique. Le malvasie sono capaci di espressioni e sentori diversi così come diversa è l’abbinabilità del vino col cibo fino alla Malvasia nera, vino con struttura e persistenza quasi da meditazione. «I clienti si lamentavano che le caratteristiche della mia Malvasia cambiavano di anno in anno. E a me sembrava impossibile trattandosi della stessa

Situata a soli 5-6 km dal mare, l’azienda Cattunar organizza, per gruppi delle visite guidate con degustazione. varietà e della stessa vendemmia nelle mie colline. Abbiamo approfondito, studiato un progetto di zonazione anche con tecnici ed esperti e capito quanto la diversa composizione dei suoli influisse sulle particolarità gustative e olfattive della Malvasia. Ne risultano vini completamente diversi». Dai Cattunar troviamo il Terrano capace di longevità e serbevolezza che va ben oltre i dieci anni per un completo affinamento, il Moscato rosa di Parenzo e il Moscato bianco di Momiano nella forma spumantizzata Metodo Charmat

e passita. E non solo vino. «Presto, integrate nell’immobile dove ci sono le cantine, dopo un attento lavoro di restauro, recupereremo alcune stanze per il pernottamento di turisti e i clienti. Siamo convinti che il nostro territorio sia molto appetibile per un turismo enogastronomico di qualità». Gian Omar Bison Z.O. Vina Cattunar Villanova 94 52474 Verteneglio (Croazia) Web: www.vina-cattunar.hr

A proposito di turismo enogastronomico di qualità, il San Rocco Heritage Hotel e Gourmet della famiglia Fernetich da qualche anno è considerato da autorevoli guide nazionali e internazionali il miglior ristorante gourmet della Croazia (fa parte con Teo, figlio del patriarca Tullio, dell’associazione JRE – Jeunes Restaurateurs d’Europe), ma anche, con quattro stelle e dodici camere, il migliore boutique hotel di Croazia. Il San Rocco è il risultato di un percorso avviato nel 2004, evidenzia Luana Fernetich, e cresciuto attorno ad un’impegnativa ristrutturazione delle proprietà di famiglia che poggiavano su tre edifici. Camere, piscine, centro benessere e soprattutto una discesa mirabile con un orizzonte lontano che si tuffa in Adriatico. Il tutto circondato da ulivi secolari in grado di garantire un olio, il San Rocco, frutto di raccolta manuale e spremitura a freddo delle migliori varietà autoctone e considerato tra i migliori al mondo utilizzato anche nei trattamenti della beauty farm. E vigneti dai quali ricavano il Cavallier, aceto di vino caratteristico che dopo la fermentazione matura vent’anni in botti di rovere. «Il soggiorno da noi — sottolinea Luana — è per un turismo non legato esclusivamente al mare, non solo stagionale. Da noi si apprezzano i percorsi ciclopedonali tra le colline, nei boschi. Buon vivere, arte culinaria, vino (più di 300 etichette) e cibo di qualità e ricerca come i preparati a base di bovino Boscarin, ma anche pesce, asparago verde, funghi e tartufo nero. E poi si, anche mare dove si arriva con dieci minuti di auto o venti di biciclette che metteremo presto a disposizione anche elettriche. La discesa è piacevolissima, la salita un po’ meno» (photo © Dean Dubokovic). >> Link: san-rocco.hr

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I VINI DI PREMIATA SALUMERIA ITALIANA

Degustazione: cucina thai di Laura Franchini

T

ra le cucine che riscuotono più successo a livello globale la cucina tailandese, detta anche cucina thai, merita un posto di prim’ordine. Mischiando diversi elementi delle tradizioni del Sud-Et asiatico ed influenze, prima fra tutte quella cinese, la thai è il risultato l’unione delle quattro cucine regionali più importanti (settentrionale, meridionale, orientale e nord orientale), insieme alla cucina reale tailandese, ed è caratterizzata dall’equilibrio dei cinque sapori fondamentali: aspro, dolce, salato, amaro e umami. Oltre ad una sapiente composizione degli ingredienti, la cucina thai dedica particolare attenzione all’aspetto estetico di ogni piatto, cercando armonia di gusto ma anche

di forme ed equilibrio visivo. Le pietanze, tradizionalmente accompagnate da riso bollito, vengono servite a tavola contemporaneamente, per consentire la condivisione tra i commensali. Nell’immaginario di tanti sono i piatti a base di cibo fritto e unto a farla da padrone o quelli a base di insetti, ma, fortunatamente, non è così. O, meglio, la cucina thai non è solo questo. Perché qualche insetto, è vero, i Tailandesi lo mangiano, e con gusto, come cavallette, grilli, bruchi, vermi e scorpioni, spesso fritti al momento in bancarelle sulla strada. Sono però ben altri i piatti tipici che amiamo e sono amati un po’ in tutto il mondo. Qui ve ne proporremo qualcuno, al quale abbiamo abbinato un vino italiano.

Colori e aromi intensi, accostamenti audaci, sapori inusuali: la cucina thai sorprende e delizia fin dal primo assaggio. Ottimi gli abbinamenti con tè verde o birra ma anche alcune varietà di vino possono accompagnare ed esaltare la vostra esperienza culinaria

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Som Tam papaya salad con pollo e riso. Piatto tipico della cucina thai, è un’insalata piccante, con retrogusto dolciastro e rinfrescante (photo © Thanakon Khongman).

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Gewürztraminer Vigna Kastelaz 2016 Walch Il Som Tam è una sorta di insalata, che si può trovare anche nelle bancarelle di strada, preparata pestando in un mortaio la papaya verde (base del piatto) insieme ad arachidi, gamberetti, granchio, pesce fermentato, pomodoro e peperoncino. Il gusto è molto forte e caratteristico, certamente non banale, e rende l’abbinamento col vino particolarmente arduo. La scelta è andata al Gewürztraminer Vigna Kastelaz 2016 di ELENA WALCH. Concentrato di frutti esotici, ricco e pieno, al palato come al naso, questo vino, 100% Gewürztraminer, proveniente dal cru Vigna Kastelaz, effettua la fermentazione in acciaio a temperatura controllata di 18°, alla quale segue un lungo affinamento sui propri lieviti. Ne risulta un vino intenso, armonico, strutturato di sentori floreali decisi, ginestre e acacie, miele e spezie, complesso e dalle belle note minerali. Ottima eleganza e perfetta spalla acida, per una struttura decisa e una certa complessità.

Elena Walch Via Andreas Hofer 1 39040 Tramin/Termeno (BZ) Telefono: 0471 860172 E-mail: info@elenawalch.it Web: www.elenawalch.com

Pignoletto Colli Bolognesi Classico DOCG Superiore Zigant 2017 Lodi Corazza Il Pad Thai, probabilmente il piatto tailandese più famoso nel mondo, consiste in una ciotola di noodles, o fettuccine di riso, saltati in padella con uova, verdure, tofu croccante, carne o pesce, salsa di soia, salsa di pesce, tamarindo, aglio, peperoncino e granella di arachidi. Un piatto piccante (si può però dosare il peperoncino a piacimento), dal sapore deciso. A questo gustosissimo piatto abbiamo abbinato il Pignoletto Colli Bolognesi Classico DOCG Superiore Zigant 2017 dell’azienda LODI CORAZZA. Intenso e pieno, note olfattive nette di pesca bianca e fieno, fiori ed erbe balsamiche, si rivela strutturato anche al palato, vegetale e botanico nelle note retrolfattive, circolari. Deve questa intensità al lavoro in vigna e alla vinificazione delle uve, in parte botritizzate, pressate a freddo con acino intero e uso di neve carbonica. La fermentazione avviene a temperatura controllata di 16°. Bâtonnage sur lies 6 mesi in vasca di cemento per la quota attaccata dalla muffa nobile.

Lodi Corazza Via Risorgimento 223 40069 Ponte Ronca di Zola Predosa (BO) Telefono: 051 756805 E-mail: wine@lodicorazza.com Web: www.lodicorazza.com

Vitovska Kamen Venezia Giulia Igt 2015 Zidarich Il Khao Pad è una varietà di riso fritto tipico della cucina thai centrale (Khao significa riso e Pad significa saltato in padella). La qualità di riso Jasmine è normalmente accompagnata da carne, pollo, gamberetti e granchio, uovo, cipolla, aglio ed occasionalmente pomodoro. Il Khao Pad Sapparot prevede l’aggiunta di ananas ed è un vero e proprio piatto portabandiera della Thailandia. Ne esistono molte versioni e diverse elaborazioni, anche in base alla regione. Di facile preparazione, si presta facilmente alle cene estive con gli amici. Il vino in abbinamento è il calice Vitovska Kamen Venezia Giulia IGT 2015 di ZIDARICH, profondo e netto di albicocche e resina di pino, incenso e acacia, glicine e note minerali. Sorsata armonica, piena, intensa, bella la spalla acida e la lunghezza, sgrassante al palato, finale sapido a sostegno di piatti strutturati, splendida espressione delle grandi terre del Carso.

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Zidarich Loc. Prepotto 23 Duino Aurisina (TS) Telefono: 040 201223 E-mail: info@zidarich.it Web: www.zidarich.it

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Valtellina Superiore Sassella Rocce Rosse 2009 Arpepe

Arpepe Via Buon Consiglio 4 23100 Sondrio Telefono: 0342 214120 E-mail: info@arpepe.com Web: www.arpepe.com

Tom Yam (o Yum) Kung: zuppa a base di pomodoro, crostacei, molluschi e pesce, funghi e coriandolo. Viene diluita in un brodo di salsa di pesce, scalogno, citronella, foglie di combava, rizoma di galanga e succo di lime, il tutto condito con una generosa dose di peperoncino. Si dice che, grazie alle erbe utilizzate per la preparazione, abbia proprietà medicamentose e benefiche. Viene servita con riso ed in un piatto particolare, dotato di un buco al centro per ospitare una candela che tiene calda la pietanza. In abbinamento suggeriamo un calice di Valtellina Superiore Sassella Rocce Rosse 2009 di ARPEPE. Vino di grande tessitura ed eleganza, che miete successi e riconoscimenti da tempo, 100% uve Nebbiolo varietà Chiavennasca, matura per 48 mesi in grandi botti di castagno e per almeno 12 in vasche di cemento. Olfattiva strepitosa di note tipiche, rose in fiore e frutta rossa, speziatura integrata e persistenza gustativa intensa, infinita. Vigoroso e virile, armonico e raffinato, si presta con facilità a piatti elaborati e di struttura.

Bardolino Chiaretto DOC 2016 Villa Medici

Az. Agr. Villa Medici Via Campagnol 9 37066 Sommacampagna (VR) Telefono: 045 515147 E-mail: info@cantinavillamedici.it Web: www.cantinavillamedici.it

Banalmente si potrebbe definirli la versione tailandese dei famosissimi involtini primavera cinesi. Esistono moltissime varianti dei Por Pia Tord, con altrettanti differenti ripieni. Venduti soprattutto in strada, sono imbottiti principalmente di varie verdure fritte miste con gamberi, carne, noodles, funghi, coriandolo, aglio e peperoncino, e serviti con salse dolci e acide. Esiste anche la versione vegetariana, dove la carne viene sostituita dal tofu. In abbinamento il Bardolino Chiaretto Doc 2016 di VILLA MEDICI, fulgido esempio di tipicità ed immediatezza, freschezza e bevibilità. Uvaggio di Corvina, Rondinella e Molinara, vinificate e fermentate in acciaio per questo calice rosato persistente ed intenso di note fruttate di ciliegia e albicocca, mandarino e zeste di agrumi. Acidità bilanciata, ben sgrassante, un calice decisamente giovane e beverino, adattissimo al rito dell’aperitivo, ai fritti e ai piatti di pesce.

Lambrusco di Sorbara Radice 2017 Paltrinieri

Soc. Agr. Paltrinieri Gianfranco Via Cristo 49 41030 Sorbara (MO) Telefono: 059 902047 E-mail: info@cantinapaltrinieri.it Web: www.cantinapaltrinieri.it

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Il Laap è un tipo di insalata, anche se chiamare questo piatto “insalata” è riduttivo. Il piatto viene preparato utilizzando carne macinata, tradizionalmente di maiale, ma vengono usati anche pollo, manzo, anatra o pesce. È aromatizzato con salsa di pesce, succo di lime e riso tostato con erbe fresche. Questa pietanza può essere servita cruda o cotta, accompagnata da riso e verdure. In abbinamento un grande vino del territorio emiliano, il Lambrusco di Sorbara Radice 2017 di PALTRINIERI. Sorsata straordinaria di freschezza, tradizione e bevibilità, piena e sgrassante, tipicissima. Note fruttate e di ciclamino, ricordi di menta e di erbe aromatiche, cioccolato bianco e spezie chiare. Freschezza e sapidità presenti e ben amalgamate, grande armonia ed eleganza, pulizia del palato perfetta. Un vino tipico e persistente, totalmente tradizionale, finissimo e lungo, adattissimo alla cucina del territorio, così come alle cucine asiatiche e tex-mex.

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BIRRA

La formula di B20, birrificio artigianale in Brussa di Gian Omar Bison

Edgard, birra ambrata doppio malto in alta fermentazione non pastorizzata e rifermentata in bottiglia in stile APA.

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russa è una piccola località attigua all’oasi naturale di Valle Vecchia a Caorle (VE). Una lingua di terra fertile, bonificata tra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso, che confina con una splendida pineta e una spiaggia libera ancora estranea al turismo balneare di massa che gravita tra Bibione ed Eraclea (VE). Luoghi che parlano di ERNEST HEMINGWAY, dei suoi soggiorni in Valle Grande San Gaetano, delle sue battute di caccia tra i fiumi Tagliamento e Livenza e delle sue bisbocce gastronomiche.

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Ma Brussa è anche un progetto imprenditoriale, di rete tra operatori dei settori agroalimentare, dell’agriturismo, della ristorazione e della ricettività turistica che esercitano in loco la propria attività legandola a progetti di escursionismo naturalistico e pratica sportiva. Tra questi i coniugi GIANLUCA FERUGLIO e ALLA CHIZZOLI, titolari del birrificio artigianale B2O, che da ottobre scorso hanno trasferito da Bibione proprio in Brussa il sito produttivo, nella barchessa di una vecchia casa padronale presa in affitto e restaurata. «Non vorremo replicare il

classico birrificio con annesso brew pub o tap room che sia. La birra sarà sempre centrale, ma nello spazio degustazione di cui disponiamo proporremo percorsi gastronomici e abbinamenti birra-cibo particolari, guidati, aprendoci ai sapori del territorio e alle peculiarità delle produzioni locali, come i salumi. Inoltre, abbiamo predisposto un giardino parcellizzato nel quale verranno coltivati orzo e frumento derivati da sementi antiche e recuperate. Varietà meno note con le quali produrremo alcune specialità anche se per il grosso della produzione

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La scelta di insediarci in Brussa, un’oasi naturale, che unisce zone ancora incontaminate a campi coltivati nel rispetto delle peculiarità del territorio, è stata senz’altro una bella sfida, spiega Gianluca, fatta di bioedilizia, energie rinnovabili e l’inizio di quello che definisco turismo agribrassicolo Gianluca Feruglio e Alla Chizzoli, titolari del birrificio artigianale B2O, che da Bibione lo scorso anno si è trasferito a Brussa. utilizzeremo orzo e frumento “classici” provenienti dai 25 ettari di seminativo di cui disponiamo». Una sala con terrazzo per il B2B e le giornate birrogastronomiche e promozione del turismo sostenibile con la creazione di un punto bici per visitare l’oasi sono le parole d’ordine dell’attività. L’orzo attualmente viene ancora trasformato in una malteria in Austria, «ma presto — sottolinea Gianluca — chiuderemo un accordo con una malteria italiana o tedesca. Stiamo trattando per definire e condividere i costi e le prerogative di lavorazione». Una storia breve ma intensa quella di Alla e Gianluca. «Siamo arrivati a Bibione da Milano nel 2009 — ricorda Alla — con Gianluca neodirettore del porto. E anche qui abbiamo continuato una passione che ci accomuna da anni riguardo la produzione amatoriale, artigianale, per autoconsumo nostro e di amici e parenti di vino e birra». Nel 2014 il grande balzo con l’apertura del vecchio laboratorio a due passi dal mare. «Abbiamo iniziato con due tipologie, la Edgard e la Jam Session e da allora siamo arrivati a sette tipologie fisse e due stagionali» prosegue Alla. Da un impianto da tre ettolitri a piena produzione, che è rimasto e rimarrà attivo, ad uno da venti ettolitri il salto è impegnativo, così come la gestione della coltivazione e raccolta di frumento

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ed orzo, comunque affidata a terzisti, e luppolo. Tutto questo considerato che delle consegne se ne occupa direttamente Gianluca, in un’area di distribuzione che va da Udine a Verona, con una clientela composta per lo più da enoteche e ristoranti e potendo contare, al momento, su sole due collaborazioni. «Attualmente manteniamo le tipologie di birre in bottiglia che abbiamo ma integreremo con una spina particolare che si potrà consumare esclusivamente in azienda». Comunque e sempre birrificio artigianale, distanti dai 200.000 ettolitri come limite massimo di produzione senza microfiltrare né pastorizzare. «Tra le birre — elenca Gianluca — una Irish Red Ale denominata Brussa e poi la Pilsner Gabi (ambrata), l’unica a bassa fermentazione in listino insieme alla Sibilla (chiara), per poi salire alla Blanche Terra, leggermente speziata con coriandolo e scorza d’arancia dolce. Si prosegue con la Jam Session, una Weiss particolare, la APA Edgard e, infine, la Renera, una Stout intensa, con profumi di cioccolato, caffè e liquirizia. La birra di natale? La Xmas Strong, caratterizzata dall’uso di zucchero cassonade, fichi freschi e schegge di quercia scura». Tra le birre premiate, la Jam Session, vincitrice nel 2015 del Luppolo d’oro categoria Waizenbock nel pre-

stigioso concorso “Best Italian Beer” organizzato da FEDERBIRRA e nel 2016, medesimo concorso, la Brussa si è classificata prima nella sua categoria aggiudicandosi il Luppolo d’oro, mentre la Renera e la Gabi hanno vinto il Luppolo d’argento. Gianluca è il referente per la categoria dei Birrai di CONFARTIGIANATO VENETO relativamente alla provincia di Venezia. «Con i colleghi condivido la convinzione che sia necessario fare squadra per preservare un settore in via di sviluppo e con ampi margini di crescita e miglioramento. C’è molto da fare per quanto riguarda la formazione e anche per quanto riguarda il rapporto con i consumatori e la media e Grande Distribuzione Organizzata. Siamo certi che la condivisione di un marchio pubblico o privato che ci identifichi per la qualità e per il sistema produttivo e i controlli terzi a garanzia del prodotto possa essere un passo importante da portare a compimento nell’interesse di tutti noi». Gian Omar Bison Società Agricola B2O S.S. Strada la Brussa 216 Località Brussa 30021 Caorle (VE) Telefono: 04211 765670 E-mail: info@birrificiob2o.it Web: www.birrificiob2o.com

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PANE

La carta dei pani Viene dalla Sardegna l’idea di valorizzare i pani regionali nella ristorazione. L’offerta è vasta e di qualità, predilige le specialità regionali ma non solo quelle e le descrive in un elenco che, oltre a metterne in evidenza le peculiarità, le materie prime e la storia, suggerisce accostamenti con le pietanze di Guido Guidi

L’

Grissini alle olive verdi delle sorelle Calabrò di Sant’Antioco (SU). Fiore all’occhiello del loro nuovo panificio-bistrot è la Carta dei pani che ha l’obiettivo di valorizzare il pane in abbinamento alle diverse preparazioni gastronomiche.

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abbinamento dei vini con i piatti è obbligo. Lo è diventato nel tempo anche quello dell’olio, che deve esaltare il gusto di un cibo senza coprirlo. Perché non suggerire dunque anche il pane più adatto al piatto che ci si accinge a consumare? Non c’è tavola senza pane, ma le varietà, soprattutto in Italia, sono talmente tante, che non si può pensare che un genere valga l’altro. Eppure a considerazioni di questo tipo si è giunti solo di recente, valutando l’enorme patrimonio a disposizione. Non è solo una questione di tipologie e lavorazioni differenti, ognuna muta a seconda della qualità della materia prima impiegata. Ognuna può essere più o meno valorizzata a seconda dell’uso e dell’abbinamento che se ne fa. Ci sono pani che si presentano a mero contorno di piatti importanti e sembrano presenziare a tavola né più né meno di una stoviglia qualunque. Ce ne sono altri che rubano completamente la scena, tanto sono belli da vedere e buoni da gustare. Alcuni, impegnativi sotto ogni profilo, sostituiscono il pasto o ne diventano l’elemento principale. Possono avere una vita brevissima o mantenersi freschi e gradevoli per giorni. Poi ci sono loro, i pani biscottati, quelli che sembrano dei surrogati, ma non lo sono e, anzi, vengono da una lunga tradizione e hanno una storia importante. Ogni specialità nasce con uno scopo e ha una sua occasione di consumo. Valeva dunque la pena di catalogarle queste specialità, per raccontarne

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Perché non suggerire il pane più adatto al piatto che ci si accinge a consumare oltre a vino e olio? Non c’è tavola senza pane, ma le varietà, soprattutto in Italia, sono talmente tante, che non si può pensare che un genere valga l’altro

Amaretti Calabrò. Oltre all’ampia gamma dei pani, nella vetrina del bel locale delle sorelle Dolores e Marina Calabrò fanno bella mostra di sé dolci secchi e al cucchiaio, torte e tante altre specialità dolci e salate.

L’idea della Carta dei pani nasce proprio da un’esigenza cioè che ogni specialità di panetteria ha un suo scopo e una sua occasione di consumo. Vale la pena catalogarle queste specialità, raccontarne le peculiarità e suggerirne al contempo un consumo che ne esalti il sapore, valorizzando il piatto di accompagnamento

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le peculiarità e per suggerirne nel contempo un consumo che ne esalti il sapore e valorizzi il piatto che accompagna. Questo hanno inteso fare le SORELLE CALABRÒ di Sant’Antioco. La Carta dei pani rappresenta il fiore all’occhiello del loro nuovo bistrot, posto strategicamente in un bellissimo viale del centro, a due passi dal porto, nel comune sulcitano. In realtà l’idea non è completamente nuova in Italia, ma casi analoghi sono davvero rari e rappresentano principalmente delle operazioni sporadiche e del tutto occasionali. Alcuni ristoranti — pochissimi per ora — si sono attrezzati in questo modo, ma la valorizzazione del pane proposto in abbinamento ai cibi, è oggi ancora molto poco diffusa. DOLORES e MARINA CALABRÒ, figlie d’arte nel mondo della panificazione, eredi di un’impresa che esiste da un secolo circa, nell’avviare un delizioso locale e rivendita di prodotti tipici hanno preteso che la Carta dei pani diventasse uno degli elementi caratterizzanti della nuova esperienza aziendale che sta-

vano per intraprendere. Quegli spazi che un tempo erano di una semplice e spartana panetteria sono diventati un piccolo tempio in cui artigianato artistico e artigianato alimentare si incontrano per esprimere il meglio della tradizione, dell’identità e della storia della Sardegna. Dolores e Marina, laureate rispettivamente in Farmacia e Scienze politiche hanno abbandonato — già una trentina d’anni fa — la prospettiva di una brillante carriera nei loro campi di studio, per dare continuità ad un panificio sorto nel lontano 1908. Non sapevano farlo il pane le sorelle Calabrò, ma si sono subito distinte per le loro capacità organizzative e gestionali, in una struttura che aveva bisogno di grandi teste, oltre che di mani capaci e laboriose. Ed è anche grazie a questa lungimiranza che l’azienda, oggi composta da oltre venti dipendenti, ha aggiunto un nuovo ramo d’attività, in un mix perfetto tra tradizione e innovazione. Quell’innovazione, quella nuova linfa indotta da ELENA CHERRI, esperta

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Dalle sorelle Calabrò si compra il pane, diverse specialità isolane (vini, conserve, olii, liquori e torroni) e poi, perché no, ci si può fermare a pranzo e a cena. Il menu varia settimanalmente con piatti di stagione proposti in abbinamento al pane più indicato. di comunicazione e marketing, figlia di Marina, che a soli 25 anni si accinge ad entrare in azienda, con idee audaci e uno sguardo ampio al futuro. Molte cose sono cambiate da quando il nonno delle Calabrò avviò il panificio oramai più di cent’anni fa. Una cosa è rimasta identica e si rinnova ogni giorno: su frammentu, il lievito madre con cui viene preparato il pane. Ma il suo valore aggiunto non è solo questo. Le specialità, la stragrande maggioranza delle quali tipiche isolane, sono realizzate prevalentemente con cereali coltivati nell’isola, grano Cappelli in testa. La scelta dei fornitori è maniacale e non solo per ciò che concerne i mulini. Tutti i prodotti che fanno bella mostra di sé negli scaffali del locale sono sardi, dai vini alle conserve vegetali, dalla frutta fresca agli olii, dai liquori ai torroni tipici. E molto altro ancora. Pani e piatti di stagione Le varietà dei pani sono innumerevoli. Si va da quelli speciali, alla canapa per esempio, alle focacce aromatizzate, il pai cun tamatiga (pane al pomodoro) e gli integrali. Ma sono soprattutto le specialità regionali a fare da padrone: coccoi, civraxiu, moddizzosu, pani di semola di grano Khorasan, tutto rigorosamente naturale perché in nessun prodotto è previsto l’impiego di lievito chimico, conservanti o coloranti. In uno spazio aperto dalle 6:30 del mattino

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sino a mezzanotte, fanno bella mostra di sé dolci secchi e al cucchiaio, torte e specialità varie, dolci e salate. Nel locale, che mostra anche antichi pezzi di artigianato tradizionale, colpisce un magnifico arazzo lavorato nel telaio a mano e impreziosito col bisso dalle sorelle ASSUNTINA E GIUSEPPINA PES di Sant’Antioco. Un manufatto di rara bellezza, dove le immagini tipiche della cultura isolana lasciano attoniti ed affascinati per il dettaglio e la ricercatezza. In questo luogo in cui è possibile consumare pasti e bevande, ma soprattutto comprare pane di alta qualità e di ogni tipo, il menu del pranzo e della cena varia settimanalmente, con l’inserimento di piatti di stagione proposti con il relativo pane da abbinare e di cui la Carta — ideata e predisposta dall’antropologa ALESSANDRA GUIGONI — descrive caratteristiche, storia e materia prima. I piatti proposti, quasi sempre tipici sardi e lavorati a mano nella cucina del ristorante, sono firmati dalla cuoca CHIARA COGOTTI. Pur essendo Sant’Antioco una città di mare, il pesce non viene proposto per scelta. Regna invece la pasta fresca con i culurgionis di patate, la fregula o i sappueddus, tutti rigorosamente lavorati a mano, le seadas di formaggio ovino, is pillus, gli andarinos di Usini, le panade di verdure o di salsiccia al mirto. Un piatto vegano è sempre previsto,

ma anche proposte esotiche come gli hamburger di lenticchie nere, la pecora, i gnocchetti monococco con ricotta e piselli, le insalate gourmet, la tartare di manzo lievemente marinata nella birra artigianale con pere e portulaca, solo per citarne alcuni. Il pane non è però protagonista solo dei pranzi e delle cene, ma si impone anche nei taglieri per gli aperitivi, nelle colazioni, spesso a base di miele o burro e marmellata. È sempre il pane a fare da protagonista in alcuni dolci dove sostituisce egregiamente il pan di Spagna. È mollica di pane quella che le Calabrò utilizzano nei dessert al cucchiaio come il tiramisù. È invece carasau caramellato quello servito su una mousse di ricotta con pere. E cosa ci può essere di più emozionante di un tuffo nel passato, nell’assaporare una tazza di latte con pane, come si faceva un tempo, nelle case degli Italiani per colazione o per cena? Tutto questo da solo varrebbe un viaggio in quest’isola nell’isola, dove i sapori sono talmente interessanti da rubare spazio alla bellezza mozzafiato dei luoghi. Guido Guidi Panifici Calabrò Corso Vittorio Emanuele 138 09017 Sant’Antioco (SU) Telefono: 0781 83014 E-mail: info@panificicalabro.it Web: panificicalabro.it

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New Wave Hot Dogs di Giovanni Papalato

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cco un titolo che definire bizzarro è limitativo. Perché per new wave abitualmente si intende una corrente che, in campo artistico e culturale, si pone in rottura con le idee dominanti, mentre per hot dog un panino farcito con un insaccato simile al würstel abbinato a salse come senape o maionese. Poi, guardando la copertina, qualcosa si delinea: un uomo coi baffi sorride, tra l’orgoglioso e il divertito, in posa. Alle sue spalle un furgone, su cui a mano campeggia la scritta New Wave e subito accanto più piccole hot dogs, oltre a cold

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sodas, hot coffee e sopra, sul bordo del tetto, Italian ice cream. Sono tutti elementi classici della ristorazione di strada, almeno negli USA. Allora cosa ci può essere di rottura, di innovativo? Dov’è la nouvelle vague? Poi torni a guardare la sua espressione e il furgone alle sue spalle. È inconsapevole? Probabile. Chi invece ha scattato la foto e scelto il titolo per il disco sono certo sia più che consapevole. They’re red hot! Questo è il secondo album per Yo La Tengo. È ad IRA KAPLAN, autore principale,

chitarrista e appassionato di baseball che si deve la scelta del nome della band. Esso deriva da un episodio accaduto durante una partita dei NEW YORK METS nel 1962: RICHIE ASHBURN, per evitare di scontrarsi con il suo compagno di squadra venezuelano ELIO CHACON, che non padroneggiava ancora la lingua inglese, urlò “Yo la tengo” al posto del convenzionale “I’ve got it”. Una delle versioni che spiegano l’origine del termine hot dog, invece, è strettamente connessa con un altro sport statunitense: quando nei primi del ‘900 i NEW YORK GIANTS disputavano le loro

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partite di baseball al NY Polo Grounds, HARRY M. STEVENS pensò di distribuire alla folla presente allo stadio le Dachshund sausages, dicendo ai propri venditori di esortare i clienti all’acquisto urlando “Get your Dachshund sausages while they’re red hot”, ovvero “prendete le vostre salsicce mentre sono ancora calde”. Il nome hot dog venne poi dato a questi panini dal disegnatore di vignette sportive THOMAS ALOYSIUS “TAD” DORGAN, che raffigurò un panino con dentro un bassotto, il Dachshund appunto, associando il würstel alla razza canina: entrambi lunghi e tedeschi. Yo La Tengo da Hoboken, New Jersey Questo disco non viene tanto considerato quando si tratta di elencare album significativi della loro produzione. Ciò a torto o ragione, dato che si tratta di un album ricco di idee a volte realizzate mentre altre sono solo abbozzate. Ne pervade un senso di incompletezza per alcuni o una bellissima tavolozza espressiva per altri. Questo è il secondo disco della band statunitense, siamo nel 1987 e solo un anno prima Yo La Tengo ha esordito con Ride The Tiger che è stato ben accolto. Ma in questo album mancano un fitto gruppo di musicisti che avevano aiutato a definirne il suono e, soprattutto, manca il chitarrista DAVE SCHRAMM, la cui assenza porta il principale compositore dei brani e cantante, insieme alla compagna GIORGIA HUBLAY che suona la batteria, a diventare la chitarra principale, sviluppando da una necessità una consapevolezza e una identità. La sua chitarra sarà sempre la linea da cui partiranno e saranno sostenute le canzoni di Yo La Tengo. Se a proposito dell’esordio Kaplan aveva definito la prima formazione come “una band di timidi folk-rockers”, qui non ci troviamo più in termini di esitazione. Si parte con una dose di nervosa angoscia ritmata chiamata Clunk, decisamente più aggressiva di qualsiasi altra cosa sul debutto di YLT, proprio con la chitarra di Kaplan che colpisce e abbraccia con il feedback. Did I Tell You ha i tratti di una ballata ma non si accontenta e alza il ritmo, emancipandosi. È con House Fall

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Giovanni Papalato (photo © Lucio Pellacani). Down che il noise e il rock ‘n’ roll non fanno nulla per nascondersi. Il disco prosegue con eterogeneità alternando le caratteristiche dei primi tre brani anche nella riuscitissima interpretazione della Velvetiana It’s All Right (The Way You Live) che chiude il primo lato, poi fiati e tastiere tra Let’s Compromise e Serpentine e un riuscito per quanto contrastante miscuglio tra eticità e irriverenza rock ‘n’ roll in A Shy Dog passando per la dolcezza di No Water che ritroveremo con altri nomi ma stessa intensità in altri dischi, fino all’epilogo di The Story Of Jazz.

Yo La Tengo non raggiungono la piena maturità musicale con New Wave Hot Dogs, ma in fondo mi piace pensare che nessuno glielo aveva chiesto e nemmeno loro lo pretendevano. È però innegabile che questo è un salto di qualità netto rispetto al loro debutto e dà la netta sensazione di essere il primo vero passo verso la giusta dimensione che raggiungeranno negli anni a venire: una delle più grandi indie rock band americane, tuttora in attività e sempre con dischi belli e importanti. Cosa, questa, per nulla scontata. Giovanni Papalato

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TECNOLOGIE Rintracciabilità fino all’auricolare con il CSB-Traceability

Il gruppo VION si affida da anni al gestionale CSB-System

P

er chi non lo conoscesse, il GRUPPO VION è un produttore internazionale di carne e prodotti a base di carne con stabilimenti in Olanda e Germania e uffici commerciali in tredici paesi diversi. Le tre divisioni — carne suina, carne bovina e foodservice — consegnano carne fresca di maiale e manzo così come sottoprodotti per la vendita al dettaglio e l’industria di lavorazione della carne, non solo nei mercati interni tedesco e olandese ma in tutto il mondo. VION è un’azienda che opera nel mezzo della filiera della carne e, in quanto tale, ci tiene a mantenere relazioni a lungo termine con i suoi agricoltori, partner logistici e clienti, per essere certa di consegnare carne di alta qualità ai consumatori di tutto il mondo. Oltre ad investire in infrastrutture all’avanguardia che garantiscono la sicurezza alimentare, i prodotti e i metodi di produzione altamente innovativi aiutano l’azienda VION a soddisfare la crescente domanda di processi sostenibili e di maggiore benessere degli animali. L’ambizioso obiettivo è quello di sviluppare e mettere a disposizione del settore le migliori pratiche aziendali su quattro temi principali: benessere degli animali, filiera di approvvigionamento (intesa come tracciabilità, trasparenza e integrità del prodotto), impatti ambientali della produzione e salute umana. Il gruppo CSB-System è orgoglioso di poter essere uno dei loro partner informatici di riferimento. Il gruppo fornisce da oltre quarant’anni soluzioni “su misura” alle aziende del settore carne e risponde con successo alle complesse problematiche commerciali e contrattuali, sia italiane sia estere, dei gruppi che operano a livello internazionale.

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CSB-Traceability del CSB-System Grazie ad un’intensa ed efficiente rilevazione dei dati aziendali, l’azienda VION CONVENIENCE traccia i suoi prodotti

bovini fino all’auricolare. La soluzione IT in uso, il CSB-Traceability, controlla e documenta tutte le fasi di lavorazione. «Grazie al CSB-Traceability documentiamo l’intera catena logistica. Da noi,

Codice DataMatrix per fTrace.

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il flusso delle merci è costantemente collegato al flusso delle informazioni. Così tracciamo completamente i nostri prodotti dal fornitore delle materie prime al consumatore finale e viceversa, dal consumatore finale al fornitore delle materie prime. E questo in meno di un’ora» spiega DIRK KIRCHNER, direttore di produzione dello stabilimento VION Convenience in Germania. Affinché la tracciabilità completa sia sempre garantita, i dati vengono trasferiti elettronicamente da una fase di lavorazione a quella successiva: dall’entrata merci all’imballaggio attraverso la produzione, fino all’evasione ordini e spedizione. EAN-128 in entrata merci Ogni articolo in entrata, viene registrato, assieme alla sua storia, direttamente nel sistema CSB-System. Numero ordine, numero articolo, numero lotto del fornitore così come nascita, ingrasso, macellazione, sezionamento e lavorazione sono registrati manualmente sul CSB Rack oppure sono già presenti nel sistema perché forniti via EDI sotto forma di DDT/notifica di spedizione prima della consegna. Al momento dell’arrivo della carne, questa viene pesata e riceve un numero lotto univoco così come un codice EAN-128 che lo “accompagna” fino alla fase successiva del processo di lavorazione. Nuovo codice lotto per prodotti derivati La carne così raccolta viene inizialmente conservata in una cella frigorifera, per poi essere trasferita nei reparti di produzione. Qui si scansiona il codice EAN-128 affinché in CSB-System la materia prima e il suo numero di lotto vengano aggiunti al lotto di produzione dell’articolo. Per prodotti che non combinano materie prime diverse, il

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Evasione ordini con l’ausilio di terminalini.

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per ogni cartone e cassa. Inoltre, per ogni pallet viene generata e stampata un’etichetta con un SSCC superiore di riferimento. SSCC per pallet pronti per l’evasione ordini Con la creazione di quest’ultimo SSCC riferito al pallet, il prodotto viene automaticamente assegnato al magazzino dei prodotti finiti, dove avviene l’evasione ordini. Qui ad ogni pallet viene assegnata un’etichetta di spedizione che include codice EAN e SSCC. Grazie a questa etichetta, VION Convenience può risalire oltre alle informazioni sugli articoli quali peso e dati di scadenza, anche a tutte le informazioni sulla tracciabilità, incluso quelle relative a macellazione, sezionamento e altre operazioni di taglio. Bilancio di massa nero su bianco «Io posso visualizzare la cronologia di ogni prodotto sia su carta sia con il semplice tocco di un pulsante sul monitor del mio PC» afferma Dirk Kirchner. «Questo ci consente di intervenire con cognizione di causa quando incontriamo i veterinari o il rivenditore di generi alimentari. Col numero di lotto riferito al bilancio di massa possiamo dimostrare nero su bianco quale quantità di materie prime è stata acquistata, quali prodotti ne sono derivati, in quale quantità sono stati venduti e quanti prodotti sono ancora disponibili in magazzino. Abbiamo raggiunto un’assoluta trasparenza all’interno della nostra azienda».

Inserimento dati. numero di lotto della materia prima viene trasferito così com’è, in maniera identica, al nuovo articolo. In questo caso le informazioni sull’origine sono semplicemente “ereditate”. In prodotti derivati come la carne macinata, diverse materie prime/componenti vengono lavorate insieme. Il riferimento principale è rappresentato dalle distinte base. Le materie prime specificate sono identificate mediante la scansione del rispettivo EAN 128, i numeri di lotto vengono rilevati e i dati di origine collegati a questo lotto, sono trasferiti al lotto del nuovo articolo. Il nuovo numero di lotto collega quindi tutti i dati di origine delle materie prime che sono confluite nella partita. Se la produzione richiede solo una parte della materia prima, la

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quantità rimanente viene conservata fino al suo successivo utilizzo. Trasferimento automatico alla peso-prezzatura Successivamente, il prodotto finito viene completato con vaschetta, pellicola superiore e altri elementi di imballaggio. L’articolo confezionato riceve un nuovo numero di lotto, che, insieme a informazioni quali prezzo, valore nutrizionale, ecc…, viene automaticamente trasferito alle linee di peso-prezzatura. Anche il contenuto del codice DataMatrix per fTrace o altre banche dati per i consumatori vengono trasmessi alla peso-prezzatura. Una stampante per ciascuna delle 13 linee fornisce un codice di spedizione univoco (SSCC)

Referente: • Dott. A. Muehlberger CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (Verona) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb.com

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rano nel commercio di generi alimentari, gli alimenti freschi rappresentano una vera e propria sfida. Frutta, verdura, carne, pesce o prodotti derivati dal latte non devono solo avere un aspetto invitante e appetitoso, ma anche essere igienicamente ineccepibili e quindi sicuri. In entrambi i casi è fondamentale la temperatura. Il data logger wi-fi testo Saveris 2 è stato concepito per tenere sotto controllo con maggiore efficienza proprio questo parametro: permette di controllare e documentare tutti i princi-

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congiungono alla memoria, alla cultura, alle emozioni, al sapere. Nell’ambito di industrie culturali sempre più complesse e di attori sociali creativi e performativi, l’opera descrive come nella società in rete i pubblici connessi si servano delle narrazioni diffuse sul cibo. L’autrice offre uno sguardo impreziosito dall’osservazione dei professionisti del mondo dell’alimentazione che si mettono alla prova nel riorganizzare i discorsi su salute e benessere.

L’autrice Antonia Cava è ricercatrice di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e Studi Culturali dell’Università degli Studi di Messina dove insegna Industria culturale e media studies. Membro di diversi gruppi di ricerca nazionali e internazionali, si occupa di Television Studies. È autrice di alcuni volumi dedicati alla Noir TV.

ANTONIA CAVA #Foodpeople Itinerari mediali e paesaggi gastronomici contemporanei Aracne Editrice, Roma, 2018 116 pp. – € 8,00

Cibo da mangiare, cibo da postare: con la diffusione dei social è sempre più frequente l’abitudine di fotografare e postare il cibo su Instagram, Twitter o Facebook (photo © Rasulov – stock.adobe.com).

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