L'arte di comunicare

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Indice

Introduzione

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Il potere creativo della parola La parola si fa carne Attento a come parli Parole e malattie

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Impariamo a comunicare Le sei regole d’oro per una comunicazione efficace La comunicazione con noi stessi La comunicazione nella coppia La comunicazione in famiglia e con i figli La comunicazione con gli amici La comunicazione nel lavoro

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I segreti dei gesti e delle parole Parlare in pubblico

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Manuale di autodifesa Sapersi difendere dai manipolatori verbali (e non solo‌) 133

Conclusione Noi siamo le parole che diciamo e ascoltiamo

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Bibliografia

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Introduzione

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ella vita di tutti i giorni comunicare dovrebbe essere semplice come respirare, mangiare o ricaricare le energie attraverso il sonno. Ma “comunicare” non significa semplicemente “informare”: vuol dire “entrare in relazione”, e dunque scambiare informazioni, messaggi, sensazioni, timori, desideri con soggetti esterni a noi. Come sosteneva Paul Watzlawick, celebre studioso della scuola di Palo Alto, in California, per ogni essere vivente non comunicare è praticamente impossibile perché - seppure il più delle volte noi non ce ne rendiamo nemmeno conto anche il silenzio, gli sguardi fugaci oppure penetranti, gli atteggiamenti non verbali o determinate posizioni del volto apparentemente irrazionali, sono aspetti che “parlano” per noi e manifestano il nostro modo di essere, l’universo dei nostri stati d’animo, il buio delle nostre paure. È infatti fin dalle prime ore di vita che iniziamo a comunicare con il mondo che ci circonda: un neonato che piange o che sorride agitando le piccole mani, per esempio, utilizza l’unica forma non linguistica a sua disposizione per attirare l’attenzione della madre; allo stesso modo, a mano a mano che si cresce, ci abituiamo a “leggere” il comportamento non verbale di chi ci sta attorno per capire se è sincero o se sta mentendo, se dimostra interesse, indifferenza o antipatia nei nostri confronti. Anche alcuni gesti come giocare con una ciocca di capelli, toccarsi la cravatta o l’orologio, inarcare le sopracciglia o incrociare le braccia davanti a un interlocutore, un’inclinazione del capo più o meno consapevole, le pause inserite tra una frase e l’altra raccontano di noi attraverso segnali che spesso sono del tutto inconsci. Ma devono essere comunque decodificati e compresi per vivere meglio e per relazionarci più serenamente con gli altri. Il nostro cervello, infatti, riesce a valutare qualcosa come 60 milioni di informazioni al secondo: registra le luci, i colori, le forme, gli odori, i suoni; circa il 90% di ciò che viene raccolto rimane a livello subliminale, eppure ci condiziona, agisce su di noi come un “messaggio” non verbale. In effetti, secondo gli studiosi, la parola influenzerebbe solamente il 7% dell’attenzione di chi ascolta, mentre 9


i messaggi non verbali avrebbero una capacità di condizionamento di circa il 40%. Per questo è molto importante distinguere, oltre alle parole, anche i comportamenti con i quali comunichiamo, non mediante la voce ma attraverso il corpo: come le posture, la distanza tenuta con l’interlocutore, le smorfie, i movimenti eseguiti con il capo o con le mani mentre parliamo, e così via. Questo libro, che nasce dall’esperienza dei Corsi di comunicazione che conduco da parecchi anni all’Istituto Riza e che comprende anche molti degli esercizi svolti durante gli incontri di gruppo, vuole essere una sorta di bussola per orientarsi nella geografia così ricca e variegata dei comportamenti comunicativi, verbali e non. Perché comunicare in maniera adeguata rende la vita molto più semplice, se non addirittura più godibile e serena: imparando a conoscere il valore del linguaggio e l’efficacia del tono di voce, il ritmo della narrazione e il significato del silenzio, l’uso della gestualità e i segreti della comunicazione corporea, diventiamo più consapevoli delle nostre intenzioni e interpretiamo meglio quelle altrui. E non corriamo il rischio di venire fraintesi in famiglia, nei rapporti con il partner, con gli amici e con dirigenti o colleghi sul luogo di lavoro. Non dobbiamo infatti dimenticare che una parola, un silenzio, uno sbattere di ciglia o una stretta di mano più o meno decisa, hanno il potere di cambiare la vita, la nostra come quella di chi ci è accanto. E nel momento in cui ne prenderemo atto diventeremo protagonisti di una piccola grande rivoluzione.

Vittorio Caprioglio

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La parola si fa carne Il primo dovere di un uomo è parlare: è questa la sua principale ragione di vivere. Robert Louis Stevenson, Memorie e ritratti

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he la comunicazione sia - oltre che uno strumento fondamentale per relazionarci con il mondo esterno - anche e soprattutto un’arte, è un fatto evidente e universalmente riconosciuto. Ma quanti sanno che le modalità con cui comunichiamo con noi stessi e con gli altri possono anche trasformarsi in una fonte di salute e benessere o, viceversa, in una causa di disagio e malattia? Ci sono infatti momenti e circostanze della vita in cui le parole riescono a diventare pesanti come pietre, taglienti come coltelli o, al contrario, non lasciare alcuna traccia là dove invece sarebbe stato necessario imprimere un segno. All’opposto, in altre situazioni le parole salvano, consolano, coccolano, restituiscono significato, scaricano tensioni e generano energia, trasformandosi da pura espressione emotivo-verbale in autentica terapia. Del resto, i grandi saggi in tutte le culture, anche le più antiche, lo sapevano: le parole creano, hanno il potere straordinario di cambiare la realtà e di modificare profondamente il nostro pensiero. Per la stessa ragione, il nostro stile di relazione e di comunicazione ci trasforma e modifica la realtà in cui siamo calati. E può essere portatore tanto di malattia e di disagio quanto di benessere e di gioia. In questo primo capitolo vedremo insieme come si può dunque utilizzare lo stile comunicativo come strumento per stare bene e in quale maniera eliminare dal nostro vocabolario le parole che generano incomprensioni e disagio.

Il “Verbo” nella tradizione «In principio era il Verbo…». Così inizia il Vangelo di Giovanni, un 15


Il potere creativo della parola

testo antichissimo che già mette l’accento sull’importanza creatrice del Logos, del Verbo che «… era Dio, si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». In pratica, l’evangelista ci racconta di una Parola che si trasforma in Essere Vivente. Ma di fatto: che cosa è questo “Verbo” e che cosa sono le parole che usiamo tutti i giorni? Da dove provengono? A chi appartengono? E soprattutto: qual è la funzione arcana e trasmutativa di cui sono portatrici? Le grandi Tradizioni non hanno alcun dubbio in proposito: nell’arco di tutta la storia dell’Uomo è infatti presente il concetto della luce che crea (dal latino “fiat lux” che ricorre nella Genesi), del fuoco che genera il mondo e della parola che - proprio come una sorta di laser luminoso e fecondante - si fa carne, sostanza, materia. La parola diventa persona. Del resto, «la parola ha lo stesso potere fecondante della cellula seminale», scrive Pavel Florenskij, teologo, pensatore e simbolista russo. Proprio come lo sperma attraverso la fecondazione genera una nuova persona, così la parola seminata nel cervello dà origine a nuovi modi di vivere e di pensare. Non solo. Sempre secondo Florenskij la parola sarebbe dotata di una vita propria e sarebbe simile a «un organismo che si scioglie, si stacca dagli organi vitali, che viene partorito e che nasce dal grembo della voce». Quasi a dire che ogni volta che parliamo partoriamo di nuovo noi stessi e nuove realtà nel mondo e tra le persone che ci circondano. Nel mondo occidentale grandi studiosi come Merleau Ponty sostengono che la cultura greca, culla della modernità, possa essere compresa soltanto se consideriamo i pensieri come parole: vocaboli che abitano dentro di noi dall’origine, e ancora prima della nascita. Anche in Oriente, per esempio nella tradizione indonesiana, si è sempre pensato che la mente e l’anima risiedessero nelle parole. A loro volta i Cinesi consideravano le parole come “il seme del mondo”, e per questo facevano molta attenzione prima di pronunciarle, perché ritenevano che a ogni organo del corpo corrispondesse un suono e che a ogni suono fosse legata una malattia: «Ogni parola pronunciata risuona in tutto il corpo, e ogni parola è il corpo stesso», recita, infatti, 16


La parola si fa carne

un’antica massima cinese. Come a volerci far intendere che le parole che ascoltiamo e che pronunciamo sono le medesime vibrazioni creative che generano noi stessi e il mondo che ci circonda. Per questo possiamo tranquillamente affermare che noi diventiamo realmente le parole che pronunciamo, quelle che abbiamo ascoltato e che continuiamo ad ascoltare. Con quale risultato? Facciamo qualche esempio: se ascoltiamo solo parole inutili, se siamo sepolti dalle frasi fatte, dai saluti banali, dai modi di dire vuoti di significato, alla fine diventeremo inutili, perché noi siamo le nostre parole, ossia intelligenza che si trasforma in fiato, plasmata attraverso il linguaggio (e non solo come vedremo più avanti - attraverso il linguaggio verbale). Allo stesso modo, se una madre continua a ripetere a un figlio, per sua natura non troppo espansivo, che è un “ragazzino timido”, la timidezza si radicherà concretamente nel comportamento del bambino, quasi che il giudizio verbale del genitore riuscisse a plasmarlo e a renderlo sempre più corrispondente al contenuto del giudizio materno, invece che spronarlo a diventare diverso e a portare allo scoperto la sua vera identità.

La forza creatrice e trasformatrice delle parole Parlare sembra essere l’attività principale della nostra esistenza: parliamo tanto, parliamo troppo, parliamo spesso in modo casuale e inutile, giusto per dire qualcosa e riempire con frasi banali un silenzio che ci fa paura. Quando, infatti, non riusciamo a scambiare qualche parola con chi ci sta di fronte, veniamo assaliti dall’ansia e cerchiamo di rimediare dicendo “qualcosa”, “qualunque cosa”, il più delle volte a sproposito. Viviamo immersi in un mondo votato alla comunicazione, alla chiacchiera, allo scambio di opinioni sempre e dovunque: in famiglia, nella coppia, sul lavoro, in televisione, dove dominano i dibattiti e i talk show su qualunque argomento, in Internet, dove i forum di discussione e le chat lines sono sempre più affollati, sui nostri cellulari, con i quali dialoghiamo con il mondo usando il linguaggio essenziale dell’sms. Eppure oggi più che mai, nonostante dappertutto si parli di comunicazione, sorgono sempre maggiori difficoltà in quella che invece dovrebbe 17


Il potere creativo della parola

essere un’attività spontanea, naturale, piacevole, gratificante: interagire con noi stessi e con il nostro prossimo. La filosofa indiana Vimala Thakar, allieva del saggio J. Krishnamurti, è molto chiara nel rivolgerci un avvertimento che dovrebbe spingerci alla riflessione: «Chi comprende che il parlare agisce sull’intero essere, sarà molto sobrio nell’uso del linguaggio». Come mai? Se la parola è energia, sprecarla o disperderla incautamente ci indebolisce, usarla con accuratezza e attenzione al contrario la conserva e ci rafforza. Se dunque è vero che parole e materia sono così strettamente collegate, al punto che le parole stesse sono ciò che genera la sostanza del corpo e del mondo, ne consegue che parole “sbagliate” possono dare origine a materia sbagliata, mentre parole “giuste” possono produrre benessere in virtù di uno scambio di energia di cui noi stessi possiamo essere soggetto attivo (comunicatore) o oggetto passivo (destinatario-ricevente). Per questo stesso motivo parlarsi addosso, continuare a lamentarsi, autocommiserarsi, sono abitudini molto più nocive di quanto si possa credere: le parole del lamento nutrono i circoli viziosi del pensiero, creano confusione e ci incollano addosso una specie di “corazza emotiva” fatta di definizioni negative e pessimistiche, che col tempo aderisce sulla nostra pelle e ci fa vivere male. Enorme e arcano è quindi il potere delle parole, la cui forza trasformativa può essere utilizzata per combattere contro quella convinzione, fin troppo radicata nel pensiero occidentale, secondo cui «qualsiasi cosa facciamo, in fondo la nostra vita non cambierà». È questa un’ottica di predestinazione e di fatalismo contro la quale le parole possono fare molto. Tutto sta nel saperle utilizzare nella maniera giusta. Vediamo come e perché. Esistono parole che curano e parole che fanno ammalare Gli Egizi ritenevano che la malattia non dovesse essere mai nominata. Perché? «I mali non si nominano, per evitare che i mali si creino», rispondevano i sacerdoti. Nominando la malattia, infatti, si riteneva che si potesse scatenare una serie di infinite associazioni che, come in un vero e proprio processo di determinazione energetica del reale, finiscono per farla esistere concretamente, come vedremo nel capitolo Parole e malattie. ■

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La parola si fa carne

Perché non ci chiediamo mai, allora, se dentro di noi esistono le parole per guarire? Perché non andiamo a cercare le parole e le frasi che sanno “curarci”? Seguendo un processo di costruzione inverso rispetto a quello che conduce dalla parola alla malattia, sarebbero le parole che potrebbero aiutarci a stare bene. Ma attenzione: un processo del genere non ha nulla a che fare con la filosofia del pensiero positivo, secondo la quale affermare che i disagi non esistono e che ogni problema si può sempre risolvere ci porrebbe già sulla via del successo. Questo è un altro discorso: una parola che cura e che non amplifica il disagio, ma lo scioglie, è un utile strumento per liberarsi da uno stato di frustrazione, di depressione o di ansia creato dall’abitudine a ripetersi parole “nere”, cioè dal contenuto negativo. Ecco qui di seguito le indicazioni per procedere in questo senso. • Scopriamo le parole che purificano e dissolvono i disagi Proviamo ora a riflettere: quante altre parole che sortiscono effetti simili a quelli indotti dall’avverbio “più”, dal “mai” o dal “sempre” noi ripetiamo quotidianamente a noi stessi e agli altri, senza nemmeno rendercene conto? Il filosofo russo George Ivanovic Gurdjeff sostiene che «noi diventiamo le parole che ascoltiamo». Allora, se questa constatazione è vera, l’operazione più utile che possiamo mettere in atto per stare bene è cercare di dissolvere e di imparare a non usare le parole “sbagliate”. Per parole “sbagliate” intendiamo tutti quei vocaboli, lemmi o frasi che ci impongono standard, ritmi, modelli, attributi, qualità fisiche o mentali, stili di vita e aspirazioni che non ci appartengono, ma dei quali crediamo di doverci “vestire” per poter essere accettati. Dunque, potremmo seguire l’insegnamento contenuto in una delle massime del saggio indiano Sri Nisargadatta Maharaj, che recita appunto: «Dissolvi le parole». Soltanto così, infatti, la materia creata dal linguaggio (e quindi anche il disagio o la malattia indotti dalle parole) perderà forma e consistenza, fino a svanire nel nulla. • Cerchiamo i suoni che aprono “le porte” interiori In ognuno di noi esiste un principio creatore che continuamente ci 19


Il potere creativo della parola

rigenera e che riassume in sé tutta la filogenesi e l’universo stesso. Anche per questo le parole, con i loro significati e i loro suoni, sono importanti: perché possono aiutarci ad accedere al nostro principio vitale e creativo, e ci guidano verso quell’energia che è in grado di generare benessere. Ma se si tratta di parole “sbagliate”, questa potenza creativa può diventare distruttiva e scatenare la malattia. Se invece noi fossimo in grado di trasformare le nostre emozioni in suoni, scopriremmo di poter accedere a stati dell’anima altrimenti sconosciuti. È ciò che del resto avviene nella preghiera, che da sempre in tutte le culture e presso tutti i popoli è intesa come un’emissione di suoni e parole che consentono di estraniarsi dalla propria singola individualità per accedere a uno stato “altro” (ossia “diverso”) di coscienza, che ci trascende tutti e ci cala nella totalità dell’Universo. Ogni volta che ci è possibile, quindi, pronunciamo parole carezzevoli e usiamo toni di voce pacati, ascoltiamo i suoni che ci cullano e le vibrazioni che ci rilassano; impariamo anche a soffermarci ad ascoltare le voci della natura (il vento sul mare, l’acqua gorgogliante di un torrente, il fischio delle marmotte in alta montagna), un brano di musica classica a volume moderato, il canto di un bambino… Sono tutti suoni rigeneranti che agiscono sulla nostra psiche come veri e propri depurativi. • Usiamo le parole che ci appartengono e riscopriamo il valore terapeutico del silenzio Proviamo allora a cambiare il nostro stile di linguaggio e le modalità di comunicazione. 1. Riduciamo il numero delle parole. Innanzitutto, impariamo a pronunciare i suoni giusti e il giusto numero di parole, solo quelle che ci servono per esprimerci in modo adatto a noi, alle nostre reali esigenze. Facciamoci caso immediatamente: domandiamoci, per esempio, se stiamo usando le parole appropriate per manifestare le nostre emozioni, se parliamo per abitudine, se ripetiamo sempre le stesse parole come intercalare nel discorso… Consideriamo tutte queste variabili e verifichiamo come potremmo comunicare in maniera diversa e più naturale. 20


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