Periodico per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXX N. 6 Novembre-Dicembre 2018
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* in riferimento ai valori medi nutrizionali della Mortadella (fonte dati: CREA – Alimenti e Nutrizione)
AUGURI D’AUTORE
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Premiata Salumeria Italiana, 6/18
Giovanni Ballarini Josette Baverez Blanco • Elena Benedetti Gian Omar Bison Gaia Borghi • Marco Cappelli Federica Cornia Sebastiano Corona • Luigi Credi Marco Credi Giorgia Fieni • Lorenzo Fiorentin Laura Franchini Veronica Fumarola • Guido Guidi Riccardo Lagorio • Nunzia Manicardi Giorgio Montanari Gianluca Pacella • Giovanni Papalato Francesco Procaccio Massimiliano Rella • Clara Scaglioni Elena Simonini Daniela Toccaceli • Roberto Villa
Buone Feste da tutti noi
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N. 6 Anno XXX Novembre-Dicembre 2018
€ 6,70 Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia Stampa
Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 059220727 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988 Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Via Taglio 24 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910
Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti Redazione Rossana Balugani – Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Lorenzo Fiorentin – Luigi Credi Fotografia Luigi Credi Comitato di redazione Franco Ferrari – Manrico Murzi – Clara Scaglioni Redazione New York Stefano Spadoni 1732 1st Ave #27220 New York, NY 10128 Tel. 001 212 956-8566 E-mail: Stefanony@stefanospadoni.com Consulenti scientifici Prof. Giovanni Ballarini (Parma) – Prof. Fausto Cantarelli (Parma) – Prof. Giuseppe Caserio (Milano) – Prof. Giorgio Catellani (Napoli) – Prof. Eugenio Del Toma (Roma) – Dr. Emanuele Guidi (Modena) – Prof. Riccardo Monacelli (Roma) – Dr. Alfonso Piscopo – Piero Pittaro (Udine) – Prof. Andrea Strata (Parma) – Angelo Valentini (Perugia) Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo viene elaborato e impaginato con Adobe® InDesign® CC 2018. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CC 2018.
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ph: Franceschini Vincenzo
La cura e la dedizione di una cottura lenta, come nella nostra tradizione piĂš vera, per un prodotto di incredibile sapore, davvero speciale.
Da oltre 50 anni curiamo i nostri prodotti con grande amore. Selezioniamo solo le migliori carni di suini Italiani e le lavoriamo nel rispetto della tradizione. FRANCESCHINI GINO & C. SRL Via dei Marmorari, 38 - 41057 Spilamberto (Mo) Tel. + 39 (0) 59784037 - Fax +39 (0) 59784075 - info@franceschinigino.it - www.franceschinigino.it
N. 6
In questo numero: Agenda
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Immagini
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Tendenze
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Salumi & Co.
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Legislazione
Paese d’origine: la montagna partorisce il topolino
Sebastiano Corona
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Attualità
Distretti del cibo: novità e aspettative
Daniela Toccaceli
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Il food in rete
Social food
Elena Benedetti
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Aziende
Coppa di testa, ricetta che vince non si cambia
Gaia Borghi
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Lo Speziale Levoni, dedicato all’Alto-Adige I Sapori d’Ogliastra, artigianalità e tradizione
38 Sebastiano Corona
Salumificio Artigianale Pavullese, il gusto antico e moderno del Frignano Interviste
40 44
Valter Tagliazucchi, professione pasticcere
Federica Cornia
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Il formaggio di pecora Garfagnina di Verano Bertagni
Veronica Fumarola
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A pagina 64.
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Speciale Natale
I piatti dell’abbondanza
Giorgia Fieni
Cosa sarebbe il Natale senza zampone e cotechino Modena? Regione che vai, dolce di Natale che trovi
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Guido Guidi
Panettone artigianale, da Milano alla Carta
64 68
Indagini
Cioccolato, peccato di gola per oltre la metà degli Italiani
Gianluca Pacella
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Nutrizione
Il buon grasso del maiale
Giovanni Ballarini
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Belle Botteghe
L’Emporio delle spezie
Massimiliano Rella
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Maialumeria, dove si affinano i salumi e i sensi
Riccardo Lagorio
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Street food
La Polpetteria food truck
Federica Cornia
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Turismo enogastronomico
C’è bresaola e brisaola
Gaia Borghi
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La sagra del Gorgonzola
Josette Baverez Blanco 88
Le antiche radici contadine della nuova Slovacchia
Nunzia Manicardi
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Il gusto di camminare
Sull’Olimpo tosco-emiliano
Elena Simonini
96
Sono 180 grammi, lascio?
The Waiting Room, Tindersticks
Giovanni Papalato
Fiere
SIAL Parigi, international food business in salsa francese
Gaia Borghi
Cibus connette il mondo alle aziende alimentari italiane e ai loro territori
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A pagina 50. In copertina: panettoni gastronomici mignon con una farcitura di cotechino del Salumificio Mec Palmieri di San Prospero (MO). Buone feste (photo © Massimiliano Rella).
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Formaggio Vino
Consorzio Caseificio di Sorano: oltre mezzo secolo di storia di formaggi
Massimiliano Rella 110
Brindisi d’auguri consapevole e necessario
Riccardo Lagorio
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CC, Culatello & Champagne
Gaia Borghi
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I vini di Premiata Salumeria Italiana
Degustazione: Natale con cotechino, zampone & Co.
Laura Franchini
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Bevande
Il tè. Numeri, trasformazione, colore e storia di una coltura millenaria Riccardo Lagorio
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Dolci
Il torrone di Agramunt
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Aceto
È nato il nuovo Museo Aceto Balsamico Giusti
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Tecnologie
CSB-System: la digitalizzazione non è fine a se stessa
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Libri
Sanguinacci
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Storia del gusto
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Riccardo Lagorio
A pagina 80. A pagina 114.
A pagina 88.
www.premiatasalumeriaitaliana-online.com 10
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AGENDA
Alto Adige Che Natale sarebbe senza una visita ai mercatini originali dell’Alto Adige Südtirol? Dal 23 novembre al 6 gennaio a Bolzano, Merano, Bressanone, Vipiteno e Brunico si respira un’atmosfera magica e suggestiva nelle piazze e strade che si trasformano e si riempiono di profumi e aromi. Con il calore del vin brulè, il profumo dello strudel e dello zelten, i colori delle bancarelle che espongono oggetti dell’artigianato tradizionale e le decorazioni natalizie. www.suedtirol.info – www.instagram.com/visitsouthtyrol
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Carrù (CN) Segnatevi una data e una destinazione: giovedì 13 dicembre a Carrù, in provincia di Cuneo, per la grande Fiera del Bue Grasso, un appuntamento annuale per il quale gli abitanti del luogo, i carrucesi, si preparano a lungo. Ogni anno Carrù viene infatti invasa da appassionati e curiosi che sin dalle prime ore del mattino vanno ad ammirare gli splendidi capi di bovini di razza Piemontese e a gustare il piatto tipico, il Bollito, vero “monumento della tradizione gastronomica italiana”. La sua preparazione semplice, ma lunga e paziente, in tempi di frettolosità culinaria, lo ha reso sempre meno frequente sulle tavole familiari, ma è molto amato da chi di cucina se ne intende. C’è chi gli dedica versi, chi fiere e serate gastronomiche, chi promuove gare di assaggio, chi si lascia ingolosire dalle salse che lo accompagnano. E a Carrù c’è anche chi ci fa colazione! www.prolococarru.it
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IMMAGINI
Un cotechino di carne bovina pregiata? C’è, si chiama “L’altro cotechino” ed è prodotto dalla Carlo Sartori e Figli, azienda di Brenzone sul Garda (VR) da sempre nel commercio al dettaglio delle carni. «L’idea è nata un paio di anni fa» ci racconta Carlo Sartori. «Lo chef Leandro Luppi, del ristorante stellato Vecchia Malcesine, di Malcesine (VR), con cui collaboriamo da diversi anni, voleva portare al WineFestival di Merano un prodotto nuovo. Complice la sua passione per la Garronese Veneta, ha pensato ad un cotechino realizzato al 100% con la carne di questo bovino». Dopo il confronto con lo chef, la palla è passata all’azienda, che, insieme ai macellai aderenti al Gruppo Garronese Veneta, ha iniziato a fare delle prove. Dopo un paio di mesi di tentativi si è trovata la quadra e la ricetta è diventata quella attuale ovvero 50% muscolo di Garronese Veneta, 50% testina rasata di Garronese Veneta, sale, pepe macinato, aglio, cannella, noce moscata e aromi naturali. «Rispetto al cotechino classico si presenta in maniera molto diversa: manca la parte grassa, quindi non “attacca”, e il sapore è bello deciso. Il purista del cotechino potrebbe anche non apprezzare, mentre tutti quelli a cui il classico non piace trovano nell’altro cotechino un’alternativa più magra e, soprattutto, molto più leggera» conclude Carlo. “L’altro cotechino” — il nome è dello chef Luppi, che ha riproposto il piatto anche in altre occasioni — è acquistabile in tutte le macellerie del Gruppo Garronese Veneta. La Garronese Veneta è un marchio registrato che risponde ad un sistema di allevamento e alimentazione dei bovini francesi da ingrasso di razza Blonde d’Aquitaine codificato in un disciplinare pensato e brevettato proprio dalla Sartori. La carne che questo animale produce è molto pregiata in quanto è costituita da fibre muscolari particolarmente sottili, che le conferiscono una delle proprietà più ricercate dai consumatori, ovvero la tenerezza (garroneseveneta.it; photo © Sartori Carlo e Figli Sas). 14
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Lo scorso 1o ottobre, in Strada Quattro Ville a Modena, è stato inaugurato dalla famiglia Giusti il Museo dell’Aceto Balsamico, insieme ai nuovi spazi dell’acetaia e a quelli dedicati alla degustazione. Il museo ripercorre la storia del “Gran Deposito Aceto Balsamico di Giuseppe Giusti”, la più antica acetaia al mondo fondata proprio a Modena nel 1605. Il servizio è a pagina 130.
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TENDENZE Il panino democratico
«Il panino è un ottimo esempio di democrazia perché per essere perfetto devono regnare equilibrio e armonia tra gli ingredienti. Se mancasse questo bilanciamento, a favore di un gusto piuttosto che di un altro, il panino non si potrebbe dire ben riuscito». Lo ha dichiarato lo scorso 28 ottobre a Napoli DANIELE REPONI, maestro indiscusso di panini gourmet, in occasione della IX edizione di “Cibo a Regola d’Arte”, evento organizzato dal CORRIERE DELLA SERA che quest’anno aveva come tema proprio il “cibo democratico”. Nella magnifica cornice del Museo Pignatelli, Daniele ha presentato due “panini democratici”: uno dall’anima partenopea, con salame Napoli, zucca e friarielli, e l’altro con mortadella, pomodoro semi-secco ai capperi e miele. Anche l’Istituto Valorizzazione Salumi Italiani (IVSI) era presente all’interno della manifestazione per celebrare i salumi e la carne suina che democratici lo sono per eccellenza. LUCA GOVONI, docente di Storia della cucina e gastronomia ad Alma, la Scuola Internazionale di Cucina di Colorno (PR), ha spiegato il motivo di questa affermazione partendo proprio dall’identità italiana della cucina. «Un tempo — ha detto Govoni — i valori simbolici di ogni preparazione erano basati sostanzialmente sulla combinazione di utilità e scarsità. Quest’oggi la paura della privazione ha lasciato spazio a questioni di quantità e qualità, sostenibilità, tipicità o località. In questa caotica torre di Babele gastronomica i prodotti si mescolano e si accostano secondo nuove regole che la stessa società ha fatto proprie solo con il beneficio del tempo. Così il detto medievale “del maiale non si butta via niente”, generato da ovvie necessità, pare più che mai attuale in virtù di quei nuovi principi che sorreggono — fortunatamente — i valori propri di una nuova società contemporanea» (photo © IVSI).
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SALUMI & CO.
Coltelli per formaggi stilosi Cercate un oggetto particolare per servire i vostri formaggi? Ecco dei bellissimi coltelli in legno e resina, realizzati artigianalmente. Si rifanno al design scandinavo e si possono acquistare sul sito www.tiedhome.com (photo © tiedhome.com).
Neon art in salumeria? Volete dare un segno di modernità alla vostra bottega? Un’idea semplice e di sicuro impatto è la light art, con le scritte luminose da attaccare ad una parete. Sono tanti oggi i produttori esperti in tubi al neon. Tra i migliori c’è www.neon-art.com, piattaforma on-line per progettare neon personalizzati. Ideale per appassionati dell’illuminazione e del design (photo © Chris Titze Imaging – stock.adobe.com).
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LEGISLAZIONE
Paese d’origine: la montagna partorisce il topolino Scatta nel 2020 l’obbligo per le imprese alimentari di fornire al consumatore informazioni precise sulla provenienza della materia prima quando la sua omissione può indurlo in errore. I margini di miglioramento della norma non sono però pochi di Sebastiano Corona
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l Regolamento UE 1169/2011 rappresenta una vera e propria riforma in tema di informazioni al consumatore. Una riforma che ha modificato in maniera importante le regole cui sono sottoposte le imprese agroalimentari e che continuerà, nel tempo, ad incidere sugli ordinamenti dei singoli Stati, quando abrogando, quan-
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do introducendo, nuove ed importanti disposizioni. La più recente — in termini di entrata in vigore — è quella relativa all’indicazione del Paese d’origine o del Luogo di provenienza di un prodotto. Tali elementi vanno infatti, secondo il Regolamento 1169, obbligatoriamente indicati se la loro omissione può indurre in errore il consumatore e, soprattutto,
se altre informazioni o elementi che accompagnano l’alimento, nel loro insieme, possono far credere che il prodotto abbia un diverso Paese d’origine o Luogo di provenienza, rispetto a quello reale. Un esempio per tutti: una confezione di pasta (prodotto tipicamente italiano), con richiami al tricolore in etichetta, ma realizzato in Germania
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In un mercato complesso come quello alimentare, conoscere la provenienza della materia prima o il Paese di origine di un prodotto non è un’informazione secondaria. Non a caso era grande l’attesa in merito a questo provvedimento, che dovrebbe entrare in vigore il 1o aprile 2020. Gli alimenti immessi sul mercato o etichettati prima di quella data possono essere commercializzati sino ad esaurimento scorte
Saranno così risolti i problemi di trasparenza e chiarezza nei confronti del consumatore? Nemmeno per idea! Il Regolamento, infatti, introduce indicazioni importanti, elementi preziosi in più per chi acquista, ma lascia zone d’ombra oggetto di forti critiche, soprattutto da parte del mondo agricolo
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con semole tedesche. Tutto lascia intendere che quella pasta sia prodotta in Italia, ma in realtà non è affatto così. La regola si dovrebbe altresì imporre quando il Paese di origine (o LdP) è indicato e non è lo stesso di quello del suo ingrediente primario. In questo caso andrebbe indicato — sempre secondo il 1169 — anche il Paese di origine (o LdP) dell’ingrediente primario. Oppure il PdO o LdP dell’ingrediente primario deve essere indicato come diverso da quello dell’alimento. Altro esempio: la bottarga di cefalo. È un prodotto che ha una grande tradizione produttiva in alcune regioni del Sud Italia, ma per scarsità di materia prima, nella stragrande maggioranza dei casi, è realizzato con uova provenienti da altri continenti (prevalentemente America Latina e Africa), sottoposte ad un processo di salagione e stagionatura che incide in maniera importante sulle caratteristiche dell’alimento. In questo caso va indicato in etichetta il Paese di origine delle uova, essendo differente da quello della trasformazione. A rendere operativo e più esplicito questo passaggio è il Regolamento 775/2018, che all’articolo 2 precisa cosa si intenda per “ingrediente primario”: è l’ingrediente o gli ingredienti che rappresentano più del 50% dell’alimento o che sono associati abitualmente alla denominazione di tale alimento dal consumatore e per i quali nella maggior parte dei casi è richiesta un’indicazione quantitativa. Entriamo pertanto in un ambito di grande interesse per consumatori e associazioni che da tempo chiedono maggiore chiarezza su questo aspetto. In tempi di delocalizzazione delle imprese, di Italian sounding, di globalizzazione, è infatti frequente che la carenza di informazioni sulla reale provenienza di un alimento, faccia cadere nell’errore di scegliere un prodotto al posto di un altro. Nell’alimentare la faccenda si fa ancora più delicata La scelta di un certo cibo in luogo di un altro può essere dettata da ragioni puramente economiche, ma anche qualitative ed igienico-sanitarie. Chi acquista, al di là del gusto del cibo, potrebbe sceglierlo nel tentativo di contribuire allo sviluppo economico di data regione. Ci possono altresì esse-
re motivazioni da ricondurre alla sua qualità e al legame con un territorio. Oppure può essere una decisione presa in virtù della sicurezza alimentare, considerato che le nostre norme sono certamente tra le più severe al mondo e rappresentano per il consumatore un elemento dirimente in sede d’acquisto. Pertanto, in un mercato così complesso, sapere quale sia la provenienza della materia prima o il Paese di origine effettivo di un prodotto non è un’informazione secondaria. Non a caso era grande l’attesa in merito a questo provvedimento che dovrebbe entrare in vigore il primo aprile 2020. Gli alimenti immessi sul mercato o etichettati prima di quella data possono essere commercializzati sino ad esaurimento scorte. Come si traduce il dettato del Regolamento in etichetta? Negli alimenti preimballati, l’indicazione di origine o provenienza di un ingrediente primario, che non sia lo stesso PdO o LdP indicato per l’alimento, viene fornita secondo le seguenti regole, a scelta: “UE”, “non UE” o “UE e non UE” oppure una regione o qualsiasi altra zona geografica all’interno di diversi Stati Membri o di Paesi Terzi, sede definita tale, in forza del diritto internazionale pubblico o che si possa considerare ben chiara per il consumatore medio normalmente informato. Per i prodotti ittici va riportata la zona di pesca FAO, il mare o il corpo idrico di acqua dolce di riferimento. L’alternativa è quella di utilizzare una dicitura del seguente tenore: il nome dell’ingrediente primario e poi “non proviene/non provengono da” (Paese d’origine o Luogo di provenienza dell’alimento) o una formulazione di pari significato per il consumatore rispetto alla quale saremmo però prudenti, perché il fraintendimento e il rischio di utilizzare un’espressione non idonea è alto e, quindi, anche la probabilità di commettere errori. Ci sono regole precise anche nelle modalità con cui le indicazioni devono essere fornite al consumatore: i caratteri non possono avere dimensioni inferiori a quelle previste dall’articolo 13, paragrafo 2, del Regolamento 1169. Pertanto, se il PdO o il LdP è indicato con parole, la relativa origine appare nello stesso campo visivo dell’indicazione del PdO o del LdP dell’alimento e in caratteri la
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Scatta nel 2020 l’obbligo per le imprese alimentari di fornire al consumatore informazioni precise in merito alla provenienza della materia prima, quando la loro omissione può indurre in errore l’acquirente (photo © Frank Boston – stock.adobe.com). cui parte mediana (altezza della x) sia pari ad almeno il 75% di quella utilizzata per l’indicazione del PdO o del LdP dell’alimento. Se invece il PdO o il LdP non è indicato con parole, origine/ provenienza appaiono nello stesso campo visivo dell’indicazione del PdO o del LdP dell’alimento. Risolti i problemi di trasparenza e chiarezza nei confronti del consumatore? Nemmeno per idea! Il Regolamento introduce delle indicazioni importanti, elementi preziosi in più per chi acquista, ma lascia zone d’ombra oggetto di forti critiche, soprattutto da
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parte del mondo agricolo. La prima è che le indicazioni che diverranno tra meno di due anni obbligatorie sono in realtà troppo generiche per fornire a chi acquista sufficienti informazioni per fare scelte oculate. Le espressioni utilizzabili quali UE, non UE, regione, Stato Membro, ecc… possono includere aree geografiche vastissime, persino troppo ampie. In Italia, più che in altre nazioni, è forte la rivendicazione di un’informazione completamente trasparente, ai limiti dell’eccesso. Una richiesta legittima che, tuttavia, non tiene conto dei costi a carico delle imprese, che finirebbero inevitabilmente per riversarsi sui consumatori.
Una richiesta che parte dall’errata convinzione che gli innumerevoli problemi del mondo agricolo si possano tutti magicamente risolvere indicando l’origine di un prodotto in etichetta, senza considerare che gli elementi che portano all’acquisto sono diversi e non sempre la provenienza della materia prima è, da sola, un fattore sufficiente. La seconda questione, a nostro parere più rilevante, è l’esclusione dall’applicazione del Regolamento di una serie di prodotti. Tra questi, i marchi registrati, tutte le produzioni di cui al Regolamento UE 1151/2012 (DOP e IGP), del Regolamento 1308/2013 (Organizzazione Comune dei Mercati), del Regolamento CE 110/2008 (su bevande spiritose e liquori), del Regolamento 251/2014 (vini aromatizzati) e tutto ciò che rientra in accordi internazionali. Pertanto i marchi registrati, sia quelli storici, sia quelli che si registreranno in futuro, potrebbero così trovare una facile scappatoia per sfuggire alla regola. Ancor più paradossale è l’esenzione di DOP e IGP. Se infatti la prima dà ampie garanzie sulla provenienza del prodotto, non ve ne è invece nessuna sulla seconda. Il risultato è presto detto: il consumatore avrebbe il diritto di conoscere ogni aspetto della provenienza della materia prima di un qualunque prodotto alimentare, ma rischia di non averlo su una specialità che riceve tutela assoluta come un’Indicazione Geografica Protetta, appunto. Non fosse sufficiente, i decreti italiani fortemente voluti dal mondo del primario sull’origine di latte, pasta, riso, pomodoro, perderanno efficacia a partire dalla data di applicazione del Regolamento. Un altro pasticcio che ha dapprima creato illusioni alle imprese locali e generato costi e ora si vanifica nel nulla. C’è poi la partita delle sanzioni, tutta in capo ai singoli Stati Membri. Siamo sicuri che ognuno di loro abbia davvero interesse a punire imprese che — pur violando il Regolamento — portano occupazione, ricchezza, indotto sul territorio, quand’anche dovessero ingannare i loro stessi consumatori? Le zone d’ombra sono ancora tante. Staremo a vedere. Sebastiano Corona Nota A pagina 22 photo © TPhotography – stock.adobe.com
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ATTUALITÀ
Distretti del cibo: novità e aspettative di Daniela Toccaceli
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“Distretti del cibo” sono la forma rinnovata dei distretti in agricoltura che il legislatore nazionale ha proposto con la legge di bilancio 2018. Dunque, sono l’ultima generazione di quella grande famiglia di distretti che è diffusa nell’ultimo ventennio e sono stati posti per rinnovarne le finalità, allineandole con i nuovi obiettivi della PAC, di Cork 2.0 e delle politiche per l’ambiente e il cambiamento climatico. I distretti in agricoltura nascono come uno strumento di politica economica finalizzato ad organizzare e sostenere i sistemi produttivi agricoli e agroalimen-
tari locali e promuovere lo sviluppo delle comunità delle aree rurali, la cui identità storica e culturale diventa tratto distintivo ed elemento da valorizzare, unitamente allo specifico paniere di prodotti tipici e a denominazione. Pur nell’articolata varietà di modelli che le regioni hanno adottato, tali distretti operano attraverso lo sviluppo di progettazioni integrate del territorio distrettuale, che vedano coinvolte in modo sinergico iniziative sia private che pubbliche. Perciò, il distretto è da considerarsi anche metodo di governance dei sistemi rurali, basato sul
partenariato pubblico privato locale e sulla governance multilivello. Dunque i distretti rappresentano una forma compiuta di applicazione del principio di sussidiarietà in ambito economico, con effetti di riequilibrio territoriale e impatti sociali rilevanti, quali il contrasto allo spopolamento di tali zone. All’atto pratico, sono strumenti complessi da utilizzare e, tuttavia, si può sostenere che alla base del loro perdurante successo stia proprio la molteplicità di obiettivi privati e collettivi che consentono di perseguire in un quadro progettuale e programmatico unitario e integrato.
Vigneti in Piemonte. Con l’entrata in vigore della legge di bilancio, a partire dal primo gennaio 2018 sono stati istituiti i Distretti del cibo, evoluzione dei distretti agricoli. L’obiettivo è quello di rafforzare il sostegno alle forme organizzative locali (photo © Luigi Bertello/Select).
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Prodotti tipici dell’Oltrepò Mantovano, territorio che ha nel settore agroalimentare uno dei suoi punti di forza. Tra i soci di questo distretto rurale figurano ad esempio il Consorzio di tutela del Parmigiano Reggiano, le associazioni della Strada e Vini Sapori Mantovani e della Strada del Tartufo e il Consorzio Pera Tipica Mantovana. Una storia ventennale che guarda avanti La storia dei distretti in agricoltura è ultraventennale. In questo lungo percorso i distretti hanno avuto estimatori e detrattori. Né gli uni né gli altri possono poggiare la propria tifoseria su dei numeri perché questo strumento — al pari di tanti altri, purtroppo — non è mai stato oggetto di un sistematico monitoraggio né a livello delle regioni né tanto meno nazionale. Nondimeno, i distretti hanno avuto una grande diffusione e oggi soltanto Val d’Aosta, Emilia-Romagna, Umbria, Molise e Provincia Autonoma di Bolzano non hanno adottato provvedimenti regolatori al riguardo. Nel contrappunto dei successivi interventi del legislatore nazionale, l’azione delle regioni non è stata di mero recepimento. Al contrario, vi è stato uno sforzo di adattamento dello strumento ai propri contesti produttivi, economici, ambientali e sociali, creando anche nuove tipologie di distretti, ad esempio i distretti di filiera definiti dalla legge regionale Lombarda. Nel complesso, nel 2013 — unica rilevazione svolta
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a livello nazionale — sono stati contati oltre 80 distretti riconosciuti in Italia. Si possono distinguere quattro periodi. Nel primo, coincidente con le nascenti disposizioni sui distretti industriali, il legislatore nazionale poneva i distretti come sistemi produttivi locali e stabiliva che la loro governance fosse affidata a consorzi pubblico-privati. Diverse Regioni (Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Marche, Abruzzo, Campania e Basilicata) tra il 1996 ed il 2001 hanno stabilito proprie norme per riconoscere distretti agroindustriali. Il secondo periodo prende avvio dal 2001 in attuazione della Legge di orientamento che definiva i Distretti Rurali e Distretti Agroalimentari di Qualità — insieme ad altri strumenti — per rafforzare la competitività delle imprese agricole e lo sviluppo delle aree rurali. Numerose Regioni (Piemonte, Liguria, Veneto, Toscana, Lazio, Marche, Abruzzo, Campania, Basilicata, Calabria, Sardegna e la Provincia Autonoma di Trento) hanno adottato proprie leggi regionali tra il 2003 ed il 2016 e riconosciuto numerosi distretti della tipologia Rurale
e Agroalimentare di Qualità. Nel 2006, il legislatore nazionale è di nuovo intervenuto sulla materia, introducendo la nozione di “distretti produttivi”, che enfatizzavano l’aspetto aggregativo tra le imprese, privilegiando l’alto potenziale innovativo del distretto. Lombardia, Veneto, Basilicata, Puglia e Sicilia hanno modellato le proprie leggi regionali in attuazione di tale norma, riconoscendone numerosi: la sola Lombardia conta oggi 19 distretti attivi. Se la metodologia distrettuale nella sostanza è stata mantenuta pressoché identica nella gran parte delle Regioni, dal punto di vista finanziario sono stati definiti e utilizzati strumenti e Fondi diversi per supportare lo sviluppo dei progetti distrettuali. Nel periodo, c’è stata anche una variazione qualitativa nell’interpretazione dello strumento distrettuale che è stato adattato a sostenere le qualità di salubrità dei prodotti agroalimentari come pure dei territori di produzione attraverso i biodistretti e i distretti biologici. Anche in questo caso, l’impulso legislativo è partito da esperienze concrete, per cercare
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di approdare, dopo un lungo percorso, ad un quadro legislativo organico in materia di produzioni biologiche che però non si è completato nella precedente legislatura, salvo ricevere una risposta parziale proprio dalle disposizioni sui Distretti del cibo. Fino al 2016 non è stato possibile utilizzare il contratto di distretto, lo strumento tipico previsto dal legislatore nazionale ma poi non finanziato e non regolato. Per la prima volta il MIPAAF lo ha reso operativo nel 2017, disciplinandolo insieme ai già sperimentati contratti di filiera. Nel 2017, avvio del quarto periodo, c’è stato un intervento che voleva essere al tempo stesso di riordino e di rilancio della materia, sostituendo e integrando la legge del 2001 con i Distretti del cibo. Una grande famiglia con nuove finalità e nuovi strumenti Attualmente sotto la dicitura “Distretti del cibo”, accanto ai Distretti Rurali e Distretti Agroalimentari di Qualità, ricadono altre sei tipologie di distretti, che ricomprendono tutte quelle già stabilite e sperimentate dalle regioni. Tra queste si ritrovano anche distretti in
area urbana e periurbana, distretti di filiera e agroindustriali, distretti relativi ad aree e produzioni biologiche. I Distretti del cibo sono finalizzati a raggiungere fini molteplici che integrano i precedenti e li riallineano con le correnti finalità delle politiche unionali e nazionali: promuovere lo sviluppo territoriale, la coesione e l’inclusione sociale, favorire l’integrazione di attività caratterizzate da prossimità territoriale, garantire la sicurezza alimentare, diminuire l’impatto ambientale delle produzioni, ridurre lo spreco alimentare e salvaguardare il territorio e il paesaggio rurale attraverso le attività agricole e agroalimentari. La nuova impostazione è importante per due aspetti. Da un lato, si riconosce all’agricoltura un ruolo specifico nel passaggio al nuovo paradigma economico di economia circolare e bio-based definendo uno specifico strumento per attuarlo sui territori rurali affinché possano diventare protagonisti di processi innovativi che non dovrebbero essere riservati solo ad altri ambiti e territori produttivi. Dall’altro lato, le si forniscono mezzi mai approntati prima su scala nazionale. Infatti, il contratto di distret-
Una croce di colore rosso sta ad indicare gli ulivi infettati dalla Xylella fastidiosa, il batterio che ha decimato gli ulivi del Salento. Nella legge di bilancio 2018 un capitolo specifico è stato dedicato ai territori colpiti dal batterio e sono stati stanziati un milione di euro per l’anno 2018, 2 milioni di euro per l’anno 2019 e 2 milioni di euro per l’anno 2020.
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to è posto come strumento finanziario stabile e costante per sostenere i Distretti del cibo. La legge di bilancio 2018 stanziava cifre modeste in quantità ma rilevanti per la loro novità: 5 milioni di euro per l’anno 2018 e 10 milioni di euro a decorrere dall’anno 2019. Merita di essere menzionato che un capitolo specifico è stato dedicato ai territori pugliesi colpiti da Xylella fastidiosa. Per realizzare un programma di rigenerazione dell’agricoltura nei territori colpiti — anche attraverso il recupero di colture storiche di qualità — sono stati stanziati un milione di euro per l’anno 2018, 2 milioni di euro per l’anno 2019 e 2 milioni di euro per l’anno 2020 da destinare al finanziamento di contratti di distretto per i territori danneggiati dal batterio. Consapevoli dei limiti delle precedenti esperienze, è stata introdotta un’ulteriore novità, rappresentata dall’istituzione presso il MIPAAF di un Registro nazionale dei Distretti del cibo, che dovrebbe costituire la base primaria per colmare quella profonda lacuna informativa che finora li ha caratterizzati, e avviare — auspicabilmente — un sistema affidabile e omogeneo di monitoraggio. Spetta a ciascuna regione o provincia autonoma disciplinare e riconoscere autonomamente i Distretti del cibo e iscriverli nel Registro nazionale. Le aspettative Nel frattempo si è avviata una nuova legislatura. Su questa materia da molte parti è atteso un segno di continuità, anzitutto nel mantenere — se non incrementare — le risorse già assegnate. Anche il contratto di distretto dovrebbe auspicabilmente trovare una disciplina autonoma, capace di semplificare quella assai complessa che finora ha regolato i contratti di filiera. Nella nuova formulazione, la regolazione dei contratti di distretto dovrebbe riuscire a trovare la giusta chiave per diventare uno strumento a geometria variabile, capace di adattarsi alle diverse taglie territoriali ed economiche che gli ormai numerosi distretti incarnano nelle aree rurali italiane. Daniela Toccaceli Consigliere del MIPAAF per le Politiche Agricole e Agroalimentari Fonte: Accademia dei Georgofili www.georgofili.info
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IL FOOD IN RETE
Social
di Elena
1. Come nasce la vera Mortadella Bologna Igp? Vuoi apprendere i segreti di uno dei prodotti più amati della salumeria italiana? Entrare nello stabilimento di produzione, indossare i panni del produttore, affiancare tecnici esperti e seguire in esclusiva, da vicino, come nasce la Mortadella Bologna IGP? Dall’insacco alla legatura, dalla stufatura alla docciatura: assistere alle fasi più importanti del processo di produzione della mortadella è un’occasione imperdibile. Prenota il tuo corso su www.eatalyworld.it/it/plan: il viaggio continua poi attraverso la storia, le aziende produttrici, gli aneddoti e le curiosità sulla “regina rosa dei salumi” (photo © fiore56 – stock.adobe.com).
2. Gorgonzola Dop, Best Typical Product on Digital 2018 Il Gorgonzola DOP (www.gorgonzola.com) ha vinto il primo premio come miglior prodotto tipico on-line per l’anno in corso. Il riconoscimento è il risultato della prima ricerca italiana che la società Noonic ha condotto sul livello di digitalizzazione dei consorzi di tutela e della ristorazione di qualità. La ricerca, denominata The Italian Data Flavour, ha analizzato la presenza on-line di 273 Consorzi IGP, DOP, DOCG valutando una serie di parametri, come presenza di siti multilingue, social, attività ed engagement (photo © pinterest.it/gorgonzoladop – agedwell.tumblr.com).
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food Benedetti
3. Consultazione pubblica on-line sulla etichettatura dei prodotti agroalimentari L’etichettatura è uno strumento essenziale per consentire un acquisto sempre più consapevole e per questo è importante coinvolgere direttamente i cittadini ad esprimersi sul tema. A tale scopo ISMEA ha deciso di realizzare una consultazione pubblica sull’importanza dell’indicazione dell’origine dei prodotti alimentari e della materia prima utilizzata nella loro preparazione. Pochi semplici quesiti che danno la possibilità agli Italiani di esprimere la propria opinione e dare un indirizzo sulle future scelte politiche e legislative sulla materia. Ecco il link: www.ismea.it/questionario/indicazioni-di-origine-in-etichetta
4. Instagram, a lezione dagli influencer USA La rivista statunitense Food & Wine l’ha inserita nella Top 40 dei food influencer migliori del mondo. Lei è EVA KOSMAS FLORES e, oltre a lavorare e vivere a Portland, in Oregon, è attiva su Instagram all’account www.instagram.com/evakosmasflores. Vi suggeriamo di fare un giro nel suo feed. Troverete ricerca, coerenza di ambientazioni, colori e atmosfere. E un amore incondizionato per il buon cibo. Prendiamo tutti esempio! (photo © instagram.com/evakosmasflores).
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FIRST&Food, il nuovo portale del mondo del made in Italy enogastronomico e agroindustriale È andato on-line lo scorso fine ottobre FIRST&Food, nuovo portale sull’Italian food e sulle eccellenze made in Italy dell’agroalimentare promosso da FIRSTonline, il web journal di economia e finanza fondato anni fa e guidato da Ernesto Auci e Franco Locatelli. FIRST&Food è curato da Giuliano De Risi, professionista di lungo corso e già direttore di una delle maggiori agenzie di stampa nazionali, esperto conoscitore dell’Italian food, affiancato da un team di collaboratori. Ma perché FIRST&Food? «La prima risposta è nei numeri: 800.000 imprese, 1.600.000 occupati, un articolato comparto produttivo che garantisce il 13,5% del PIL nazionale, e che, con 41 miliardi di vendite all’estero (50 miliardi stimati al 2020), apporta un contributo determinante all’equilibrio della bilancia commerciale del nostro Paese. Tutto questo ha un nome: agroalimentare, una parola che solo qualche decennio fa rimandava a visioni agresti del nostro Paese e che oggi rappresenta una bandiera non solo dell’orgoglio produttivo italiano, ma anche della sua storia, delle sue tradizioni, della sua cultura». Un mondo complesso, attorno al quale ruotano molti altri soggetti, dal turismo all’industria, dal commercio ai servizi, dall’enogastronomia all’artigianato e all’agricoltura, un articolato sistema di moderna economia diffusa del territorio all’insegna del made in Italy che, nell’arco degli ultimi due decenni, ha conosciuto indici di sviluppo assolutamente in controtendenza rispetto alla stagnazione dell’economia nazionale. >> Link: food.firstonline.info
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Tante storie, una sola Favola.
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Delicata. Digeribile. Naturale. Da piĂš di 20 anni i salumieri e gli chef che vogliono conquistare i loro clienti con un prodotto di assoluta eccellenza sanno di poter contare sulla nostra “Favolaâ€?: la buona mortadella artigianale che tutti riconoscono prima dalla cotenna naturale legata a mano e poi dal gusto incredibilmente delicato. Ogni Favola è unica col suo timbro a fuoco: inimitabile fuori e inconfondibile dentro.
AZIENDE Una delle tante specialità della Negrini Salumi di Renazzo di Cento (FE)
Coppa di testa, ricetta che vince non si cambia di Gaia Borghi
«L
a coppa di testa fa parte della nostra storia fin dalle origini» mi racconta DINO NEGRINI, direttore commerciale dell’azienda di famiglia, la Negrini Salumi di Renazzo di Cento (FE), presente sul mercato con i marchi Gianni Negrini e Bonfatti. «È uno dei prodotti con i quali è nata l’azienda, insieme alla mortadella, ai salami e ad altri salumi tipici della regione. L’inserimento dei prosciutti cotti, ad esempio, è avvenuto dopo». La coppa di testa, oggi, non è certamente tra i salumi italiani più consumati, ma senza dubbio è tra quelli rimasti sostanzialmente inalterati nel tempo. Ha un po’ il fascino del rétro,
del vintage: un salume dall’aspetto e dal gusto non proprio moderni, eppure meritevole di essere rivalutato per più di un motivo, a partire dalla semplicità dei suoi ingredienti. «La coppa di testa — prosegue Dino — è un prodotto tradizionale delle regioni del Nord e del Centro Italia, che in Emilia ha la sua patria d’eccellenza in termini di storicità e valore. Più precisamente, partendo dalla città di Modena e dalla sua provincia e andando in direzione della Romagna: è questa zona “il cuore” della produzione di un salume antico, genuino nel gusto come nella preparazione». La coppa di testa si trova anche in Toscana, Lombardia, nelle Marche e
in Abruzzo, in Lazio, in Umbria e, in una variante simile, col nome di testa in cassetta, pure in Liguria e Sardegna, due regioni in cui è nota come soppressata, e Piemonte, dove quella di Gavi, nella quale vengono aggiunte alcune parti del bovino per ingentilirne il sapore, è presidio Slow Food. Ci sono poi esempi simili in Europa: in Francia, ad esempio, il fromage de tête, tête pressée o tête fromagée, è una specialità sempre a base di carne suina che in qualche modo la ricorda, così come il Pork Head cheese o brawn diffuso nei Paesi di lingua anglosassone. Il minimo comun denominatore è l’idea che sta all’origine della nascita di questo tipo
Dal 1947 il Gruppo Negrini produce salumi di qualità in una delle zone d’Italia, l’Emilia, tra le tre province di Ferrara, Bologna e Modena, dove l’arte salumiera è più antica e pregiata.
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di salumi cosiddetti “di risulta”, ovvero la necessità di recuperare e rendere appetitose parti più e meno nobili del maiale non impiegate in altre preparazioni salumiere. Al variare delle regioni e dei territori variano leggermente gli ingredienti, la concia e l’aromatizzazione, i tagli, secondo le usanze e le ricette del passato, la forma, tonda o quadrata, il “contenitore”, che può essere anche un telo di iuta: possono essere presenti ad esempio le orecchie, così come i pistacchi o i pinoli, le bucce di arance e limoni, grattugiate o lasciate in pezzi, la cannella, il coriandolo, il peperoncino, i chiodi di garofano e, in quella tipica della Lunigiana, persino il rum. «La testa disossata del suino e la lingua sono i due tagli principali che utilizziamo per la preparazione della coppa di testa e che commercializziamo con entrambi i marchi aziendali» continua Dino Negrini. «In questo territorio di confine tra le tre province di Modena, Bologna e Ferrara, la concia base per insaporire le carni della coppa di testa è la più semplice possibile a base cioè di soli aglio, sale e pepe. È un salume senza chimica: non viene aggiunto nessun tipo di conservante, nitrati o nitriti, ed è per questo motivo che la nostra coppa di testa ha una colorazione tipica sui toni del marrone (quando le coppe presentano un colore più roseo, significa che c’è la presenza di nitriti, NdR)». La preparazione Alla Negrini il processo di lavorazione della coppa di testa riprende quello domestico del passato. «Si tratta di un procedimento per lo più ancora manuale, molto artigianale» mi dice Dino. «I componenti carnei vengono fatti bollire all’interno di caldaie (riprendendo il concetto antico di bollitura nei pentoloni) e, una volta cotti, si procede al taglio a punta di coltello. Quindi si insaccano nel budello che può essere o la classica bondeana bovina o la vescica sempre di bovino o i budelli cilindrici cellulosici. Una volta raffreddato il tutto, lo si mette sottovuoto. È uno dei pochi salumi che non vendiamo pre-affettato in vaschetta: avrebbe una vita davvero brevissima».
Dino Negrini. dell’animale, proprio per la difficoltà di una sua lunga conservazione. Non si può certo definire un salume magro, ma considerando i tagli usati per la sua realizzazione, sostanzialmente la lingua e la testa, composta più che altro da parti cartilaginose, nemmeno uno dei più grassi. Tagliata a fette più o meno sottili, secondo il proprio gusto personale, viene consumata di solito fredda, a farcire, abbondante, un qualsiasi tipo di pane o facaccia. «Un altro abbinamento molto diffuso nella provincia di Ferrara è quello con la polenta scaldata nel forno — dice Dino Negrini — oppure, rievocando il classico bollito, da sola, calda e tagliata a fette più grosse,
magari servendola insieme ad una salsa di accompagnamento o il purè di patate. È ottima anche nei sandwich e nei tramezzini, insieme a formaggio spalmabile e qualche verdura». CARLO ALBERTO BORSARINI, chef del noto ristorante di Castelfranco Emilia (MO) La Lumira, con la coppa di testa ha pensato di creare un Club sandwich emiliano-romagnolo, il Club di coppa, con pane ai cereali homemade, senape di Digione, purea di marroni e germogli di spinaci. Ho scritto forse che la coppa di testa non è un salume moderno? Ecco, mi sono sbagliata. Gaia Borghi >> Link: www.gianninegrini.com
Le coppe di testa a marchio Negrini-Bonfatti sono disponibili in pezzi interi dai 3 ai 9 kg di peso. La clientela è rappresentata da supermercati, GDO, negozi di alimentari, gastronomie e ristoranti (in foto, coppa di testa Negrini Salumi).
Il consumo Storicamente la coppa di testa rientra nel novero dei salumi invernali, da mangiare cioè subito dopo la macellazione
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Lo Speziale Levoni, dedicato all’Alto-Adige Cumino dei prati e finocchietto selvatico esaltano il gusto della carne di suino italiano di questo nuovo salame pensato e prodotto dalla Levoni di Castellucchio (MN) ispirandosi ai profumi e ai sapori tipici altoatesini
U
n salame impreziosito dai profumi e dai sapori del finocchietto selvatico e del cumino dei prati, due spezie perfette per esaltare il gusto della carne di maiale: è lo Speziale, nuova ricetta e nuovo prodotto lanciato sul mercato dalla LEVONI di Castellucchio (MN), azienda storica e leader nel settore dei salumi. Realizzato, come tutte le ricette a marchio Levoni, con carni di suini nati, al-
levati e trasformati in Italia, attentamente selezionate e lavorate con cura da operatori esperti, seguendo le metodologie norcine tradizionali del nostro Paese. Una nuova specialità regionale L’ispirazione per questa nuova creazione salumiera arriva direttamente dai prati e dalle preparazioni gastronomiche tipiche dell’Alto-Adige: a confermarlo è MARELLA LEVONI, responsabile comuni-
cazione dell’azienda. «Lo Speziale è dedicato all’Alto-Adige, ad un territorio a cui siamo molto affezionati e che dimostra da tempo di amare i nostri salumi. Abbiamo voluto creare un salame dal perfetto equilibrio sensoriale, con note rotonde e una freschezza inimitabile. Un salume che sicuramente va incontro ai gusti dei consumatori altoatesini, che ci hanno già dimostrato il loro apprezzamento e che sta conquistando
Lo Speziale è un salame dal perfetto equilibrio sensoriale, con note rotonde e una freschezza inimitabile (photo © Ochsenreiter).
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Cumino dei prati. Il nome scientifico del cumino dei prati è Carum Carvi e deriva dal latino medievale. È chiamato anche Cumino tedesco, Kummel, Kummin, Cumin des près, Alcaravea, Karauya e Anice deiVosgi. È originario dell’Europa e dell’Asia Occidentale. Nella flora italiana lo troviamo nelle zone subalpine e sull’Appennino settentrionale, nelle zone collinari e fino ad una altitudine di 2300 metri. È ricco di ferro, di proteine e di minerali, stimola l’appetito e la digestione, tanto che i semi possono essere masticati subito dopo il pasto o utilizzati per preparare infusi. Curiosità: nei tempi antichi il cumino dei prati era ritenuto prezioso perché si diceva proteggesse la casa dai furti. L’uso poi si estese alle pozioni d’amore: le donne credevano che servisse per proteggere i propri mariti dalle “tentazioni”.
Finocchietto selvatico. Il nome latino del finocchietto selvatico è Foeniculum vulgare, dal diminutivo di foenum, “fieno”, cioè pianta dalle foglie sottili come il fieno. In alcune regioni italiane viene chiamato finocchina. Il finocchietto selvatico è originario delle zone mediterranee ed è presente allo stato naturale nel nostro paese. Si trova sia in pianura che nelle zone collinari fino a circa 800-1000 metri di altitudine. I semi di finocchietto selvatico sono un ottimo digestivo, contrastano i radicali liberi e sono preziosi per eliminare le tossine. Favoriscono inoltre il riequilibrio del colesterolo e hanno proprietà balsamiche. Curiosità: non tutti sanno che il nome Maratona, leggendaria città dove gli ateniesi sconfissero i persiani nel 490 a.C., significa proprio “campo di finocchi”; lì infatti questa pianta cresceva particolarmente rigogliosa.
Dalla classica rosetta al Bretzel, dalla morbida focaccia al tipico Vinschgerle, lo Speziale saprà conquistarvi. “Con i più grandi aromatieri italiani selezioniamo le spezie più pregiate e le lavoriamo tutti i giorni per garantire profumi e sapori unici, armonici ed equilibrati, sempre con l’obiettivo di esaltare la qualità della nostra carne” i palati anche del resto d’Italia, della Germania e della Francia». Lo Speziale è stato presentato all’inizio dell’estate al “pubblico” locale attraverso una comunicazione bilingue alla radio e su emittenti regionali, e attraverso numerosi eventi, brunch, aperitivi, nei locali più noti dell’Alto-Adige. Levoni ha riconosciuto in uno chef altoatesino il testimonial ideale: PHILIPP FALLMERAYER, da un paio di anni alla guida insieme a IVO MESSNER di Brix 0.1, a Bressano-
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ne. «Abbiamo scelto lo chef Philipp Fallmerayer per creare delle ricette in cui lo Speziale fosse protagonista e dei panini o altri abbinamenti particolari con questo prodotto» racconta Marella Levoni. Ottimo con una fetta di pane casereccio, magari cotto a legna, o con tutti i pani speciali dell’Alto-Adige. Le proposte di Philipp sono reperibili on-line sul sito levoni.it (i video dello chef, tra l’altro, sono disponibili nelle due lingue italiana e tedesca).
Qualche esempio? Una morbida focaccia con qualche fetta di Speziale, carciofi sottolio e maionese o una classica rosetta con Speziale, insalata lollo rossa, feta e una gremolada con prezzemolo, buccia di limone e pinoli, perfetta anche per una merenda leggera. Lo Speziale si presta ottimamente per imbottire un Vinschgerle, panino con farina di segale, semi di cumino e di finocchio, insieme a ricotta e aneto, finocchietto caramellato e un carpaccio di finocchi crudi, o il più noto Bretzel, insieme a burro salato, olive verdi, insalata e miele. Philipp Fallmerayer presenta lo Speziale anche senza un farinaceo ad accompagnarlo, come fosse un carpaccio, con la burrata, o ripassato in padella fino a renderlo croccante. E persino fritto, accompagnato da una crema d’avocado. >> Link: www.levoni.it/it/salumi/ salami/salame-lo-speziale
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I Sapori d’Ogliastra, artigianalità e tradizione In una delle zone più isolate della Sardegna e a più alto tasso di spopolamento, un’azienda sfida il mercato nazionale e dimostra, numeri alla mano, che c’è ancora spazio per le specialità locali che, oltre ad essere di qualità, portano in tavola storia, cultura, identità di Sebastiano Corona
S
ebadas, pardule, malloreddus, coccoi prena, culurgionis sono prodotti ancora poco noti fuori dalla Sardegna. Eppure, della Sardegna rappresentano la più alta espressione della produzione pastaria. Le sebadas, per esempio, sono considerate a tutti gli effetti una tipologia di pasta ripiena, essendo una sfoglia di
semola che contiene formaggio fresco e aromi. Il loro destino è però la frittura, per essere poi servite come dessert, sotto una montagna di miele. Le pardule, anche queste realizzate con una base di pasta di semola, contengono una miscela di ricotta e/o di formaggio fresco, zucchero e aromi. La versione salata sono le coccoi prena, che hanno
invece una farcia di patate, formaggi, grassi e menta, cioè lo stesso ripieno dei culurgionis, fagottini chiusi rigorosamente a mano, che di recente hanno acquisito l’Indicazione Geografica Protetta. I malloreddus, certamente la pasta semplice più nota del panorama enogastronomico regionale, non hanno forse bisogno di presentazioni, sebbene
I culurgionis d’Ogliastra. La pasta ripiena, piatto tipico della Sardegna, ha da poco ottenuto l’Igp (photo © Sergio Melis).
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foro Europeo per l’appendibilità La busta ricopre completamente il prodotto dandogli più appeal!
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In alto: lavorazione delle sebadas. In basso: chiusi rigorosamente a mano, i culurgionis sono il prodotto di punta di questa realtà locale che sfida attraverso i prodotti tipici la disoccupazione e lo spopolamento in una zona della Sardegna che ne è fortemente interessata. in ambito nazionale abbiano da tempo acquisito il nome di gnocchetti sardi. Sono solo alcuni dei prodotti tipici di una zona della Sardegna, l’Ogliastra, nota per la longevità dei suoi abitanti e per le spiagge, considerate tra le più belle al mondo. Queste specialità locali sono anche i prodotti di punta di un’azienda che sulla pasta regionale ha giocato tutto. I Sapori d’Ogliastra è il nome dell’impresa che, pur relativamente giovane, ha fatto della tradizione e della tipicità il fulcro della propria
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produzione. «In un momento storico in cui l’omologazione la faceva da padrone, abbiamo pensato che fosse necessario distinguersi, per emergere. Non è stato difficile capire che, alla globalizzazione dei mercati, i piccoli come noi potevano rispondere solo con prodotti fortemente identitari e che i piatti che potevano facilmente incontrare il gradimento del pubblico altro non erano che le specialità tipiche isolane. Non ci siamo inventati nulla, abbiamo solo dato il giusto spazio a cibi pregiati, che
il mondo ci invidia. E abbiamo pensato di portarli laddove nessuno li conosceva, proponendoli da subito a mercati diversi da quello locale — dichiara VITO ARRA, titolare dell’impresa, che aggiunge — se non ci fossimo presentati con un’offerta differente da quella che normalmente occupa gli scaffali della Grande Distribuzione Organizzata oltre Tirreno, non ce l’avremmo fatta ad affermarci e saremmo stati presto scalzati da nomi ben più noti dell’industria della pasta fresca nazionale». Arra, presidente della CNA Ogliastra e del Comitato Promotore Culurgionis d’Ogliastra IGP, non ha dubbi: i prodotti tradizionali necessitano di una promozione che li racconti, dando il giusto rilievo alla qualità e all’artigianalità. Ma vanno anche adeguatamente tutelati. «Il nostro prodotto di punta, quel meraviglioso fagottino ripieno di patate e formaggio — che due anni fa ha ottenuto dall’Unione Europea l’Indicazione Geografica Protetta, il più prestigioso riconoscimento internazionale per un prodotto alimentare trasformato — è oggi l’elemento che più di qualunque altro traina l’azienda e raggiunge i supermercati di molte regioni del Nord Italia. Non è stato facile crearci degli spazi nelle catene di distribuzione, ma oggi, a distanza di quindici anni dall’av-
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vio del laboratorio e a dispetto delle enormi difficoltà logistiche, fatto 100 i ricavi dell'azienda, 30 provengono dal mercato regionale e il resto da oltre Tirreno. Segno che per le specialità locali c’è sempre uno sbocco, soprattutto fuori dalle zone di produzione». Essendo un prodotto chiuso manualmente, i culurgionis richiedono un impiego importante di manodopera. È di questo che va fiera la proprietà dell’azienda: dare lavoro stabile a più di venti persone in una zona della Sardegna dove la disoccupazione giovanile è tra le più alte d’Europa. L’altro aspetto di cui Arra ama parlare è il fatto che due terzi dei collaboratori dell’impresa siano donne, così come lo sono la responsabile amministrativa e la responsabile della produzione. «Le donne, spesso messe ai margini del mondo del lavoro, sono qui protagoniste. La stragrande maggioranza dei nostri dipendenti è impegnata sulla produzione di culurgionis, il cui disciplinare prevede che il prodotto sia chiuso esclusivamente da mani femminili. Un tempo saper fare dei buoni culurgionis era, per le ragazze ogliastrine, l’elemento che segnava il passo tra adolescenza ed età adulta, ma che soprattutto decretava se una fanciulla fosse pronta al matrimonio o meno». Ed ecco che un prodotto tradizionale come questo porta con sé, nel piatto, le usanze, la vita, l’identità di un popolo. Non è solo eccellente al palato e invitante per l’occhio. È uno spettacolo ipnotizzante vedere le anziane massaie che li chiudono con velocità e destrezza. È un fagottino unico nel suo
genere, che racconta tanto del territorio che l’ha conservato nel suo patrimonio gastronomico. A I Sapori d’Ogliastra, azienda certificata BRC (British Retail Consortium), non sono solo convinti che i collaboratori e le collaboratrici siano la vera ricchezza ma anche che vada fatto un lavoro continuo di formazione per tutti. «Il capitale umano è la cosa più preziosa che abbiamo, per questo evitiamo le collaborazioni occasionali o i rapporti a scadenza. Un’azienda che basa il suo sviluppo su lavoratori precari diventa di per sé una struttura dal futuro incerto. Ci piace invece pensare che qui, in laboratorio, molte persone abbiano trovato un punto fermo in termini professionali e che questo contribuisca a dare stabilità alle proprie famiglie». Non si può che condividere una simile osservazione, tanto più che le zone interne della Sardegna, l’Ogliastra in testa, vivono un difficile momento di spopolamento dei piccoli comuni. Tra il 2014 e il 2017 la Sardegna ha perso il 10% della sua popolazione complessiva, la stragrande maggioranza nei piccoli paesi. L’Italia, nello stesso periodo, ha visto evaporare 310.000 abitanti, l'equivalente di città come Catania o come tutto l’hinterland di Cagliari. E a soffrire sono soprattutto i piccoli paesini, dove non c’è lavoro, non ci sono servizi, non ci sono opportunità, ma dove, secondo Arra, «non si può restare in attesa della mano pubblica» e, da uomo di associazione, più che da produttore, aggiunge «la globalizzazione sta
sconvolgendo il sistema produttivo mondiale come un vero e proprio tsunami. I guadagni non si realizzano più dove si produce, ma dove dimora il servizio di commercializzazione. Ma i prodotti artigianali di qualità, quelli legati alla tradizione possono ancora — anzi, devono — rimanere fuori dal tritacarne del mercato globalizzato. Le specialità locali necessitano di promozione e tutela, al pari dei culurgionis d’Ogliastra IGP, e devono essere supportate da una rete commerciale e logistica lontana dagli standard delle multinazionali. I numeri per conquistare e fidelizzare i consumatori dell’eccellenza ci sono. Manca forse la consapevolezza piena dello straordinario vantaggio che abbiamo: prodotti autentici, indissolubilmente legati ad un nome, quello del made in Italy, che è di per sé un ottimo biglietto da visita, ovunque nel pianeta. Questa formula non potrebbe essere la carta vincente solo per territori poveri come la nostra Ogliastra, ma anche per l’agroalimentare nazionale nel mondo. Ci vuole però una volontà comune di tutti i soggetti coinvolti: amministratori pubblici, parti sociali e sindacati. E, primi tra tutti, gli imprenditori. A noi spetta il dovere morale di fare quadrato, superando problematiche interne, per concentrarci sul mercato». Sebastiano Corona I Sapori d’Ogliastra Zona PIP circonvallazione Est 08045 Lanusei (OG) Web: www.isaporidogliastra.it
Una famiglia che si tramanda antiche ricette e l’arte di fare i salumi e l’attenzione costante ad un mercato che si evolve e cresce
Salumificio Artigianale Pavullese, il gusto antico e moderno del Frignano
I
l SALUMIFICIO ARTIGIANALE PAVULLESE nasce nel 1973 per volontà del cavalier UGO FULGERI, contraddistinguendosi da subito per la produzione artigianale di salumi tipici del territorio del Frignano, regione storica compresa all’interno dell’Appennino tosco-emiliano, in provincia di Modena. Il padre di Ugo, GIOVANNI FULGERI, aveva lavorato come esperto nella produzione di salumi presso un salumificio di Maddaloni, in provincia di Caserta, e alla sua morte il figlio lo aveva sostituito. Il ritorno a casa e il
successivo acquisto di una macelleria furono la base per l’apertura di un salumificio che potesse andare incontro alle richieste della clientela, desiderosa di trovare sul mercato i salumi tipici di questo territorio. I soci erano Ugo, sua moglie Giordana e il fratello Renzo. «Fino agli anni ‘90 macellavamo in proprio i suini acquistati presso i caseifici dell’Appennino» mi raccontano gli attuali soci, MARCO e SAVERIO FULGERI. «La particolarità di queste carni consentiva la produzione di salumi di alto livello qualitativo, ricchi di sapori e profumi.
L’attenta ricerca degli ingredienti, e soprattutto delle spezie, hanno influito positivamente sulla rapida diffusione dei nostri prodotti artigianali come salami, coppe, lardo, ciccioli, salsicce e coppa di testa. I clienti ci hanno premiato, il mercato si è allargato in fretta e siamo cresciuti, cercando però di restare sempre al passo coi tempi, ovvero adeguando la produzione alle nuove normative europee in materia di sicurezza e igiene delle lavorazioni, senza comunque venir mai meno alla filosofia aziendale basata su genuinità
Alcuni prodotti del Salumificio Artigianale Pavullese.
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dei sapori e ricette della tradizione, legate profondamente al nostro territorio». Anno dopo anno, attento alle nuove esigenze dietetiche e nutrizionali e alle mutate abitudini della propria clientela, con la richiesta ad esempio di confezioni più piccole, il salumificio ha affiancato alle referenze tradizionali nuovi prodotti, come le Vogliette, piccoli e sfiziosi salamini disponibili in diversi gusti, o il Salame di montagna, prodotto con le carni dei suini nati e allevati nel Frignano e privo di conservanti. «L’attenzione verso un’alimentazione più consapevole ha indirizzato il nostro salumificio verso una produzione di salumi senza conservanti, aromi o additivi, privilegiando prodotti genuini e spezie dalle innumerevoli proprietà» proseguono Marco e Saverio Fulgeri. «Abbiamo preso in grande considerazione anche le intolleranze alimentari, sviluppando salumi senza glutine e lattosio. Da diversi anni, infatti, siamo certificati presso AICAssociazione Italiana Celiachia per la produzione di salumi a marchio “Spiga Barrata”. Ad oggi questa fascia di mercato rappresenta il 30% del fatturato ed è in costante crescita». Oggi la SAP impiega 20 dipendenti e 5 rappresentanti ed è presente coi propri agenti e mezzi in Toscana, Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria. «È attualmente in corso la realizzazione di una nuova unità produttiva di 2.500 m2 che affiancherà la sede odierna, in cui saranno attuate anche le procedure necessarie per le certificazioni BRC (British Retailer Consortium) e IFS, pensata dalla Grande Distribuzione per i propri fornitori». Salumi La linea Antichi Sapori comprende i salumi più tradizionali, prodotti che seguono antiche ricette di famiglia tramandate oralmente. Alle carni, rigorosamente italiane, vengono aggiunte le spezie, aglio, pepe, cannella, noce moscata, un mix delicato creato appositamente dal fondatore Ugo Fulgeri già nell’anno della fondazione dell’azienda. «In questa linea troviamo tutti i salumi tradizionali che rispecchiano il detto “del maiale non si butta niente”: ciccioli morbidi e secchi, mortadelle, salami, pancette, lardo zampone e cotechino» specificano i due soci Marco e Saverio. «La linea Gluten Free rappresenta invece
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In alto: fu Ugo Fulgeri, all’inizio dell’attività di SAP, a miscelare sapientemente varie spezie, ottenendo una combinazione equilibrata di profumi e aromi per la concia dei salumi. Ancora oggi questo mix è preparato personalmente dalla famiglia Fulgeri, che ne conserva gelosamente la ricetta. In basso: dal 2007 SAP collabora con l’Associazione Italiana Celiachia e i prodotti della Linea Salute hanno ottenuto il marchio di qualità Spiga Barrata, salumi certificati senza glutine e senza lattosio. la nostra linea di eccellenza, non solo perché si tratta di salumi completamente privi di glutine e lattosio, ma anche per le qualità organolettiche della materia prima utilizzata. Questi salumi sono infatti realizzati con le parti più nobili del suino e ulteriormente selezionate in fase
di lavorazione, eliminando le parti più dure o più grasse e privilegiando i triti di prosciutto e di gola». Si tratta quindi di salumi magri, delicati dal punto di vista della miscela di spezie utilizzata, caratterizzati da assenza di coloranti o aromi artificiali, lavorati manualmente e insac-
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cati in budelli naturali. Salsicce, coppa di testa e salame di montagna sono anche totalmente privi di conservanti. Pesto «Altro importante prodotto che caratterizza la nostra azienda e ci ha fatto conoscere per le sue tipicità uniche è il pesto montanaro» concludono Marco e Saverio Fulgeri. Realizzato macinando finemente il lardo del maiale pesante, viene poi miscelato con una giusta dose di aglio e rosmarino freschi, sminuzzati a mano per non far perdere il profumo tipico di queste spezie. Se ne ricava così il classico pesto tanto apprezzato per la farcitura delle crescentine tipiche modenesi e per i più svariati utilizzi in cucina.
Pesto SAP, prodotto come da tradizione con lardo di maiale pesante, aglio e rosmarino.
SAP di Fulgeri Ugo Srl Via Pasubio 12 41026 – Pavullo nel Frignano (MO) Telefono: 0536 22512 Web: www.salumisap.com
I freschi SAP, la salsiccia naturale e l’Hamburgeria gourmet Le carni SAP provengono esclusivamente da animali italiani con un’età minima di 9 mesi e un peso minimo di 160 kg. Caratteristiche che collocano queste carni tra quelle con alto valore nutritivo, povere d’acqua, ma al tempo stesso a basso apporto di grassi. «All’interno del salumificio è presente un laboratorio di sezionamento dove vengono lavorate tutte le carni destinate alle varie produzioni, sempre di provenienza rigorosamente nazionale. Suini allevati secondo gli standard stabiliti dal disciplinare redatto dai consorzi di tutela dei prodotti Dop» raccontano Marco e Saverio Fulgeri. «Tutte le carni, disossate e tagliate, sono anche confezionate in vaschette in atmosfera protettiva, al fine di garantirne la freschezza per almeno 7 giorni. In questa pratica forma di confezionamento, presentiamo tutti i tagli di carne, ma anche alcuni preparati come involtini, spiedini, arrosticini e svizzere. Da qui la realizzazione della recente linea della “Hamburgeria gourmet”: una serie di hamburger di suino da 130 grammi, presentati in vari gusti. Un’importante produzione SAP, che assorbe ormai più del 20% del fatturato, è poi rappresentata dalla nostra “Salsiccia fresca naturale al 100%”, fatta ancora a mano, come si faceva una volta, senza l’aggiunta di alcun additivo, senza conservanti, coloranti e antiossidanti. Usando solo spezie naturali e senza aggiungere acqua all’impasto, possiamo garantire una salsiccia con il 97% di carne». Un prodotto unico nel suo genere.
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Prosciuttificio IL CONTE S.r.l. Via Sant’Ambrogio, 4 – Fraz. Bazzano 43024 Neviano degli Arduini (PR)
Zuarina conquista “La Route du Goût” di Montecarlo Carni italiane di qualità, un pizzico di sale, il tocco artigianale della lavorazione e infine una stagionatura lenta e paziente. Così Zuarina, storico prosciuttificio di Langhirano (PR) conosciuto e apprezzato nelle location più prestigiose del mondo, ha conquistato Montecarlo entrando a far parte della ristretta cerchia dei migliori prodotti biologici selezionati per La Route du Goût (11-14 ottobre), l’appuntamento annuale dedicato alla gastronomia biologica organizzato dall’associazione Bio Chef Global Spirit di Paolo Sari, unico “bio chef” al mondo con una stella Michelin. Unico prosciutto crudo presente alla kermesse patrocinata dal Principe Alberto II di Monaco, Zuarina è stato protagonista del Villaggio Biologico Galleggiante, la grande novità di quest’anno, un mercato sospeso sulle acque del porto di Monaco, animato per tre giorni da produttori, artigiani e chef stellati. Da rimarcare durante l’evento la cena esclusiva completamente biologica The Flavor Market, presso il Deck Restaurant del Monte-Carlo Beach. Qui Zuarina si è affidata alla bravura di Massimiliano Mascia, chef del San Domenico di Imola (2 stelle Michelin), per far emergere tutta l’artigianalità, la qualità e la dolcezza del prosciutto Zuarina bio in ogni piatto proposto durante la serata. Il menù della cena è stato realizzato da oltre 10 chef stellati che per l’occasione sono stati “aiutati” da altrettanti chef bambini. Nella giornata di sabato gli occhi erano tutti puntati invece sulla Marina Riva Monaco Boat Service sede del suggestivo Chefs Love The Planet, dove i celebri motoscafi Riva si sono trasformati in cucine stellate, ospitando le ricette di chef di caratura internazionale, piatti realizzati con prodotti biologici selezionati provenienti da agricoltura sostenibile. In questo contesto, a Zuarina è stato dedicato un intero Yacht Riva sul quale le sapienti mani dello chef Mascia hanno potuto valorizzare la dolcezza del prosciutto di Parma. >> Link: www.zuarina.com
Terre Ducali sbarca su Alibaba.com: è il primo salumificio dell’Emilia-Romagna a siglare l’accordo Dare un’impronta sempre più internazionale all’azienda e sfruttare il boom dell’export agroalimentare italiano nel canale e-commerce: è con questa logica che Terre Ducali si appresta ad avviare una collaborazione con Alibaba.com, uno dei più grandi mercati B2B on-line del mondo. A sostenere la regia dell’operazione è il Gruppo UniCredit, attraverso Easy Export, un pacchetto di servizi studiato dalla banca per supportare le imprese che intendono avviare o ampliare il proprio business internazionale. Terre Ducali è il primo salumificio dell’Emilia-Romagna a siglare l’accordo. A parlarne è il CEO Giulio Gherri. «Nei primi nove mesi del 2018, Terre Ducali ha visto crescere sensibilmente il proprio export, che è arrivato a incidere per il 17% del fatturato: rispetto al pari periodo dello scorso anno, l’incremento è stato del 30%. Un risultato che abbiamo ottenuto esclusivamente attraverso canali e modalità commerciali tradizionali: per questo vogliamo continuare ad investire ed a credere nei mercati internazionali. Abbiamo dunque colto l’opportunità di sperimentare e-commerce: non dimentichiamo che il food & beverage made in Italy ha fatto registrare una crescita dell’export pari al 43% in questo specifico mercato di riferimento. È stimolante pensare ad un’alleanza con Alibaba.com, gigante mondiale del commercio attivo in 190 Paesi, che esprime oltre 160 milioni di clienti b2b e che permette di disporre di vetrine personalizzate, tradotte in lingua locale. Per tutte queste ragioni abbiamo reputato che la proposta di UniCredit di stringere un accordo con Alibaba.com rappresentasse una opportunità irrinunciabile per lo sviluppo commerciale della nostra azienda». >> Link: www.terreducali.it — www.alibaba.com
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INTERVISTE Dalla Pasticceria del Giamberlano al grido di “Panettone tutto l’anno”
Valter Tagliazucchi, professione pasticcere di Federica Cornia
P
assione e vocazione, un grande amore per la propria terra, per le proprie origini e il proprio mestiere: c’è chi ha la fortuna di far coincidere tutte queste cose nella propria vita e VALTER TAGLIAZUCCHI, professione pasticcere, è uno di questi. «Non mi sono mai stancato di fare questo mestiere, per me è il più bello del mondo. Mi sento fortunato perché riesco a fare quello che mi piace, un lavoro creativo e sempre stimolante». Siamo a Pavullo nel Frignano, in provincia di Modena, in visita alla Pasticceria del Giamberlano (www.giamberlano.it). Un tocco dolce in quella terra di motori e sapori che gravita nell’orbita della Food Valley e delle sue eccellenze gastronomiche. Una vera fortuna essere accolti da Valter in persona che fa capolino da dietro l’angolo, oltre la parete sulla sinistra, piena di attestati, premi e targhe d’argento. «È dovuto all’età, è tanto che sono sulla piazza». Commenta così lo stupore e lo spaesamento di chi si perde ad osservarla ammirato. Tante le creazioni, tanti i riconoscimenti, altrettante le soddisfazioni: prima tra tutti la Torta Montecuccoli, dedicata al generale, politico e scrittore italiano RAIMONDO MONTECUCCOLI che partecipò alla Guerra dei Trent’anni, convertì al cattolicesimo la Regina Cristina di Svezia e di cui ancora oggi si studiano i trattati d’Arte bellica. È con questa torta di mandorle e cioccolato che Valter si aggiudica il quinto posto, su duemila partecipanti, al Grand Prix della Pasticceria di Vienna nel 2002. L’anno dopo, la mousse al cioccolato fondente con palet alle nocciole croccanti Rosa Nera conquista invece il Gran Premio di Barcellona. Passione Rossa, torta
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che combina molti sapori e dedicata alle gioie e sofferenze di ENZO FERRARI, vince la medaglia d’oro al ChocolateMasters (2007). Nel 2017 la pasticceria si aggiudica il Wedding Awards 2017 per la categoria Torte nuziali. Non a caso la Pasticceria si trova inserita tra le migliori della provincia di Modena nella guida Pasticceri & Pasticcerie 2015 edita dal GAMBERO ROSSO. Tra i più recenti riconoscimenti ottenuti, la vittoria alla Tenzone del Panettone 2018 quale miglior panettone innovativo italiano per la variante all’olio extravergine di oliva. Ecco, tutto questo non fa di Valter uno
che si crede arrivato, che pensa d’aver imparato tutto, anzi, su questo aspetto ironizza, insieme alla figlia, con una barzelletta. «Sai che differenza c’è tra un pasticcere e Dio? Che Dio non crede di essere un pasticcere». Per questo vien da dire artigiano sì, ma di quelli come ce n’erano una volta, di quelli che in prima linea mettono il proprio fare e il proprio operato. E lo fanno sempre tesi ad ottenere il risultato migliore. «Io ho sempre lavorato di qualità anche se non è che paghi molto. Voglio sempre il massimo, a partire dalle materie prime, perché fare un prodotto
Valter Tagliazucchi. All’opera dal 1984, è oggi uno dei più importanti maestri del lievito madre.
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eccellente con delle materie prime di qualità è difficilissimo, farlo con delle materie prime scarse è impossibile». Artigiano, pasticcere, ambasciatore del cioccolato nel mondo e ideatore della torta Montecuccoli, maestro lievitista: Valter parla di sé e del suo lavoro, di tutto quel che negli anni ha realizzato con senso della misura e autentica schiettezza. Ha tanto da fare, ma tra una levitazione e l’altra, un caffè con assaggio degli attributi di Montecuccoli, ironica declinazione in versione ridotta ad un boccone dell’omonima torta, trova un po’ di tempo da dedicarci. Il Natale è in vista ed è proprio prima delle feste che la pasticceria raggiunge il suo picco massimo di lavoro. In questo periodo che si concentra il grosso della produzione annuale, circa 16.000 panettoni. Basti considerare che Valter è colui che ha portato Modena nell’Olimpo dei panettoni italiani. Pochi però sanno che il Natale, pur essendo un buon momento per mangiare il panettone, non è il migliore perché, spiega Valter: «non dà il meglio di sé organoletticamente parlando». Per questo il maestro pasticcere è entrato nel circuito di DAVIDE DI PAOLINI che col suo progetto “Panettone tutto l’anno” punta a destagionalizzarne il consumo. «Il panettone ha un disciplinare che indica una data quantità di burro. Il burro assorbe tutti gli aromi e profumi della frutta, della fragranza del lievito e li rispedisce al mittente quando fonde, quindi a 30 °C. Per questo il periodo migliore per mangiare il panettone è l’estate, quando ci sono 30 °C». Il consiglio è di accompagnarlo con una pallina di gelato allo zabaione, alla crema o al fiordilatte. «Il panettone è il dolce più buono che si può trovare in pasticceria e il più difficile da fare ma che dà maggiori soddisfazioni. È complicatissimo. Se lo si fa come si deve, col lievito madre, ha un processo di realizzazione molto lungo. Io ho un lievito madre che ha 93 anni. Me lo ha dato un maestro di Milano dove ho imparato a fare i panettoni; lo rinfresco tutti i giorni, tre volte al giorno, a distanza di quattro ore, e lo alimento con acqua e farina. Dei tanti che si spacciano per lievitisti in molti in realtà usano i preparati. In Italia saremo 30/50 a fare i panettoni con lievito madre».
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I biscotti del Frignano. Realizzati utilizzando ingredienti naturali e controllati, sono un caposaldo della produzione della Pasticceria del Giamberlano. Un lievito madre unico, farina integrale, uva grande e frutta gustosa sono gli ingredienti principe dei panettoni di Valter, primo tra tutti lo Spaziale, il cui nome preannuncia la particolare bontà che si è meritata gli elogi da un maestro del cinema italiano quale MICHELANGELO ANTONIONI, a cui l’aveva portato in dono un amico comune, e vincitore del Tenzone del Panettone 2017 come miglior panettone tradizionale italiano. Senza mai perdere di vista l’obiettivo di un prodotto ben fatto, che rappresenti un’esperienza unica per il palato, nell’amalgama per i panettoni che prepara Valter è come se ci finisse dentro tutto del territorio: prodotti, tradizione, lingua. Allora ecco che c’è il Sandrone, fatto con ciliegie di Vignola e cioccolato 100% senza zucchero; il Peravallo, con pere, canditi e cioccolato al latte e il cui nome è ispirato da un appellativo bonariamente canzonatorio usato a Verica, piccola frazione di Pavullo in cui Valter vive. Non manca poi il panettone con uvetta e ciliegie macerate nell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena e, per palati esotici, c’è il panettone polpa di maracuja e ananas candite. Per chi è allergico a burro, latte, latticini il panettone all’olio evo, premiato di recente a Parma, e di cui una grossa quantità va al Castello di Ama, a Gaiole in Chianti, e da lì è venduto in tutto il mondo. Ogni anno, proprio nella bella cornice del castello, si tiene un evento di beneficenza in favore della Fonda-
zione Tommasino Bacciotti onlus a cui Valter partecipa dalla prima edizione e che oggi coinvolge altri produttori e artigiani della zona emiliana. Intitolata ad un bambino affetto da una rara e aggressiva forma di tumore cerebrale, la fondazione organizza l’evento per la raccolta fondi a sostegno delle famiglie dei bimbi ricoverati all’Ospedale Meyer colpiti dalla stessa malattia. D’altronde sta scritto su una delle pagine web del sito della pasticceria che “I dolci sono un modo per volersi bene”. Cerca sempre di dare il massimo in tutto Valter, ogni giorno. E mentre lo dice allunga un vassoietto. «L’altro giorno mi sono messo a fare dei biscotti. Ho cominciato a pensare: magari potrei provare a metterci un po’ più burro, un pizzico di sale, della vaniglia. Ed ecco che sono usciti questi biscotti qua». Biscotti che assaggio e che conquistano il palato con la loro fragrante semplicità. Il tempo stringe, la levitazione va rispettata. Valter ci lascia accennando alla sua ultima idea: quella di dare vita a un nuovo panettone che nell’impasto contenga il cuore tenero e cremoso della Torta Montecuccoli. Poi ci saluta, non prima di aver sottolineato l’importanza, in tutti questi anni, dell’aiuto fondamentale della moglie e del supporto dei figli. Ed è proprio in compagnia della figlia Stella, blogger e make up artist che ha rifatto il look al logo del Giamberlano, che si chiude il nostro incontro. Federica Cornia
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Il formaggio di pecora Garfagnina di Verano Bertagni Da tempo Verano e la sua famiglia sono impegnati nel recupero di questa antica razza ovina. Nel caseificio producono pecorini freschi e stagionati, seguendo la ricetta di una volta di Veronica Fumarola
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Verano Bertagni (photo © www.rural.it).
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el cuore della Garfagnana, a Pieve Fosciana (LU), VERANO BERTAGNI e la sua famiglia, pastori da generazioni, lavorano il latte di una razza ovina autoctona: la pecora Garfagnina. «Siamo originari dell’Appennino Tosco-Emiliano. Abbiamo sempre vissuto in un paesino in cui in molti erano pastori, quindi anche per noi è stata una logica conseguenza continuare su questa strada» racconta Verano. «Nel 1970, però, abbiamo deciso di spostarci più a valle e da quel momento ci siamo occupati esclusivamente della trasformazione del latte». Dalle parole e dallo sguardo di Verano emergono da subito esperienza, amore e passione verso questo mondo. Sensazioni confermate dall’impegno che da qualche anno sta portando avanti nel suo caseificio: il recupero di una razza in via di estinzione, la pecora Garfagnina. «Ci siamo interessati a questa razza ormai dimenticata, che da anni la forestale locale stava cercando di riportare alla luce. Con noi anche altri allevatori locali che hanno deciso di acquistare dei greggi. Io e la mia famiglia, però, abbiamo iniziato a collaborare con un agriturismo: loro si occupano dell’allevamento, noi della trasformazione del latte ma abbiamo intenzione di rituffarci nella pastorizia e di avere un gregge tutto nostro». La pecora Garfagnina è un animale rustico e robusto, di media corporatura; ha il mantello bianco, le corna ricurve, si adatta abbastanza bene all’ambiente montano della Garfagnana e a temperature diverse. Le pecore, infatti, vengono
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portate al pascolo fino ai 2.000 metri, ma anche più a valle, ad un’altezza di 700-800 metri. Ha una buona produzione di latte, anche se non paragonabile a quella degli animali da allevamento intensivo. «Una pecora produce in media tre litri di latte al giorno, ma gli esemplari restano comunque pochi. Un gregge, infatti, conta circa 70-80 animali» confida Verano. Col latte, leggermente più grasso e profumato rispetto a quello di una pecora comune, al Caseificio Bertagni si producono pecorini freschi e stagionati. In particolare, Verano racconta delle tre stagionature del pecorino preparato con caglio vegetale, seguendo l’antica ricetta locale. «Produciamo un pecorino particolarmente aromatico, utilizzando latte crudo, con tre stagionature diverse. La minima è di 60 giorni, poi si passa alla media stagionatura (tra i 3-4 mesi), infine alla lunga stagionatura, che va dai 4-5 mesi fino a un massimo di 8. Il primo ha il profumo del latte fresco, l’ultimo un sapore decisamente più forte, con un retrogusto pizzichino».
La particolarità di questi formaggi è quella di essere lavorati con caglio vegetale. Si usano i fiori di cardone selvatico, prima essiccati poi macerati in acqua. Il caglio ottenuto regala ai caci il tipico retrogusto di erba
La vera particolarità di questi formaggi è quella di essere lavorati con caglio vegetale. «Utilizziamo i fiori di cardone selvatico, in particolare i pistilli fucsia, prima essiccati poi macerati in acqua. Il caglio ottenuto — specifica il casaro di Pieve Fosciana — fa coagulare il formaggio regalandogli il tipico retrogusto di erba. Tengo a precisare che le pecore si nutrono al pascolo e, al massimo, viene dato loro un po’ di fieno». I suoi formaggi sono il frutto di chi conosce a fondo la razza che alleva, le sue caratteristiche e i punti di forza, ed è per questo che quando parla della vendita sottolinea con fermezza: «è riservata solo a negozi specializzati, che dedicano ai pecorini tutte le atten-
zioni necessarie. Preferisco che i miei formaggi siano venduti in cacioteche, dove ci sono gastronomi in grado di spiegare le qualità del prodotto e la differenza rispetto ad una produzione industriale. Perché il valore aggiunto di formaggi del genere è proprio la lavorazione, l’abilità del casaro nel sentire la consistenza della cagliata e di analizzare tutto manualmente, grazie all’esperienza maturata negli anni» conclude. Veronica Fumarola Caseificio Bertagni Località Pantaline 11 55036 Pieve Fosciana (LU) Telefono: 0583 62723
SPECIALE NATALE
I piatti dell’abbondanza di Giorgia Fieni
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no dei motivi per cui amiamo le feste di Natale sono le ricette ipercaloriche. È inverno, fa freddo e si indossano abiti coprenti, per cui per due settimane possiamo non preoccuparci della dieta e ingoiare tutto quello che ci viene offerto. La tavola di questo periodo abbonda veramente di ogni specialità: dalla pasta ripiena all’arrosto di carne e/o pesce, dalle verdure ripiene al panettone… Non manca veramente nulla e tutto è condito, farcito, abbondante. Siccome siamo prossimi all’occasione, mi sono messa a pensare a come appunto il Natale, e le ricorrenze in
genere, siano le occasioni nelle quali ogni regione sfoggia il meglio di sé, gastronomicamente parlando, così ho elaborato un giro d’Italia alla ricerca delle ricette più grasse (ma, diciamocelo, anche più gustose… pensate solo al fritto) e pure a quelle che grasse non sarebbero ma che vengono arricchite. La prima è il Bollito, vanto di tutto in Nord Italia (a Trieste ne esistono addirittura locali appositi, situati lungo il fiume). Un tempo veniva servito in un apposito carrello, nel quale i pezzi di carne erano ancora ben bagnati di brodo, poi porzionati dal cameriere esperto a seconda della comanda e posti accanto
a salse e contorni. A Modena — ove mi sembra che raggiunga l’apoteosi della variabilità — vige la Regola del 7: 7 tagli di carne bovina (copertina, fallata, girello, polpa di spalla, punta di petto col suo fiocco, doppione, culatta), 7 ornamenti (testina, lingua, zampino, coda, meglio se tutte di vitello;, cappone o gallina, cotechino o zampone, costole di maiale e in qualche famiglia aggiungono anche un polpettone), 7 le salse (verde, rossa, mostarde dai diversi sapori, senape e cren), 7 contorni (purè di patate, fagioloni bianchi in umido, cipolline in agrodolce, sottaceti o giardiniera, spinaci al burro, carote e patate
Cassoeula e polenta gialla (photo © vpardi – stock.adobe.com).
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Il Natale, e le ricorrenze in genere, sono le occasioni nelle quali ogni regione sfoggia il meglio di sé, gastronomicamente parlando. Così ho elaborato un giro d’Italia alla ricerca delle ricette più grasse (ma, diciamocelo, anche più gustose… pensate solo al fritto) e pure a quelle che grasse non sarebbero ma che vengono arricchite Agnolotti al burro e salvia (photo © crisemaxincucina).
Bollito misto, Cappon magro ligure, Cassoeula lombarda, Finanziera piemontese, Olive all’ascolana, tutte le paste ripiene, pizza!, arricchita però, arrosti di carne e pesce, e frutta, ricoperta da cioccolato, zucchero e panna montata
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lesse, friggione, il classico contorno di cipolla e pomodoro, utilizzato anche il giorno dopo come piatto di recupero, mescolandolo con gli avanzi della carne). Una testimonianza eccellente della bontà del piatto arriva dal cantante emiliano ZUCCHERO: “Ancora vado matto per il bollito, il vapore che si spande in cucina, come una zaffata di buono, che ti inebetisce e di estasia, la salsa verde, e quella rossa, la giardiniera, con i sottaceti tritati e mia madre che per dare sostanza ci metteva pure l’uovo sodo. Con l’olio di semi, perché l’olio d’oliva da noi non c’era”. La seconda è il Cappon magro ligure che, a dispetto del nome, è un vero e proprio tripudio di pesce e verdure (a scelta tra: gallinella, pesce cappone — appunto —, branzino, astice, gamberi o scampi, frutti di mare, pescatrice, orata, dentice, nasello, ostriche, ombrina, cipolla, cavolfiore, sedano, fagiolini, patate, carote, carciofi, barbabietola, scorzonera, funghi sottolio, piselli), che, abbinato a gallette da marinaio all’aglio e salsa (un pesto di prezzemolo con acciughe, capperi, pinoli, mollica all’aceto), era spesso servito a piramide con decorazioni di bottarga, uova sode e olive.
La GUIDA GASTRONOMICA D’ITALIA 1931 del Touring Club lo battezzò regina delle insalate e piatto solenne. La terza è la Cassoeula lombarda: non solo salsiccia e verze (che devono aver conosciuto il gelo) accanto alla polenta ma anche costine, puntine, cotenne, orecchie, pancetta, musetto e piedini (in Piemonte aggiungono anatra oppure coniglio oppure oca, disossati). ALLAN BAY descrive così il piatto più rappresentativo della sua città: ”La cassoeula — a volte si aggiunge qualche dieresi — è un piatto veramente milanese, che di più non si può, anche se condiviso con ampi spazi di Lombardia. Abbiamo altri piatti simbolo, dal risotto giallo alla cotoletta a tanti altri, ma nessuno — a mio parere, sia chiaro — è più di questo il piatto che contraddistingue la mia città, il piatto che identifica noi milanesi e che al contempo ci differenzia dagli altri, il piatto che in Italia sentiamo solo nostro e del quale siamo un po’ gelosi, che fuori dalla nostra città è guardato con sospetto misto a timore. Oddio, non è un monopolio assoluto; in Piemonte c’è un piatto simile. Francia e Spagna propongono potée e pote, che sono molto simili; fra l’altro, la cassoeula si chiama anche bottaggio, che ha la
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Pizza a Natale? Perché no. L’importante è che sia ricchissima di ingredienti e gusto.
stessa radice di potée. Tutta l’area celtica offre piatti similari; anche la grande choucroute alsaziana, pur essendo fatta con ingredienti conservati e non freschi, mostra la stessa origine. È inevitabile: nessun piatto è unico, però la cassoeula è a Milano”. Molto simile è la Finanziera piemontese, una ricetta a metà tra un ragù e uno spezzatino con animelle e filoni o schienali di vitello (anche cervello e rognone spurgato nel latte), creste di gallo, fegatini di pollo e funghi porcini, eventualmente prosciutto… È uno di quei casi in cui la ricetta della nonna è sicuramente la più corretta, come dice ELENA LOEWENTHAL lasciandosi trasportare dai ricordi: “La finanziera merita l’articolo. Sto pensando che la finanziera mi ricorda l’infanzia. Che il suo nome è
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misterioso, probabilmente ha poco a che fare con le travagliate sorti dell’Europa e i su e giù delle borse. Che invece ha quasi sicuramente un nesso con Oltralpe, di quei tempi in cui dalle mie parti si parlava e riveriva il francese. Che, a dispetto del nome altisonante e della sua nomea di raffinatezza, se guardate bene è un piatto povero, fatto di avanzi di macello”. La quinta sono le Olive all’ascolana. Avete presente le morbide olive, che se le spremete a freddo e raccogliete le prime gocce ottenete l’olio extravergine che tanto fa bene alla salute e al colesterolo? Ecco, quest’ultimo sale vertiginosamente se invece le riempite di carne di bovino e suino e tacchino (o pollo), uova, noce moscata e grana, le impanate e le friggete. O, almeno,
questo è il lato negativo della ricetta, perché poi ne esiste uno paradisiaco positivo che vi faccio raccontare da MARIAGRAZIA PICCHI: “Quando la addento la bocca mi si riempie di un’esplosione di sapori, in cui però l’oliva rimane la protagonista incontrastata”. A queste classiche ricette della tradizione si abbina naturalmente la pasta ripiena: agnoli, agnolotti, anolini, cannelloni, ravioli, cappellacci, cappelletti, cappelloni, tortelli, tortellini, tortelloni… comunque li vogliamo chiamare e di qualunque forma li prepariamo, sono un concentrato di bontà. Anche lasagne, rigatoni, paccheri e conchiglioni sarebbero semplici formati di pasta, ma ogni volta che li vediamo abbondano di ragù e besciamella! Infine ci sono, come scrivevo, quelle ricette che non sarebbero particolarmente abbondanti ma, quando si tratta di festeggiare qualcosa, possono diventare delle vere bombe caloriche. Per prima la pizza: una Margherita è permessa in tutte le diete, ma spesso vi aggiungiamo sopra ogni genere di cibo e sappiamo anche piegarla in due perché possa contenere più ripieno (vedi il Pastizz lucano e il Rustico napoletano, che prevedono pure l’aggiunta di strutto, il quale rende ancora più saporito un impasto capace di contenere carne di maiale, o salame, uova, formaggio). Per secondo l’arrosto (un pezzo di carne o di pesce al forno sarebbero un piatto nutrizionalmente corretto, a meno che all’interno non vi nascondiamo la frittata, i salumi, ecc…). Per terminare la frutta, sana e piena di acqua e vitamine, ma che spesso copriamo con cioccolato, zuccherini, panna montata. Dobbiamo dunque smettere di mangiarli? Assolutamente no! Saranno pure piatti corposi e che fanno ingrassare, ma sono indubbiamente buonissimi e ogni tanto (fosse anche solo a Natale) dovete proprio concederveli per appagare il vostro palato. Nel caso abbiate dubbi su quali scegliere, vi svelo un segreto per riconoscerli: a prepararli occorre almeno un’ora (“Il bollito si merita un tempo lento”, ha scritto SABRINE D’AUBERGINE). Sessanta minuti in cui vivrete il magico momento dell’attesa di un cibo paradisiaco: già questo è abbondanza. Giorgia Fieni
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“Se volete allegria, mangiate modenese, lo zampone dà gioia ad un animo triste”
Cosa sarebbe il Natale senza Zampone e Cotechino Modena?
“S
e volete allegria, mangiate modenese, lo zampone dà gioia ad un animo triste” scriveva a fine Ottocento il romanziere e saggista ÉMILE ÉDOUARD CHARLES ANTOINE ZOLA, nel cui sangue, forse non tutti ne sono a conoscenza, scorreva sangue italiano da parte di padre, un militare ed ingegnere veneziano naturalizzato francese. Non sappiamo se l’amore di Zola per la cu-
cina emiliana sia nato in famiglia, certo è che mai parole furono più azzeccate. Zampone e Cotechino Modena IGP sono due prelibatezze della regione con una delle gastronomie più “ricche” d’Italia, in termini di sapore e tradizione, che vantano una lunga storia: sono infatti nate più di cinquecento anni fa. Il cotechino, in particolare, è considerato il “padre di tutti gli insaccati” e già nel Ducato di Milano si parlava del coteghin
fatto a Modena, mentre il compositore pesarese GIOACCHINO ROSSINI scriveva al signor Bellentani — uno dei pionieri della produzione su larga scala del prodotto —, “Vorrei quattro zamponi e quattro cotechini, il tutto della più delicata qualità”. La nascita dello zampone risale più precisamente al 1511, quando le truppe di PAPA GIULIO II DELLA ROVERE assediarono Mirandola, presso Modena. Alla fine
I dati di vendita del Consorzio confermano lo Zampone Modena quale simbolo delle festività natalizie. Il legame tra lo zampone e le feste di Natale e Capodanno nasce come conseguenza della tradizione contadina di sacrificare il maiale a partire dal giorno di Santa Lucia (13 dicembre), quando veniva accompagnato dalle pregiate lenticchie.
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dell’assedio i mirandolesi erano alla fame, restavano loro però i maiali. Non macellarli sarebbe stato un peccato e avrebbe significato regalarli al nemico. L’idea giusta venne allora ad uno dei cuochi del celebre filosofo PICO DELLA MIRANDOLA: “Macelliamo gli animali e infiliamo la carne più magra in un involucro formato dalla pelle delle sue zampe. Così la potremo conservare per cuocerla più avanti”. Della serie, la necessità, e la fame, aguzzano l’ingegno… Fatto sta che zampone e cotechino piacquero così tanto che, verso la fine del Settecento, sostituirono la salsiccia gialla che aveva reso celebre Modena già nel Rinascimento. La presenza dello zampone anche sulle tavole dei nobili trova infine conferma in alcune ricette tradizionali modenesi che prevedono di accompagnarlo con lo zabaione, una crema dolce e spumosa a base di uova (tuorlo), zucchero e vino, o vino liquoroso, destinata alle tavole dei più ricchi. Qual è la differenza tra zampone e cotechino? Lo Zampone Modena IGP si ottiene da carni di suino selezionate unite a cotenna, secondo i dettami dell’antica ricetta. Il macinato può essere delicatamente aromatizzato con pepe, noce moscata, cannella, chiodi di garofano e vino. L’impasto ottenuto viene poi insaccato nella pelle della zampa anteriore del maiale, legata all’estremità superiore. Il prodotto precotto è confezionato in buste ermetiche e sottoposto a trattamento termico ad elevate temperature per un tempo sufficiente a garantirne la stabilità organolettica. Il prodotto crudo, invece, viene asciugato in stufe ad aria calda e, per poterne apprezzare le caratteristiche organolettiche, è necessario farlo bollire preventivamente per circa due ore. Solo così acquisterà il gusto tipico, il colore roseo tendente al rosso e la consistenza compatta propria dello zampone. Il Cotechino Modena IGP viene prodotto con le parti nobili del maiale e cotenna. Le carni macinate sono insaporite con spezie ed erbe aromatiche e poi insaccate in budelli. Anche in questo caso il prodotto precotto è confezionato in buste ermetiche e sottoposto a trattamento termico ad elevate temperature per un tempo sufficiente a garantirne la stabilità organolettica, mentre il prodotto
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La locandina della grande festa che si terrà a Modena il secondo week-end di dicembre ideata dal Consorzio di tutela per celebrare lo Zampone Modena e il Cotechino Modena IGP nella città che ha dato i natali ai due insaccati. crudo, asciugato in stufe ad aria calda, necessita di una bollitura preventiva prima del consumo per circa due ore. Qual è la differenza essenziale tra i due insaccati allora? L’utilizzo della cotenna in luogo della pelle delle zampe (da cui il nome, appunto, di zampone). Il Consorzio di tutela celebra le due specialità nella loro città d’origine dal 7 al 9 dicembre Dal 7 al 9 dicembre, in un week-end tutto natalizio, Modena diventa la capitale dello Zampone e del Cotechino Modena IGP. «Anche quest’anno, come per le precedenti edizioni (siamo
arrivati all’ottava) — ci raccontano i rappresentanti del Consorzio di tutela ideatore della festa — tutta la città sarà infatti pervasa dai profumi delle ricette a base di queste due eccellenze della tradizione modenese: sono quelle ideate dai giovani chef delle scuole alberghiere di tutta Italia e tedesche che hanno preso parte al concorso “Lo Zampone e il Cotechino Modena IGP degli chef di domani”». Per partecipare al concorso, sempre promosso dal Consorzio e al quale è stato possibile iscriversi da giugno a novembre, ai giovani allievi è stato chiesto di creare dei piccoli capolavori del gusto a base di zampone e cotechino appunto. «Di
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Cotechino Modena. Il Consorzio Zampone e Cotechino Modena IGP è nato nel 2001 e la sua missione è quella di tutelare le due antiche specialità italiane e promuoverne la conoscenza. tutte le ricette pervenute in questi cinque mesi alla “corte” dello chef modenese più famoso del mondo MASSIMO BOTTURA, dopo un’accurata disamina, ne sono state selezionate soltanto 10». Gli istituti selezionati prenderanno parte alla finale, in programma sabato 8 dicembre, giornata clou dell’evento, nella centralissima Piazza Roma a Modena. «Si tratta di un evento di grande importanza per i giovani cuochi, che avranno modo di esprimersi davanti ad una giuria d’eccezione presieduta, ça va sans dire, da Bottura e composta da esperti tra cui PAOLO FERRARI, presidente del Consorzio Zampone e Cotechino Modena IGP e rappresentanti delle istituzioni locali. Novità di quest’anno, il concorso era aperto anche agli studenti stranieri: la straordinaria opportunità è stata infatti riservata agli alunni della JRE — Jeunes Restaurateur e della Dehoga Akademie — grazie a una partnership nata nell’ambito della campagna cofinanziata dall’UE “Autentico Piacere Europeo — European Authentic Pleasure”, cui aderisce il Consorzio Zampone e Cotechino Modena IGP. Intento dei
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promotori è valorizzare e incentivare la creatività degli alunni e giovani cuochi di domani nell’ideazione di ricette “che sanno d’Europa” a base di Zampone e Cotechino Modena IGP, in abbinamento con altri prodotti DOP e IGP europei. Le iniziative in programma • Venerdì 7 dicembre * Modena – Teatro Comunale Luciano Pavarotti. Ore 21.00: serata inaugurale con lotteria a cura di AMO, Associazione malati oncologici Onlus Carpi. Ingresso su invito. Presenta Andrea Barbi con gli artisti Duo Comico Dondarini/Dal Fiume, il comico Vito e Ivana Spagna. • Sabato 8 dicembre * Modena – Piazza Roma. Ore 10.30: lo chef Massimo Bottura e i giovani cuochi delle scuole alberghiere italiane e tedesche presentano le loro ricette, realizzate live, a base di Zampone e Cotechino Modena IGP; * Modena – Piazza Roma. Ore 12.00: degustazioni gratuite a
cura di Piacere Modena con le eccellenze del territorio (Prosciutto di Modena DOP, Parmigiano Reggiano DOP, Lambrusco di Modena DOP, Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP, Aceto Balsamico di Modena I GP , Confettura di amarena brusca IGP) e show cooking del campione mondiale di pizza Gianni Di Lella; * Modena – Piazza Roma. Ore 16.00: degustazioni con ristoratori modenesi e intrattenimento con i Super Sound Stage. • Domenica 9 dicembre * Modena – Piazza Roma. Dalle ore 10.00 alle 20.00 sarà possibile gustare le migliori specialità modenesi in una giornata dedicata alla solidarietà (GUSTI.A.MO La Solidarietà). Non mancheranno attrazioni per grandi e piccoli, spettacoli e divertimento… di gusto! • Info e programma: tel. 02 8925901; www.modenaigp.it
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Regione che vai, dolce di Natale che trovi Un patrimonio enogastronomico ricco come quello italiano non poteva che vantare un ampio e variegato ventaglio di specialità nate per accompagnare le feste più attese dell’anno di Guido Guidi
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a Nord a Sud, passando per le isole, non c’è regione che non annoveri, nella sua produzione locale, dei dolci tipici da consumare in famiglia il 25 dicembre, la stragrande maggioranza dei quali preparati in casa, la sera prima. In VAL D’AOSTA, ad esempio, il pranzo di Natale si conclude col Mécoulin, tipico di Cogne, una versione regionale del panettone classico. Immancabile anche il caffè mandolà, un caffè molto robusto
che si serve caldissimo nella grolla, con mandorle e le altrettanto tipiche Tegole valdostane. In TRENTINO ALTO ADIGE è un tripudio di dolci ricchi di frutti di bosco, mele e frutta secca, di cui la regione è particolarmente generosa. Qui sono protagonisti, anche nei giorni di festa, lo Zelten trentino, una specialità tipica del Sud Tirolo, e lo Strudel che, con la sua forma arrotolata e ripiena di mele, spezie e frutta secca, è la bandiera
della pasticceria altoatesina. Un dolce a primo impatto dall’aspetto criticabile, che non delude mai nel gusto. La Gubana non è forse il dolce tipico natalizio, ma è certamente la specialità dolciaria più nota del FRIULI VENEZIA-GIULIA, immancabile nelle festività di fine anno. Anche qui, come per altri dolci natalizi, abbiamo una forma a torciglione. Si tratta di un involucro di pasta lievitata dalla rustica farcitura di frutta secca, miele e vino liquoroso o rum. Oltre
Tronchetto piemontese (photo © www.dinersforfood.com).
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ad essere gradevolissima al palato, con un gusto leggermente alcolico, ha il pregio di durare a lungo, anche una quarantina di giorni. Per ridarle vigore quando non è più freschissima di forno, basterà riscaldarla e irrorarla con un po’ di grappa. Sempre che ne rimanga qualche fetta dal giorno di Natale. Si tratta di una specialità che fino a qualche anno fa era preparata esclusivamente in casa e — vista la ricchezza degli ingredienti — solo nelle grandi occasioni, Natale in testa. Scenografico ed invitante allo stesso tempo, è il Tronchetto di Natale del PIEMONTE: un tripudio di colori e sapori, resi dal cioccolato, la panna, il brandy e i marroni, che nasce dall’antica tradizione di bruciare nel camino un ceppo di legna la notte di Natale, un gesto beneaugurante per il nuovo anno. In EMILIA-ROMAGNA sono diversi i dolci che la fanno da padrone sotto Natale. D’altronde una cucina così ricca come quella locale non può che avere un ventaglio di dolci importanti con cui chiudere i pranzi e le giornate di festa. Uno per tutti è il Pan speziale o Certosino, specialità natalizia di Bologna, una torta di lunga conservazione a base di frutta secca e frutta candita. Si presenta compatta, si mangia a fette sottili. In LIGURIA il dolce di Natale è talmente noto da aver oltrepassato i confini regionali e nazionali per conquistare il Nord America e non solo. Si tratta di un dolce a forma di cupola con un impasto arricchito da uvetta, pinoli, cedro e arancia canditi, talvolta zucca candita, pistacchi e pinoli. Leggenda vuole che sia originario della Persia, dove veniva offerto al sovrano dal paggetto più giovane. La tradizione si è in qualche modo tramandata anche in Italia, poiché è il più piccolo della famiglia a portare in tavola il Pandolce, con un rametto di ulivo porta fortuna. Della TOSCANA non hanno certamente bisogno di presentazioni né il Panforte — specialità simile al Pandolce, ma più bassa e morbida, ripiena di frutta candita, mandorle e spezie — né i Ricciarelli di Siena, dolcissimi biscotti di marzapane con canditi e vaniglia. Ma la tradizione dolciaria locale, adatta anche alle festività natalizie, è davvero ricchissima e varia.
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Strudel di mele (photo © mizina – stock.adobe.com). Le commistioni tra regioni sono evidenti. Nel LAZIO, per esempio, è noto il Panpepato, simile al Panforte toscano, tipico del comune di Anagni, che originariamente veniva ricoperto da una spolverata di pepe nero, oggi sostituito dallo zucchero a velo. Ma del Lazio è giusto ricordare come dolce natalizio anche il Pangiallo, nelle versioni di Forano e di Genazzano, quest’ultimo simile al precedente, ma tipico delle festività di fine anno. Si tratta di un impasto di farina, frutta secca, miele e cedro candito che poi viene spennellato con tuorli d’uovo e cotto in forno fino a che la sua crosta non diventi tutta gialla. Il nome parrebbe derivante dall’antica usanza di bagnare la pagnotta con acqua di zafferano che restituisce un colore giallo intenso. Anche in questo caso la tradizione mischia cristianesimo e paganesimo, perché vuole che questo dolce si prepari il giorno del solstizio d’inverno, il 21 dicembre, come buon auspicio per il ritorno delle lunghe giornate di sole che il colore del dolce ricorda. Anche in UMBRIA si prepara il Panpepato come nelle confinanti Toscana e Lazio, ma tra i dolci natalizi per eccellenza in questa regione, e in particolare in provincia di Perugia, spiccano le Pinoccate, dolcetti di forma romboidale, proposti nella versione chiara (alla vaniglia) e in quella scura (al cioccolato). Gli ingredienti sono presto detti: zucchero, pinoli, farina, scorza di limone,
vaniglia o cacao. Come per molti altri dolci, l’impasto bollente viene versato su un ripiano di marmo dove — una volta raffreddato — si tagliano pezzi a forma di rombo. Sempre in Umbria si usa, per Natale, realizzare un altro dolce di grande effetto scenico che, come per molti altri delle festività di fine anno, ha una forma serpentoidale. Anzi, ha proprio la forma di un grande serpente, di cui sono riprodotte persino le squame con delle mandorle e altri decori in frutta secca. Evidente è un richiamo costante, dei dolci natalizi, quelli del Centro Italia e non solo, a delle forme a torciglione che riprendono la simbologia pagana del serpente, trait d’union tra il mondo sotterraneo e quello esterno, tra le tenebre e la luce. Non bisogna infatti dimenticare che il 25 dicembre è una data simbolica per richiamare la nascita di Cristo, ma si sovrappone a feste pagane dello stesso periodo dell’anno. Nelle Marche, e in particolare a Macerata e Ascoli Piceno, è tradizione preparare la Pizza con le noci o la Pizza di Natale, un pane dolce di una ventina di centimetri di diametro e uno spessore di 3 o 4 centimetri e dalla consistenza compatta. La pizza viene condita con noci, nocciole, uvetta, fichi, frutta secca, limone, arancia e talvolta cioccolato. In ABRUZZO i dolci tipici del Natale sono i Calcionetti fritti, panzerotti con
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marmellata d’uva nera, ceci, frutta secca, cacao e mosto, che si gustano freddi. Oppure le Ferratelle, tipiche anch’esse del Chietino: cialde fatte con farina di grano tenero, uova, zucchero, olio d’oliva, liquore all’anice. Da segnalare anche i Torcinelli, specialità natalizia tipica di Pescasseroli, e i Parrozzi. Simbolo della tavola delle feste e non solo di quelle di fine anno sono gli Struffoli, il dolce campano classico che, per forma e immagine, porta allegria. Ne esistono diverse varianti come la Cicerchiata umbra, quella calabrese o quella lucana. Si tratta di piccole palline di pasta dolce, fritte e poi immerse nel miele e decorate a piacimento con confetti, frutta candita o altre guarnizioni. In MOLISE si preparano i Calciuni, piccoli ravioli ripieni di castagne lessate, cedro candito, miele e vino liquoroso o rum. Si servono coperti da zucchero a velo, dopo la frittura in olio bollente. In BASILICATA sono i CALZONCELLI i dolci tipici natalizi. Si tratta di raviolini di forma quadrata o circolare, con i bordi seghettati, che in una sfoglia di grano duro, uova, olio o strutto e vino bianco, contengono marmellata, mostarda o —come accade in Lucania —, una crema di ceci o castagne, talvolta mista,
con cioccolato, cannella, zucchero e liquore. In PUGLIA si mangiano invece le Cartellate, una sfoglia impastata con farina di grano duro, vino bianco dolce, olio e cannella. La pasta viene prima tagliata con la rotella in fettucce dai bordi seghettati, le quali sono poi avvolte in una spirale e fritte in olio bollente (in alternativa alla cottura al forno). Sono poi ricoperte di miele o da vincotto di fichi, con eventuali guarnizioni a piacere come granella di noci o mandorle tostate, cioccolato o zucchero a velo. Si tratta di un dolce di origine antichissima, di probabile espressione della Magna Grecia, che si associa alle offerte in favore di Demetra, la dea della terra, e divenuto, in età cristiana, omaggio alla Madonna per il buon raccolto. Il nome sembra invece verosimilmente riconducibile alla consistenza del dolce stesso, che per la sua sfoglia sottile ricorda appunto la carta. Alcuni lo riconducono invece all’aureola di Gesù Bambino o al lenzuolo che gli venne a mancare quando nacque. In CALABRIA la fanno da padrone i diversi torroni tra cui il Torroncino, quello di arachidi con zucchero, quello di Bagnara e quello gelato. Ma si consumano anche altri dolci tipici fatti con
cedro, bergamotto e i fichi ricoperti di cioccolato. In SICILIA è il Buccellato che chiude il pranzo di Natale. Si tratta di una torta tonda di pasta frolla decorata con frutta candita. Si sfornano poi anche i Buccellatini, biscotti preparati con lo stesso impasto della ciambella e guarniti con glassa di zucchero e codine colorate. Il loro nome deriva dalla parola latina buccellatum, che stava ad indicare dei bocconcini morbidi e golosi. In SARDEGNA, infine, il Natale è l’occasione per degustare dolci tipici, molti dei quali di mandorle, che si producono anche in altri periodi dell’anno e che non si potrebbero ricondurre necessariamente alle festività natalizie. Oltre ad amaretti, gueffus, ciambelline, tiliccas, biscotti classici, anicini, il pranzo di Natale si può concludere secondo tradizione anche con dei raviolini dolci fritti, ripieni di una deliziosa crema alla ricotta e aromi o con una classica seada ricoperta di miele locale. Ci sono poi dolci poco noti che in certe zone si gustano sia per Natale sia per Pasqua, che rendono lieta la tavola e sono di ottimo auspicio per il nuovo anno, soprattutto se regalati e condivisi. La Paniscedda, per esempio, è realiz-
Panforte di Siena (photo © dolphy_tv – Fotolia).
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zata con una miscela di prodotti della montagna: noci, mandorle, vin cotto, uvetta, miele e farina. Ha una forma tondeggiante e un grosso foro in mezzo. È guarnita con una glassa bianchissima e decori vari dai colori tenui o argento. Sembra davvero un peccato mangiarla! Si tratta di una specialità ottima da gustare e ricca di significati simbolici. In certi casi viene servita anche priva di glassa, in una versione decisamente più semplice, ma sempre ottima. Per i suoi ingredienti si può consumare anche a distanza di qualche settimana dalla sua preparazione. Molte delle specialità citate continuano ad essere preparate in casa o nelle pasticcerie locali, alla vigilia delle feste. Alcune hanno invece varcato le soglie della regione che gli ha dato i natali e ora vengono realizzate anche in altre parti d’Italia. Molti di questi dolci sono altresì di consumo frequente: spesso non si aspetta il Natale per assaporarli, sebbene inizialmente siano nati per festeggiare le ricorrenze di fine anno. Ci sono poi dolci tradizionali che hanno conquistato nel tempo il palato di tutti gli Italiani e non solo. Si tratta del Panettone, espressione della pasticceria lombarda, e del Pandoro, tipico di Verona, da sempre in competizione sia sulle tavole che sugli scaffali dei supermercati. Nessun’altra specialità locale è riuscita, come panettone e pandoro, a trasformare una produzione che inizialmente era solo artigianale in industriale, apportando nel tempo modifiche e varianti che sono andate incontro alle esigenze di un mercato sempre più ampio ed esigente. Il tutto legando strettamente vendite e consumo al solo periodo natalizio. Si tratta in entrambi i casi di produzioni tradizionali, certamente, ma non antichissime, la cui storia è ricostruita anche ricercando le origini fuori dall’Italia. Per quanto riguarda il pandoro, per esempio, una certa scuola di pensiero ritiene che fu forse la Francia, con le sue brioche soffici e burrose, ad ispirare la preparazione del magnifico dolce a stella. Il passaggio sarebbe infatti stato quello della corte dei Dogi. Altri ritengono che sia invece un’acquisizione, seppur indiretta, dall’Impero Asburgico, dove si produceva il Pane di Vienna. Di certo c’è che nel 1260, in occasione del primo
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Buccellato, dolce tipico siciliano (photo © www.dinersforfood.com). Natale dall’insediamento dei Signori di Verona e dei nobili Della Scala, si festeggiò con il Nadalin, un dolce alto e soffice, ma meno lievitato di quello a noi noto. D’altra parte c’è però chi sostiene che la nascita del pandoro sia da ricondurre al periodo rinascimentale nella Repubblica di Venezia, momento storico in cui già si consumava il Pan de Oro, dolce di forma conica e rivestito di sottilissime foglie d’oro, che assomiglia all’attuale pandoro sia come immagine, sia per il nome. La storia più recente è nota e riporta personaggi che tuttora ricorrono nell’immaginario collettivo e nel mondo dell’industria alimentare. Uno per tutti è il veronese DOMENICO MELEGATTI che, nel 1894, fondò l’azienda che conosciamo, ricevendo anche un certificato che attestava il brevetto dell’odierno pandoro. Il panettone originario di Milano ha invece una storia che in molti vogliono far risalire al Medioevo. Anche qui, aneddoti, leggende e ipotesi si rincorrono, ma di certo c’è solo che, molto più recentemente, nel 1847 sarebbe stato PAOLO BIFFI, fondatore qualche anno più tardi della celebre Offelleria Biffi in Corso Magenta a Milano, a creare ed infornare il panettone in una versione molto simile a quella che oggi noi tutti conosciamo. Venne poi, nel 1919, ANGELO MOTTA — altro nome noto della pasticceria nazionale e non solo — che aprì a Milano il suo primo forno, cambiando per sempre il futuro
del panettone. Quello che sino a quel momento era semplicemente un pane molto lievitato ed arricchito, divenne un dolce vero e proprio, soffice, generoso e burroso. Alcuni ritengono che sia sempre lui ad aver ideato il contenitore in cartoncino, per preservarlo e, nel contempo, esaltarne la forma. Molto tempo è passato da quando le prime versioni del pandoro e del panettone sono state commercializzate in tutto il Belpaese e poi anche all’estero. Negli anni sono nate numerose varianti, anche a livello industriale, delle ricette originali. Il panettone, spesso poco gradito per la presenza dei canditi, è proposto oggi anche senza e magari con aggiunte di cioccolato, glasse, zucchero o mandorle, solo per fare alcuni esempi. Stessa cosa dicasi per il pandoro, le cui farciture sono davvero innumerevoli. Panettoni e pandori, i primi in testa, vengono realizzati anche da molti panifici e pasticcerie locali che li preparano in maniera artigianale. Poiché l’utilizzo e l’abuso di questi due nomi è stato negli anni eccessivo, al punto che si commercializzavano come tali, prodotti di dubbia qualità e talvolta completamente privi degli ingredienti basilari come il burro, il nostro legislatore si è visto costretto ad esprimersi in materia, stabilendo un disciplinare di produzione che definisce una ricetta di riferimento. Pena multe salatissime. Guido Guidi
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Panettone artigianale, da Milano alla Carta
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ilano ha accolto la 2a edizione de “I Maestri del Panettone”: la festa del vero panettone artigianale che si è tenuta il 24 e il 25 novembre alle Cavallerizze del Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci. Ad un mese esatto dal Natale, 25 artigiani lievitisti sono giunti da ogni parte dello Stivale per proporre 100 variazioni del dolce simbolo delle festività di fine anno: il panettone. Per il pubblico, l’opportunità di assaggiare e acquistare alcuni tra i migliori panettoni artigianali ovvero prodotti esclusivamente con lievito madre e ingredienti naturali nel rispetto delle regole base dell’artigianalità dolciaria. Come nasce il vero panettone artigianale? Sono necessarie tecnica, esperienza e passione: è fondamentale conoscere tutti i segreti del lievito madre e della lievitazione naturale, scegliere solo materie
prime eccellenti, dosarle per ottenere l’impasto perfetto, curare ogni dettaglio e saper governare la cottura. Solo così si ottiene un prodotto genuino e unico. La Carta dei Maestri del panettone Non a caso i 25 maestri lievitisti presenti a Milano hanno sottoscritto “La Carta dei Maestri del Panettone”, un documento programmatico che sancisce i principi fondamentali del panettone artigianale: un concentrato di genuinità e naturalità perché prodotto seguendo l’antica ricetta tradizionale (che prevede 72 ore di lievitazione) e senza aggiunta di conservanti, emulsionanti, semilavorati e aromi artificiali. I 25 maestri sono pasticceri, titolari e produttori di pasticceria e da almeno 10 anni producono panettoni con lievito madre. Riportiamo di seguito i punti della Carta sottoscritta, nella quale i maestri si impegnano a realizzare il panettone:
• all’interno di laboratori artigianali: un luogo adeguatamente attrezzato alla realizzazione di tutti i passaggi richiesti dal processo di lavorazione, partendo dalla selezione delle materie prime sino alla confezione del prodotto finito; • usando sola pasta madre (acida), realizzata e mantenuta col solo utilizzo di farina e acqua, autoprodotta e senza aggiunte di start e lieviti disidratati di qualsivoglia natura; • usando solo aromi naturali: nessun aroma artificiale è aggiunto negli impasti, questo per ottenere prodotti ad alta digeribilità (gli aromi artificiali spesso non sono digeribili dal corpo umano che non è dotato degli enzimi necessari per metabolizzarli); • impiegando solo ingredienti singoli: non vengono impiegati preparati o miscele di polveri. Fonti: I Maestri del Panettone, © World Food Press Agency
Cosa definisce un panettone artigianale? Le caratteristiche fondamentali di un vero panettone artigianale sono le seguenti: • freschezza: si intende un prodotto dal gusto equilibrato e che lascia la bocca pulita; • qualità delle materie prime: si intende ingredienti selezionati in modo accurato e lavorazione a regola d’arte; • aspetto: tipica forma cilindrica che termina con una cupola scura, fetta leggera con alveolatura allungata, cioè cavità prodotte dalla lievitazione naturale; • consistenza: struttura morbida e leggera; • lucentezza: pasta lucente e cotta a regola d’arte; • lievitazione: corretta e curata; • profumo: fresco, preciso e avvolgente, aroma persistente. >> Link:
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www.imaestridelpanettone.com facebook.com/maestridelpanettone
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INDAGINI
Cioccolato, peccato di gola per oltre la metà degli Italiani Un‘indagine Doxa commissionata dal food delivery Deliveroo ha svelato abitudini di consumo, preferenze di gusto e abitudini nel mangiarlo di Gianluca Pacella
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li Italiani sembrano proprio non saper resistere al cioccolato. A svelare la passione e il peccato di gola è un‘indagine del food delivery DELIVEROO commissionata a DOXA per capire meglio abitudini golose di consumo verso il cioccolato. La ricerca, condotta su mille Italiani e realizzata sui mesi settembreottobre 2018, mette in luce che oltre la metà degli intervistati (62%) mangia il
cioccolato frequentemente, almeno 2-3 volte a settimana, e che un italiano su 5 (19%) dichiara di mangiarlo tutti i giorni. Quanto invece a livello di golosità, la rilevazione statistica fa emergere che le più ghiotte sono le donne (65%) e i Millennials (69%), con questi ultimi che hanno quasi un intervistato su tre (27%) che la mangia sempre. Da un punto di vista geografico, invece, a farla da padrone sono gli
abitanti del sud e delle Isole che amano il cioccolato più di ogni altra zona d’Italia (68,1%) davanti agli abitanti del Nord-Ovest d’Italia (62,4%). L’analisi di mercato non dimentica poi di mettere a fuoco le occasioni preferite di consumo con oltre 1 intervistato su 2 (56%) che afferma che mangiare cioccolato sia un momento intimo da concedersi e godersi tutto per sé. In particolare, ad affermarlo sono
Da un’indagine Doxa risulta che gli Italiani sono grandi amanti del cioccolato. I più golosi? Le donne e i Millennials (photo © Dragana – stock.adobe.com).
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le donne (57%) nella fascia d’età tra i 45-54 anni (58,3%). Il 42% degli intervistati, invece, si rivolge al cioccolato quando vuole concedersi una coccola, soprattutto tra i 24 e i 25 anni (56%), mentre il 35% quando è alla ricerca di una fonte di energia, opzione scelta maggiormente dagli uomini (38,4%). Alla domanda, invece, di come si ama mangiare il cioccolato, è emerso che piace gustarlo in “purezza” (tavoletta, 81,6%) o mediante cioccolatino (65%). Il 52% lo preferisce come dolce (inteso come torta, croissant, muffin) e il 40% come gelato. Ad amare torte e dolci i più giovani (63% tra i 18 e i 24 anni), mentre la tavoletta è la variante preferita per gli adulti, con oltre l’89% delle preferenze tra i 55 e 64 anni. Infine, gli interpellati chiamati a definire la propria voglia di cioccolato concordano nell’affermare che è un momento di soddisfazione (45%); il 27,2% dice che è un desiderio irrinunciabile, mentre solo il 6% dice che è per consolazione. Guardando invece strettamente all’aspetto di mercato ed economico, nel 2017 la cioccolata in Italia — secondo l’Associazione delle industrie del dolce e delle paste italiane (AIDEPI) — ha avuto, per quanto riguarda i prodotti finiti, una produzione di 333.782 tonnellate per una cifra di 4.509,3 milioni di euro. Il consumo totale è stato di 149.364 tonnellate, mentre il consumo pro capite è di 2,47 kg. Sotto il profilo commerciale sono diverse le tipologie, che vanno dalle tavolette (nei gusti fondente, al latte, bianco e gianduia) ai cioccolatini (disponibili in una grande varietà di formati e gusti). Non sono poi da dimenticare le intramontabili creme da spalmare, realizzate con nocciole e cacao magro, e gli snack al cioccolato, le barrette e le tavolette ricoperte di cioccolato e ripiene di biscotto, wafer, latte, caramello, nocciole o altro. Per i più esigenti, infine, ci sono le preparazioni istantanee a base di cacao e quelle realizzate con il cacao in polvere: cioccolate in tazza, dolci casalinghi. In ultimo, e per un ben determinato momento dell’anno, ci sono le uova di cioccolato che sono la somma di tradizione e innovazione, magia e attesa, dolcezza e affetto. Gianluca Pacella
RAZZA PIEMONTESE by CONSORZIO DI TUTELA DELLA RAZZA PIEMONTESE
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Il cioccolato di Modica è finalmente Igp Il cioccolato di Modica Igp è, dal mese di ottobre, il primo cioccolato registrato in ambito comunitario. È stato infatti pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea — Serie L 257 del 15 ottobre 2018 — il Regolamento di esecuzione (UE) 2018/1529 della Commissione dell’8 ottobre 2018 recante iscrizione della Igp nel Registro europeo delle denominazioni di origine protetta e delle indicazioni geografiche protette. Salgono così a 296 le Dop e Igp italiane registrate in ambito comunitario, consolidando il primato che il nostro Paese detiene da anni per i prodotti agroalimentari di qualità. La denominazione “cioccolato di Modica”, riporta una nota del MIPAAFT, designa esclusivamente il prodotto ottenuto dalla lavorazione della pasta amara di cacao con zucchero. Al momento dell’immissione al consumo, presenta una forma a parallelepipedo rettangolare con i lati rastremati a tronco di piramide ed un peso non superiore a 100 grammi. La pasta è di colore marrone con evidente granulosità per la presenza di cristalli di zucchero all’interno del prodotto. Il gusto è dolce con note di amaro. È commercializzato in confezioni monoprodotto o pluriprodotto. Le operazioni di confezionamento devono avvenire entro un massimo di dodici ore dal raffreddamento, all’interno del laboratorio di produzione o dei locali ad esso annessi. Ciò consente di evitare possibili contaminazioni batteriche e l’assorbimento di odori estranei che comprometterebbero il profilo organolettico del prodotto e garantisce che il cioccolato non assorba umidità dall’ambiente esterno, cosa che provocherebbe il rischio di formazione di muffe durante la conservazione e la perdita della caratteristica colorazione marrone della superficie esterna. La zona di produzione è rappresentata dall’intero territorio amministrativo del comune di Modica, in provincia di Ragusa. Il “cioccolato di Modica” ha origine nella città omonima e nel tempo ha acquisito una grande reputazione legata sia alle caratteristiche distintive che alla peculiarità del processo produttivo. Presenta caratteristiche organolettiche che sono il frutto di una modalità di lavorazione che non passa né attraverso l’aggiunta di burro di cacao o altri grassi vegetali, né attraverso la fase del concaggio, vale a dire il lunghissimo rimescolamento e riscaldamento della massa ad alte temperature messo in opera al fine di rendere il composto fluido e i grumi di dimensioni impercettibili con la lingua. La produzione richiede una buona dose di manualità e competenze specifiche, che comportano l’utilizzo di maestranze abili ed esperte nelle operazioni di dosaggio degli ingredienti, nel controllo delle temperature del processo di lavorazione della pasta, nella relativa amalgama degli ingredienti e nelle operazioni di battitura. L’importanza del “cioccolato di Modica” nell’area geografica va associata quindi non solo alla presenza di un indotto locale legato alla sua produzione, ma anche all’adattamento di macchine utensili per la lavorazione, testimonianza evidente della forte e persistente compenetrazione tra il prodotto e l’economia locale. Negli ultimi trent’anni la fioritura di una serie di piccole aziende ha determinato la nascita di un vero e proprio“Distretto del Cioccolato di Modica”, che si caratterizza per la particolare vitalità degli operatori, alcuni dei quali hanno avviato una significativa attività di export del prodotto. Questa connotazione del sistema produttivo ha consentito negli anni lo sviluppo e il mantenimento di conoscenze e abilità che si sono tramandate di generazione in generazione e che non sono riscontrabili in altre zone (fonte: © World Food Press Agency).
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NUTRIZIONE
Il buon grasso del maiale Fin dall’antichità il maiale viene apprezzato per il suo grasso, la cui bontà è stata confermata dalle moderne ricerche scientifiche di Giovanni Ballarini
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a moderna dietetica afferma che, per una corretta nutrizione, circa un terzo delle calorie alimentari deve pervenire dai grassi. Al tempo stesso, la ricerca scientifica non solo dimostra che esistono tanti tipi di grasso, ma che tra questi ve ne sono di “buoni” e di “cattivi”, e tra questi ultimi soprattutto quelli che, per la loro struttura chimica, sono definiti trans. Grassi e acidi grassi trans Senza entrare in dettagli chimici, un acido grasso può esistere in natura
sotto due forme: una cis e una trans (dal latino, al di qua o al di là della catena degli atomi di carbonio) a seconda della posizione di certi gruppi di atomi. Gli acidi grassi trans sono presenti in taluni alimenti, soprattutto da quando l’uomo ha scoperto che rompendo artificialmente un doppio legame e aggiungendo idrogeno (idrogenazione) si ottengono grassi di maggiore consistenza che resistono bene all’ossidazione e nei quali, fra l’altro, la percentuale della forma trans è molto alta. Questi grassi idrogenati sono molto utili nelle pre-
parazioni alimentari industriali (come la margarina ottenuta da oli vegetali), soprattutto quelle spalmabili, prodotte negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, mentre le attuali margarine, preparate con tecniche d’altra natura, hanno una concentrazione di acidi trans nel prodotto finito sensibilmente inferiore. Acidi grassi trans sono presenti in molti prodotti di pasticceria (merendine, gelati, ecc…). Il processo di raffinazione degli oli vegetali dove si usano alte temperature può introdurre una percentuale di grassi
Lardo e pane integrale (photo © kazanovskyiphoto – stock.adobe.com). 74
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Nella lavorazione dei prosciutti crudi, lo strato di sugna deposto sulla carne non deve essere né troppo sottile né troppo spesso; se mal dosata, infatti, la sugnatura può compromettere la successiva fase di stagionatura (photo © Alessandro Carra 2013). trans. Alte temperature si ottengono facilmente anche friggendo per qualche decina di minuti un olio vegetale e anche per questo le fritture con oli vegetali ricchi di grassi polinsaturi possono diventare dannose. I grassi trans si trovano anche nei semi e nelle foglie di diverse piante e in taluni alimenti d’origine animale. Acidi grassi trans e salute umana Numerosi sono gli studi a dimostrazione degli effetti negativi degli acidi grassi trans perché: • abbassano il colesterolo HDL (buono) e alzano il LDL (cattivo); • alzano la concentrazione della lipoproteina(a) o Lp(a); • diminuiscono il valore biologico del latte materno;
• causano un basso peso dei bambini alla nascita; • aumentano i livelli di insulina in risposta a un carico glicemico; • interferiscono con la risposta immunitaria diminuendo l’efficienza della risposta delle cellule B e aumentando la proliferazione delle cellule T; • diminuiscono il livello di testosterone maschile; • inibiscono alcune reazioni enzimatiche fondamentali (come quella della d-6-desaturasi); • alterano la permeabilità e la fluidità delle membrane cellulari; • alterano la costituzione e il numero degli adipociti (cellule di deposito del grasso); • interferiscono con il metabolismo degli acidi grassi essenziali Omega-3;
Alcuni nutrizionisti hanno recentemente coniato la frase “Butter is better”: in altre parole, il burro è meglio della margarina. Allo stesso modo possiamo affermare che il “maiale è ancora meglio”, in quanto il suo grasso è certamente migliore
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• incrementano la produzione di radicali liberi; • facilitano la formazione di complessi solidi che possono alterare il lume delle arterie aumentando il rischio di malattie cardiocircolatorie, infarti, ictus, ecc…; • un’assunzione eccessiva di trans può infine provocare malattie croniche o degenerative. Acidi grassi trans e alimenti d’origine animale Una piccola quantità di acidi grassi trans naturali è normalmente presente nei grassi dei ruminanti, bovini, pecore e capre. Sono prodotti dai batteri del rumine in seguito a reazioni di idrogenazione parziale e/o di isomerizzazione da acidi grassi insaturi contenuti nel mangime animale (bioidrogenazione). Per questo nel grasso contenuto in latte, burro, formaggio e nella carne di questi animali si trovano dal 2% al 9% di acidi grassi trans. In particolare l’acido transvaccinico che si trova nel burro e nei formaggi è un prodotto di transizione verso il noto CLA (acido linoleico coniugato) che non è certamente nocivo e ha proprietà benefiche, anche se spesso
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sovrastimate. Anche nella carne dei ruminanti sono presenti piccole quantità di acidi grassi trans, con una differenza fondamentale. La maggior parte degli acidi grassi trans presenti nel latte e nella carne è costituita da acidi grassi simili a quelli trovati in oli vegetali parzialmente idrogenati ma in proporzioni diverse, e probabilmente la miscela naturale è tale da minimizzare gli effetti negativi della geometria degli acidi trans. Minime e quindi trascurabili sono le quantità di acidi grassi trans nelle carni di animali non ruminanti, quali cavallo, maiale e cinghiali. Negli USA l’assunzione di grassi trans è del 2-4% contro il 12-14% di grassi saturi. Grasso buono del maiale Passata la moda delle margarine vegetali, alcuni nutrizionisti hanno coniato la frase “butter is better”: in altre parole, il burro è meglio della margarina. Allo stesso modo possiamo affermare che il “maiale è ancora meglio”, in quanto il suo grasso è certamente migliore e non dannoso come le margarine vegetali con pericolosi acidi grassi trans. Nei grassi animali non trattati gli acidi trans sono estremamente bassi e per il maiale bisogna aggiungere: 1. nella carne magra di maiale i grassi di struttura delle pareti cellulari sono ricchi di acidi grassi polinsaturi, molto scarsi di acidi grassi saturi e privi di acidi trans; 2. nel maiale, anche nei grassi di deposito (lardo, strutto, ecc…), non vi sono significativi contenuti in acidi trans. Infatti questi grassi derivano da fermentazioni del rumine, che non vi è nel maiale, mentre questo animale ha un’alimentazione ricca di acidi grassi insaturi, vegetali e non trattati, quindi senza acidi trans; 3. nelle preparazioni salumiere, in particolare quelle di cui mena vanto l’industria italiana, non si eseguono trattamenti di saturazione catalitica che possono dare origine agli acidi grassi trans. Gli acidi grassi trans non sono quindi un problema per chi consuma maiale e prodotti salumieri, nei quali sono invece presenti acidi grassi polinsaturi che abbassano il colesterolo. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma
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BELLE BOTTEGHE Un angolo di Roma in cui trovare profumi, bacche e aromi ricercati
L’Emporio delle spezie di Massimiliano Rella
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aprika spagnola affumicata (Pimentón de la Vera), ma anche Sumach turco (sommacco), wasabi in polvere, noci brasiliane, noci di macadamia dall’Australia, noci Pecan dal Nord America, miscele di curry dal mondo, pepe selvatico della giungla del Madagascar e tante tante altre spezie e ingredienti esotici: oltre 300 per intenderci e tutte vendute a peso, al grammo, all’etto, come nelle vecchie drogherie dei nostri cari nonni. Siamo a Roma, nel popolare quartiere di Testaccio, non così lontano dal centro. L’Emporio delle Spezie è un locale piccolo piccolo (neanche 15 m2) ma molto, molto profumato. Appena entri sembra di annusare gli odori di un mercatino di Istanbul, di Tunisi, di Marrakesh, un effluvio di odori che sprigiona da file
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di barattoli che nascondono le pareti (anche il colpo d’occhio vuole la sua parte). Rilevato dieci anni fa da tre soci — FABIO, LAURA e ARIANNA — il negozio a poco a poco si è imposto all’attenzione dei consumatori e non sono quelli privati, curiosi di esplorare nuove strade olfattive tra i fornelli casalinghi, ma soprattutto una clientela qualificata, composta cioè da bartender (che esplorano nuovi cocktail speziati), chef (per piatti sempre nuovi), macellai e norcini (per carni e salumi dagli aromi inaspettati). Incontriamo in un caldo pomeriggio d’autunno uno dei tre titolari, Fabio Gizzi, 50 anni, impegnato anche insieme alla socia Laura nella distribuzione di quotidiani porta a porta (la mattina); il resto della giornata completamente assorbito dal mondo delle bacche,
delle spezie e dei profumi. «È un lavoro cominciato per gioco ma poi abbiamo visto che questo tipo di offerta ha un suo mercato» racconta Gizzi. «Oggi sulla piazza romana e non solo siamo apprezzati per la qualità e la ricercatezza dei prodotti e anche per le consulenze sulle spezie e gli ingredienti in arrivo da mondi lontani». Questo si traduce praticamente in collaborazioni, eventi, manifestazioni gastronomiche. Tra i clienti di Emporio delle Spezie troviamo ad esempio FRANCESCO APREDA, noto chef del ristorante Imago dell’hotel Hassler di Roma, oppure Bottega Liberati o la chef CRISTINA BOWERMANN del ristorante Glass, grande acquirente di sommacco dalla Turchia, una spezia che si usa per le marinature e per dare acidità. Da non dimenticare
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i bartender che per i loro cocktail sono continuamente alla ricerca di aromi e profumi, bacche e infusi. Dietro quest’attività c’è naturalmente un grande lavoro di ricerca e selezione, se non direttamente sui territori, attraverso una rete di fornitori di fiducia, piccoli e grandi, tra aziende erboristiche, importatori europei e italiani, coltivatori diretti (ad esempio, di origano siciliano, di finocchiella viterbese, delle nocciole delle Langhe IGP, del pistacchio di Bronte DOP, ecc…). Oltre alle 300 spezie in barattolo il negozio vende altre 200 referenze in confezione: latte di cocco, pasta di sesamo tahina, melata di bosco, confetture, ma anche uova fresche o Salfiore di Romagna. La clientela, invece, si divide più o meno alla pari tra quella privata e quella professionale. «Ma abbiamo soddisfazione da entrambi» conclude Gizzi. «Ci fa piacere quando i professionisti si affidano a noi e ascoltano i nostri consigli, ma anche il consumatore privato che vuole accrescere la sua cultura gastronomica ci dà molte soddisfazioni». Parliamo anche di prezzi? Questi spaziano dai 4,00 €/hg per le spezie più comuni ai 14,00 €/hg l’etto del pepe selvatico della giungla del Madagascar ai 18,00 €/hg del pepe della Tasmania. Massimiliano Rella Emporio delle Spezie Via Luca della Robbia 20 – 00153 Roma Web: www.emporiodellespezie.it facebook.com/emporio.dellespezie
Nei piccoli locali dell’Emporio di Fabio, Laura e Arianna trovano posto almeno 300 tipologie di spezie in barattolo e 200 referenze in confezione.
Emporium, il primo porto costruito sul Tevere L’Emporium era l’antico porto fluviale della città di Roma, situato approssimativamente tra l’Aventino e il Testaccio (il rione che prende il suo nome dal monte dei cocci formatosi proprio dai rifiuti delle attività commerciali del porto). Dall’inizio del II secolo a.C. lo sviluppo economico e demografico aveva reso del tutto insufficiente il vecchio porto fluviale del Foro Boario, che non poteva essere ampliato causa la vicinanza ai colli. Per questo nel 193 a.C. gli edili (addetti alla cura urbis) Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo decisero di costruire un nuovo porto in una zona libera al confine della città. Il porto fu scavato nel 1868-1870 durante i lavori di riarginatura e, di nuovo, nel 1952. Oggi restano alcuni tratti visibili incassati nel muraglione del Lungotevere Testaccio: una banchina lunga circa 500 metri e profonda 90 con gradinate e rampe verso il fiume, con blocchi di travertino sporgenti per fori dove ormeggiare le navi, simile in tutto a quella del porto romano di Aquileia (che però è meglio conservato). Costruendo il quartiere Testaccio moderno sono riapparsi vari resti di magazzini, tra i quali anche la tomba del console Servio Sulpicio Galba, uno dei più antichi sepolcri individuali pervenutici (fonte: www.wikipedia.org).
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“Ogni maiale sogna in ghiande”
Maialumeria, dove si affinano i salumi e i sensi di Riccardo Lagorio
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rudi e cotti, stagionati o affumicati. Da comprare e portare a casa o da assaggiare sul posto, in abbinamento a olii e formaggi, o in versione gourmet, utilizzati in piatti che mettono insieme tradizione e fantasia. Ecco a voi la Maialumeria. Il suo artefice, SIMONE SCHETTINO, figlio d’arte. Il luogo: Mugnano del Cardinale, tra le province di Napoli e Avellino, ai piedi dei Monti del Partenio. «La brezza e la rigogliosa vegetazione composta da boschi di faggi, querce e castagni, garantiscono un microclima ideale per l’allevamento di suini le cui carni, lavorate ancora oggi con tecniche artigianali, vengono utilizzate per la produzione del salame di Mugnano del Cardinale», spiega Schettino. Il salame di Mugnano del Cardinale gode di grande reputazione in loco per alcune caratteristiche che lo contraddistinguono, come la macinatura della carne, con piastra da 12 mm, e la leggera affumicatura. Buon sangue non mente. La famiglia Schettino inaugura già nel 1905 a Mugnano del Cardinale la prima bottega di prodotti di gastronomia locale. Dopo cinquant’anni Raffaele conquista una clientela sempre più vasta e negli anni Ottanta i suoi figli espandono ancor di più i mercati conquistando fasce di clientela anche all’estero grazie alla produzione e al commercio di salumi di alta gamma lavorati secondo gli insegnamenti e le tecniche artigianali del passato. «È stato naturale per me, facendo parte della terza generazione di norcini, pensare di realizzare qualcosa di nuovo che racchiudesse tutti gli elementi della nostra storia familiare: l’ambiente, il lavoro, la fantasia», con-
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tinua. «Il locale, di cinquecento metri quadrati, nasce proprio dove c’era il primo stabilimento produttivo della mia famiglia e in qualche modo ne prosegue storia e tradizione». Così nel novembre 2017 viene inaugurata Maialumeria, uno spazio pensato per i cultori dei salumi e dintorni, dove si possono acquistare e portare a casa, ma anche farseli servire in taglieri o persino cucinati (!). «Nei taglieri di salumi ci sono quelli di nostra produzione come il salame di Mugnano del Cardinale o il salame Napoli, ma nella nostra lista si possono trovare il Culatello di Zibello DOP, la Coppa piacentina DOP e il Prosciutto crudo di Parma DOP con 24 mesi di stagionatura». Maialumeria è un unico salone dalle forme moderne. Vi convivono cucine a
vista, il lungo bancone salumeria, la zona dedicata agli acquisti e quella di affinamento, la cantina e il ristorante. Nessuno degli ambienti prevale sull’altro, tanto che l’aspetto prevalente risulta l’armonia. La sala di affinamento è a vista, dove i prosciutti sono lasciati stagionare tra pareti di mattoncini di pietra. Si può prenotare il tavolo di legno al centro della sala, divisa dal resto degli ambienti da una parete di cristallo con porte scorrevoli. Mentre il ristorante vero e proprio offre un centinaio di coperti e un menu dove i salumi sono sempre presenti nelle ricette e nei piatti che nascono dall’estro di RAFFAELE VITALE, cuoco già Stella Michelin e appassionato della memoria culinaria campana. «Per chi ricerca il piacere della cucina tradizionale proponiamo i
Maialumeria nasce da un’idea di Simone Schettino e dalla lunga esperienza della sua famiglia nel campo dei salumi, in un territorio vocato alla lavorazione artigianale delle carni: Mugnano del Cardinale, tra le province di Napoli e Avellino.
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Uno spazio pensato per i cultori di salumi e dintorni, che si possono acquistare ma anche farseli servire in taglieri o persino cucinati paccheri al pomodoro del piennolo del Vesuvio o la carbonara realizzata con la nostra pancetta. Mentre i clienti che preferiscono abbinamenti e sapori più decisi possono lasciarsi tentare dalla carbonara con guanciale di suino Nero casertano o da un piatto di tortelli realizzati a mano da noi e farciti con tartufo irpino e ricotta di Bagnoli» racconta Raffaele. È utile invece lasciarsi guidare da Simone Schettino per l’illustrazione dei prodotti presenti nell’area acquisti. «Si possono trovare prodotti campani e non. Dai pomodori San Marzano e Corbarino si passa all’ampio ventaglio di paste, di olii extravergine di oliva come quello di varietà Ravece e aceti». Nell’ampio spazio dedicato ai formaggi si scovano il Provolone del Monaco DOP e il Pecorino Carmasciano, prodotto che è assai caratteristico per la razza da cui proviene il latte, la Laticauda, e l’alimentazione con erbe che risentono della presenza delle fumarole e conferiscono un vago sentore sulfureo al formaggio. In questo ideale percorso c’è spazio per una sala enoica: un lungo tavolo è a disposizione di chi desidera mettere al centro delle proprie attenzioni il vino prima dei salumi. Qui le etichette sono un centinaio, da abbinare ai taglieri di salumi e formaggi. Maialumeria è quindi, a detta dello stesso Schettino, «uno spazio dove fare la spesa o dove sedersi per un aperitivo o una cena. È luogo di incontri gastronomici e occasione per approfondire la conoscenza dei salumi e affinare il palato». Esperienza, viaggio, sapori in questo angolo poco conosciuto d’Italia. Riccardo Lagorio Maialumeria Corso Europa 4 83027 Mugnano del Cardinale (AV) Telefono: 081 8257268 E-mail: mastrangelostreet@gmail.com Web: www.maialumeria.com
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Maialumeria è una boutique gastronomica, salumeria d’eccellenza, bar e wine bar, ristorante e tasting experience; un luogo dove fare la spesa, dove sedersi per un aperitivo, approfondire la conoscenza dei salumi e affinare il palato.
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STREET FOOD
La Polpetteria food truck Un progetto “itinerante” che porta “su strada” esperienze gastronomiche e culturali in un’ottica gourmet di Federica Cornia
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a felicità non è né la virtù né il piacere né questa cosa o quell’altra ma semplicemente crescita, siamo felici quando stiamo crescendo (WILLIAM BUTLER YEATS)… E siamo a #4. 4 anni, almeno 400.000 polpette, 400 eventi, 4 e più mani che le hanno cucinate con amore, 4 e più mani che le hanno assaporate con amore. Grazie a tutti coloro che ci hanno portato ad oggi, amici, amanti, lavoratori, avventori… E grazie alla nonna che anche oggi ci insegna che friggere è ascoltare”.
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Questo è il bel post scritto su Facebook lo scorso settembre da ROBERTA LAMBERTI, titolare del food truck La Polpetteria, in occasione del quarto compleanno della sua attività. Sempre in moto anche quando è ferma, perché in quel caso se mani e gambe si riposano sono le idee che continuano a viaggiare, PREMIATA SALUMERIA ITALIANA l’ha intervistata. 30 settembre 2014: sono passati quattro anni dalla prima polpetta a Eataly Roma e dall’inizio di questa tua avventura su
ruote. Il post pubblicato su FB ci rimanda ancora un grande entusiasmo per il lavoro e l’attività che svolgi. Qual è il bilancio in breve? «L’entusiasmo è uno dei miei ingredienti principali; inevitabilmente a volte ci sono dei cali, ma per fortuna amo talmente tanto quello che faccio che restano momenti. Mi sento molto cresciuta, soprattutto nell’approccio zen alle sventure che sono all’ordine del giorno. Affronto con molta più filosofia i vari inghippi e ho sviluppato una forte tendenza a risolvere tutti i tipi di problemi
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Ti sei sempre occupata e interessata di cibo? «Il cibo mi ha affascinato sin da bambina. Era mia abitudine andare al mercato rionale con mio nonno a fare la spesa e ricordo ancora il sapore dei diversi sacchetti di olive che mangiavo a metà mattina come merenda. Tra quei banchi di frutta, verdura, pesce, c’era ogni cosa e non capivo mai con quale criterio mio nonno scegliesse da un banco una cosa e dall’altro un’altra. Oggi so che fare la spesa è la prima missione di un cuoco e lui me lo ha insegnato: mediamente impiego mezz’ora per scegliere in un mercato quale verdura o altro prodotto comprare. I miei amici mi odiano per questo.
stellate per quale ragione ti sei dedicata alla polpetta? Si legge nel tuo sito che ci sarebbe lo zampino di nonna Tonia… «Dalle stelle allo street, potrà sembrare strano, ma è stato un passaggio molto naturale. Il rispetto delle materie prime, le cotture più particolari: il mio desiderio era sempre quello di poter condividere, fare assaggiare a tutti quello che avevo imparato. Ho pensato quale potesse essere il modo migliore per trasmettere tutta quell’esperienza e renderla alla portata di quante più persone possibili. La risposta è stata street food smart, che per me significa nonna Tonia. Il modo che mia nonna ha sempre utilizzato per farci mangiare ogni cosa era quello di trasformarlo in polpette e da lì ho iniziato a studiare questo prodotto incredibile».
Hai lasciato la Campania per frequentare Alma, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana di Parma diretta fino alla sua scomparsa, lo scorso anno, da Gualtiero Marchesi, a cui sono seguiti diversi anni di esperienza in alcuni ristoranti stellati, come Pappacarbone a Cava de’ Tirreni, Sissi a Merano e Alice Ristorante a Milano. Dopo le maison
Come nasce il progetto La polpetteria? È stato difficile passare dalla teoria alla pratica? «L’idea è nata con mio fratello Dario che nella fase di lancio ha vestito i panni di mastro friggitore e mi ha dato una gran mano, poi è proseguita in semi solitudine. Sono io la titolare e socia unica della società. È stato difficile ma
che si manifestano. Ci sono cose che non rifarei? Forse no».
Produzione artigianale e menu rigorosamente stagionale, sul food truck La polpetteria si trasformano ricette della tradizione italiana in polpette, dalla classica cacio e pepe alla più ricercata ribollita toscana venivo da un grande allenamento, quindi tutto sommato le cose sono andate come dovevano. Devo dire, però, che senza l’aiuto della mia compagna non ce l’avrei mai fatta ad arrivare fin qui. Le preparazioni, la risposta del pubblico… Dubbi ne avevamo molti, ma crollano sempre quando i clienti assaggiano». Qual è il ruolo di nonna Tonia in questa impresa? Lavorate insieme? Decidete insieme il menu? «Nonna Tonia è il cor’ bussiness detta alla napoletana. Lei ci mette il
Il food truck La Polpetteria (photo © Ivan Selloni).
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da subito o è nato in seguito a richieste che avete avuto? «L’aspetto catering è nato insieme al progetto, quello dei corsi di cucina invece da una continua richiesta da parte dei clienti di imparare a creare polpette buone e giuste da riprodurre in casa. Amo fare i corsi di cucina perché mi mettono in contatto diretto coi miei clienti, coi quali si creano vere e proprie sfide a suon di polpette».
Roberta Lamberti con nonna Tonia (photo © Marco Varoli 2017). cuore e ancora mi chiede perché non ho un posto fisso (ahahah!). L’ho dovuta portare con me per farle capire cosa fosse un food truck e lei si è subito messa a suo agio. Litighiamo tutti i giorni sulla cucina, ma mi dà un sacco di ricette da provare, concludendo poi con un “fai come vuoi tu”. Siamo due teste dure». Ci vuoi raccontare un po’ del menù? «La creazione dei menù nasce dalle esperienze, dai viaggi, dai profumi, dagli spunti, dalle emozioni che ci capita di vivere. Ora stiamo costruendo il nostro lab con punto vendita e allora non avremo più segreti. La produzione è totalmente artigianale. E il menù è rigorosamente stagionale. La tendenza è quella di trasformare ricette della tradizione italiana in polpette, dai grandi classici come la cacio e pepe, ai più ricercati come la ribollita toscana. Ce n’è per tutti i gusti». Nelle tue polpette La tradizionale, Le Palle, L’Amatriciana, hai scelto di usare la Fassona piemontese de La Granda. E tra i partners de la Polpetteria leggo che c’è anche Mulino Marino, mulino a pietra biologico di Langa. «Come dicevo la mia formazione di alta cucina mi ha permesso di conoscere diversi produttori e di concepire il cibo
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come un bisogno primario che unisce necessità e piacere. Da subito la scelta di utilizzare prodotti di cui conosco la provenienza o, per lo meno, dei quali conosco il processo di produzione. Senza dubbio questo determinerà un costo più alto, ma il futuro è tornare alle origini, non consumare senza valori ma consumare in modo etico. E se è vero che “siamo quello che mangiamo”, io voglio essere una cosa davvero buona. Peraltro uno dei motivi per cui nasce il progetto è proprio per un discorso contro lo spreco alimentare. Essendo la polpetta storicamente il cibo del riciclo, stiamo cercando di creare una rete che possa recuperare prodotti buoni che andrebbero buttati, come il pane raffermo, per farli diventare gustosissime polpette». La polpetta più richiesta? «Senza dubbio quella di manzo fritta, segue il baccalà mantecato. È una dura lotta». Oltre al servizio col food truck che fai anche per eventi, feste, matrimoni, compleanni o inaugurazioni, organizzi corsi di cucina, team building o show cooking tematici sulle polpette, lo street food e la tradizione gastronomica campana. Questo aspetto era nel progetto
C’è qualcuno che cura l’aspetto visual e la comunicazione de La polpetteria? Foto, sito, logo sono molto carini «Sì, ci sono diverse persone. Il logo è stato creato da alcuni cari amici di Salerno, la Mooi Studio, a mio avviso tra i migliori sul mercato nazionale. Il sito da ALESSANDRA CONGIU, che ho conosciuto tramite Marco Varoli, food photographer di grandi ristoranti. La comunicazione invece è curata dalla mia responsabile sogni IRENE VOLTOLINI, una garanzia a vita di professionalità, bellezza d’animo e bravura». La tua più grande soddisfazione? «Il mio pubblico, l’intervista su MILLIONAIRE (era un sogno adolescenziale) e il supporto delle persone che amo. Il pubblico perché è continuo e costante, ma soprattutto ti sceglie tra tanti». Il movimento, il cambiamento, mi par di capire, anche dai tuoi post sui social, siano fattori importanti per te. Idee e progetti per il futuro ne hai? «Diciamo che il “chi si ferma è perduto” l’ho preso molto seriamente. Ho un sacco di idee per il futuro. Magari iniziamo a mettere qualche radice». Impegnatissima come sei… “hai mangiato, a nonna”? «Uno dei nostri claim non poteva che essere la domanda quotidiana di mia nonna, che ovviamente mi sento fare tutti i giorni. In principio mi arrabbiavo, le dicevo: “ma come è possibile che mi chiedi prima se ho mangiato e poi come sto?”. La sua risposta è sempre stata: “beh, se hai mangiato vuol dire che stai bene”. Volevo rassicurare tutti che mangio… tanto e anche molto bene». Federica Cornia Nota A pag. 82, photo © Marco Varoli 2017.
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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com
Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.
TURISMO ENOGASTRONOMICO
C’è bresaola e brisaola Un salume da assaporare lentamente, una città da scoprire nei suoi angoli più nascosti, una creatività antica che si esalta nell’arte e nell’artigianato locali: la grande bellezza del Dì de la brisaola è servita di Gaia Borghi
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resaola e brisaola: a volte basta una vocale e tutto cambia, o quasi. A partire dal luogo di provenienza, non molto distante per la verità: Valtellina per la prima e Valchiavenna per la seconda, le due grandi vallate che insieme formano la provincia di Sondrio, in Lombardia, unico caso in regione ad
avere un territorio interamente montano. La tradizione e la tecnica di conservare le carni bovine e quelle di selvaggina mediante salagione e essiccamento è quella comune, molto molto antica praticata da secoli in tutto l’arco alpino (la documentazione scritta della produzione di questa carne salada, che con quella tipica del Trentino non ha però
nulla a che spartire, risale al 1400 ma l’origine del salume è probabilmente medievale). Non si tratta quindi dello stesso prodotto chiamato in modo differente? No secondo i produttori di brisaola, che proprio con quella “i” al posto della “e” intendono sottolineare le differenze con la più nota Bresaola della Valtellina IGP, prodotto tutelato dal 1996 da un Con-
La brisaola di Valchiavenna si ottiene da carne di manzo speziata e stagionata secondo le tradizioni locali. Si tratta di un salume poverissimo di grassi e molto ricco di proteine, sali minerali, ferro e un’altissima digeribilità (photo © EC photography).
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sorzio e dall’Identificazione Geografica Protetta della Comunità europea e oggi apprezzatissimo a livello internazionale. Proprio quei produttori che, da sette anni a questa parte, celebrano le brisaole la prima domenica di ottobre nel bellissimo borgo di Chiavenna. Il Dì de la brisaola, infatti, si svolge e sfrutta a tutto vantaggio dei visitatori gli angoli più suggestivi e caratteristici, i cortili e le antiche corti del paese dei “crotti”, anfratti naturali nei quali, attraverso i sorei*, si intrufola una corrente d’aria a temperatura costante che fa sì che vi si possano mettere a maturare il vino, i formaggi e i salumi, a cominciare naturalmente dalla brisaola. «È stata una bellissima edizione, il sole splendeva su Chiavenna e la brisaola è stata la vera protagonista dell’appuntamento, con un numero davvero impressionante di visitatori, provenienti sia dall’Italia che dalla Svizzera» mi raccontano dal Consorzio per la promozione turistica della Valchiavenna, promotore dell’evento insieme ad enti pubblici e operatori privati. Il “dì”, domenica 7 ottobre, quest’anno si è inoltre allungato con un’anteprima nella giornata di sabato. Una vigilia fatta di sport, musica, arte, cultura e naturalmente brisaola, da gustare anche grazie all’iniziativa di alcuni bar del paese che hanno proposto uno speciale aperitivo ad hoc. Domenica, invece, a partire dalle ore 11:00 del mattino, tutta l’attenzione si è spostata sui 18 produttori, 18 abili maestri artigiani che hanno presentato, spiegato, affettato e fatto assaggiare le loro brisaole agli affamati visitatori. Il prossimo appuntamento con questa bellissima festa è fissato per domenica 6 ottobre 2019. Nell’attesa, se volete farvi un’idea di quelle che sono le particolarità del salume e di chi sono “gli uomini e le donne della brisaola”, guardate il bellissimo video a loro dedicato sul sito www.didelabrisaola.it Gaia Borghi Nota * Il sorel, i sorei (dal dialettale “sorà”, ventilare), è uno spiraglio naturale tra le rocce da cui soffia una corrente d’aria che mantiene all’interno dei crotti la temperatura pressoché costante, tra i 4 e gli 8 gradi sopra lo zero, in ogni stagione; per informazioni ulteriori sul territorio: www.valchiavenna.com
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Chiavenna durante il Dì de la brisaola, una festa che sfrutta gli angoli più suggestivi del paese in provincia di Sondrio sui cui sventola la Bandiera arancione del Touring Club Italiano (photo © EC photography).
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La sagra del Gorgonzola Raggiungere in bicicletta da Milano la cittadina che ha dato i natali al famoso erborinato e godersi una festa che da vent’anni lo celebra di Josette Baverez Blanco
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n week-end a Milano a casa di amici si è trasformato in una piacevolissima gita fuori porta in bicicletta, destinazione Gorgonzola. Abbiamo preso la pista ciclabile lungo il Naviglio Martesana, la terza più bella d’Italia, con la possibilità eventuale di rientrare in metropolitana, cosa che abbiamo fatto di notte, senza costi aggiuntivi per la bici. Con quanta facilità si esce dal caos di Milano, partendo dalla stazione centrale, oltrepassando l’autostrada con un comodo sottopassaggio per poi deli-
ziarsi di paesini sempre più pittoreschi man mano che ci si allontana dalla città per immergersi nella tranquillità della natura. Dopo 20 km, un caratteristico ponte in legno coperto ci ha accolti a Gorgonzola. La cittadina è uno snodo tra Prealpi e pianura, tra la vita d’alpeggio delle mandrie e la loro discesa a settembre. Nel suo centro storico il Manzoni ha ambientato, nei Promessi Sposi, il celebre episodio della fuga di Renzo da Milano. Anni fa, avevo avuto l’opportunità di visitare questo antico borgo, offuscato allora dalla fitta nebbia
di novembre, in occasione di una delle più antiche fiere rurali, quella di Santa Caterina, che risale al 1785, ma non avevo mai partecipato alla famosa Sagra dell’oro bianco verde che conoscevo solo di fama e che quest’anno, giunta alla sua XX edizione, si è svolta dal 14 al 16 settembre. Il programma prevedeva l’inaugurazione della festa a Palazzo Pirola alla presenza delle autorità locali con la presentazione della mostra “4 percorsi emotivi” e Satyrigorg, racconto della storia di Gorgonzola attraverso vignette del settimanale Radar
Tutti i ristoranti, le gastronomie, i panifici, le gelaterie di Gorgonzola durante la sagra festeggiano offrendo il formaggio Gorgonzola “in purezza” o come ingrediente di specialità salate e dolci (photo © xfotostudio – stock.adobe.com).
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Gi7 dal 1981 ad oggi. L’affluenza nella giornata del sabato era incredibile. Ci siamo subito recati all’Info Point per comprare il Gorgo-Pass, un buono da utilizzare per acquistare le prelibatezze al gorgonzola cercando di seguire il Gorgo-percorso attraverso gli stand. Abbiamo potuto così assaggiare i crostini ai formaggi, fermarci alla polenteria che offriva polenta alla spina o cucinata nell’enorme paiolo di rame condita al gorgonzola dolce, non resistere di fronte alla lasagneria — pur non avendo più fame, già sazi anche attraverso la sola vista e l’odorato… — ma come rifiutare un piatto di lasagne con gorgonzola? Un posticino, poi, andava risparmiato per il famoso risotto cucinato nella super mega padella che ha reso nota la sagra. Non ci siamo persi neanche il GorgoSpritz, degustazione a base di gorgonzola servito con Aperol Spritz e Prosecco. Siamo quindi passati davanti alla ricchissima panineria ma non ce la facevamo più, pur avendo tutti stomaci di ferro e il necessario recupero di energia dopo la stupenda biciclettata. Siamo allora andati a zonzo tra le bancarelle del mercato dei produttori e degli affinatori dei formaggi erborinati e di altri prodotti enogastronomici. Per questa sagra tutti sono uniti dal bianco-verde, i volontari che gestiscono i banchetti, i ristoratori e i gestori di gastronomie, panifici e persino gelaterie. Si festeggia insieme lo zola da mangiare in versione dolce o piccante, in purezza o come ingrediente. Gorgonzola, la storia A Gorgonzola si trovano tracce di questo erborinato dal XV secolo. La sua nascita sarebbe legata ad un “errore”: un mandriano avrebbe lasciato in un recipiente del latte cagliato. Non avendo strumenti per lavorare il latte, qualche giorno dopo ne mise altro sopra il precedente. Si formarono venature verdi. Si scoprì allora che mescolando la cagliata fredda della sera e quella calda del mattino (il termine esatto è sgrondare) si otteneva un formaggio particolare per i suoi fermenti. Nell’800 si diffuse persino in Gran Bretagna e dal 1996 il Gorgonzola è stato riconosciuto dalla Comunità europea come prodotto DOP. La Denominazione di Origine Protetta “Gorgonzola” è riservata al “formaggio molle, grasso, a pasta cru-
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Risotto con gorgonzola e zucca (photo © annapustynnikova – stock.adobe.com). da, prodotto esclusivamente con latte di vacca intero” nella zona di produzione segnalata dal Disciplinare. Il latte è pastorizzato, inseminato con fermenti lattici e una sospensione di spore di penicillium e lieviti selezionati, addizionato con caglio di vitello. La forma è sottoposta a salatura a secco. Durante la maturazione si sviluppano varietà e ceppi di penicillium caratteristici, determinanti il colore blu-verdastro. Dolce, cremoso, a pasta molle o più saporito, a pasta semidura e friabile più vicino agli erborinati francesi, il Gorgonzola deve stagionare tra i 50 e gli 80 giorni tranne il “riserva” che richiede persino 10/12 mesi. Lo caratterizza l’involucro in foglia di alluminio. Non è mancata qualche diatriba quando, ad esempio, nel 2009, venne prodotto da un’azienda agricola lo Stracchino di gorgonzola (storicamente il primo nome del gorgonzola), un formaggio simile registrato con tanto di marchio DE.CO. a base di latte caprino e vaccino, lavorato a crudo e senza pastorizzazione (vicenda terminata con una vittoria da parte del Consorzio di tutela della DOP nel 2013 anche se la
produzione in cascina del formaggio finito sul banco degli accusati era cessata completamente già nel 2010, NdR). Le cucine lombarda e piemontese lasciano ampio spazio a questo re degli erborinati, in purezza o in abbinamento, assieme al mascarpone e alle noci, al parmigiano o alla fontina. Erborin, in milanese, significa prezzemolo, come la presenza e il colore delle muffe che lo caratterizzano. In francese si dice invece persillé, da persillum, prezzemolo. La sua produzione è oggi passata da artigianale ad industriale e ogni anno si producono 4 milioni di forme, 480.000 quintali di DOP, di cui 130.000 vanno all’estero, essenzialmente Francia e Germania. Sono circa 40 caseifici e 1.000 aziende che si contendono il mercato dello stracchino verde. Il suo consorzio ha sede a Novara dal 1970 e tutta la Provincia di Milano, quella di Como e Pavia può vantarsi di produrre questa delizia. Josette Baverez Blanco Nota Per avere altre informazioni sulla sagra questo è il sito: prolocogorgonzola.it
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Viaggio in Slovacchia, Ungheria, Slovenia – Prima parte
Le antiche radici contadine della nuova Slovacchia Nel Paese dell’Est, entrato nell’Unione Europea nel 2004 e nell’euro nel 2009, l’amore per l’ambiente naturale, ancora intatto, si affianca al notevole sviluppo industriale e commerciale, dando vita ad una nazione moderna ma saldamente ancorata alle proprie tradizioni di Nunzia Manicardi
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n viaggio nei Paesi dell’Europa dell’Est rivela aspetti e novità estremamente interessanti, soprattutto per chi — come me — li avesse già conosciuti in passato, prima di quel fatidico 1989 che, con la caduta del muro di Berlino, sancì la fine irreversibile di un cinquantennio di sovietizzazione. Il dato che stupisce di più è la modernità, elemento qualificante delle tre nazioni meta del nostro reportage di approfondimento: Slovacchia, Ungheria e Slovenia. Modernità che quasi sempre si accompagna a consumismo, con i nuovi straforniti templi ipercommerciali e le tante insegne gigantesche dei frenetici investitori occidentali disseminati su tutti i territori ancora (per fortuna!) sterminati di grano, mais, segale, orzo, avena, girasoli e patate. Fa gola, l’Europa dell’Est Zone sostanzialmente rimaste vergini dal punto di vista naturalistico, confluenze intercontinentali di scambi e merci, intrecci di culture piene di suggestioni anche economiche, gastronomiche e turistiche, tutte ancora da conquistare, da sfruttare, da spremere. Ma questi sono popoli attenti e prudenti, che hanno saputo rapidamente fare tesoro degli errori di chi al benessere materiale generalizzato è arrivato ben prima di loro, e mi riferisco ovviamente a noi occidentali tanto vicini ma anche staccati da loro da decenni di diverso orientamento. Così le urbanizzazioni più avanzate (per altro già impietosamente introdotte dall’edilizia sovietica) si abbinano qui alla difesa e salvaguardia dell’ambiente e l’amore per la natura e le attività anche ricreative ad essa collegate non sembra essere stato sopraffatto dall’inclinazione verso i piaceri artificiali e indotti dall’esterno che hanno stravolto invece il modo di vivere nostro e della nostra gioventù, con danni irreversibili. Le classi dirigenti, a loro volta, fanno buona guardia, nonostante alcuni cedimenti che proprio il progresso materiale inevitabilmente porta con sé. Non mancano infatti, anche da queste parti, le accuse di corruzione, però… quale Stato al mondo ne è esente? Immergersi in queste nazioni, sia pure per poco tempo, è stato per me un bagno salutare di buon senso e fiducia nell’avvenire. Soprattutto quando si
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pensi ai loro PIL che viaggiano intorno al +4/4,5%, alla disoccupazione che raramente supera il 5 o 6%, al tessuto sociale sano, compatto, coeso, al notevole livello di istruzione e preparazione tecnica, alle innovazioni informatiche presenti quasi ovunque, alla disponibilità di parcheggi riscontrabile dappertutto stante il traffico abbastanza intenso ma contenuto così come contenute numericamente sono le popolazioni quasi tutte soltanto autoctone, alla sicurezza sociale pressoché assoluta, sia di giorno che di notte, che ormai per noi è diventata una parola svuotata di significato. E il tutto senza mai essere oppressi da controlli polizieschi, anzi, l’impressione è stata quella di essere sicuri e protetti e, forse proprio per questo, anche liberi. Belle esperienze, che consiglio anche a tutti quei vacanzieri che continuano a prediligere mete esotiche dall’altra parte del mondo invece di voler conoscere quel vicino a noi che, come in questo caso, si dimostra in realtà tanto diverso. Slovacchia: 5 milioni di abitanti con +4% di PIL e disoccupazione al 5% La Slovacchia, fra i tre Paesi da me visitati, è sicuramente quello che ha meno negativamente risentito del passaggio
al consumismo, nonostante abbia adottato l’euro già fin dal 2009 dopo la sua entrata nell’Unione Europea, avvenuta nel 2004. Questo nonostante i consumi interni dei suoi poco più di 5 milioni di abitanti siano in costante ascesa, spinti da un PIL al 3,4% le cui previsioni per il 2010 sono addirittura al 4,6% (mentre la disoccupazione è sotto il 5%). Paese moderno e in crescita, dunque. Ma la Slovacchia è riuscita finora a conservare, anche a livello gastronomico che è quello che in questa sede più ci interessa, le antiche tradizioni contadine e pastorali che la contraddistinguono, sia pure spesso in versioni più moderne per non appesantire la digestione e la dieta così come richiesto dai diversi ritmi e modelli di vita e lavoro del mondo attuale mentre un tempo, invece, questo suo mangiare robusto e un po’ grasso era necessario per sostenere la dura fatica nei campi. I piatti sono attualizzati anche in versione sempre più europea (diffusissima è la pizza!, per altro molto invitante e sostanziosa) sia per le nuove curiosità della popolazione locale che per soddisfare le presenza turistiche esterne. In grande aumento anche la proposta e il consumo di carne.
Dove mangiare Il ristorante tipico slovacco si chiama koliba. Ancora più tradizionali sono i salaš, locali caratteristici delle zone di montagna dove i pastori di un tempo preparavano pasti e vendevano i loro prodotti direttamente al pubblico. Oggi lo fanno ancora, però questi salaš tendono a corrispondere ai nostri agriturismi benché i prezzi, rapportati ai nostri, rimangano ancora davvero molto abbordabili. Con meno di 10 euro potete mangiare e bere a sazietà dappertutto, compresa la zona centrale della capitale Bratislava, anche perché piatti e boccali sono sempre molto abbondanti. E, soprattutto, sarete sicuri di mangiare e bere prodotti genuini, non industriali e non contraffatti. Qualità, quantità e prezzo (per noi) molto basso. Che cosa desiderare di più? Minestre e zuppe Patate, formaggio di pecora, latte e panna acidi, pancetta affumicata fritta o abbrustolita sono gli ingredienti più diffusi e vanno a costituire il piatto nazionale, bryndzové halušky, piccoli gnocchetti di patate serviti abbondantemente conditi col formaggio di pecora spesso mescolato a panna acida o siero di latte (sempre di pecora) e poi ricoperti con la
La kapustnica polievka, zuppa a base di cavolo cappuccio, è il piatto di apertura delle cene della Vigilia (photo © www.amc.info).
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pancetta tagliata a pezzetti. Prendono il nome dalla bryndza, il tipico formaggio di pecora a pasta molle, spalmabile e leggermente piccante che accompagna spesso anche i vari antipasti e costituisce un vero e proprio simbolo della cucina locale. Gnocchetti simili, ma conditi con crauti stufati, si chiamano strapačky. Un altro piatto nazionale, sebbene di originaria tradizione polacca, è composto dai bryndzové pirohy, ravioloni di sfoglia spessa, dalla forma a mezzaluna, ripieni di patate e conditi come i gnocchetti oppure con i funghi (i funghi, data l’abbondanza dei boschi, accompagnano spesso sia le zuppe che i piatti unici, da intendere come i nostri secondi ma più completi e variati per la presenza di diverse verdure e/o patate). Di questi ravioli esiste anche la versione dolce (pirohy s lekvárom), col ripieno di marmellata di prugna o albicocche e ricoperti di noci tritate. Sebbene siano dolci vengono serviti anche come primo piatto. Abbiamo ricordato l’influenza polacca ma, accanto a questa, bisogna citare anche quella austriaca e, soprattutto, ungherese. Con Austria e Ungheria, e con l’attuale Repubblica Ceca con cui dal 1916 al 1992 ha formato quello stato unico che era la Cecoslovacchia, la Slovacchia ha costituito infatti a lungo un unico Impero e la sua piccola, graziosa e vivace capitale Bratislava non di rado ne ha rappresentato nei secoli passati uno degli ultimi baluardi difensivi contro il dilagare dei Turchi. Non deve meravigliare quindi che, pur con le rispettive tipicità, in queste nazioni si trovino piatti simili al punto che si può parlare unitariamente di cucina dell’Est Europeo. Così è anche per quanto riguarda le zuppe (polievka). Di frequente sono servite in pagnotte rotonde abbrustolite scavate all’interno che fungono da scodella come nel caso molto diffuso della cesnaková polievka, saporita e densa zuppa di aglio resa ancor più appetitosa dal formaggio fuso. Se non c’è la pagnotta si abbinano ai crostini, per lo più tagliati a quadrotti. Io ho gustato anche la fazu ová polievka, zuppa di fagioli servita a sua volta nella pagnotta, e la hovädzia polievka, zuppa di manzo con verdure e bocconi di carne, ma purtroppo non ho avuto modo di assaggiare la kapustnica polievka, a base di cavolo cappuccio di
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I bryndzové halušky sono gnocchetti di patate conditi con il bryndza, formaggio di pecora tipico slovacco, e pancetta croccante. Si preparano con patate, farina, sale. A volte si accompagnano a un bicchiere di latte acido oppure vengono serviti con lo žinčica, bevanda tipica fermentata (photo © weyo – stock.adobe.com). solito tagliato a fette sottili e fermentato in salamoia (kapusta, il cavolo, è un altro ingrediente molto presente nella cucina slovacca) e salsicce. La kapustnica polievka è anche il tipico piatto di apertura della cena della Vigilia di Natale (gli Slovacchi sono slavi ma il 70% della popolazione è di religione cattolica di rito romano a cui si aggiunge un altro 4% di cattolici di rito bizantino). In tal caso viene arricchita con carne di maiale affumicata, funghi porcini e vari aromi. I legumi sono molto diffusi ed entrano a buon diritto in queste zuppe davvero gustose che gli Slovacchi mostrano di gradire molto ancora oggi come primo piatto o anche, nelle versioni più sostanziose, come piatto unico. Oltre ai fagioli predominano le lenticchie, come nella šošovicová polievka. Non si possono dimenticate neppure la gulášová polievka (zuppa di guláš), la hubová polievka (ai funghi), la kuracia polievka (brodo di pollo) in genere con pezzi di carne e rezance (tagliatelle). Quando, come in quest’ultimo caso, la zuppa è molto liquida, si può utilizzare il termine vývar (brodo) al posto di polievka.
Piatti di carne Il piatto unico, che tale sostanzialmente rimane anche se è preceduto da una zuppa leggera, è per lo più a base di carne. Predomina il maiale, di cui va ricordato il Sviečková na smotane, lombo arrosto con salsa alla panna e senape. Molto diffusi anche il pollo e il manzo. In genere la carne, come nelle nazioni circostanti, viene tipicamente cucinata a cotoletta (rezeň, e in tal caso è anche di tacchino) e accompagnata dalle immancabili patate: al forno, fritte, lesse o in purè sono sempre ottime. Oche e anatre (husacie e kačacie) si trovano soprattutto nelle zone rurali e, in autunno, la loro degustazione dà vita a sagre molto frequentate dove gli arrosti di questi volatili vengono consumati in gran quantità. Tra i prodotti tradizionali slovacchi un posto d’onore è riservato anche al fegato d’oca (Husacia pečienka), sia intero che in forma di patè. Numerose sagre sono dedicate alla macellazione del maiale fatta nei villaggi. Le specialità della macellazione rientrano spesso nei menù di molti ristoranti anche di città, specialmente
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con le salsicce affumicate e molto speziate. Cervo, daino e cinghiale, provenienti dai fitti boschi che ancora ricoprono gran parte del territorio, sono invece specialità stagionali, anch’esse molto apprezzate. Pure in Slovacchia si trova il guláš, lo spezzatino stufato di manzo di origine turca ma ormai legato indissolubilmente alla cucina ungherese. Di solito viene servito con abbondante sugo e fette rotonde di knedľa, impasti di pane (raffermo) con aggiunta di uova e latte e talvolta con altri ingredienti (prezzemolo, pancetta o formaggio), cotti in acqua salata e corrispondenti ai canederli trentini e altoatesini che partecipano delle medesime radici storiche e culturali. Esiste anche la variante segedínsky guláš, con carne di pollo e crauti. Piatti di pesce In Slovacchia, terra priva di sbocchi al mare, ci sono parecchi laghi e laghetti, sia naturali che artificiali, e numerosi fiumi tra cui il Danubio che attraversa Bratislava e costituisce anche la principale via navigabile del Paese. I piatti di pesce contemplano soprattutto la carpa (che fa anch’essa parte delle tradizioni gastronomiche della Vigilia),
la trota (pstruh na rasci a zemiaky, trota al cumino cotta al forno con patate), il luccio, il lucioperca e il pesce gatto. Contorni Il contorno principale, come si sarà capito, è costituito dalle patate. Esse sono proposte anche in insalata con maionese o panna acida. Nei contorni finiscono pure crauti, rape rosse, cavoli, lattuga, spinaci, carote, cipolle e, curiosamente, riso in bianco disposto a palla nel piatto. È un prodotto d’importazione, ma in Slovacchia ha trovato ampi consensi tanto da essere proposto e consumato quasi ovunque. Formaggi I formaggi sono di pecora, come già detto. Sono la ricchezza e la caratteristica gastronomica soprattutto delle zone di montagna (in particolare di Liptov, nella regione nord-occidentale di Žilina). Sia freschi che affumicati, oltre all’immancabile bryndza, sono venduti dappertutto e, in qualche modo, riescono sempre a finire nel vostro piatto. Alla fine potrebbero anche stancarvi, ma occasioni di mangiarli ancora ne avrete poche, fuori dalla Slovacchia, perciò è meglio che ne approfittiate. La scelta,
almeno delle forme e sagome, è molto ampia. C’è l’oštiepok, una pagnottella affumicata e piuttosto consistente ricavata da un’apposita forma rotonda di legno che una volta era intagliato a mano; la parenica, un formaggio giovane semi morbido e di gusto delicato, che viene cotto al vapore e ha la forma caratteristica di un nastro elicoidale arrotolato come una bobina; i korbáčiky, “piccole fruste” di formaggio lavorato in fili consistenti lunghi e sottili (come spaghetti) che poi vengono intrecciati; è tipico della regione di Orava e può essere sia al naturale che affumicato. Dal latte vaccino, che si beve sia fresco che acido, si ottiene la ricotta. Il pane Con le meravigliose coltivazioni cerealicole che coprono il territorio a vista d’occhio potete a buon diritto aspettarvi un pane come quello che da noi, purtroppo, è diventato ormai soltanto un ricordo. Viene prodotto con diverse farine: frumento, segale, orzo, mais e avena, talvolta anche in combinazione con quella di frumento che è la più diffusa. Spesso vengono aggiunti semi di cumino, di sesamo, di papavero o di zucca, sia nell’impasto
La Slovacchia è una delle patrie di origine del vino, soprattutto nei territori intorno a Bratislava e nei limitrofi Piccoli Carpazi, sempre nella parte sud-occidentale del Paese. Qui è stata da poco creata, sia per i visitatori stranieri che per gli stessi turisti slovacchi, la Strada del Vino dei Piccoli Carpazi (Malokarpatská vínna cesta) che si snoda attraverso le città e cittadine dai privilegi reali di Bratislava, Svätý Jur, Pezinok e Modra e, attraverso i villaggi contigui, finisce a Trnava. Questo percorso, oltre a favorire la conoscenza di tanti monumenti culturali e storici e a fornire occasione di vari intrattenimenti folcloristici, consente piacevoli degustazioni nelle numerose cantine dove è anche possibile mangiare i piatti tradizionali mentre si ascolta musica slovacca dal vivo. In Slovacchia, fin dall’epoca della dominazione dei Romani (III secolo a.C) e in seguito con gli Slavi, si producono vini di alta qualità. Nella parte sud-occidentale si hanno bianchi di varietà come Rheinriesling, Welschriesling, Gruner Veltliner, Traminer, Silvaner e Müller-Thurgau e rossi come Frankovka di Rača (un Cabernet franc). In quella orientale, nella parte di territorio al confine con l’Ungheria (regione di Košice), comincia invece la zona del Tokaj, vino bianco liquoroso e moderatamente dolce, per il quale è stato creato un altro apposito percorso, la Strada del Vino Tokaj (Tokajská vínna cesta; in foto una cantina). I vigneti slovacchi di Tokaj occupano un’area coltivata di circa 565 ettari (su 7 comuni) che costituisce solo una frazione della più vasta area di 5.500 ettari che si dispiega nell’Ungheria nord-orientale. È la più piccola regione vinicola del mondo. Per il riconoscimento della denominazione d’origine i vinificatori slovacchi si attengono ai protocolli di produzione e di qualità fissati dagli ungheresi. Anche la denominazione Tokaj è stata concordata con questi ultimi nel 2004 in occasione dell’ingresso dei due paesi nell’Unione Europea, dopo una disputa durata quasi cinque decenni (dal 1958). L’ingresso in UE ha portato anche al riconoscimento della Denominazione di Origine Protetta (Dop). Purtroppo per noi, il vitigno paragonabile al Tokaj e coltivato in Friuli ha a sua volta perso definitivamente il diritto nel 2008 di chiamarsi Tocai (e neppure è stato consentito Tocai friulano) per cui, di conseguenza, ha preso da allora il nome di Friulano.
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ultimata lo zucchero, che nel frattempo si sarà sciolto, avrà formato una crosta croccante e dal piacevole colore dorato. Il dolce viene poi spolverato di zucchero a velo e di un trito di noci, mandorle o mandorle di albicocca. Il trdelník, secondo la ricetta di Skalica (ecco perché il suo nome completo), è stato il primo dei non numerosi prodotti slovacchi a ottenere l’indicazione geografica IGP dalla Commissione europea ed è molto diffuso in ogni città o in occasione di fiere e mercati. Dappertutto troverete poi la palacinka, la crêpe comune a tutta l’Europa centrale, con ripieni di marmellata o ricotta, coperta di zucchero, noci tritate, cioccolato fondente e, per finire, panna montata.
Lo skalický trdelník è stato il primo prodotto slovacco ad ottenere l’Igp (photo © www.trover.com). che sulla superficie in modo da formare, in quest’ultimo caso, graziosi elementi decorativi di derivazione tradizionale. Forme e ricette cambiano, anche in questo caso, da zona a zona, originando moltissime varietà che però sono riconducibili sostanzialmente a due grandi famiglie: pane bianco e pane nero, e a due grandi tipologie: chlieb (pagnotte grandi) e pečivo (forme più piccole). In quest’ultimo raggruppamento si trovano anche i rožky (o rohlíky), simili a piccolissime baguette leggermente curve molto popolari ed economiche tant’è vero che la loro produzione copre circa la metà dell’intera produzione nazionale. Si trovano anche la bageta (baguette), di varie tipologie e consistenze incluso il tipo francese, e la ciabatta, che prende il nome dal tipico pane italiano. Dolci I dolci tradizionali sono di tipo casalingo e prevedono l’utilizzo degli ingredienti più naturali tipici del territorio: frutta, anche in marmellata, e poi noci, ricotta, semi di papavero. Si tratta per lo più di ciambelle (bábovka, arricchita nell’impasto anche con cioccolato) o focaccine di pasta lievitata (buchty), riempite di
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prugne o albicocche o relative marmellate e ricoperte di zucchero e semi di papavero. Il ripieno può prevedere, come già detto, anche la ricotta e le noci. Molto popolare, come del resto in tutta l’area centro-est europea, è lo strudel, in particolare nelle versioni alle mele (jablková štrúdľa), alla ricotta (tvarohové štrúdľa), alle noci (orechová štrúdľa) o ai semi di papavero (maková štrúdľa). Sono presenti anche gli Šúľance s makom, gnocchetti zuccherati con crema di semi di papavero e burro fuso, e le knedle, palline zuccherate di pasta e ripiene di prugne (slivkové knedle) o ricotta (tvarohové knedle). Originario della regione di Záhorie è un dolce davvero tipico che viene venduto anche per strada, in appositi stand attrezzati. Si tratta dello skalický trdelník, una specie di grande cannolo ottenuto avvolgendo un lungo filoncino di pasta dolce cruda intorno a un bastone metallico (trdlo, che un tempo era di legno, da cui il nome). Dopo averlo abbondantemente cosparso di zucchero e cannella, viene messo a cuocere su di uno speciale fornello posto sopra le braci con un meccanismo che lo fa ruotare in modo uniforme. A cottura
Mangiare per strada Le patate slovacche servono anche per preparare piatti che oggi costituiscono una grande attrattiva fra i sempre più numerosi turisti, in quanto sono perfetti come street food. Abbiamo le zemiakové placky (frittelle di patate) e le lokše (frittelle di patate sottili e cotte su piastra o in padella senza grassi) che accompagnano piatti di carne e possono anche essere ripiene di fegato d’oca o anatra ma che, in versione “cibo da strada”, prediligono la versione dolce, farcite come al solito di marmellate di frutta o di un impasto di ricotta e/o noci e ricoperte di zucchero a velo o di semi di papavero. Di origine ungherese ma molto diffusa in Slovacchia è la lángos, una specie di focaccia (con farina, acqua, lievito, sale e, a piacere, latte o panna acida) fritta e condita con formaggio e/o aglio (spremuto nell’olio di girasole, viene spennellato sulla focaccia a fine cottura). Altri tipici street food sono i vari tipi di salsicce e la cigánska pečienka, un panino molto saporito imbottito con carne di coppa di maiale e spezie. È popolare tanto quanto l’hamburger in altre nazioni. In un modo o nell’altro, comunque, non scorderete la Slovacchia… Terra piccola ma consistente, che vale davvero la pena di conoscere. Nunzia Manicardi Nota Alle pagine 90-91, il castello di Trenčín nella regione di Považie (photo © palino666 – stock.adobe.com).
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IL GUSTO DI CAMMINARE La Via degli Dei. Da Piazza Maggiore a Piazza del Duomo
Sull’Olimpo tosco-emiliano di Elena Simonini
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a Via degli Dei è un antico e magnifico sentiero che sin dall’epoca etrusca e romana, e successivamente durante tutto il Medioevo, collegava le città di Bologna e Firenze. Si tratta di un cammino che si sviluppa quindi sull’Appennino tosco-emiliano e la cui denominazione, con riferimento alle divinità pagane, trae origine dai monti e dalle località che si attraversano lungo il percorso: Monte Adone, Monzuno (Mons Iovis), Monte Venere e Monte Luario. Ha un nome così evocativo e poetico, la Via degli Dei, che viene subito voglia di allacciarsi le scarpe da trekking, infilarsi lo zaino, e partire all’avventura e alla scoperta dell’Olimpo tosco-emiliano! Questo sentiero, ormai da diversi anni ben ricostituito e tracciato, consiste in un cammino di circa centoventi chilometri e presenta, com’è ovvio, alcuni importanti dislivelli, i quali sono tuttavia facilmente affrontabili con un minimo di allenamento. Lo si può percorrere in cinque o più tappe, e il mio consiglio è di partire da Bologna, muovendosi quindi da nord a sud, dandosi come inizio del viaggio proprio il centro della città felsinea, Piazza Maggiore. Prima di abbandonare la civiltà e restare così immersi, per alcuni giorni, nel totale isolamento e nel silenzio dei boschi, suggerisco di godervi una breve passeggiata nelle viuzze del Quadrilatero, che sono proprio adiacenti a Piazza Maggiore. Questa zona — stretta tra Via delle Pescherie Vecchie, Via degli Orefici, Via Clavature e Via Drapperie — è un’area di antica tradizione artigianale, mercantile e commerciale, che ha avuto grande sviluppo nel Medioevo, e dalla quale probabilmente partivano con le loro merci molti dei i viandanti che, dirigendosi a Firenze per affari, avranno certamente percorso la stessa Via degli Dei sulla quale vi state per incamminare. A tutt’oggi il Quadrilatero mantiene praticamente intatta la sua vocazione, con le macellerie, le salumerie, i banchi di frutta e verdura, i panifici, le gastronomie tipiche e le vecchie botteghe. E voi non potrete certamente lasciarvi sfuggire l’occasione di addentrarvi per una breve visita tra queste strette vie, traboccanti di profumi, e magari anche di infilarvi in
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Pane e salame toscano, snack sull’Appennino tosco-emiliano In vetta al Monte Adone, a 654 metri sul livello del mare, si può gustare in santa pace un buon panino col salame toscano. Tipico della tradizione salumiera regionale, conosciuto e apprezzato in tutta Italia, questo insaccato dal gusto delicato e saporito si ottiene dalla lavorazione di alcune parti del maiale: in particolare la parte magra viene ricavata dalle cosce e dalle spalle, mentre la parte grassa si ottiene lavorando la schiena del maiale. Il magro è tagliato e tritato, lasciato riposare per circa 3 giorni a 0 gradi, e successivamente unito ai cubetti di lardo ricavati dalla schiena; in seguito vengono insaporiti con sale, pepe e aromi naturali. Si procede quindi con l’assemblaggio e l’insacco nella budella, rigorosamente naturale. La stagionatura del salame toscano avviene in appositi locali, con una temperatura che varia tra i 10 e i 12 gradi, e dura circa 5 mesi (photo © eatuscany.it). >> Link: www.prodottitipicidellatoscana.it
Ultima tappa: a Firenze col Lampredotto di Lorenzo Nigro «Ci sono dei piatti, degli ingredienti che ci riportano all’infanzia, che significano casa, che non sono da ristorante stellato ma sono più buoni di ostriche e caviale. Per me mangiare, preparare del cibo, è innanzitutto un atto d’amore, vuol dire cura, attenzione, in qualche caso ricordo»: queste sono le parole di Lorenzo Nigro, terza generazione di artigiani fiorentini che lavorano il quinto quarto. I nonni Luigi e Mara iniziarono il mestiere nel secolo scorso, lavorando la trippa e le frattaglie e proponendo in bottega il panino col lampredotto, il vero cibo di strada fiorentino. Oggi il lampredotto si può gustare al Mercato Centrale di Firenze e nei pressi del food truck che Lorenzo conduce in giro per l’Italia (photo © instagram.com/ditta_eredi_nigro). >> Link: www.dittaeredinigro.it
La Via degli Dei, percorso ideato alla fine degli anni ‘80 del ‘900 da un gruppo di escursionisti bolognesi, è una delle principali attrattive turistiche dell’Appennino (photo © lavoltache.com).
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un qualche negozio per farvi preparare la famosa rosetta (piccolo panino tipico) con la mortadella, con cui rifocillarvi poi degnamente dalle fatiche del cammino, durante la prima trappa. Una volta lasciata la città, con i suoi ritmi caotici e frenetici, affonderete ben presto nella dimensione semplice, genuina e intima della collina bolognese, con l’odore dei caminetti accessi, il lavoro lento e silenzioso nei campi, e, in lontananza, l’eco dell’abbaiare dei cani. Se poi avrete l’opportunità di partire in autunno, potrete godere della stupefacente meraviglia dei colori dei vigneti di Pignoletto, i quali si stendono dolcemente sui colli, infiammandoli di rosso e di giallo e mettendo così in scena, soprattutto al tramonto, uno spettacolo davvero unico. Ma il cammino, si sa, non è solo contemplazione, anzi, è anche fatica, volontà e determinazione. E così il Monte Adone, che si erge immenso a dominare sulle valli dei fiumi Savena e Setta, è la prima vera e grande sfida per chi decide di percorrere la Via degli Dei.
Il dislivello per la salita al monte è piuttosto impegnativo ma, una volta arrivati alla cima, il panorama, il silenzio e la prospettiva che si possono godere da lassù vi ripagheranno da tutte le difficoltà dell’impresa. Dalla vetta del Monte Adone, infatti, potrete percepire una sensazione quasi di estasi, simile al Sublime di cui parlavano gli scrittori e gli artisti del Romanticismo, che è quando, oltre alla bellezza e alla vastità della natura, si distingue nettamente anche la sua dimensione di immensa potenza e di grande pericolo. Insomma, dopo la scalata al Monte Adone, anche se si tratta soltanto della prima parte della Via degli Dei, e anche se non sarà tutta soltanto discesa il cammino che vi rimane da percorrere (tanto più che, com’è noto ai viandanti, la discesa, quando si hanno molti chilometri sui piedi, non è mai meno faticosa della salita), vi sentirete ormai già proiettati e diretti alla meta, verso la Toscana. E così vi accorgerete ben presto, prima di quanto vi aspettiate, di aver superato i confini regionali e, avvolti dai profumi tipici e inconfondibili di ribollite
e di carni alla griglia, di essere diretti verso Firenze. Intorno al mezzogiorno dell’ultimo giorno di cammino, all’improvviso, da dietro un’ampia collina, vedrete spuntare, anche se ancora molto in lontananza, il famoso cupolone del Duomo e il campanile di Giotto, e vi emozionerete a riconoscere i profili di queste che sono tra le bellezze più famose al mondo. Infine, come al termine di ogni cammino, si mescoleranno la stanchezza e l’orgoglio di aver percorso questa lunga Via degli Dei con la sola forza delle vostre gambe, avendo superato confini che non sono solo territoriali, ma anche personali e interiori. E, non appena arrivati, vi sentirete già pronti per ripartire al più presto verso mille e mille avventure. Elena Simonini >> Link: www.viadeglidei.it Nota Alle pagine 96-97 il Monte Adone lungo la Via degli Dei (photo © David Pellicola —stock.adobe.com).
SONO 180 GRAMMI, LASCIO? Il piacere, a volte, è nell’attesa
The Waiting Room, Tindersticks di Giovanni Papalato
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ono un provinciale e amo, della mia provincia, l’essere insieme e l’eterogeneità, l’Appennino e la bassa, in mezzo la mia città, Modena. E se in collina e in montagna si uniscono alle nostre ricette quelle toscane, “più giù” ci mescoliamo a Ferrara e Mantova. Lo stracotto d’asino è tipico proprio della tradizione mantovana e io prediligo mangiarlo in un ristorante perso tra curve e colline nel Frignano. Sì, perché è bello cercare, a volte trovare, sorprendersi. Non credete? Dobbiamo considerare che la carne di questo animale ha due particolarità: il colore molto scuro e il sapore deciso. Se non viene marinata a dovere, può risultare dura e con un gusto troppo forte. In realtà, cucinarla non è affatto difficile, semplicemente ci vuole molto tempo. Bisogna attendere. The Waiting Room, letteralmente “la sala d’attesa”, l’album di TINDERSTICKS di cui vado a raccontarvi, ha in copertina un uomo il cui capo è quello di un asino, seduto ad un tavolo, appunto in attesa. Britannici, in attività dal 1992 e con una serie di dischi imprescindibili per chi ama la musica pop, spesso considerati troppo sofisticati e per questo destinati ad una carriera lontana da grandi numeri in ambito di pubblico e fama, Tindersticks non hanno mai realizzato un album mediocre, né hanno mai fatto scelte opportunistiche. Soprattutto, essi possono rivendicare un suono caratteristico e identificativo e, tuttavia, modificarne la formula nel tempo, in modo che ciascuno dei loro dischi possieda il proprio carattere distinto. Romantico, rarefatto, elegante e soprattutto cinematografico. Sì, perché oltre ad esserlo chiaramente nelle suggestioni e nell’immaginario creato dalle canzoni,questo lavoro è legato a The Waiting Room Film Project, un progetto nato in collaborazione col
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Clermont-Ferrand International Short Film Festival (della cui sezione sperimentale il leader STUART STAPLES nel 2012 presiedette la giuria), che lega un cortometraggio a ogni brano del disco, tutti contenuti in un DVD allegato alla deluxe edition dell’album. In The Waiting Room la musica di Tindersticks porta con sé un conflitto: da una parte è strettamente controllata, ma si spinge spesso verso un punto di tensione e vulnerabilità che sembra possa andare in pezzi in qualsiasi momento. In questo
senso la voce di Staples comunica un senso di tecnica attentamente amministrata, più volte portata a un punto di criticità sinonimo di instabilità e fragilità. Così, accanto alle tinte drammatiche e ricche di pathos, le canzoni si rivelano anche enigmatiche e giocose. Questo è il fascino peculiare di Tindersticks: non svelare completamente, non dire tutto. Il disco si apre con uno strumentale, una cover di BRONISLAU K APER, Follow Me, tratta dalla soundtrack del film Gli ammutinati del Bounty, e proprio
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Nota Photo © Lucio Pellacani.
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BEVI RESPONSABILMENTE
www.enzopancaldi.it - ph: Carlo Guttadauro, Archivio www.lambrusco.net
come dopo un naufragio, la terra che tocchiamo ha la melodia e le parole di Second Chance Man. Al ritmo del basso e seguendo le tracce di un hammond tra gli echi di Where we once lovers?, in un crescendo circolare e morboso arriviamo ad uno dei brani più emblematici del disco. Help Yourself si muove tra aperture afro-beat, percussioni e fiati, un crogiolo di differenze armonizzate in una danza densa ma scevra di qualsiasi zavorra. Sensuale e commovente il primo dei duetti presenti, quella Hey Lucinda in cui Staples canta ancora una volta con LLHASA DE SELA, cantautrice americana spesso vicina al gruppo inglese e prematuramente scomparsa nel 2010. Proprio a quell’anno risale la registrazione originale, non ritenuta buona da Staples per quanto riguardava la propria interpretazione e, quindi, accantonata. Riprenderla e lavorarvi dopo tanto tempo ha portato con sé un bagaglio emotivo importante che arriva ed eleva. Un altro strumentale è This Fear Of Emptiness, simile al primo per gli strumenti utilizzati, ma di tutt’altra atmosfera, crepuscolare e antica. La ballata How He Entered precede il dolore assoluto raccontato dal brano che dà il nome al disco. Planting Holes, terzo ed ultimo brano senza liriche, come un nostalgico carillon, anticipa un altro dei brani fondanti del disco, We Are Dreamers! È tutto sulle due voci, Stuart Staples e JENNY BETH delle Savages, la musica è chitarre distorte e remote in assenza di una melodia strutturata. Quando arriviamo alla conclusiva Like Only Lovers Can ci troviamo cullati, come ballando un lento alla fine di qualcosa, con un po’ di nostalgia per ciò che non c’è più ma sorridendo perché c’è stato e, forse, tornerà. Tindersticks ci consegnano così con The Waiting Room un album di rara bellezza, in cui le tensioni tra le sincere esplorazioni dell’amore nelle sue manifestazioni di sofferenza e consolazione e l’autoironia, tra i diversi registri di trattenuta e liberazione estetica, continuano a rendere le canzoni piene di un’energia intellettuale oltre che di un’intensità disarmante. Giovanni Papalato
FIERE
SIAL Parigi, international food business in salsa francese di Gaia Borghi
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ono stati più di 310.000 i professionisti del settore agroalimentare che hanno varcato, dal 21 al 25 ottobre scorso, i cancelli del polo fieristico di Paris Nord Villepinte, con un 73% dei visitatori proveniente da oltre 200 Paesi. Ad attenderli c’erano 7.200 espositori arrivati da 119 nazioni, 135 delegazioni ufficiali, 650 start-up e 2.355 innovazioni selezionate dal SIAL Innovation Awards. Lanciato per la prima volta nel 1964 a Paris La Défense nell’ambito del
CNIT (Centre des Nouvelles Industries et Technologies), nel corso degli anni il Salone Internazionale dell’Alimentazione è diventato un punto di riferimento imprescindibile per tutti coloro che sono coinvolti nel settore alimentare, retail e hospitality: produzione, commercio, vendita al dettaglio, HO.RE.CA., catering e servizi. Una vetrina unica, che offre grandi opportunità per le imprese e il loro sviluppo su scala globale. «Il SIAL è oggi, senza tema di smentita, il laboratorio globale più importante per
l’innovazione alimentare in tutte le sue componenti» ha dichiarato in apertura della fiera NICOLAS TRENTESAUX, direttore generale del Network SIAL. «Anche quest’anno siamo riusciti ad alzare ulteriormente l’asticella “qualitativa” della nostra proposta, per offrire a tutti i professionisti del settore un appuntamento davvero “effervescente” — siamo pur sempre nella patria dello Champagne —, ovunque e in ogni momento. Si pensi soltanto che sono stati presentati oltre 400.000 prodotti su di una superficie
SIAL Paris, svoltosi dal 21 al 25 ottobre nei padiglioni della fiera Paris Nord Villepinte, è un appuntamento biennale divenuto luogo d’incontro obbligato per tutti gli operatori dell’industria agroalimentare, in cui si presenta “l’alimentazione di oggi e si scopre, o, ancora meglio, si inventa, quella di domani”. Già disponibili le date del 2020: dal 18 al 22 di ottobre (photo © SIAL Paris).
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equivalente a circa 100 supermercati messi uno a fianco all’altro: questo sì che è uno spettacolo». Ed è davvero stimolante immergersi letteralmente per cinque lunghe e intense giornate nell’universo food inteso nella sua dimensione di business concreto e ricco di opportunità, per lasciarsi contaminare dalle idee, sorprendere dalle nuove tendenze, venire a conoscenza di prodotti innovativi o di innovative modalità di presentazione, packaging, comunicazione. Farsi ispirare, incontrare una clientela mondiale, discutere del futuro e dei cambiamenti che ci attendono sia come singoli individui che nella nostra veste professionale. «Le aspettative dei consumatori in termini di salubrità, autenticità, trasparenza e bontà del cibo non sono mai state così forti; le responsabilità del settore continuano a crescere e, per dirla tutta, avremo 100 milioni di persone in più ogni anni da sfamare entro il 2050. Ecco perché il messaggio che emerge dal SIAL 2018 si può riassumere in un unico imperativo: innovare!» ha commentato ancora Nicolas Trentesaux. Aumento della popolazione su scala globale, quindi, e un crescente fabbisogno alimentare. Non bastasse, secondo una recente ricerca della Harvard School of Public Health pubblicata su NATURE CLIMATE CHANGE, entro il 2050 oltre un miliardo di persone nel mondo avrà carenze nutrizionali gravi per gli effetti sulle piante dei cambiamenti climatici e della maggiore anidride carbonica in atmosfera. La tecnologia in termini di innovazione, sostenibilità e riduzione degli sprechi sarà un alleato fondamentale dell’industria alimentare per affrontare queste e altre sfide. «Il futuro è impossibile da prevedere ma come SIAL Network il nostro compito è quello di provare almeno ad anticiparlo e, immersi in una miriade di continui cambiamenti, offrire ai nostri visitatori risposte concrete, reali» conclude Trentesaux. «Lo abbiamo fatto quest’anno e siamo già al lavoro per la prossima edizione: appuntamento dal 18 al 22 ottobre 2020, per riprendere da dove avevamo lasciato e contribuire a costruire, insieme, il futuro del nostro Pianeta food». Gaia Borghi >> Link: www.sialparis.com
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In alto: Nicolas Trentesaux, direttore generale del Network SIAL. In basso: quest’anno erano 2.355 le referenze selezionate dal SIAL Innovation Awards, il premio internazionale dedicato ai prodotti più innovativi del Food & Beverage (photo © SIAL Paris).
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1) Augusto Cremonini, general manager di Inalca Food & Beverage, e Gianluca Mattioli. IF&B, società specializzata nella distribuzione internazionale di prodotti alimentari tipici del made in Italy, ha recentemente inaugurato la nuova sede di New York, presentando per il mercato americano alcune tra le più importanti e caratteristiche specialità del patrimonio enogastronomico italiano, come l’aceto balsamico e l’olio d’oliva. «Con IF&B — ci spiega Augusto Cremonini— mettiamo a frutto il know-how accumulato da Inalca in anni di esperienza internazionale nel mondo della carne, utilizzando la rete distributiva e le relazioni globali per distribuire in maniera efficiente prodotti del made in Italy all’estero». 2) Claudio Stefani Giusti, AD dell’omonima acetaia modenese di famiglia. Acetaia Giusti è sinonimo di una lunga storia fatta di passione, conoscenza e dedizione al lavoro che si è tramandata di generazione in generazione dal 1605, dando vita a prodotti meravigliosi come l’aceto balsamico di Modena Igp e l’aceto balsamico tradizionale di Modena Dop. 3) Francesco Giostra e Gennaro Turano di ILCAR, Turano Group, al SIAL con la ’nduja e i “Calabreselli”, prodotto presentato a Tuttofood 2017 che sta riscuotendo già molto successo. Realizzati con sola carne italiana, al naturale, senza conservanti, i Calabreselli sono senza pelle, un unicum nella salumeria calabrese. 4) Lorenzo Levoni e alcuni collaboratori della Alcar Uno di Castelnuovo Rangone (MO). 5) Il CSBSystem è la soluzione completa per i settori alimenti, bevande, chimica, farmaceutica, cosmesi, commercio e logistica. 6) Il Salumificio San Vincenzo di Spezzano Piccolo (CS) porta a Parigi i salumi più tipici della terra di Calabria. 104
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1) Il prosciutto di Bayonne, dal 1999 tutelato dall’Indicazione Geografica Protetta. Dopo una prima fase di asciugatura, il prosciutto è ricoperto con un “pannage“, una miscela di farina e grasso, per poi subire una lunga stagionatura. 2) La Leoncini Salumi, che quest’anno festeggia i cent’anni di attività: Aristodemo Leoncini iniziò infatti l’attività di produzione di salumi in forma artigianale nel lontano 1918, nel cuore dell’Emilia-Romagna. Oggi il Gruppo Leoncini è composto da due unità produttive, una a Langhirano, dove si produce esclusivamente il Prosciutto di Parma Dop, ed una sul lago di Garda. 3) CLAI e Zuarina insieme al SIAL. CLAI (Cooperativa Lavoratori Agricoli Imolesi) è una cooperativa agricola che opera nell’agroalimentare sia nel settore dei salumi, con una particolare specializzazione nel segmento del salame, che in quello delle carni fresche bovine e suine. Zuarina, storico prosciuttificio di Langhirano, è presente anche sui mercati esteri, dalla Francia agli Stati Uniti, dal Giappone alla Cina. 4) Lo staff dell’Acetaia Leonardi di Magreta di Formigine (MO) al SIAL 2018 con la nuova gamma di specialità balsamiche BIO. 5) Absolute Bufala: Mo’ Bufala, caseificio di Andria (BT), offre una gamma completa di prodotti caseari unicamente a base di latte di bufala con una filiera 100% pugliese certificata. Come scrivono sul loro sito: “La mozzarella di bufala è una scelta di vita. Una mozzarella Mò Bufala è una scelta di vita migliore”. 6) Lo stand del Consorzio di Tutela dell’Aceto Balsamico di Modena Igp. Le aziende associate oggi al Consorzio sono 50 e tra di esse figurano alcuni dei marchi storici del settore, che dall’inizio del Novecento hanno contribuito al successo del prodotto in Italia e sui mercati internazionali.
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1) Il Consorzio di Tutela del Parmigiano Reggiano. 2) Lo stand del Salumificio La Felinese. 3) Il padiglione Italia. Il nostro paese si è confermato primo per numero di espositori esteri presenti alla manifestazione parigina, con circa 700 aziende, 209 delle quali aderenti all’iniziativa di ICE – Agenzia e quindi presenti nel padiglione dedicato (photo © SIAL Paris). 4/5/6/7) Qualche scatto tra gli stand di questa edizione. SIAL è una piattaforma unica che consente di testare nuovi mercati, lanciare nuovi prodotti e incontrare i principali operatori del settore (photo © SIAL Paris).
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1) Alessandra Grosoli, con la sorella Mariangela anima di Aceto Balsamico del Duca di San Vito di Spilamberto (MO). La famiglia Grosoli si dedica ai prodotti tipici di Modena dal 1891, prima con una salumeria, poi, dal 1974, al prezioso aceto balsamico. 2) Lo stand di Grandi Salumifici Italiani di Modena. 3) Il Consorzio del Prosciutto di Parma. «La Francia è un mercato storico per noi e, insieme alla Germania, è il più importante in Europa in termini di esportazioni» ha dichiarato Vittorio Capanna, presidente del Consorzio di tutela. 4) Lo stand del Pastificio dei Campi di Gragnano (NA).
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Cibus connette il mondo alle aziende alimentari italiane e ai loro territori
L’
annualizzazione di Cibus, la fiera internazionale del food made in Italy, è ormai compiuta: già alla seconda edizione, Cibus Connect 2019 (a Fiere di Parma dal 10 all’11 aprile) ha raddoppiato i padiglioni occupati raggiungendo quasi il numero di aziende espositrici di Cibus. Piace la formula smart di questa fiera: solo due giorni, stand chiavi in mano, grande spazio alla cooking station per le degustazioni riservate ai visitatori professionali e un’ampia Buyers’ lounge riservata agli operatori esteri, utile per gli incontri di business. Centinaia di nuovi prodotti alimentari saranno presentati a Cibus Connect, in virtù di una sempre maggiore attenzione all’innovazione da parte delle aziende italiane. Cibus Connect è poi collocato strategicamente contemporaneamente a Vinitaly e grazie anche all’attività di
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ICE Agenzia, migliaia di buyer esteri stanno confermando la visita a Cibus Connect 2019 abbinata a un tour speciale a Vinitaly e presso principali distretti produttivi agroindustriali del Nord e del Sud Italia. La presenza di tutta la filiera nella due giorni di Cibus Connect servirà anche ad approfondire nei convegni le tematiche più pressanti dell’agroalimentare italiano, in primis i risultati e le prospettive degli accordi commerciali bilaterali tra Italia, Europa ed altri Paesi che stanno rimodulando la crescita dell’export grazie al contributo partecipante dei nostri imprenditori, nonché gli accordi di filiera che stanno trasformando, anche grazie alle nuove tecnologie digitali abilitanti, il ruolo e la consapevolezza di tutti gli attori coinvolti, dal campo alla tavola. Esperti, ricercatori e i rappresentanti delle istitu-
zioni ad ogni livello affronteranno questi due temi, profondamente intrecciati, cercando di dare al settore una visione prospettica e condivisa. Altro tema che verrà affrontato nei giorni di Cibus Connect sarà quello della valorizzazione del Centro Sud italiano come piattaforma di sviluppo quali/quantitativo del Food & Beverage italiano; verranno confrontate le performance e i fattori critici di successo di un’area che, negli ultimi anni, ha saputo coniugare una straordinaria crescita a volumi e valore. Infine, gli operatori troveranno in fiera, anche centinaia di produttori alimentari artigianali o semindustriali presenti nell’area espositiva di Slow Food, area dotata di un proprio spazio talk & show cooking. >> Link: www.cibus.it
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Haripro, leader in Italia nella produzione di proteine e aromi naturali, fornisce le piĂš importanti aziende produttrici di ingredienti per la salumeria. Haripro grazie ad una continua ricerca, ha sviluppato negl'anni prodotti sempre piĂš all'avanguardia, come proteine funzionali ed aromi naturali anallergici ad alto valore nutrizionale. Haripro is a leading producer of proteins and natural flavours in Italy. It supplies the most important Companies which blend ingredients for the meat industry. Haripro, thanks to a continuous research, had developed through years more advanced products like functional proteins and hypoallergenic natural flavours with high nutritional value.
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FORMAGGIO
Consorzio Caseificio di Sorano: oltre mezzo secolo di storia di formaggi di Massimiliano Rella
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L’orologio del masso leopoldino o “Poio” a Sorano.
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anta una storia di formaggi di oltre mezzo secolo il Consorzio Caseificio di Sorano, una cooperativa fondata nel 1963 da un gruppo di pastori e oggi formata da 120 soci, in gran parte allevatori. Sorano è un’incantevole borgo in provincia di Grosseto, conosciuto per la particolarità urbanistica degli edifici rupestri scavati nel tufo. Il caseificio di Sorano è una realtà produttiva cresciuta nel tempo fino a realizzare l’attuale stabilimento di dimensioni tali da trasformare una grande quantità di latte e contribuire allo sviluppo zootecnico del comprensorio. La materia prima è il latte ovino e bovino utilizzato per formaggi, sia freschi (come ricotta e stracchino) che di media e lunga stagionatura (tra i quali caciotte miste e pecorini). Proprio a quest’ultima categoria appartiene uno dei prodotti di punta, il pecorino che qualche anno fa ha vinto il Premio Pienza, concorso riservato ai formaggi toscani. Ma la gamma dei pecorini aziendali offre altre specialità fatte con latte di pecora di allevamenti del territorio. Il pecorino di Sorano fresco, ad esempio, è un formaggio a pasta tenera, colore bianco leggermente paglierino, sapore fragrante, in commercio dopo 40 giorni dalla produzione; mentre il pecorino stagionato almeno 90 giorni si presenta con una pasta semidura, il sapore fragrante e accentuato, la struttura tenace al taglio. Ottimi anche il pecorino toscano DOP, fresco e stagionato, e il pecorino Città del Tufo, piccolo e scodellato, più fresco, di sapore dolce ma deciso, risultato di uno studio accurato sulle biotecnologie applicate in produzione. Il cacio ursi-
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In alto: pulizia del pecorino di Sorano per eliminare le muffe nobili. In basso: pecorini in stagionatura. neo, invece, è un formaggio da latte misto in forme da 5 kg, con l’etichetta disegnata dagli studenti di scuole locali. La lavorazione è interamente manuale, secondo un antico procedimento, con lunga stagionatura in celle di tufo per una maturazione graduale che lo rende compatto al taglio e di sapore vivace. Il consorzio produce anche lo stracchino, fatto con latte vaccino italiano e senza uso di conservanti, coloranti e inibitori, sostanze impiegate nella
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produzione industriale per bloccare la fermentazione. Ma proprio questa fase è fondamentale nella lavorazione del formaggio che nasce solido e compatto e si ammorbidisce dall’interno verso l’esterno, grazie a un processo di fermentazione, fino a raggiungere una consistenza semi-liquida omogenea. Ci vogliono un paio di settimane per renderlo cremoso e delicato, ideale nella dieta a tutte le età per le qualità di alimento sano e del tutto naturale.
Altri formaggi del caseificio sono legati a due originali progetti per la valorizzazione della tipicità. Il primo è il km 30, un pecorino semistagionato, stagionato oppure marzolino (più fresco, delicato e di forma ovale), prodotti con latte proveniente da allevamenti situati entro 30 km da Sorano, garanzia di freschezza e genuinità. Il secondo è il Firmato, nato nel 2011, un pecorino ottenuto dal latte di allevatori selezionati tra le aziende locali e indicati in etichetta con il nome, il recapito telefonico e l’allevamento. Una bella prova di trasparenza, che permette al consumatore di conoscere la provenienza del latte, e di orgoglio per il proprio lavoro, tanto da metterci la firma! Prezzi da 11,90 €/ kg per la caciotta a 14,50 €/kg per il pecorino stagionato. Massimiliano Rella Consorzio Caseificio di Sorano Punto vendita lun.-sab. 9:00-13:00 Loc. La Fratta 54, Sorano (GR) Telefono: 0564 633002 Web: www.caseificiosorano.it Note Photo © Massimiliano Rella.
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World Cheese Awards, all’Oscar dei formaggi brillano gli Italiani Fanaost, un gouda stagionato prodotto dall’azienda casearia norvegese Ostegården, è stato eletto Campione del Mondo alla 31a edizione del World Cheese Awards, competizione andata in scena lo scorso novembre nel prestigioso Grieghallen di Bergen, in Norvegia. Prodotto col latte di una mandria di sole 12 mucche, in un’azienda che dista meno di 20 km da Bergen, Fanaost ha sbaragliato i 3.472 formaggi esaminati dalla giuria in una sola giornata. I 16 esperti della giuria hanno assegnato al formaggio 71 punti su 80, collocandolo davanti al formaggio francese Agour Pur Brebis Aop Ossau-Iraty, prodotto da Fromagerie Agour, e ad un tradizionale caprino norvegese prodotto da Stordalen Gardsbruk, l’Helfeit, Brun Geitost,Tinntradisjon. Per l’Italia, i formaggi Riserva del Fondatore e la Grotta del Fiorini, prodotti dal caseificio maremmano Il Fiorino, hanno ottenuto due Super Gold. La Riserva del Fondatore, inoltre, è stata premiata come miglior formaggio italiano e si è posizionata al quinto posto nella speciale classifica dei migliori formaggi del mondo. Riconoscimenti sono andati anche all’Asiago Dop, che per la tipologia fresco ha conquistato il Super Gold mentre per lo stagionato vecchio una medaglia d’argento. Sempre a Bergen, il Parmigiano Reggiano si è aggiudicato 64 medaglie di cui 3 per campioni presentati direttamente da operatori commerciali e 61 guadagnate dalla Nazionale del Parmigiano Reggiano. La prossima edizione del World Cheese Awards si terrà nel 2019 a Bergamo. La Riserva del Fondatore de Il Fiorino tra i migliori 5 formaggi al mondo Non è la prima volta che Il Fiorino di Angela Fiorini e Simone Sargentoni (in foto con le due figlie) si afferma al World Cheese Awards. Nell’edizione 2016 a San Sebastian, in terra spagnola, i formaggi maremmani avevano conquistato due Super Gold, due medaglie d’oro, una d’argento e una di bronzo. Nell’edizione di Londra 2017 erano arrivate 2 medaglie d’oro, 2 argenti e 2 bronzi. I nuovi successi del 2018 confermano il grande lavoro svolto in questi anni, che ha portato Il Fiorino a raccogliere premi e riconoscimenti nazionali e internazionali. E all’evento norvegese sono arrivati anche altri riconoscimenti: il Fior di Natura semi stagionato biologico con caglio vegetale ha conquistato la medaglia d’oro, il Pecorino Toscano Dop stagionato è stato premiato con la medaglia d’argento mentre hanno ottenuto un bronzo il Pecorino di Bartarello a latte crudo, il Pecorino Toscano Dop fresco e il Pecorino al pesto genovese. «Ogni vittoria — sottolinea Angela Fiorini — è uno stimolo per continuare a fare meglio. Questo è sempre stato e sarà sempre il nostro spirito nel partecipare ai concorsi. Certo non è mai facile ripetersi, soprattutto a questi livelli. Riuscirci significa che siamo sulla buona strada e che l’impegno e la passione pagano sempre. Ancora una volta questa vittoria è la vittoria di una squadra, quella de Il Fiorino, di tutte le persone che lavorano con noi e di un territorio, la Maremma, che amiamo e nel quale crediamo profondamente». La Riserva del Fondatore, dedicata a Duilio Fiorini, fondatore de Il Fiorino, è un pecorino stagionato in grotta che, anche in Norvegia, ha conquistato il palato dei giudici. Il segreto è nella qualità del latte ovino altamente selezionato e proveniente solo da pascoli maremmani. Un pecorino che nasce con gli antichi metodi della tradizione e viene affinato nella grotta di famiglia. È un formaggio “da meditazione”, la cui pasta è compatta e rigida ma solubile al contempo e sprigiona un aroma piacevolmente vegetale e fruttato, donando al palato un gusto forte, intenso, prolungato,“da grandi occasioni”. Il Parmigiano Reggiano vince 64 medaglie: premiato il 50% dei campioni in gara La Nazionale del Parmigiano Reggiano vince 61 medaglie e centra un grande risultato al World Cheese Awards: la giuria internazionale ha premiato oltre il 50% dei 121 campioni di Parmigiano Reggiano in gara. Una medaglia d’oro, una di argento e una di bronzo sono poi andate a campioni presentati direttamente da operatori commerciali. Ma i record non si fermano qui. Quest’anno la Nazionale del Parmigiano (in foto a pagina 113) — composta da 55 caseifici — è arrivata ad essere
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la più grande missione collettiva mai intrapresa da un formaggio nazionale all’estero. Uno sforzo che ha fruttato una medaglia Super Gold, 12 medaglie d’oro, 20 d’argento, 28 di bronzo. Il riconoscimento più prestigioso è stato incassato dalla Latteria Sociale Roncadella per Parmigiano Reggiano Dop stagionato 18 mesi. «A tutti i caseifici vanno i nostri complimenti e la nostra gratitudine — ha commentato Guglielmo Garagnani, vicepresidente vicario del Consorzio Parmigiano Reggiano — perché hanno saputo riconfermare i primati che appartengono al sistema del Parmigiano Reggiano. A Bergen, abbiamo vinto anche grazie ai valori che legano il nostro prodotto al territorio: merito di una filiera che ogni giorno impegna migliaia di allevatori e centinaia di caseifici artigianali nella ricerca dell’eccellenza assoluta».
Una sinfonia di prelibatezze
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VINO Qualche consiglio per scegliere vini delle feste
Brindisi d’auguri consapevole e necessario di Riccardo Lagorio
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ompie dieci anni questa rubrica. E le idee per Natale sono ancora tante, le etichette da raccontare molte. Già, Natale: festa e non solo festa. In dieci anni è cambiato lo scenario che ruota intorno ai vini e ai cibi. Rivoluzioni e appiattimenti, giovani ingressi e tristi abbandoni, esemplari amori verso la terra e roba che non vale niente in
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odore di truffa. C’è di tutto, oggi più che mai. Tendenze e mode, influencer e blogger che omologano, uniformano, livellano verso il basso la cultura materiale. Accade nell’esasperato mondo del vino, soprattutto, ma non ne sono esenti salumi, formaggi, pasta, oli. Tira un’atmosfera asfittica nell’indistinta collezione della sub cultura alimentare di massa. Proprio come fa la Ficus
watkinsiana. Arriva sulle altre piante dall’alto, trasportata dal guano degli altri uccelli che ne hanno pizzicato i frutti. Quel seme sviluppa una vita parassita sul vegetale ospite sottraendole tutto: acqua, sole, ossigeno. Lo priva di linfa vitale, insomma. È detta anche Fico strangolatore. Nomen omen. Il cibo diventa grimaldello per le food experience, si creano food districts
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Alessandro e Alberta Poli. Da vent’anni raccolgono uve Nosiola da agricoltura bio, le fanno appassire in cassette di legno secondo tradizione per mesi fino a quando spremono acini raggrinziti e pieni di sapore da cui ottengono il vino Nobles, Trentino Vino Santo Doc, ottimo per un fine pasto speciale. che vanno ad ingrassare le food policy. Che non riguardano la produzione del cibo ma la sua ostentazione sempre più finanziarizzata e capitalizzata. Sempre più estranea alla Terra. Sempre più distante dai rapporti sociali che il cibo rappresenta. Sempre più avulsa dalle microeconomie da tutelare. In dieci anni i solchi si sono fatti più profondi, le liane del Fico strangolatore si sono avviluppate sempre più intorno al tronco vitale. Una scelta consapevole è necessaria, quindi. Sempre più è d’obbligo scavare tra i filari, magari spingendosi fino in Val d’Aosta per conoscere una cooperativa legata ai valori dei campagnards, profondamente impegnati nella tutela e valorizzazione della montagna. L’Esprit Follet de La Crotta di Vegneron Coop. Agr. (lacrotta.it) consegue l’obiettivo di generazioni di viticulteurs: rappresentare in bottiglia lo stretto rapporto tra vitigni autoctoni e territorio. Le uve Fumin possiedono bucce di colore quasi bluastro che si trasferisce al vino. Sorsi caldi e speziati impone l’annata 2010, ingentilita grazie al tempo trascorso: selvaggina innanzitutto e formaggi da lunga stagionatura. Merita il podio per bontà e per il valore sociale dell’impresa. Gran bella etichetta provata nel 2018 (suggerimento: vada sui ragù d’oca o di selvaggina) è Oltre il bosco,
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Ghemme DOC, anno 2010, di FRANCESCO BRIGATTI (web.tiscali.it/brigatti/ Motziflon.htm): rosso granato con riflessi mattone, balsamico al naso e aggraziate vene acide e tanniche nel bicchiere che sfumano in note di liquirizia. I vigneti vengono coltivati con il metodo di lotta integrata per preservare l’ambiente. Da Suno a Barengo, sempre nel Novarese, c’è il tempo di un battito di ciglia. A Barengo si può trovare GILBERTO BONIPERTI (www.bonipertivignaioli.com/ ita/index.php), poco interventista in vigna e in cantina. «Mi accorgo che i valori trasmessi da mio nonno, che coltivava a vite le stesse terre, stridono con i ritmi della modernità, ma io ho la fortuna di potere continuare». La sua Favolalunga, Colline Novaresi DOC, di uva Vespolina, 2014, possiede colore rubino brillante e corpo svelto e sapido. Per il momento si lascia il Piemonte e si corre verso l’Oltrepò, terra di confine. Eccitante e succulento almeno al pari dei vini che ne escono è il progetto di FAUSTO ANDI a Montù Beccaria, nell’Oltrepò pavese (andifausto.com). L’azienda agricola è condotta con metodo biodinamico e occupa dodici adulti diversamente abili che, nel laboratorio “Fuori dalla mischia”, tra le altre attività, dipingono a motivi floreali le bottiglie, ognuna diversa nell’aspetto e nel contenuto. Quelle d’uva Moradella affinano in botte sui propri sedimenti, poi arrivano
in bottiglia senza travasi, chiarifiche e filtrazioni. Unico, come Fausto Andi, nel colore, nel profumo, nei delicati tocchi balsamici finali. Ma in un prossimo futuro altre uve potranno diventare il modello super-bio. Forse quelle conosciute con l’acronimo PIWI: non hanno bisogno di cure chimiche, neppure di rame o zolfo, e paiono la risposta diretta alla estromissione della peronospora e dell’oidio (piwiinternational.de). Se sono ancora da decifrare molte delle loro potenzialità (economiche e di rispetto ambientale, incluse le eventuali controindicazioni) c’è però chi ne fatto ottimi vini. Si tratta di uve figlie di ibridazioni successive: la prima da incroci di sole varietà americane, la seconda tra ibridi di prima generazione e viti europee, e la terza tra ibridi di seconda generazione e vitis vinifera. Incroci successivi tra ibridi e vitis vinifera hanno fatto nascere uve che, una volta vinificate, hanno perso le caratteristiche negative (come elevati contenuti di alcol metilico o volgari odori volpini) e mantenuto la resistenza alle malattie. È il caso di GIULIANO MENEL che a Mel, nel Bellunese, ha ottenuto dalla varietà Solaris il vino bianco Principe di Mel, prestigioso per il colore dorato che invita a larghe bevute. Lo contraddistinguono profumi intensi di guava e papaya, spezie appena accennate e
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A sinistra: Fausto Andi, a Montù Beccaria, seguendo i dettami di Rudolf Steiner, fa agricoltura biodinamica e vini davvero unici. A destra: Malvasia di Bosa DOC Riserva della cantina sarda Giovanni Battista Columbu. buon grado di freschezza. Si potrebbe pensare che un giorno la viticoltura “pulita” passerà sempre più in rassegna queste varietà. Ritorno al futuro invece per un Cacc‘e Mmitte di Lucera originale, che sa di vicende passate ma gareggia con i gusti odierni. Tanto versatile da potersi accomodare accanto alle vivande del menu dall’antipasto al dolce: è il Mania (vino da tavola) dell’Azienda Agricola Paglione (www.agricolapaglione.com), ossessione filologica di BENIAMINO e NICOLA FACCILONGO, convinti assertori dell’agricoltura biologica da quando l’azienda prese le sembianze attuali agli inizi degli anni Novanta. Il colore umbratile deriva dalla breve esposizione del mosto sulle bucce: lo prevedeva il Cacc‘e Mmitte degli albori a causa della scarsa durata permessa dal latifondista al contado per l’utilizzo del palmento. Il naso è affascinato da tracce di lampone e inserti di caffè, in bocca sprigiona un’anima ribelle con i tannini ancora irrequieti e pince di frutta gialla. Un ritorno al futuro, insomma, come ha pensato di fare da qualche anno GUIDO GUALANDI di Montespertoli, sud di Firenze (www.guidogualandi.com), anche docente universitario e convinto assertore delle potenzialità dei vitigni autoctoni. Alcuni che popolano le sue vigne erano pressoché scomparsi. L’acqua utilizzata nel podere viene riciclata e l’energia solare alimenta l’elettricità e
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definisce i suoi vini “archeologici” per la rinuncia a metodi “moderni” di coltivazione e vinificazione. Dopo l’assaggio si possono qualificare “archetipici” per le sensazioni ancestrali che li sostengono. La Foglia Tonda Toscana IGT impressiona per il colore granato fitto, l’aroma di susine stramature, speziato di chiodi di garofano, il sapore pieno e morbido, tannini e alcol che si guardano e rispettano. Risultato: clamoroso. Sempre dalla Toscana, ma appartenente alla minuscola Carmignano DOCG, Circo Rosso di FABRIZIO PRATESI (www.fabriziopratesi.it) è un vino che fa innamorare al primo sguardo per il rubino cupo assai intenso e per gli aromi setosi che sprigiona persistenti: di liquirizia e viola, di zenzero e geranio. Il sapore è asciutto e di stoffa aristocratica, lungo ed elegante di sensazioni fruttate e speziate. Sembra non finire mai. Il terzo vino profondo rosso che ama la natura è il Nebbiolo d’Alba DOC di Poderi Gallino (poderigallino.com). Le uve provengono dalle più ripide e meglio assolate colline di Govone. Ma i vini di LEONARDO GALLINO si distinguono per arrivare sul mercato spesso con vecchi millesimi. In questo caso il 2006, maturo ed elegante al palato con insistenza di viola e lampone, asciutto e non meno garbato al naso, aveva sfoderato un ventaglio complesso di spezie e frutta matura, l’occhio colpito
dal rubino che svaniva su un infinito orlo mattone. Si potrebbe pensare a un ideale incontro con bolliti e stracotti, ma questo Nebbiolo conquista anche paste ripiene e risotti. Per i fine pasto o per meditare, da Santa Massenza, montagna trentina e borgo della grappa, ALESSANDRO e ALBERTA POLI (distilleriafrancesco.it) raccolgono da vent’anni uve Nosiola da agricoltura biologica, le fanno appassire in cassette di legno secondo tradizione per mesi fino a quando si spremono acini raggrinziti e pieni di sapore. Ottengono Nobles, Trentino Vino Santo DOC d’opulenza cromatica, scintillante d’ambra e bugizio, fragranze di gelsomino, salvia e mango candito, bocca succulenta la cui dolcezza viene bilanciata dalla freschezza delle uve d’altura. Finale scoppiettante per gli incontri conviviali durante le festività natalizie. Anche il caminetto di CLAUDIO e GIOVANNI LONGHI crepita. A Sant’Angelo in Vado, Pesaro-Urbino, le uve di Trebbiano marchigiano si affumicano nella bocca del focolare dal Quattrocento per farne un vino unico, da uve spremute a febbraio o a Pasqua in virtù delle annate. Nel loro Agriturismo Ca’ Icardo (telefono: 339 4904907) fanno nascere ogni anno 1500 bottiglie da mezzo litro: nel Vino Santo Santangiolina fumé, vestito d’ambra, resinoso, la dolcezza fioretta con l’acidità e si arrotola infine su un fiabesco torbato.
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Un vino d’altri tempi come la Malvasia di Bosa Doc Riserva della Cantina Giovanni Battista Columbu (malvasiacolumbu.com), ossidativo, un tempo ad uso esclusivo delle grandi occasioni e oggi sfarzoso vino per aperitivi o finali di pasto. I fratelli GIANMICHELE (accompagnato dalla moglie VANNA MAZZON), in vigna, e RAFFAELE, in cantina, tramandano il secolare uso di affinare il vino per almeno tre anni in botti scolme di castagno. Ottengono un nettare dal colore paglierino carico con naso intenso e persistente, bocca di nocciola, asciutta e ammandorlata, morbida e balsamica.
Un’occasione diversa per festeggiare la vita. In Veneto, sui Colli euganei, si fa onore invece con le leggere bollicine di Op!, spumante metodo classico dell’Azienda agricola Reassi (reassi.it), rigorosamente familiare: uva Pinella, vigna di cent’anni, 36 mesi di rifermentazione sui lieviti. Il naso di pompelmo lascia spazio a un finale di selce, fine e sapido. Per tutto pasto o il brindisi di fine d’anno. Da qualche tempo anche nella Calabria più profonda si spumantizza. In particolare a Gerace, nella Locride, l’Azienda agricola Barone Macrì (baronemacri.it), che aderisce al progetto
Calabria Solidale (chicomendes.it: giustizia sociale, legalità, rispetto del territorio e del lavoro ne sono i presupposti), si è spinta a utilizzare le uve di Mantonico in purezza. Centocamere si sfila dai consueti metodo classico anche per questo aspetto territoriale. Biondo, balsamico, floreale e minerale, fa volare alto i fremiti amarognoli del bergamotto. Anche noi ogni tanto ci lasciamo andare. Senza bollicine, che festa è? Riccardo Lagorio Nota A pagina 114, photo © lev dolgachov, dolgachov.com
Autochtona Awards 2018: vince il terroir Piemonte, Emilia, Toscana, Puglia e Sicilia: è da queste splendide regioni italiane che provengono i vini premiati con gli Autochtona Awards dalla rassegna “Autoctoni che passione!” che si è svolta in occasione della quindicesima edizione del forum nazionale dei vini autoctoni a Bolzano. L’elenco dei vincitori di quest’anno esprime un omaggio alla vocazione vinicola di alcuni dei territori italiani più storici e affermati, lasciando nel contempo il giusto spazio a produzioni enologiche di grande fascino, in territori geograficamente delimitati ma molto caratteristici. La lista dei premiati si apre con una riconferma: il premio Miglior Vino Rosso è infatti andato all’azienda Claudio Alario, già vincitrice nella stessa categoria nel 2017, aggiudicatasi la prima posizione col suo Valletta Barbera d’Alba Doc 2016. Si resta sempre in Piemonte per il Miglior Vino Bianco, assegnato al Poggio dello Scagno Derthona Timorasso 2016 dell’azienda La Vecchia Posta. Il riconoscimento Migliori Bollicine vede premiata ancora una volta la realtà emiliana Cantina della Volta, che quest’anno ha conquistato il titolo con il suo CDV Brutrosso Lambrusco di Sorbara Doc Spumante Brut Metodo Classico 2016. Dal Nord si passa al Sud: il Miglior Vino Rosato è il Rosarò Salento Negroamaro Rosato Igt 2017 della tenuta Feudi di Guagnano, in Puglia. Ad aggiudicarsi il riconoscimento del Miglior Vino Dolce è stata l’azienda Salvatore Murana col suo Martingana Moscato Passito di Pantelleria Dop 2008. Infine, il Premio Speciale Terroir, che come da tradizione incorona l’etichetta che meglio rappresenta l’espressione del vitigno legato al suo territorio di riferimento, è andato quest’anno all’Azienda Agricola Montefabbrello con il suo Aleatico Passito Elba Docg 2017. «Tra gli elementi che mi hanno più colpito della selezione di quest’anno ci sono sicuramente i vini dolci, tutti molto rappresentativi del panorama vitivinicolo italiano, e la qualità dei vini delle isole come Elba e Pantelleria, dotati di densità e sfaccettature aromatiche entusiasmanti. Infine, sto notando come i bianchi rifermentati sui lieviti in bottiglia, di anno in anno, siano sempre più numerosi: evidentemente questo rappresenta una tendenza da tenere in considerazione» ha dichiarato Pierluigi Gorgoni, curatore del premio. Il giornalista internazionale Jens Priewe, presidente di giuria, ha infine commentato: «Credo che un aspetto essenziale per i vini contemporanei, per trovare il proprio spazio nel mercato mondiale, sia il fatto di potersi distinguere con un prodotto unico e speciale. L’Italia, su questo aspetto, ha tanto da dire» (photo © Marco Parisi). >> Link: www.autochtona.it
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Lo Champagne incontra i gioielli gastronomici della Food Valley
CC, Culatello & Champagne di Gaia Borghi
«L
o Champagne è un grande vino e come tutti i grandi vini va portato in tavola il più spesso possibile». L’invito, in una serata dedicata al matrimonio tra i salumi di Parma, capitale della Food Valley italiana, e lo Champagne, probabilmente il vino più famoso al mondo, il più desiderato e — ahimé — anche il più falsificato del pianeta, viene da CHIARA GIOVONI, ambasciatrice italiana dello Champagne 2012, una che di bollicine francesi, insomma, se ne intende. Sede di questo bell’incontro, organizzato dal BUREAU DU CHAMPAGNE ITALIA, I du Matt, rinnovata trattoria alle porte di Parma di proprietà della coppia sul lavoro come nella vita formata da MARIANO CHIARELLI e MAURA GIGATTI, chef lui e sommelier lei. Un
ristorante tradizionale e sofisticato allo stesso tempo, con tanto di sala meeting, aula corsi e “angolo gourmet”, dove degustare ed acquistare i prodotti made in Parma, dai salumi DOP alle piccole produzioni artigianali, passando per i vini del territorio. «Quest’anno abbiamo inaugurato “Gli incontri del Bureau du Champagne LAB”, laboratori del gusto pensati per sperimentare l’abbinamento tra piatti e Champagne» mi racconta SIMONE IEMMOLO del Bureau du Champagne Italia. «Attraverso seminari in tutta Italia, gli incontri vogliono rafforzare la conoscenza della denominazione presso appassionati e neofiti e promuovere la cultura dello Champagne come vino da tutto pasto». Antipasti, primi, secondi e dessert della cucina italiana naturalmente.
Bollicine e salumi per il brindisi beneaugurante dello chef Mariano Chiarelli, titolare della trattoria di Parma “I du Matt” insieme alla moglie, la sommelier Maura Gigatti, alla sua destra, con la giornalista Jessica Bordoni e Chiara Giovoni, ambasciatrice italiana dello Champagne 2012.
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Un territorio, un metodo, un vino Si dice, a ragione, che lo Champagne sia solo della Champagne: una regione viticola precisa della Francia e ben delimitata da una legge del 1927. Poco più di 34.000 ettari a circa 150 chilometri da Parigi comprendenti 320 cru (comuni viticoli) suddivisi in cinque Dipartimenti: la Marne (66%), l’Aube (23%), l’Aisne (10%), la Haute-Marne e la Seine-et-Marne. Situata quasi al limite settentrionale della coltivazione della vite (limite che fino a dieci anni fa qui era considerato estremo mentre oggi si è spostato in Inghilterra), l’area di produzione dello Champagne beneficia di un duplice influsso climatico, oceanico e continentale, una particolare orografia e un altrettanto particolare terreno, con un sottosuolo in prevalenza calcareo.
Il Bureau du Champagne Italia rappresenta nel nostro Paese il francese Comité interprofessionnel du vin de Champagne (CIVC). Creato nel 1941, il Comité Champagne, che ha sede ad Épernay, riunisce tutti i vignerons e le maisons della regione Champagne, operando a favore della vite e del vino attraverso azioni economiche, tecniche, ambientali, di miglioramento qualitativo, di organizzazione della filiera, di comunicazione, di sviluppo della notorietà e di protezione della denominazione nel mondo. Il Bureau opera in Italia da trent’anni e ha come missione fondamentale la difesa e la promozione della denominazione Champagne sul mercato italiano, ma è allo stesso tempo un punto di riferimento per gli appassionati e per tutti coloro che desiderano avvicinarsi al mondo dello Champagne. >> Link: www.champagne.it
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Tre componenti che, combinandosi tra loro, «danno vita ad un mosaico di micro-terroir dalle caratteristiche uniche e da cui l’esperienza di 15.000 vignaioli sa trarre solo il meglio» prosegue Chiara. Un territorio, quindi, ma anche un metodo di produzione: lo Champagne come lo beviamo oggi nasce grazie al méthode Champenoise, il nostro metodo classico per gli spumanti. Fino al 1600 infatti i vini prodotti nella Champagne erano vini fermi e rossi, noti come vins de la Montagne e vins de la Rivière, e fu la seconda fermentazione in bottiglia, diffusasi fra il 1670 e il 1690, che portò alla creazione di vini effervescenti, le famose bollicine. La produzione di Champagne è attualmente pari a circa 320 milioni di bottiglie: un’offerta che, nonostante i numeri importanti, non riesce a coprire completamente la richiesta. Champagne e salumi La degustazione del 2 ottobre è iniziata con un assaggio dei salumi di Parma tutelati dell’Indicazione Geografica europea ovvero Prosciutto di Parma DOP, Culatello di Zibello DOP, Coppa di Parma IGP e Salame di Felino IGP. Ad accompagnarli uno Champagne Delamotte Brut, 36 mesi di maturazione sui lieviti, stile raffinato, sottile, per questo vino che proviene da una delle maisons più antiche. A mio parere senza dubbio l’accostamento più riuscito, in particolare col culatello e la sua aromaticità, che ne è uscita rafforzata, amplificata addirittura. Lo stesso calice ha poi sostenuto la seconda proposta, il Gambero col tabarro, con la dolcezza del crostaceo avvolta dalla delicata sapidità del Parma 24 mesi come fosse il tipico mantello diffuso in passato nelle campagne emiliane. A seguire, una Tartare di scampo di Sicilia e culatello di Zibello accompagnata da un calice fresco ed equilibrato di Joseph Perrier Blanc de Blancs Brut Royale. L’Alice fritta e aceto balsamico tradizionale, il croccante pesciolino azzurro impreziosito da qualche goccia dell’oro nero DOP di Reggio Emilia, insieme ad un Devaux Blanc de Noirs della cooperativa di produttori di Bar-sur-Seine, è stata la quarta proposta. A chiudere in bellezza una Pera caramellata con fois gras e prosciutto di Parma e uno Champagne Rosé Fresnet-Juillet Grand Cru. Gaia Borghi
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“La bottega è la nostra missione” – Sono queste le parole che racchiudono in sintesi la filosofia e lo spirito che animano le attività di “Vecchia Malga”, storica azienda nata nel 1969, che con la sua presenza sul territorio bolognese è diventata un vero e proprio punto di riferimento per l’attenta selezione delle materie prime, dei prodotti di qualità e per la peculiarità dei suoi negozi, unici nel loro genere. “La bottega per noi è un palcoscenico” – Basati sulla filosofia che “un buon prodotto lo si gusta mangiandolo ma prima lo si assaggia con gli occhi, i punti vendita del brand portano il prodotto in primo piano, valorizzandone quelle caratteristiche e qualità che lo rendono un’eccellenza gastronomica del territorio. Una sorta di palcoscenico, dove ogni elemento che vi compare, e ne è un componente essenziale, è un personaggio, col suo carattere, la sua precisa identità. E percorrendo questo palcoscenico, unendo i personaggi, possiamo vivere una straordinaria e coinvolgente esperienza, una sorta di viaggio visivo, olfattivo e gustativo unico. “Il commercio è conoscenza consapevole dell’autenticità dei prodotti” – Perfette guide di questo viaggio, i membri dello staff “Vecchia Malga” accompagnano il cliente in un percorso di storia, tradizione e valori di una volta che culmina con la degustazione delle eccellenze presenti nel punto vendita. Il commercio cessa di essere così una pratica e diviene conoscenza, del territorio, della qualità del prodotto, degli uomini e delle donne che quel prodotto lo lavorano, lo trasformano e, infine, lo consumano. “La bottega sarà anche on-line da metà gennaio 2018” – “Vecchia Malga” è diventata parte integrante dell’economia bolognese grazie anche all’ubicazione in zone strategiche della città quali il centro storico e l’Aeroporto Marconi, punto nevralgico da cui partire per far conoscere le eccellenze enogastronomiche locali in tutto il mondo. E da oggi è anche on-line, con il nuovo progetto di e-commerce: www.vecchiamalganegozi.com
Vecchia Malga Negozi Srl Via Roma, 55/A - 40069 Zola Predosa (BO) Tel: 051/6166687 - Fax: 051/6166686 info@vecchiamalganegozi.it - www.vecchiamalganegozi.com Zola 051/6166740 Via Roma, 55/A Zola Predosa (BO) La Baita 051/223940 Via Pescherie vecchie, 3A Bologna Mazzini 051/346508 Via Mazzini, 93 Bologna Negozio Aeroporto 051/6472198 Gastronomia - Aeroporto G. Marconi piano terra Pizzeria Vecchia Malga 051/6472196 Verace Pizza Napoletana - Aeroporto G. Marconi piano terra Vecchia Bologna 051/6472208 Ristorante/negozio/wine bar - Aeroporto G. Marconi sala imbarchi Bar Vecchia Malga 051/6472168 Bar - Aeroporto G. Marconi sala imbarchi Gastronomia Italiana 051/0060962 negozio - Aeroporto G. Marconi extra Schengen
I VINI DI PREMIATA SALUMERIA ITALIANA
Degustazione: Natale italiano con cotechino, zampone & co. di Laura Franchini
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rrivano puntuali, con il Natale, le tradizioni e i sapori classici del nostro Belpaese. Il Natale italiano, ma non solo, vuole tavole imbandite di preparazioni ricche, nel rispetto delle tipicità regionali. Sono piatti fumanti di tortellini e agnolotti, secondi abbondanti a base di trippa e cappone, dolci famosissimi come panettoni, pandori e struffoli. Ma, soprattutto, non possono mancare cotechini, zamponi e affini. Una tradizione tipicamente emiliana, che la regione esporta con successo, non solo nel periodo natalizio: a Pianello, ad esempio, paesino in provincia di Piacenza, la Festa del cotechino si celebra nel mese di agosto! Impossibile immaginare un Natale senza almeno una fetta di cotechino, chiamato anche guancialino, contornato da fagioli in umido, purè di patate, lenticchie, spinaci al burro. La produzione
di insaccati da cuocere vede anche altri prodotti, come lo zampone o il cappello del prete, realizzato col taglio di carne omonimo, la bondiola poggese e la salama da sugo, tipiche del Ferrarese, insaccate nella vescica suina. Prodotti dei quali recentemente abbiamo una ricca proposta di ricette alternative, che li vedono protagonisti di cucine creative e gourmet, anche se sono le ricette della tradizione a farla da padrona. Ingredienti saporiti, caratterizzati da una buona grassezza, che richiede vini adatti. L’abbinamento principe e tradizionale è quello col Lambrusco, che ben si sposa con la speziatura di queste specialità, perfetta è l’effervescenza che aiuta a pulire il palato. Abbiamo però aggiunto anche qualche proposta alternativa, extra regione, sempre cercando di garantire un ideale matrimonio del gusto.
Zamponi, cotechini e affini contro tutti. Come li abbiniamo? Il palio è conquistato dal Lambrusco, un vino la cui effervescenza aiuta a pulire il palato, ma sono da provare anche altre bollicine, a contrastare la grassezza degli ingredienti, e qualche rosso
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Salama da sugo (photo Š Studio Gi).
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Lambrusco di Sorbara Doc Radice 2017 Paltrinieri Siamo a Sorbara, località Il Cristo, in quel riconosciuto cru che del Lambrusco di Sorbara ha fatto la storia. Una realtà, quella di Paltrinieri, fortemente vocata al territorio, alla qualità e ai numerosi riconoscimenti. Tra le tante eccellenti referenze abbiamo scelto il Radice, rifermentato in bottiglia, vera icona della tradizione. Un calice brillante, ricco di sentori tipicissimi di fragole e ciclamini, con netti ricordi balsamici lunghi ed un’eleganza indimenticabile. La sorsata è piena e intensa, grazie anche alla schiuma precisa e morbida, avvolgente e fresca. Armoniche le belle tinte sapide e l’acidità, persistenti, con classe, i sentori. Ottimo come aperitivo, si presta ad un ampio raggio di abbinamenti, anche trasversali e non scontati, anche con cucine straniere speziate e saporite. Sarà perfetto e puntuale con cotechini e zamponi, per un abbinamento profondamente nel solco della tradizione.
Soc. Agr. Paltrinieri Gianfranco Via Cristo 49 41030 Sorbara (MO) Telefono: 059 902047 E-mail: info@cantinapaltrinieri.it Web: cantinapaltrinieri.it
Lambrusco di Modena Doc L’Albone 2017 Podere Il Saliceto GIAN PAOLO ISABELLA e MARCELLO RIGHI sono i giovani e determinati titolari di questa piccola e virtuosa cantina sita non lontano dai laghi di Campogalliano, nei fertili terreni alluvionali del fiume Secchia. Una base eccellente quindi, che unita a pratiche di vigna e di cantina rigorose, nonché al rispetto della tipicità, producono ottimi vini, come questo calice di Albone, di uve Lambrusco Salamino di Santa Croce in purezza. Brillante e dai riflessi violacei, è vinoso al naso, con lindi ricordi di ciliegie morette mature, pepe verde e foglia di vite. Un palato altrettanto convincente, ricco, morbido e fresco, dall’effervescenza precisa e sgrassante. Nell’armonia delle parti, questo vino richiama fortemente la tradizione locale, fatta di lasagne, tagliatelle al ragù e gnocco fritto coi salumi. Abbinatelo ad un fumante piatto di cotechino con fagioloni in umido. Forse non sarà dietetico, ma vuoi mettere il gusto?
Podere Il Saliceto Via Albone 10 41011 Campogalliano (MO) Telefono: 349 1459612 E-mail: info@podereilsaliceto.com Web: www.podereilsaliceto.com
Lambrusco di Sorbara del Fondatore 2017 Cleto Chiarli Una realtà che brilla per risultati, qualità e costanza, ambasciatrice nel mondo della tradizione vinicola modenese e, soprattutto, del Lambrusco. Fortemente radicata nella tradizione, che ben evidenzia con questo calice, prodotto secondo il metodo ancestrale, fermentato in bottiglia, rigoroso nella tipicità e nell’armonia. Una sorsata piena, ricca e convincente, equilibrata di sapidità, freschezza e grado, dalla schiuma morbida e altrettanto armonica. Al naso regala copiose note di fragole e lamponi, rose in fiore e fieno, note verdi di menta e ortica di campo. Perfetto come aperitivo, servito ben freddo, si adatta splendidamente a piatti di fritti saporiti e ai grandi piatti della tradizione emiliana. Non vanno sottovalutate le molteplici possibilità di abbinamento di un calice così poliedrico, che esce senza problemi dalla regione e abbraccia le cucine straniere, con successo. Ma è con zampone e lenticchie che troviamo il vero idillio.
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Cleto Chiarli Via Belvedere 4 41014 Castelvetro di Modena (MO) Telefono: 059 3163311 E-mail: italia@chiarli.it Web: www.chiarli.it
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Bonarda dell’Oltrepo Pavese Doc Vigna Matta 2017 Bagnasco Paolo
Az. Agricola Bagnasco Fraz. Loglio di Sotto 14 27040 Castana (PV) Telefono: 0385.262329 E-mail: info@cantinabagnasco.it Web: www.cantinabagnasco.it
Ci troviamo in Valle Versa, nel pieno dell’Oltrepò Pavese, con questa cantina, dalle proposte giovani e accattivanti, sempre però con un piede ben radicato nella tradizione. Tipicità ottimamente espressa anche in questo calice, prodotto con uve Croatina coltivate nella sola Vigna Matta, in località Soriasco, per il 95% e il rimanente 5% con uve Barbera. Limpido rosso rubino con riflessi violacei e porpora, questo calice si apre all’olfattiva copioso e affascinante di note fruttate intense, marasca e prugna, mandorle verdi, foglie di tabacco e rami spezzati, speziatura leggera a completamento di una bella trama. Intensa con armonia la sorsata, rotonda e sgrassante la schiuma, buono il tono acido. È fresco e persistente, adattissimo ad abbinarsi con i salumi della grande tradizione norcina del piacentino. Abbinabile, con successo, a zamponi, cappelli del prete, cotechini, bondiolette.
Trento Doc Rosé Extra Brut Cantina Moser
Az. Agricola Francesco Moser Via Castel di Gardolo 5 Maso Warth – 38121 Trento Telefono: 0461 990786 E-mail: info@mosertrento.com Web: www.mosertrento.com
Siamo alla terza generazione della famiglia: CARLO, FRANCESCA, IGNAZIO e MATTEO continuano a produrre vini dalla profonda identità contadina, ma con un occhio ben attento alla modernità, anche nella cura dei vigneti, situati fino a 650 msl tra le colline di Trento e la Valle di Cembra. Questo brillantissimo calice di un bel rosa tenue è prodotto con uve Pinot nero in purezza, raccolte a mano, coltivate su terreni prevalentemente calcarei. Olfattiva intensa, linda, croccante e netta di piccoli frutti rossi, frutta secca e ricordi verdi di mandorle acerbe. Palato raffinatissimo, elegante, pieno. La sorsata è altrettanto di classe, ben equilibrata tra le parti, emerge una buona nota sapida in armonia con freschezza, piuttosto lungo e complesso, ben adatto al tutto pasto. Un vino avvincente, riuscitissimo nei tanti brindisi delle festività, sarà perfetto con un boccone di cotechino, ben affondato in un ricco e burroso purè.
Franciacorta Docg Rosè Demi Sec La Montina
Tenute La Montina Via Baiana 17 25040 Monticelli Brusati (BS) Telefono: 030.653278 E-mail: comunicazione@lamontina.it Web: lamontina.com
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La cantina La Montina si trova a Monticelli Brusati, sui terreni morenici del Franciacorta. L’azienda, fondata nel 1987 da FIORAVANTE ANTONIO BOZZA, ed ora sapientemente seguita dai figli VITTORIO, GIANCARLO E ALBERTO, ospita anche il primo museo d’arte contemporanea del Franciacorta. Affina 24 mesi sui lieviti questo eccelso calice prodotto con uve Pinot Nero per il 60% e Chardonnay per il rimanente 40%. Nel bicchiere si presenta di un rosato limpido e pieno, mentre all’olfattiva sprigiona intense note di piccoli frutti rossi e tinte croccanti di lieviti dolci. Armonico al palato, dove il perlage è equilibrato e vivace, ben sgrassante. Un’armonia a 360 gradi, freschezza in equilibrio con le note morbide e delicate. Certamente adatto alla piccola pasticceria, grazie al tono zuccherino, non sfigurerà con alcune fette di cotechino, magari servito, come da tradizione, con uno zabaione prodotto utilizzando questo vino.
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BEVANDE
Il tè. Numeri, trasformazione, colore e storia di una coltura millenaria di Riccardo Lagorio
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l tè rappresenta il metodo di aromatizzare l’acqua più diffuso nel mondo. Degli oltre 30 milioni di quintali prodotti all’anno, la maggior parte di questa cifra proviene dall'Asia. Fa la parte del leone la Cina con quasi 2 milioni di tonnellate e a seguire l’India con 1,2 milioni. Dopo Sri Lanka e Vietnam, in rappresentanza del continente africano c’è il Kenya, con le sue 436.000 tonnellate. Secondo le
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fonti FAO, se la coltivazione di tè sta crescendo in oltre 35 Paesi, la maggior produzione rimane confinata in poche nazioni. I sette maggiori produttori immettono sul mercato il 90% della produzione mondiale e i primi dieci oltre il 94%. Anche il consumo di tè è in continua crescita, spinto dall’aumento del reddito pro capite nei paesi in via di sviluppo come Cina e India e nelle altre econo-
mie emergenti. La tendenza dovrebbe durare per almeno un decennio poiché in Occidente la propensione in atto è di creare miscele di tè e sostanze aromatizzanti come mandorle, frutti di bosco, zafferano. Consumatori giovani e di classi sociali agiate sono alla continua ricerca di prodotti che si integrino alle loro diete, che vanno includendo tè gourmet da acquistare in negozi
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specializzati che esaltano le proprietà benefiche di tè speciali, ristoranti esclusivi che fermentano tè per ottenere bevande (la kombucha è la più nota) e bar selezionati, che alleviano la controtendenza in atto nel mercato europeo, ormai saturo. Si potrebbe pensare che l’incremento di produzione di tè condurrà nei prossimi anni a nuove opportunità per le comunità rurali. In questo scenario
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la produzione di tè nero dovrebbe crescere annualmente del 2,2% nel prossimo decennio e raggiungere i 4,4 milioni di tonnellate nel 2027. I maggiori aumenti avverranno in Cina, Kenya e Sri Lanka. Il gigante asiatico scalzerebbe, secondo queste previsioni, il Kenya dalla prima posizione di esportatore di tè nero. Per il tè verde ci si aspetta un incremento persino
maggiore, con una crescita annuale del 7,5% e dovrebbe raggiungere nel 2027 i 3,6 milioni di tonnellate. Si prevede che la Cina ne raddoppi la produzione, dagli attuali 1,5 milioni ai 3,3 milioni di tonnellate. Cina e India sono anche i maggiori consumatori mondiali di tè, Russia e Stati Uniti sono rispettivamente quinti e sesti mentre l’Iran guida la classifica di consumo di tè pro capite.
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In alto: piantagione di tè (photo © bayu harsa – stock.adobe.com). In basso: cerimonia tradizionale del tè (photo © creativefamily – stock.adobe.com). Trasformazione e colore Il tè è il prodotto della lavorazione delle foglie di Camelia sinensis, un arbusto ramoso e sempreverde. La raccolta delle foglie può avvenire dalle tre alle sette volte l’anno. Commercialmente i germogli primaverili sono i più appetibili perché rilasciano un gusto più intenso. Le parti scelte per la raccolta fine sono le ultime due foglie e la gemma apicale, mentre per la preparazione di tè corrente si raccolgono anche le quarta e la quinta foglia. Esse vengono staccate con le unghie e un movimento verso il basso delle
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dita: la raccolta manuale rappresenta la più importante operazione che non è ancora stata sostituita con successo da quella meccanica. La classificazione del tè può essere fatta su basi diverse. La più semplice e immediata è per zona di produzione, ma si può creare una catalogazione avente come base la cultivar utilizzata, il mercato di destinazione e la pezzatura della foglia benché il metodo di lavorazione che le foglie subiscono dopo la raccolta sia quello più ampiamente seguito e rappresentativo. Con questo
criterio i tè possono essere non ossidati (verdi), completamente ossidati (neri) o semifermentati (oolong). In Cina si utilizza una particolare classificazione che distingue sei tipi fondamentali di tè in base al colore del prodotto secco o dell’infuso ottenuto. Una sorta di arcobaleno nella tazza e nella bustina che va dal verde, al giallo, bianco, nero, rosso e blu. I tè aromatizzati, profumati ai fiori (gelsomino in testa), pressati e decaffeinati derivano da ulteriori manipolazioni e trattamenti. Nel tè verde le foglie non subiscono il processo di fermentazione e producono un infuso chiaro e profumato. Le foglie vengono disposte su vassoi di canne ed esposte al sole per qualche ora. Successivamente, si somministra calore o vapore che fa scomparire buona parte dell’acqua presente e le rende mollicce. Si possono così arrotolare o appallottolare in base alle esigenze commerciali del consumatore. Per ottenere il tè bianco devono essere raccolti i germogli prima che si schiudano e da quel momento si procede a farli essiccare senza l’utilizzo di calore indotto. Il prodotto finale assume colore argenteo e l’infuso regala tinte chiare e aromi delicati.
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Il tè giallo viene sottoposto ad un processo termico di stabilizzazione come il tè verde, ma viene lasciato ingiallire per effetto dell’umidità e del calore residui prima di procedere con l’essiccazione. Gli oolong sono i tè che subiscono un parziale processo di ossidazione e quindi hanno un colore più o meno scuro e producono infusi più corposi e dal sapore più intenso di quelli verdi. Sono conosciuti anche come tè azzurri o blu. Se il gusto personale è rivolto a tè forti e ricchi di teina, allora la scelta cade sul tè nero. Giungere al risultato finale richiede un processo abbastanza lungo di appassimento delle foglie, arrotolamento, fermentazione ed essiccazione. L’arrotolamento viene effettuato con macchine, che piegano le foglie verdi facendone uscire gli olii essenziali. Poi vengono srotolate e ossigenate. La fase di essiccazione scurisce le foglie e blocca il processo degenerativo. Alcuni nomi commerciali sono assai diffusi anche sui banchi del supermercato. È il caso dell’Assam, il tè nero indiano, che offre una bevanda forte, dal sapore deciso e dall’aroma speziato. Anche il Darjeeling è di provenienza indiana e presenta un tipico aroma di uva moscato e retrogusto muschiato. L’Early Grey è invece il tè nero aromatizzato con bergamotto. Il nome si deve al primo ministro britannico dal 1830 al 1834, CHARLES GREY, che ne era particolarmente goloso. Il tranello che ingannò gli Inglesi e l’esperienza di Gileboom La storia della cultura del tè in Iran sboccia nel XV secolo, scalzando di fatto l’utilizzo di caffè, che proveniva da nazioni relativamente lontane. Poiché Cina e Iran erano da secoli collegati dalla Via della seta, l’approvvigionamento di tè fu assai agevole e questo elemento è ancora oggi alla base dell’elevato consumo pro capite nel paese mediorientale. La domanda di tè è stata per secoli crescente e l’importazione si tradusse in un continuo aumento. L’Iran fallì il primo tentativo di coltivare tè nel 1882, quando furono piantati dei semi provenienti dall’India. Nel 1899 il principe MOHAMMED MIRZA, che era nato a Lahijan, importò tè indiano e diede inizio alla coltivazione nella città
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Coppia persiana e musicista in giardino, dipinto del palazzo Chehel Sotoun a Isfahan, Iran. In Iran la cultura del tè ha preso piede nel XV secolo, scalzando di fatto quella del caffè (photo © radiokafka – stock.adobe.com). natale grazie a un astuto stratagemma. Egli era infatti il primo sindaco di Teheran e ambasciatore in India, quando questo Paese era un protettorato britannico. Gli Inglesi non gli avrebbero mai permesso di apprendere i segreti per la coltivazione del tè, che rappresentava la più ingente fonte di guadagno all’epoca. Così Mohammed Mirza, dall’ottimo francese, si fece assumere come lavoratore transalpino in una piantagione e in alcune aziende di trasformazione. Grazie all’immunità diplomatica di cui godeva, riuscì a portare in Iran dei campioni di tè, 3.000 alberelli dalla regione di Kangra e dei semi che avrebbe piantato a sud del mar Caspio, nel Gilan. Arruolò anche quattro maestri di tè cinesi. Il clima si rivelò ideale per la coltivazione del tè e l’industria si espanse rapidamente nel Gilan e nell’area di Mazandaran. Nel 1934 fu impiantata la prima industria e oggi il numero è cresciuto a oltre 100 per un totale di 35.000 ettari coltivati a tè, soprattutto tè nero. Il colore dell’infuso del tè iraniano è rossastro, dal gusto leggero (il tè raccolto in autunno, tra settembre e ottobre, è il più leggero e ideale per essere addolcito con miele di timo delle montagne intorno mentre quello primaverile, seppur più pregiato commercialmente, possiede
gusto più deciso e astringente). La produzione nel 2017 è stata di circa 140.000 tonnellate. Il mausoleo di Mohammed Mirza fa oggi parte del Museo nazionale del tè a Lahijan e alcuni contadini locali possono contare anche sulla passione di KHOSRO ROOSTA e MAHIN SHANSIKHANI per l’inizio di coltivazioni a carattere biologico e ad equa retribuzione. Khosro è stato architetto per 8 anni, Mahin ingegnere informatica. Durante un viaggio in Belucistan, l’incontro con una tessitrice locale è stato un colpo di fulmine che li ha convinti a lasciare la città per dedicare i loro sforzi e competenze all’agricoltura contadina e rispettosa della natura. Si sono trasferiti nel nord dell’Iran, a Ghasem Abad Sofla, 20 km da Ramsar sul mar Caspio aprendo un agriturismo e ostello dal mantico appellativo di Gileboom, ovvero dimora del Gilan (hitehranhostel.com/ gileboom-ramsar-hotel), ma soprattutto fornendo ai contadini locali la possibilità di sbocco di mercato per i loro prodotti e tutelare gli aspetti etnografici legati alla pastorizia. Riccardo Lagorio Nota Alle pagine 124 e 125 vari tipi di tè (photo © tan4ikk – stock.adobe.com).
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DOLCI
Il torrone di Agramunt Un prodotto antico della regione della Catalogna che vanta l’Igp. Il simbolo del Natale fatto di miele e mandorle o nocciole di Riccardo Lagorio
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e hanno ascritto la nascita alla celebrazione di matrimoni tra nobili, cartigli obliati in scrigni per secoli e persino a misterici rituali relativi al solstizio d’inverno, fatto da mettere il relazione alla presenza di alcuni suoi costanti ingredienti, come il miele che simboleggia la forza della vita e l’albume d’uovo, rappresentazione della rinascita. L’incondizionata fantasia di speziali prima e pasticceri e fornai in tempi più recenti hanno fatto del torrone uno dei prodotti simbolo delle feste natalizie e
le numerose varianti lo eleggono tra le proposte più diversificate della tavola. Se in Italia le capitali del torrone sono spalmate da Nord a Sud, da Cremona a Benevento passando per Tonara e Taurianova, anche l’Europa meridionale si rivela particolarmente attiva nel serbare la tradizione di questo dolce. Nella penisola iberica al torrone di Alicante replicano la vicina Jijona — peraltro le due indicazioni sono accumunate in un unico consorzio — e Agramunt, nella provincia di Lleida, che vanta un’IGP dal 2001. Le molle dell’economia cittadina
sono infatti il settore primario e la produzione di torrone. Senza dimenticare il turismo: Agramunt vanta sul proprio territorio la chiesa di Santa Maria, eccezionale esempio di tempio medievale. Le prime notizie accertate relative al torrone di Agramunt risalgono al 1741 nei carteggi tra alcune famiglie nobili e da allora la sua presenza è costante nelle fiere e nei mercati. La produzione si svolge tuttora su base artigianale, contando sulla vasta produzione agricola che le campagne intorno garantiscono. Il paesaggio è
Il torrone di Agramunt Igp è uno dei dolci tradizionali più conosciuti della Catalogna, elaborato in modo artigianale nel municipio di Agramunt dal XVII secolo.
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Il torrone di Agramunt è elaborato mescolando miele, zucchero, albume e nocciole o mandorle tostate. L’impasto ricavato viene posto tra due fogli di Pan de Ángel (ostie) rotondi o quadrati. Viene venduto in forma di tavolette individuali di diverse dimensioni e peso o in pacchetti da dieci tavolette
Si consumato soprattutto nel periodo natalizio, ma lo si trova facilmente anche durante tutto il resto l’anno. La zona di produzione corrisponde al territorio di Urgell, nel municipio di Agramunt, nella zona ovest della provincia di Lleida, a partire dal XVII secolo
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Produzione del torrone nella provincia di Lleida. infatti contraddistinto dalla presenza di mandorleti e noccioleti, dai quali si ottengono le materie prime indispensabili per la preparazione del torrone. L’uso di nocciole o mandorle è alternativo e segue due processi diversi: nel caso di impiego delle nocciole queste vengono tostate e successivamente sgusciate, mentre nell’utilizzo delle mandorle prima si procede a sgusciarle e poi si passano alla tostatura. Separatamente si prepara la base del torrone facendo cuocere il miele (e lo zucchero) fino al completo assorbimento dell’acqua, avendo cura di mescolare il composto continuamente. A questo impasto, leggermente raffreddato, si aggiungono gli albumi d’uovo e, dopo la preparazione appena descritta, le nocciole o le mandorle. Si mescola con cura e si divide l’impasto in tante aliquote che vengono messe sopra un’ostia, viene data forma discoidale e si ricopre con una seconda ostia. La struttura del torrone risulta irregolare e porosa, fragrante ma non troppo dura, dolce e croccante. Tuttavia la caratteristica principale del torrone di Agramunt IGP è che si scioglie facilmente in bocca. Se ne distinguono due tipologie in ragione della percentuale di mandorle o nocciole: se la frutta secca raggiunge almeno il 46% viene definito “extra” mentre si definisce di categoria “superiore” se la quantità arriva al 60%. In ogni caso, il contenuto minimo di miele è del 10% e di albume almeno l’1%.
Nella piazza del mercato, al torrone è dedicata un’opera dell’artista JOSEP GUINOVART, la cui famiglia era originaria di Agramunt: si tratta di una stadera con i piatti in equilibrio raffiguranti una colonna di dischi di torrone e un sacco di nocciole. Una delle famiglie benestanti di Agramunt che già oltre due secoli fa producevano torrone è la VICENS (vicens.com), che compare nei carteggi dove si cita il torrone nel XVIII secolo. Fino al 2000, come se il tempo si fosse fermato, le mani degli artigiani Vicens hanno plasmato i dischi di torrone. In quell’anno l’imprenditore ÁNGEL VELASCO e suo figlio ÁNGEL VELASCO HERRERO hanno acquisito la proprietà dell’azienda mantenendo la medesima ricetta di allora e dal 2010 aumentando la presenza commerciale in numerose città, tra cui Barcellona. L’edificio della TORRONS VICENS è tra i più esclusivi di Agramunt, a forma rotonda come le porzioni di torrone, e all’interno, attraverso enormi vetrate, si possono apprezzare le fasi produttive. Chi vuole, può approfondire la conoscenza della storia del torrone nel museo che sorge accanto alla fabbrica. Dal 2011 Ángel Velasco guida anche il Consorzio di tutela dell’IGP (Consell Regulador Igp Torró d’Agramunt; www. igp-torrodagramunt.com), organo che possiede una sua propria capacità decisionale pur essendo emanazione della Regione autonoma della Catalogna. Riccardo Lagorio
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ACETO
È nato il nuovo Museo Aceto Balsamico Giusti
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accogliere una sfida e vincerla: è quanto sta facendo l’Acetaia Giusti di Modena, che lo scorso 1o ottobre ha inaugurato il Museo dell’Aceto Balsamico e ha scelto di investire ben due milioni di euro sul cosiddetto turismo esperienziale. Presenti all’inaugurazione autorità locali — il presidente della regione STEFANO BONACCINI, l’assessore alle attività produttive PALMA COSTI, l’assessore all’agricoltura SIMONA CASELLI, il sindaco di Modena GIAN CARLO MUZZARELLI —, e i presidenti delle varie istituzioni rappresentanti l’aceto balsamico: la presidente del Consorzio ABM IGP MARIANGELA GROSOLI, il presidente del
Consorzio ABTM ENRICO CORSINI e il Gran Maestro della Consorteria dell’ABTM MAURIZIO FINI. L’aceto balsamico di Modena, anche noto come oro nero, ha origini antiche e ancora oggi prende vita in botti conservate nei sottotetti di molte case della città e della sua provincia. È un prodotto che racchiude in sé tanta storia e un saper fare che si tramanda di generazione in generazione. E il luogo in cui riposa per arrivare ad esprimere il meglio, l’acetaia, è ricco di magia. È dunque un prodotto eccellente, pieno di fascino e che merita d’essere raccontato. Proprio da qui è nata l’idea della famiglia Giusti di dedicare un museo
a questo tesoro del territorio che è anche un tesoro di famiglia: Giusti vanta infatti la più antica acetaia di Modena e ormai più di 400 anni fa, nel 1605, avviava le prime batterie di botti negli attici della casa di via Farini, in centro città. Il nuovo Museo Giusti, al centro di un borgo agricolo di metà Ottocento completamente ristrutturato, attraverso cimeli della famiglia e aziendali, propone un percorso tematico che ripercorre “la vita” del Gran Deposito di Aceto Balsamico di Giuseppe Giusti, a sua volta intrecciata con la storia d’Italia e d’Europa di tale periodo. Si va così dal censimento del 1605 fatto da quel CESARE D’ESTE che aveva appena trasferito
Claudio Stefani Giusti accompagna i primi ospiti in visita al Museo dopo il taglio del nastro inaugurale. Tra questi, il sindaco di Modena Gian Carlo Muzzarelli e il presidente della regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini.
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a Modena la sua capitale e nel quale compare la segnalazione dell’attività della Ditta Giusti, all’Esposizione di Firenze del 1861 indetta dal Principe dei Savoia, i nuovi Re d’Italia, in cui un Giusti riceve una medaglia di merito per un aceto di 90 anni, alle cinque Esposizioni Universali di fine Ottocento – Parigi, Anversa, Vienna, Bruxelles e ancora Parigi — alle quali i Giusti dell’epoca parteciparono portando botti di aceto balsamico e furono premiati con le varie medaglie che — esposte nel museo —, caratterizzano il logo e la storica etichetta del prodotto. Senza dimenticare la storia degli albori della litografia e tipografia per la stampa di loghi ed etichette e alle quali è dedicato uno spazio di approfondimento. Sono stati i risultati ottenuti dall’apertura al pubblico dell’acetaia — che nel 2017 ha fatto registrare ben 20.000 visitatori, l’80% di provenienza estera — a spingere CLAUDIO STEFANI GIUSTI, CEO dell’azienda di famiglia e rappresentante della 17a generazione alla sua guida, ad investire per creare un nuovo centro di incoming recuperando un antico borgo. Formato da tre edifici trasformati rispettivamente in museo, zona di maturazione con le botti antiche e sala degustazione, prevede la suddivisione delle visite in altrettante tre fasi: la narrazione della storia dell’aceto balsamico, la descrizione del metodo produttivo nelle acetaie e l’assaggio dei prodotti. L’antico fienile del borgo è la nuova sede delle storiche acetaie, il cuore del Gran Deposito: più di 600 botti e botticelle di oltre duecento anni, tutte ancora oggi produttive. In quella che era la casa padronale trova sede il museo e la vecchia “casa dei lavoranti” è stata invece adibita a sala assaggi, per permettere a tutti i visitatori di degustare in purezza tutte le qualità di ABM IGP e ABTM DOP. Per chi lo desidera, qui è poi possibile anche organizzare pranzi o cene in cui gli chef locali costruiscono menu appositamente pensati per valorizzare l’ABM. Nato per raccogliere e diffondere tale patrimonio storico e culturale, il Museo Giusti non vuole essere un’offerta a sé stante sul territorio, inserendosi e integrandosi in una rete di eccellenze che si esprime nel progetto Discover Ferrari & Pavarotti Land: un passaporto per un
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In alto: la sala del museo in cui è conservato il medagliere e il riconoscimento dell’aceto balsamico Giuseppe Giusti quale aceto ufficiale del re con relativa concessione e stemma reale. In basso: evoluzione della bottiglia per l’aceto balsamico Giusti. Quando intorno agli anni ‘30 del Novecento il commercio al dettaglio crebbe, Giusti iniziò ad imbottigliare i suoi aceti balsamici nelle bottiglie di vetro più diffuse in zona, quelle del vino Lambrusco. tour a tutto tondo nella cultura modenese che dà diritto alla visita al Museo Ferrari di Maranello e al Museo Enzo Ferrari di Modena, alla Casa Museo Luciano Pavarotti, alla visita guidata presso il MuSa – Museo della Salumeria di Castelnuovo Rangone (MO) e alle visite guidate con degustazione presso le Cantine Cleto Chiarli e Gavioli Antica Cantina e Mu-
seo del Vino, produttori di Lambrusco. Non è un caso se lo scorso 29 ottobre l’azienda abbia ricevuto il premio Best Practice di Food Community Awards, l’evento che ha l’obiettivo di far emergere le eccellenze imprenditoriali nel mondo della ristorazione e del food & beverage. >> Link: www.giusti.it
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TECNOLOGIE
CSB-System: la digitalizzazione non è fine a se stessa Ma è uno strumento per migliorare la filiera produttiva e ridurre i costi. Quattro chiacchiere col gruppo CSB-System, che offre soluzioni preconfigurate per tutti i comparti del settore Alimenti & Bevande
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logan come Industria 4.0 e Internet of Things sono onnipresenti, indipendentemente dalle dimensioni o dal settore in cui l’azienda opera. Per molte aziende la digitalizzazione presenta più domande che risposte. Quali tecnologie possono essere utilizzate? E quali soluzioni sono già presenti sul mercato? La CSB-System Srl, azienda leader nella fornitura di soluzioni IT all’avanguardia per le aziende del settore alimentare, si occupa già da tempo di questi temi. Obiettivo di quest’intervista è conoscere il loro punto di vista e capire qual è la loro posizione verso questi temi. 132
Il gruppo CSB-System è specializzato nell’ottimizzazione dei processi come poche altre aziende del settore IT. Quale strategia seguite? «Ottimizzare fa parte ormai del nostro DNA. Il nostro approccio è lo stesso di quando abbiamo cominciato, 40 anni fa. Individuiamo i processi, li ottimizziamo, li implementiamo in azienda in modo facile all’uso, per poi consegnare al nostro cliente uno strumento IT che egli possa utilizzare nella pratica di tutti i giorni. Abbiamo l’aspirazione di trovare l’optimum per tutti i livelli. Per raggiungere questo obiettivo, le aree esistenti in azienda
devono essere analizzate e migliorate tutte insieme. Solo sommando i singoli risultati si può ottenere il massimo effetto, in fabbrica come in ufficio. Non ha alcun senso, ad esempio, che il settore Acquisti funzioni separatamente dalla Produzione: è addirittura controproducente! Procediamo sostanzialmente in maniera ordinata all’ottimizzazione completa di acquisti, produzione, processi e giri. Ma questo lavoro non finisce mai. Le esigenze dei nostri clienti crescono e un buon software gestionale deve crescere con loro, anzi, deve addirittura anticipare le soluzioni a probabili future richieste». Premiata Salumeria Italiana, 6/18
Smart up your Factory! In questo contesto, parole chiavi come digitalizzazione, Industria 4.0 e Internet of Things sono diventate all’improvviso rilevanti. Come procede CSB-System all’attuazione di questi concetti nella pratica di tutti i giorni dell'industria alimentare? Una cosa è certa, non c'è modo di aggirare la digitalizzazione dei processi aziendali nÊ di ignorarla. I responsabili aziendali sanno, però, che tali investimenti non solo ripagano a medio termine, ma decidono anche le sorti aziendali future. Prendiamo ad esempio l’EDI (Exchange-Data-Interchange): ormai è diventato un pre-requisito essenziale per lavorare con la GDO. Dal nostro punto di osservazione privilegiato, vediamo che l’industria alimentare sta diventando sempre piÚ aperta e coraggiosa a proposito di networking e digitalizzazione. D’altronde, le prospettive sono allettanti: la digitalizzazione è in grado di ridurre i costi e aumentare la qualità a tutti i livelli della filiera produttiva. Notiamo, in altre parole, un approccio pratico da parte delle imprese: la digitalizzazione non è fine a se stessa ma diventa invece uno strumento, o meglio, un’opportunità per migliorarsi. Che ruolo gioca CSB-System sulla strada della trasformazione digitale? In qualità di fornitori di soluzioni IT all’avanguardia per le aziende del settore alimentare, ci vediamo tra i player principali della digitalizzazione. Grazie alla combinazione di software, hardware e consulenza facciamo in modo che i nostri clienti siano pronti Premiata Salumeria Italiana, 6/18
per la quarta rivoluzione industriale e si assicurino il loro posto anche nel mercato del futuro. Il nostro software ERP è modulare e integrato; può essere definito come il sistema nervoso centrale dell’azienda, ovvero la piattaforma dati dove tutto converge; perchĂŠ se non si dispone di dati affidabili, non è nemmeno pensabile di affrontare la trasformazione digitale. I dati sono il “carburanteâ€?Âť. Quali sono i progetti di cui vi state occupando al momento? ÂŤAl momento stiamo sviluppando App specifiche per la nostra nuova versione, che ci permettano di essere al passo con i tempi. Sempre piĂš spesso i nostri clienti hanno la necessitĂ di accedere al CSB ovunque si trovino tramite PC, tablet o smartphone. Stiamo migliorando i dashboard specifici per le vendite, la produzione ed il controlling, per poter richiamare informazioni precise e KPI (Key-Performance-Indicator). Ciò facilita il lavoro del personale di vendita, dei controller e dei dirigenti, migliorando al tempo stesso produttivitĂ ed efficienza. Abbiamo inoltre messo a punto un nuovo configuratore di processi per un’implementazione ancora piĂš veloce di processi standard e best practiceÂť. I big data sono giĂ un argomento tra i vostri clienti? ÂŤDipende ovviamente da cosa si intende per big data. Un nostro cliente, tra i maggiori per dimensione, elabora circa 225.000 movimenti di magazzino
La CSB-System augura ai propri FOLHQWL H SDUWQHU XQ )HOLFH 1DWDOH HG XQ ULFFR GL VXFFHVVL
Quanto ne sa il vostro software di carne? Il nostro davvero tanto. 3URFHVVL VSHFLĂ&#x20AC;FL GL VHWWRUH integrazione di macchine e LPSLDQWL PRQLWRUDJJLR H UHSRUWLQJ ULQWUDFFLDELOLWj RWWLPL]]D]LRQH ULFHWWH JHVWLRQH TXDOLWj H PROWR altro. CSB-System è il software aziendale per il settore Carne. La soluzione completa comprende (53 )$&725< (53 H 0(6 H LQFOXGH giĂ le Best Practice aziendali. Siete curiosi di sapere esattamente perchè i leader del settore si DŕŠ&#x2022;GDQR DO &6% 6\VWHP" CSB-System S.r.l. Via del Commercio 3-5 | 37012 Bussolengo (VR) 7HO _ )D[ info.it@csb.com | www.csb.com
CSB Factory ERP è tagliato su misura per l’ottimizzazione dei processi produttivi ed è quindi perfetto per la gestione degli stabilimenti produttivi di multinazionali e gruppi aziendali che impiegano già un ERP di gruppo. al giorno e 135.000 registrazioni di quantità in consegna. In questo caso sì che possiamo parlare di big data. Si deve però sapere che i big data non hanno una vita autonoma. Perché, a differenza dell’automazione di una
linea di produzione, la cui efficienza può essere misurata in maniera relativamente rapida, i big data devono essere integrati in una strategia a lungo termine. Successivamente, ci si pone anche la domanda su come utilizzare
e implementare le conoscenze acquisite dai dati. È chiaro però che la capacità di affinare i dati della propria produzione, assecondando e anticipando le richieste del mercato globale, diventerà presto un fattore di successo determinante».
Il Gruppo aziendale CSB-System offre da 40 anni soluzioni IT specifiche per il settore Alimenti & Bevande, in grado di gestire l’azienda a 360 gradi ed oggi, con le soluzioni software di elaborazione per immagini e di automazione, entra a pieno titolo tra i player della rivoluzione digitale, nella quale macchine, impianti e prodotti comunicheranno tra loro. Ma anche nell’era dell’Industria 4.0, il sistema ERP mantiene il suo ruolo di colonna portante tecnico-informatica dell’azienda: dagli acquisti alla produzione ed ottimizzazione ricette, dalla peso-prezzatura integrata fino all’efficiente preparazione ordini. I progetti logistici integrati e la rintracciabilità completa secondo standard nazionali ed internazionali, rappresentano altre potenzialità del software. Già nella versione standard “chiavi in mano” il CSB-System soddisfa tutte le esigenze del settore e grazie alla totale integrazione dei suoi moduli operativi Acquisti, Magazzino, Produzione, Vendite, Logistica, Controllo Qualità, Contabilità generale e industriale, Cespiti, Archiviazione documentale, Rilevazione presenze, Business Intelligence, i clienti CSB-System hanno raggiunto notevoli effetti di razionalizzazione dei processi, drastici tagli dei costi e veloci tempi di implementazione. Il gruppo offre soluzioni ERP per aziende di ogni grandezza e tipo. Le tipologie di software proposte possono essere così riassunte: il CSB Industry ERP è l’ERP per le aziende del settore Alimenti & Bevande che cercano una soluzione completa per l’azienda, CSB Factory ERP è tagliato su misura per l’ottimizzazione dei processi produttivi ed è quindi perfetto per la gestione degli stabilimenti produttivi di multinazionali e gruppi aziendali che impiegano già un ERP di gruppo. Mentre per piccole e medie aziende l’ideale è il CSB Basic ERP che già nella sua versione standard contiene le best practice aziendali per coprire le richieste di settore e del mercato. >> Link: www.csb.com
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LIBRI
Sanguinacci
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he cos’hanno in comune sanguinaccio, buristo e roventino? Ovviamente la materia prima, il sangue, sinonimo di vita e prezioso ingrediente in cucina fin dai tempi antichi, sebbene sia difficile dissociarne l’utilizzo alimentare dal complesso dei miti e delle ritualità ad esso collegati. Ripercorrendo la storia dell’uomo dalla Mesopotamia fino ad oggi attraverso Roma e il Medioevo, LUCA CIANTI, autore del volume Sanguinacci. Storia ragionata dell’utilizzo del sangue nella cucina tradizionale chiarisce come il sangue abbia sempre provocato timore, stupore e reverenza. La sezione più ampia e gustosa del libro è però dedicata alla tradizione gastronomica italiana: il testo presenta una vasta rassegna di ricette tipiche regionali, corredata da note e riferimenti bibliografici. Sono 70 e oltre i prepa-
rati, dai primi ai secondi e ai dolci, con ricette della tradizione povera che racchiudono un patrimonio di sapori e profumi da recuperare. Cianti, nato a Sant’Agata Mugello (FI) nel 1958, veterinario specialista in igiene degli alimenti, dirige i servizi veterinari e di sicurezza alimentare USL a Firenze. Ha al suo attivo oltre quaranta pubblicazioni sui vari aspetti dell’igiene alimentare e mantiene collaborazioni con università italiane dove svolge attività d’insegnamento ai corsi di specializzazione in Igiene degli alimenti di origine animale. La casa editrice Sarnus si concentra sulle eccellenze regionali per dimostrare il ruolo speciale della Toscana nella cultura nazionale e internazionale. Per connotare l’identità della casa editrice è stato scelto il nome del massimo fiume toscano in una variante già utilizzata da DANTE ALIGHIERI per Arnus.
LUCA CIANTI Sanguinacci Storia ragionata dell’utilizzo del sangue nella cucina tradizionale Casa editrice Sarnus, Firenze, 2016 128 pp. – € 12,00
Storia del gusto
U
n viaggio che comincia da Platone e arriva fino alla filosofia digitale, con qualche sosta nella storia, nella letteratura, nell’antropologia, nei mass media e con una vacanza piacevole nei dintorni della scienza. È Storia del gusto – A tavola con i filosofi di FELICE BONALUMI. Il volume è una narrazione dedicata al senso del gusto, da sempre il meno raccontato dei cinque sensi eppure responsabile di quasi tutte le nostre scelte che riguardano il cibo. Attraversando la storia greca, quella romana, medievale e moderna per poi approdare al postmoderno, Bonalumi ci racconta una storia avvincente, con corsi e ricorsi, ricca di aneddoti e persino di qualche nuova speranza legata alle più recenti ricerche sulla neurogastronomia. «Volevo che il libro fosse leggibile, come un libro di viaggi — spiega l’autore — corretto metodologicamente ma capace di prendere il lettore, affascinarlo e portarlo
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fino all’ultima pagina. Sono partito per una ricognizione in campo filosofico, allargandomi poi al settore storico e antropologico e infine a quello scientifico. Credo siano due le strade che mi hanno portato a scrivere. La prima è il mio interessamento per i problemi legati alla sensazione e alla percezione nelle varie correnti filosofiche. La seconda, quella che mi ha dato l’idea, è stata la constatazione della grande differenza tra le parole che nella lingua italiana sono legate alla vista, che rappresenta il senso principale, e quelle legate invece al senso del gusto, da sempre in fondo alla classifica dei sensi. Non ho dimenticato di raccontare il sesso e il suo rapporto con la cucina: d’altra parte la parola sapere indica l’avere sapore, non dimentichiamolo mai». Bonalumi, scrittore e giornalista, ha insegnato pubbliche relazioni in diverse università, ora presso CIELS-Unimed di Milano e Unicollege di Mantova.
FELICE BONALUMI Storia del gusto. A tavola con i filosofi Edizioni Paginauno, Milano, 2018 186 pp. – € 15,50
Premiata Salumeria Italiana, 6/18
Il profumo della tradizione, il gusto della qualitĂ .
Bacio della Luna Spumanti s.r.l. Via Rovede, 36 31020 Colbertaldo di Vidor TREVISO info@baciodellaluna.it www.baciodellaluna.it Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG Millesimato
Pinot Vino Spumante Extra Dry Rosè
Prosecco DOC Vino Spumante Extra Dry
Prosecco DOC Vino Spumante Brut