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Paesi, Lambrusco e Castelli Federica Cornia
La Ret, salame di Franciacorta
La Ret è il salame tipico di Capriolo, comune della Franciacorta a due passi dal lago d’Iseo. Si tratta di un insaccato tutelato dal marchio De.Co. (Denominazione Comunale) con una particolarità oggi sempre più rara: quella delle dimensioni importanti. Il peso della Ret varia infatti dai 5 fi no ai 14 kg, come risposta all’esigenza di un tempo quando la Ret, al pari di altri prodotti simili, era molto utilizzata in occasione di nascite, battesimi, matrimoni e per cibare i contadini durante il lavoro estivo nei campi. Le sue caratteristiche trasmettono la vasta esperienza acquisita dai norcini nei decenni passati. Tra le peculiarità della Ret troviamo l’uso esclusivo di suini allevati nel raggio di 30 km da Capriolo, la macinatura grossolana delle carni eseguita a coltello, la cubettatura del grasso e le già citate notevoli dimensioni. Come insacco vengono utilizzati lo stomaco o la vescica del suino, oppure la bondiana del bovino. Altro tratto distintivo il sapore, ottenuto grazie all’uso di salvia locale o scorza di agrume oltre che a sale, spezie e vino, aglio locale e a una buona dose di vino Curtefranca bianco.
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L’origine del nome è incerta. Alcuni propendono per la forma a rete dell’impasto del salume, una volta stagionato. Altri invece sostengono che derivi dalla similitudine esterna con lo stomaco retato del suino, dove avviene l’insacco. La Ret è protagonista della Sagra di San Giorgio di Capriolo, che si tiene ogni anno nel periodo di aprile. È inoltre disponibile presso le macellerie locali (fonte e foto: www.bresciatourism.it).
Il nome così evocativo di questo territorio, Franciacorta (che ha già in sé qualcosa di un poco leggendario e poetico), secondo la versione più accreditata avrebbe origine dalle corti altomedievali, site proprio nell’arco morenico, che con l’arrivo dei monaci cluniacensi godettero di franchigie (curtes francae).
Ma c’è un’altra lontana leggenda, altrettanto affascinante, la quale invece narra che Carlo Magno, conquistata Brescia longobarda nell’anno 774, pose l’accampamento a Rodengo Saiano e, giunto il momento di celebrare la festa di San Dionigi, che lui aveva giurato di festeggiare a Parigi, risolse la questione decretando che questa terra intorno a Brescia fosse da considerare come una “piccola Francia”, ordinando così che tutto l’intero territorio si intendesse proprio come Corte francese.
In ogni modo, qualsiasi sia l’origine del nome, sicuramente, quando arriverete in Franciacorta rimarrete letteralmente incantati da questo paesaggio davvero particolare e romantico, e vi stupirete per il singolare microclima che, grazie alla vicinanza del lago di Iseo, avvolge tutta la zona in una atmosfera davvero magica, concedendo di percorrere anche durante la stagione invernale, senza grossi problemi, tutti i diversi itinerari a disposizione dei camminatori.
I cammini sono tanti, diversi e davvero tutti molto suggestivi, e li potrete programmare e modulare in base alle vostre disponibilità di tempo nonché in relazione al vostro grado di preparazione e allenamento. È infatti possibile incamminarsi per escursioni semplici, adatte anche a famiglie, come gli itinerari con partenza da Erbusco oppure da Borgonato, o, in alternativa, dedicare una giornata ad una facile, lunga e rilassante passeggiata all’interno delle Riserva Naturale delle Torbiere del Sebino.
Per i escursionisti più esperti o comunque per gli adulti abituati a camminare, poi, non mancano percorsi con salite parecchio impegnative e con dislivelli importanti come, per esempio, l’itinerario sul Monte Alto, oppure anche percorsi più lunghi, come il Trekking Brescia-Iseo, il quale che richiede due interi giorni di cammino, sempre tra colline e panorami mozzafi ato.
Chiaramente, leitmotiv di qualunque itinerario deciderete di percorrere sulla strada del Franciacorta saranno poi le importanti e imprescindibili cantine della zona, ognuna magicamente incorniciata dai propri preziosi vigneti che regnano incontrastati nel silenzio delle colline. Le maggiormente suggestive che potrete visitare sono sicuramente le più antiche, le quali vantano un prestigio che non ha davvero nulla da invidiare alle cantine francesi di Champagne.
E così, al termine di ogni percorso a piedi in questa incantevole nostra “piccola Francia”, avrete la indimenticabile opportunità di farvi avvolgere dal profumo, dal colore e dal gusto di un calice di Franciacorta, il quale saprà rendere incredibilmente ancora più leggera quella tipica calma che si sprigiona solo durante il cammino, quando, magicamente, si possono fi nalmente coniugare la stanchezza sulle gambe e la felicità del cuore.
Elena Simonini
PAESI, LAMBRUSCO E CASTELLI
È IL NEONATO CAMMINO DELL’UNIONE IN PROVINCIA DI MODENA
di Federica Cornia
Camminare è in assoluto l’attività che preferisco nella vita. Camminare per più giorni di seguito poi è per me il massimo. È un’immersione nel paesaggio e contemporaneamente un’immersione in sé stessi. È una pratica di pulizia interiore. Mentre macino chilometri macino pensieri, li trasformo, alcuni li tralascio, altri li semino, altri li perdo e alcuni li abbandono proprio, mentre sulle spalle tengo solo l’essenziale. La fatica fi sica mi riporta al centro, al corpo, e, a fi ne giornata, mi ritrovo a vivere un senso di soddisfazione e pienezza che mi capita raramente di sentire.
Camminare per me ha l’effetto benefi co di un immediato ridimensionamento di tutte le dismisure che nascono dal troppo e inutile rimuginare. Per cui, non appena ho sentito che si preparava l’inaugurazione di un cammino proprio qui, dalle mie parti, in provincia di Modena, nella zona dell’Unione Terre dei Castelli1, non ho esitato un secondo e ho subito pensato: vado.
A piedi, zaino in spalla, ho percorso 102 km e riscoperto il luogo in cui vivo come un territorio davvero ricco sotto diversi punti di vista: storico-culturale, naturalistico e gastronomico. Un cambio di prospettiva cambia lo sguardo sulle cose: l’ho proprio sperimentato, e quel che mi era noto, dato un po’ per scontato, cucito insieme nel lento impasto di cinque giorni di cammino è diventato quasi esotico. Fin da subito.
Dalla partenza ai piedi della Rocca di Vignola, con gli occhi che vagavano su Palazzo Barozzi (o Palazzo ContrariBoncompagni) e che registravano lo stupore sui volti dei compagni di cammino alla notizia che lì c’è racchiusa una scala a chiocciola elicoidale totalmente aerea, un capolavoro architettonico e scenografi co di altissimo livello, realizzata su disegno di uno tra i più noti architetti del ‘500, JACOPO BAROZZI detto “Il Vignola”. Uno che, per dirne una, divenne architetto uffi ciale di un papa, Giulio III, uno che si intratteneva col Vasari e Michelangelo e che, quando quest’ultimo morì, portò avanti i lavori della fabbrica di San Pietro. L’illustre concittadino a cui il pasticcere EUGENIO GOLLINI nel 1907 dedicò quella che un tempo era la sua “Torta nera”, oggi conosciuta nel mondo come Torta Barozzi. Oltre a tingersi d’esotico, da subito il cammino si fa anche sorprendente:
A sinistra: due delle tre guglie rocciose nel Parco dei Sassi di Roccamalatina (photo © Francesco De Marco). In alto: crescentine montanare cotte nelle tigelle. Le crescentine montanare sono comunemente conosciute come “tigelle”, anche se si tratta di un nome improprio. “Tigelle” è infatti il nome degli stampi di terracotta con cui una volta si cuocevano le crescentine nelle zone montane dell’Appennino emiliano. I dischi di terracotta si mettevano a scaldare fra le braci del camino, poi si impilavano infi lando tra uno stampo e l’altro l’impasto con foglie di castagno per aromatizzare fi nché non fosse ben cotto.
lasciati i ciliegi sulla sponda del fi ume Panaro, visti quei cannoni, sempre e solo uditi, che sparavano alle nuvole per scongiurare grandine e pioggia sulle colture oggi protette da apposite reti, arrivati a Spilamberto, patria dell’Aceto Balsamico Tradizionale, scopro che in paese c’è la salma di un vero pellegrino. Di quelli del Medioevo.
Conservato in una teca, affi ora dalla terra e, insieme alle ossa, emerge il chiarore di una conchiglia, la capasanta, insegna di pellegrinaggio alla tomba di San Giacomo a Santiago de Compostela. La salma è ospitato nel Torrione, la torre più alta del circuito di mura dell’antico castello, costruito nel Duecento per far fronte ai Bolognesi sul Panaro, e oggi sede del Museo archeologico di Spilamberto.
È pieno di borghi, rocche, pievi e castelli il Cammino dell’Unione: lasciato Spilamberto ci si incammina verso le colline di Castelvetro e si entra nel borgo patria del Grasparossa passando l’arco a sesto acuto e salendo la scalinata che porta alla piazza con la scacchiera sulla quale in autunno, in occasione della Sagra dell’uva, si anima una dama vivente.
Volendo si può brindare qui alla chiusura della prima tappa, naturalmente con un calice di Lambrusco Grasparossa. Ma si può anche allungare un po’ il percorso, andare a visitare il piccolo oratorio di San Michele (VIII-IX secolo) e fermarsi a Levizzano, altro piccolo borgo circondato dalle vigne.
Da qui si parte per il secondo giorno di cammino intercettando un tratto del percorso occidentale della via RomeaNonantolana e si procede in direzione Marano, paese del luppolo a cui si arriva scendendo da un monte che offre una visuale a 360 gradi e toccando il borgo di Denzano, con torre e chiesetta matildica appollaiate su un’altura.
Da queste parti il paesaggio si fa argilloso, ai fi lari di Grasparossa si sostituiscono gli alberi e alle colline i cosiddetti calanchi di Costa d’Esen (Costa d’Asino).
Una volta a Marano, se siete uomini, scapoli e forestieri, fate attenzione quando riempite la borraccia alla Grama2, la fontana nella piazza del paese, che una vecchia canzone popolare sosteneva: “Il forestier che, scapolo, a la grama facendo un giro attorno, l’acqua beve, residenza a Marano prender deve, da
Borlenghi e ciacci
Il borlengo è una specie di crêpe molto sottile e croccante preparata a partire da un impasto liquido estremamente semplice (è da sempre considerato un cibo povero), a base di acqua, farina, sale, olio e uova: questo impasto è detto colla. La cottura avviene con l’utilizzo di grandi padelle piatte posizionate sul fuoco. Il ripieno tradizionale, detto cunza, consiste in un battuto di lardo, aglio e rosmarino, oltre ad una spolverata di Parmigiano Reggiano. Il borlengo si serve molto caldo e ripiegato in quattro parti. Si tratta di un cibo che fa parte della cultura e della tradizione della Valle del Panaro, inserendosi in quel panorama di pani conosciuti fi n dalla preistoria. La tradizione orale tramanda che si tratta di un cibo carnevalesco, cucinato nel periodo che dall’Epifania conduce al martedì grasso. Il termine borlengo, in dialetto detto burlang o burleng, deriva probabilmente da burla. Viene chiamato anche berlengo e berlingaccio, il nome con cui veniva appunto denominato il Carnevale in epoche medievali. Nella zona di Fanano è chiamato zampanella.
Il ciaccio, alla vista, sembra un incrocio tra una piadina e una crêpe: una piadina perché è tondeggiante, croccante, ma non troppo, e una crêpe, perché può essere sia dolce che salato. Come ogni piatto tradizionale, anche il ciaccio ha le sue particolarità nel modo e negli arnesi che si adoperano per cucinarlo. Si prepara impastando in una ciotola della farina (di grano o di castagne, quest’ultima preferita in passato perché più abbondante), dell’olio, del sale (in quello a base di farina di castagne no perché le castagne regalano al ciaccio una dolcezza che il sale rovinerebbe) e dell’acqua. I componenti vengono mescolati fi no ad ottenere una colla omogenea e senza grumi. La cottura è la parte più interessante perché vengono utilizzate delle padelle speciali chiamate cottole (singolare, cottola). Si tratta infatti di un unico pezzo di metallo, piatto, che presenta un manico (lungo come l’avambraccio) che verso la fi ne si allarga e prende forma di cerchio. Un’altra cosa interessante è che per cucinare una crêpe si usa una sola padella; per il ciaccio bisogna adoperare ben due cottole. Bisogna riscaldarle tutte e due sul fuoco, posizionare una cucchiaiata abbondante dell’impasto al centro di una delle due, poi posizionare l’altra sopra la prima e schiacciare perché il composto si appiattisca (ma non troppo). Dopo qualche minuto uscirà dalle cottole un ciaccio pronto per essere condito con pesto montanaro (come vuole la tradizione) o con prosciutto o formaggio. Il ciaccio di castagne dal bel colore marroncino tipico del frutto ha un sapore dolce che si presta bene ad essere consumato con ricotta e miele.
>> Link: www.museodelcastagnoedelborlengo.it
una ragazza attratto che lo ama”. E così… addio cammino.
Da qui il Panaro di nuovo accompagna per un po’ il viandante col luccichio e lo scorrere delle sue acque, prima di cominciare a salire e incontrare un sentiero disseminato di ponticelli in mezzo al bosco. Siamo nel Parco dei Sassi di Roccamalatina e, se è vero che la salita toglie il fi ato, proprio si rimane senza quando si esce dal bosco e ci si trova di fronte lo spettacolo naturale delle guglie arenacee dei Sassi.
Poco più in là, girando lo sguardo a sinistra, la Pieve di Trebbio, chiesa di epoca romanica con a fi anco il battistero ottagonale. È un luogo carico di bellezza, dall’atmosfera sospesa. Uno dei luoghi magici di questo cammino. E siccome la terza tappa è la più corta, la giornata è ideale per una visita alla pieve e per salire sul Sasso della Croce.
Nel tragitto potreste anche imbattervi in varie cassette di legno. Sopra le cassette, contenitori con dentro frutta e verdura e un cartellino col prezzo, il prezzo stabilito a tigiotto, cioè a contenitore. È il negozio a cielo aperto di Guido. Lui non c’è, ci sono però i prodotti che coltiva, una vaschetta in cui lasciare i soldi e da cui prendere il resto se c’è bisogno di farlo, e un foglio che parla di fi ducia negli altri, che, se non c’è, “la vita che senso ha”. Scrive più o meno così Guido. Insomma, siamo di fronte a una piccola pausa che è un ristoro per l’anima oltre che per il corpo.
Di nuovo si riprende a salire su per il bosco che si popola di castagni, per sbucare poi sulla strada poco prima del piccolissimo borgo di Castellino delle Formiche: qualche casa, una chiesetta del ‘400 e una torre medioevale che si alza da uno sperone di roccia, resi-
duo dell’antico castello. Niente a che vedere con i piccoli insetti neri, il nome del borgo deriverebbe da un’errata traduzione popolare del medievale Castrum Formigis, che rimanda al latino formido, formidabilis, quindi “Castello che incute timore”.
Si continua a salire e, tra strade e boschi, toccando Samone, si arriva al Monte della Riva, si conquista il Monte Cisterna e fi nalmente siamo a Montalbano, paesino che da qualche anno, nei mesi di gennaio e febbraio, si trasforma nel “Borgo dei presepi”, con l’allestimento di tanti presepi disseminati lungo le vie. A questo punto ci si può fermare qui o raggiungere Zocca, che coi suoi 759 m di altitudine è il punto più alto del cammino. Per chi ama VASCO ROSSI un salto al BiBap, il mitico bar in cui ancora si registra qualche apparizione estiva del rocker, a dispensare saluti e autografi ai fan, è d’obbligo.
Siamo al quarto giorno di cammino e da Zocca si comincia a scendere. Prima però il passo è lento e in salita ancora per un po’ perché si passa da Zocchetta, tra edifi ci medioevali e un’edicola seicentesca, per poi dirigersi a Montecorone. Altro borgo che custodisce schegge di un passato restituito con sorpresa sotto forma di un piccolo Cristo nero in cartapesta. Prima, a quanto pare, ad un gruppetto di donne intente a raccogliere legna nei dintorni del Sasso di Sant’Andrea che lo trovarono tra stecchi e rami secchi, poi a me, che entro nella piccola chiesa e ascolto la storia di questo insolito Cristo nero oggi nell’abside di sinistra della piccola chiesa del paese. Una leggenda diceva fosse collocato ai piedi del vicino Sasso. Pochi anni fa, il restauro di una pala d’altare posta sulla destra della navata centrale, ha mostrato la veridicità della leggenda, riportando in superfi cie la raffi gurazione di un piccolo uomo raccolto in preghiera ai piedi del Sasso di Sant’Andrea.
Vivo in questa zona da cinquant’anni e non c’ero mai stata. La meraviglia generata dall’emergere di questo gigante di pietra dal verde fi tto della vegetazione credo la ricorderò. Così come ricorderò lo stupore provato camminando sull’ampia spianata grigia della sua sommità. Da queste parti dicono che fermarsi un po’ qui, sulla spianata del Sasso, abbia un effetto rigenerante. Di certo lo è per gli occhi ammirare il panorama tutt’intorno.
Si prosegue e da qui si scende verso Guiglia. Lungo la strada si incontra l’Oratorio della Beata Vergine di San Luca che sollecita la memoria con un déjà-vu. E infatti l’Oratorio riproduce in misura ridotta il santuario della Madonna di San Luca di Bologna. Patria del borlengo e dei mastri borlengai, sede della “Scuola internazionale del Borlengo”, ogni anno, dal 1967, si tiene la sagra dedicata a questa sorta di crêpe servita con la cunza, un battuto di lardo, aglio e rosmarino e una spolverata di Parmigiano Reggiano o in altre varianti (vedi box a pagina 84).
L’ultima tappa, tra calanchi e colline, tocca i borghi di Castello di Serravalle e di Savignano sul Panaro. Se in quest’ultimo doveste capitare nel mese di settembre, lo potreste trovare pieno di gente e stand gastronomici in fermento per la “Lotta per la Spada dei Contrari”, un palio in costume che vede sfi darsi tra loro le 6 frazioni del paese.
L’arrivo è al punto di partenza, di nuovo ai piedi della Rocca di Vignola. Partenza e arrivo dallo stesso punto per scoprire che voi siete gli stessi, solo un po’ cambiati.
Ora che il cammino è fi nito e star leggeri non è più necessario, se c’è posto nello zaino si può cedere a qualche peccato di gola e portarsi a casa qualcuna delle prelibatezze che il territorio offre. Un promemoria della varietà gastronomica da non perdere, in sintonia con la varietà del paesaggio, lo riporta la Guida del Cammino dell’Unione alla fi ne di ogni tappa e al vostro arrivo di certo l’avrete già sperimentato almeno in parte: crescentine, meglio note come tigelle, accompagnate da pollo alla cacciatora, salumi, formaggi e confetture; i funghi, porcini magari, a condire un bel piatto di tagliatelle fatte a mano, se la stagione è giusta; verso la montagna, castagne e marroni la fanno da padrone.
Se raggiungerete Zocca ad ottobre vi troverete immersi tra i banchi e il profumo di brace delle caldarroste sballottate alla Sagra della Castagna e del Marrone Tipico. Da queste parti, sono da assaggiare anche i ciacci sempre realizzati con la farina di castagne e farciti con la ricotta, o le zampanelle. C’è poi il gnocco fritto, anche questo come le tigelle accompagnato da un tripudio di salumi. E ancora, i tortellini in brodo e i tortelloni con ripieno di ricotta e spinaci. Insomma, nello zaino, se c’è posto, si può infi lare una vera e propria dispensa: