Paso Doble Questa non è un’antologia A cura di Francesco Forlani
Ogni estate accade su Nazione Indiana, quando l’aria sa di sabbia o di polvere e si frequenta il sito con la stessa nonchalance con cui si entra nell’unico bar aperto d’agosto nel quartiere. Così ogni estate mi piace inventare dei giochi da tavolo e scrittura convincendo, chissà per quale miracolo e fortuna, gli avventori a partecipare; qui c’è il Monopoli, il Risiko, Trivial, un bel mazzo di carte napoletane. Nell’estate del 2009 chiesi a poeti, scrittori o semplici lettori di partecipare a una gara di Paso Doble. I passi raccolti in questa piccola silloge stanno a testimoniare non solo l’eccellente tenuta, la grazia da ballerini provetti di quanti accettarono di partecipare alle danze ma anche la cura che ebbero nel lasciarsi andare gli uni nelle parole degli altri. Questa, lo ripeto, non è un’antologia di poesia ma une soirée dansante, ovvero poesia. Buona lettura. effeffe
due passi ( fare )
27 agosto 2009
Francesca Bertazzoni Antonello Sparzani
Francesca
Là, tout n’est qu’ordre et beauté, Luxe, calme et volupté. Il giardino apparve, imprevisto, dopo cinquanta metri di sterrato. Le parve, allora, che l’invito di Baudelaire risuonasse più nitido. Il verde traboccava ovunque, grondava da foglie di potus, da orchidee annidate nel cavo di un albero, da lucidi ventagli di palme. L’odore era finissimo e inebriava come un cesto di frutta ancora acerba. Quando attraversò il prato e un’iguana grossa come un gatto le passò a un metro non sussultò neppure. Il giardino era all’erta, la osservava senza provocare inquietudine. Non avvertiva, per una rara volta, alcun impulso a difendersi. Ogni pianta era stata visibilmente aiutata, irrigata, lasciata crescere; nessuna volontà si era però sovrapposta a quella degli alberi. In luoghi così ogni desiderio svanisce, l’acqua gocciola sul giorno razionale stingendone i colori. L’infinità dei verdi non le faceva rimpiangere l’assenza di fiori: le foglie custodivano segreti seducenti nella loro curve imprevedibili, come la sensazione di un sapore squisito. Osservò, sulla vasca quadrata dell’acqua, le api che si posavano con cautela per bere. L’acqua sembrava densa e muschiosa. Tutto, lì, era foglia, tronco e terra, era fragile e inesorabile. Più tardi, si lasciò cullare dall’amaca, galleggiando in un fluido dorato, in un lucore gentile. Nella notte, sorprendentemente quieta, udì solo pochi insetti vibrare, forse un fruscìo poco oltre la soglia. Quei giorni il tempo fu ferocemente caldo, nonostante fosse periodo di piogge. Andandosene, portò via il piccolo rimpianto di non aver visto la pioggia nel giardino.
Antonello
BrillÏo Com’è quel ritmo giusto che senti nelle foglie, che insegui con incerto tremore, e con il gusto di quel che ancor non sai, ma che vedi brillare tra le coltri brillanti di salici lontani, che vorresti vicino entrare nel tuo sterno – e che sfiori al baleno del suo sorriso giusto.
due passi ( fare )
24 agosto 2009
Chiara Daino Jacopo Galimberti
Chiara
[ M. C. ] e fammi vedere: quanto maschio puoi diventare questo è quello: il solito – noioso insicuro, bevo e mi trastullo al sole e non articoli che molli frasi fatte patologiche – e farmi femmina felice, forse credimi: non è in tuo potere. ho la buona creanza di non fingere m’interessi quello che – mi dai a bere [ que se muere dìa a dìa! no quiero beber de tu rio] vuoi figurare? voglio finire! in fretta questa farsa covo un comodo atto unico! chetichello dal Circo para boca te chupo todo: temblor corto y rápido sei il nocciolo che sputo, senza drupa di ciliegio sei tedio come ogne membro o ponte lungo come la coda – in strada – com’autunno capita una volta all’anno: ripeti la funzione periodica! mi chiedi cose così: nuovi malanni e vecchi fastidi ampolla il Nero la bocca diAvola – e cocci di corpi chiusi nel come nel dove – gettòno musico la solita solfa del solito spunto al solito bevo – «in nomine Beck’s et Whisky y Frozen Daiquiri », bevo «in nomine Brandy Vodka et Cuba Libre» brindo «en el nombre del Mambo, della Rumba y del – Cha cha cha»
poetica le sette lettere della parola epatica poeta le sette note disturba in una parola ematica – si sanguina quale derma quale cena quale stella? scarica a cielo aperto, concimi bene anche a te ridiedi: la voglia di ridere vita e sangue che mi succhi e ti nutri e dimentichi l’altra – e mi dimentichi dormi placido dormi pago dormi profondo bevo la cucina bevo piango bevo tutto il tuo vino, un vino davvero vecchio, marziale epigrammata: per un vecchio che finge di essere giovane non inganni personam capiti detrahet illa tuo – sono quella Proserpina quella che presto strapperà dal tuo volto la maschera quello che ti doveva ha fatto: sei in salvo dai fantasmi e adesso che tutto il vino è finito, mi asciugo la bocca e allungo il passo: prendo la porta e chiudo il cappotto quanti incubi posso affrontare senza più dormire? Cameriere, lascia stare! non serve – un altro – calice versa qui il veleno, qui dove: brucia bene. la ferita!
Jacopo Sollevarono la testa verso l’alto apparsa, oltre il cespuglio che li nascondeva, la luna. Una reminiscenza liceale lo fulminò: “La luna è il ricordo di una deflorazione celeste. Forse ancor prima del menarca, la Terra, giovane e incandescente, venne prese di mira da un asteroide libidinoso che, un giorno, si tuffo’ a bomba nella gigantesca bacca granata. Spacchi, schegge, cocci, tronconi, banane grandi come regioni presero il largo verso l’alto, verso l’altro. I frammenti sciamarono all’unisono per milioni di anni, come una costellazione impura. Curiosi, si approssimarono, si unirono e tornirono in un cielo senz’aria, rosi o cesellati solo dal tempo”. Gli occhioni accidentati, oltraggiati, improvvisarono una piccola marea, che li travolse, insieme al menarca, al cespuglio e al liceo.
due passi ( fare )
23 agosto 2009
Giovanni Cossu NatĂ lia Castaldi
Giovanni
Nurra (2 agosto 1980) (Aride) feci di vacca sgranate tra tumuli arcigni di pietre narranti la storia: la guerra raggiunge la pace : grugniscono i porci e ignorano i segni di un’alba col taglio già pronto a festa di sangue E mosche e formiche distratte e sibili folti eruttano foglie, cispose Un marcio colore dipinge , ristagna.
Natàlia Ero una donna (2 agosto 1980) Ero una donna, camminavo per strada: pesanti i sacchi della spesa, scendevo le scale della stazione. Tornavo all’odore dei miei panni, ero una donna con la spesa per la cena. Sono brandelli di carne nello scoppio di un odio senza nome: – lo chiamano ideale … ma io non ho più avuto amore – Tumuli di pianto e fiori secchi nel silenzio delle fosse senza più dolore: solo memorie e vili vivi, nel canto delle foglie un autunno perenne.
due passi ( fare )
17 agosto 2009
Mario Schiavone Gaja Cenciarelli
Mario
Primo passo “Signorina R, stiamo arrivando“. Mi comunicano da un luogo lontano. Per farlo usano il telefono che non ha la spina nel muro. Risperdal® E’ indicato nel trattamento delle psicosi schizofreniche acute e croniche. Somministrazione giornaliera: 0,5 mg. Tempo: Passaggi del Sole sul meridiano. Luogo e tempo: Dormo nel letto di una stanza chiusa a chiave, con le mani legate da fodere di cuscini bianchi. Ai piedi del mio letto un tavolino: regge un televisore che trasmette l’immagine fissa di un mezzobusto in camice bianco. La tv pare un teatrino, lui un burattino senza anima, io un corpo mal-animato e senza mani. “Non siate spettatori della vostra vita: seguite le cure del personale curante. Non siate spettatori della vostra vita…” ripete lui sempre uguale, ricorda una centrifuga di lavatrice. “Sta buono tu, che sei rinchiuso in quella scatola parlante!”- grido io. Tempo futuro: Dalla brochure di accoglienza del centro salute mentale “Il girasole”: -Riceverete oltre a questo opuscolo anche l’informazione sul diritto di ricorso e i nostri numeri di telefono.
Gaja
Secondo passo. “Non trattarmi male: io ti seguirò sempre, sono con te, non ti lascerò. Non sarai mai sola. Riempiti gli occhi di me. Mi vedi? Guardami. Cos’è la libertà? È stare chiusi in una scatola. La libertà è confine. Cos’è la libertà? La libertà è limite. È assenza di pensieri. Tu non devi scegliere. Pensiamo a tutto noi. Questo è libertà. Assenza di pensieri”. Luogo e tempo: dal letto della mia stanza chiusa a chiave osservo il mezzobusto in camice bianco che sorride. È un sorriso rassicurante. Non rispondo più e ascolto. “Guardami. È bello stare rinchiusi. Fare significa sbagliare. Muoversi significa pensare. La libertà è assenza di pensieri. Io sono felice di stare qui dentro. Fuori è la terra del forse. Resta con me. Qui non ci sono incertezze. Qui c’è il sempre e il mai. Fuori è paura. Dentro è difesa”. Continuo a guardarlo.
due passi ( fare )
16 agosto 2009
Luigia Sorrentino Franco Arminio
Luigia
sono ora al tuo cespuglio in quella tinta cresciuta dalla nostra sostanza immensa la voce staccata dal corpo segna l’opera il taglio della carne nel frammento tutto l’occhio avanza fino a te che ascolti il gocciare, piccole macchie sulla tela, quel lampo che ferisce il sogno colpendolo in pieno viso la mutilazione, la sagoma del tronco diviso il ricovero della carne nella separazione con i mattini ventosi sull’acqua tutta colma la materia del giardino colpita così illuminata e sola la luce da sé sparsa scorporata il cespuglio, il cespuglio caro
Franco
Siamo pronti all’amore quando gli altri se ne vanno. L’amore è un sentimento che nasce sulle rovine, non dentro le case arredate. L’amore nasce quando ci tagliano le mani e noi proviamo ad accarezzare l’altro con l’arto fantasma. Non c’è mai l’amore quando siamo reciprocamente gentili e disponibili, quando capiamo gli altri e noi stessi. L’amore, come la poesia, è dentro fessure in cui cadiamo, è una storta della nostra vita, è una rottura dei legamenti, non una cosa che ci unisce. L’amore ci fa più soli e perduti, non ci mette in pace con niente e con nessuno, ci rende indisponibili alla saggezza, ci fa vedere che la vita è sempre piccola e ottusa quando non è squarciata dalla morte, dal desiderio inappagato. L’amore ci prende per toglierci dalle manfrine di quello che facciamo e diciamo ogni giorno. L’amore non è una faccenda che riguarda il nostro corpo o quello degli altri, ma il vuoto di cui siamo composti, è una faccenda che riguarda le stelle che luccicano nel buio delle ossa.
due passi ( fare )
15 agosto 2009
Helena Janeczeck Carmine Vitale
Helena Ho una piccola penna nel portafoglio che hai strappato via due giorni dopo all’ala azzurra che forse ha condannato un uccellino ignoto sotto ai tuoi occhi. Gli hai dato acqua che non riusciva a bere, gli hai offerto cibo che non credevo adatto: volevi dargli cioccolato in mancanza d’altro, finendo per spaccargli col piede di una sedia i primi pinoli che hai raccolto. Con cura e carezze di un bambino che si rispecchia in un simile di un’altra specie, l’hai snaturato. Per salvarlo. Per scoprire che non sanguina e non scoppia, che è fatica dentro e non l’arresti, la morte che fa schifo ed è ingiusta. Da morto gli hai dato un nome: Cresselia L’hai chiamato come una creatura d’aria venuta da Oriente con un videogioco. Hai pensato una preghiera vicino al suo corpo. Hai strappato una piuma per portarla addosso senza paura di contaminarti. Hai fatto tutto giusto. Come facevi a sapere che si nutre di ghiande, che è diffusa dalla Maremma al Giappone, se non ti fosti evoluto senza saperlo come un Pokémon di specie leggendaria, sino a ritrovarti in una ghiandaia giovane per amore e per bisogno.
Carmine
Capisci, è successo qualcosa Una delle Erinni ha smesso di vendicarsi Ha interrotto il discorso Dai treni si vedono alberi E lontano come in un disegno, un fiume Il cielo turchese è già andato Si vede l’amaranto e il rantolo del sole un cane abbaia al nulla della notte è una misura colma d’acqua Ci assolve il giorno e la vista di una tigre occasionale i nostri atomi trasformano gli spazi si ostinano ad andare si schiudono reagiscono si fanno gioielli comete cristalli lo sai che sparano ancora gli uomini agli uccelli? È per questo che dal cielo cade un rosso sangue Che finisce nel nero del catrame Che provoca il dolore e l’animale Una sorta di macelleria stellare
Poi ti svegli E senti Tu la mia voce E non è un sogno Dall’altra parte della strada Gli spazzini sono già al lavoro Gli uccelli in fila guardano Cade la neve d’agosto Il rumore è bianco
due passi ( fare )
14 agosto 2009
Francesca Tini Brunozzi Franz Krauspenhaar
Francesca Tini Brunozzi & Franz Krauspenhaar I Siamo nella nevrosi abbandonati a noi stessi, stelle sverse, già perse senza più luce noi due disgraziati. II Abbandonati a nevrosi perverse sole nero tu, luna senza luce io, adombrata da terre emerse. III Io, a metà della notte che cuce secondi, le ore maltolte al giorno le speranze che la veglia riduce IV in distanze, per andata e ritorno di luce e ombra, di chiaro e di scuro da cui io fuggo e per sempre ritorno V al destino, che a volte è il pane duro
di una mensa di grigio quotidiano che a volte si è imbandita al sole puro.
VI Sole puro, demone meridiano della mia cecità il colpevole dei miei occhi lo specchio e il guardiano. VII E così sia, per sempre mutevole, la vita che ci guarda, gatto fedele, ci avverte con ghigno consapevole. VIII Chiamo luce, accendo due candele a propiziarti la tua buona stella in spirito dell’aria, dolce Ariele. IX E chiamo il vento, che curi la bella pelle di ieri per oggi e in futuro e acqua, che a un corso nuovo sia sella X di ippocampo, e chiedo per te amore, fuoco, di nuovo luce, padre, sole che scaldi ossa e allevi dal dolore.
due passi (fare)
13 agosto 2009
Anna Maria Papi Lorenzo Galbiati
Anna Maria
poesia per un lorenzo anche stanotte il cielo ci ha tradito delle stelle promesse neanche una soltanto una lampara disattenta e un semaforo giallo permanente questo è il nostro paesaggio o meglio era nel perchè dalle sedie addormentate guarda è l’azzurro sotto la cabina e il gabbiano di tutti i mezzogiorno in pausa pranzo e arriva la controra. C’era quel tetto forse albero o forma c’era l’impertinenza della vita angolo retto lumaca o formica ecco un veliero con la meridiana guarda sul ponte è ferma la clessidra è giorno già da tempo intorno a noi.
Lorenzo
Il vaso si è infranto e livide schegge impazzite corrono urtandosi lungo pavimenti di pietra resi tremanti dall’incombente bufera che tutto scardina e divora avvampando di fuoco i sensi reclusi sotto fitta coltre di terra che ora brama ardere bruciare svanire e scintille come lame si conficcano nella pelle scavano la carne che sgretola lenta penetrano fiamme entro densi tessuti fendono muscoli e nervi consumato il corpo si purifica il pensiero si fa anima la carne.
due passi (fare)
12 agosto 2009
Mariasole Ariot Andrea Raos
Mariasole
funebre I raccoglitori di fiori si atteggiano all’alba dei vecchi con carri mascherati, e cavità poco profonde. Celeri messaggeri dei semi e delle donne, ridono discutono all’infinito sull’esistenza dell’acqua. E il cielo in ombra e il tempo stretto e la vertigine non hanno tempo per aspettare il peggio. La terra è un canto adulto.
Andrea
Gli anni passati si chiudono qui. Gli anni iniziati non trovano posto nel conto di vita che c’è. Di quanto ho vissuto ridico: un ago piantato nel piede, una chiazza di sperma, una mano sul capo. Di quanto non vivo vivrò ricontando ritrovo paure, un abisso, una specie pietosa di scambio di voglie. Anima sola, lasciarmi, ti chiedo e ti dico: non torna. Passando, passavi, sarà.
due passi (fare)
11 agosto 2009
Bianca Madeccia Fabio Teti
Bianca
(Per le spose suicide di Kabul) Siamo gli oscuri fiori affilati cresciuti all’ombra delle chiesefabbriche di bambole, piedi nudi su strade scoscese. Ascolta le nostre preghiere nell’ora in cui il tuo nome è invocato, concedici oggi di morire a Kabul, città di poeti e di vergini suicide polvere tra le macerie del mondo, ceneri in un letto di sale. Dacci la chiarezza massima, concedici il fuoco, perché noi ardiamo dal desiderio di vedere, ardiamo dal desiderio di non sopravvivere ardiamo di buio nel buio verso il buio. Dacci oggi il kerosene della nostra morte amen
Fabio
Figure di soltanto epitèli, corticali queste ai margini dell’occhio mobili, agli angoli d’asfalto dove squallide le ecchimosi: allumini uomini, storte stagnole, buste lacere di scarti inabili a rifarsi suolo, almeno questo, falde di fossili, di scuri scisti quando qui rinuoteranno orche e cetacei, le mante immense, fra i pilastri delle tangenziali le meduse come folli fosfori d’abisso
due passi ( fare )
9 agosto 2009
Maria Grazia Calandrone Marco Giovenale
Maria Grazia
Come sono sfacciate le rose come sono belle come sono una efferata moltitudine le rose ai confini del regno e sotto gli archi dei paradisi le semprevive rose – e diseguali al cuore disregnato perché il cuore beve i fondi minerali della pioggia e gli umori beve fino al bagliore della coppa – usura con interesse altissimo il dolore fino al lampo segreto di chi non muore più: l’immortale viene nero e segreto come la rosa dischiusa dai lamenti con la sua bocca spoglia – slargato fiore da giardino con sedili di pietra e scolatoi rosso e screanzato fulcro che disgiungi anche il sole fermo sulle discariche e sui letti al mattino, quando siamo più aperti e più chiari e non crediamo alla morte ma ai colibrì che tengono in vita le foreste non crediamo alle docili evidenze ma alle inezie a parole che sciamano nell’invisibile
destinate a far splendere il cuore come un bagliore d’oro nel petto di catrame degli scomparsi e in quello splende l’oro maiuscolo del mondo – in quello l’ovunque – in quello il persempre, la promessa di tutte le rose e il silenzio caduto poi dalle rose, il silenzio di nessuno – solo più amore, solo più rose, mia deposizione, mia rosa immortale.
Marco Giovenale Non ti dimenticheremo mai
due passi (fare)
7 agosto 2009
Viola Amarelli Pasquale Vitagliano
Viola
Pasqua
Vendeva specchietti, lucciole e perline (ma li vendeva lieve) Lustrava reboanti panzane da lattante (il desiderio onirico che vero fosse il magnifico) Ruffiano, aduso a darlo via il sedere (semplicemente quello era il suo mestiere) Pensava di essere furbo (come qualunque giocatore al gioco) Grugno di similporco, neanche porco vero (umano il tentativo di travestire il trivio) Copiava diligente battute e frasi altrui (mai avuto pretese di essere intelligente) Cavava il suo buon senso dal noto manuale del perfetto banale (la cifra del felice) Non mi ha mai amato (l’unica, concreta, flagranza di reato).
Pasquale
Voluta la vita come una volta; e invece piantata come un arco scosceso, una vanga, un’insegna stradale verso la soglia; dentro una buca da risalire pianto dopo pianto fino alla balta del cielo. Le ambigue risonanze dei pasti in piedi.
quattuor (passi) fare!
9 settembre 2009 Quest’estate, per chi l’ha visto e per chi non c’era, ho proposto un gioco. Alcuni contributi sono giunti fuori tempo massimo ( ah le poste d’un tempo!) così, sperando di fare cosa gradita ai più, ve le propongo con il segreto sogno di portare un giorno in giro per l’Italia tutta la compagnia di ballo. Effeffe
Isabella Borghese & Enrico De Lea Monica Mazzitelli & Beppe Sebaste
Isabella Neanche quest’anno è stato l’addio al suo mare Trascurare radici e lidi di quel giovane amore Puntare verso sud e scoprire altre maree Per ricordare non occorre restare ancòra L(e)i non sapeva accompagnare il suo Amico Verso Antichi acciottolati, forse d’età romana, come stordita da una salita e da un belvedere che sono anni di bouganville senza profumo Sarà così, è stato così, nel pomeriggio Si è incantata digitale sulla panoramica Da lì la vista della villa di famiglia E della madre – gli occhi acqua marina Tra sorrisi umidi e néi di vita in terra O silenzi, o un amore sopravvissuto Salvato, nella città che richiama l’eterno – L’alba dà luce a un nuovo incontro Il loro sussurrato anche delicato adagio Il piede di lei involontario su di lui Presa da un rossore abbassa lo sguardoSalva gli amori quando sembrano estinti.
Enrico Incerti passi nel paesaggio Neanche quest’anno è stata la ventura D’oltrepassare il mondo della vecchia Strada provinciale e andare all’alto Sconfessando il cimitero panoramico Io e l’amico dovevamo andare verso Antichi acciottolati, forse d’età romana, Sul crinale dei piccoli dorsi montani Da decenni divenuti terre ignote Sarà forse, non è stato, all’alba Mi sono limitato a incerti passi Della vista nel paesaggio dei padri E delle madri – i volti incastonati Tra gole e macchie di bagolari O querce, o, a proprio sopravvissuto Sfarzo, nelle isole argentee degli ulivi – L’alba posseduta in via esclusiva Con un mito di luce è stata danza Della visione e vi ho tracciato volti Presi da un ergastolo ignoto, da un esilio – Con le piene essiccate il tempo estinto.
Monica Notte fango a Addis Abeba Scendono strade dalla collina, portano all’occidentale albergo come bolo spinto nel digerente. Buio e freddo, la macchina inciampa lenta su dossi e fratture. Piogge inondano svergognate. Luci poche da qualche baracca, fari fendono, fischiano il buio. Sbattono in faccia bambine e bambini soli per strada come branchi di cani; intenti nel buio su qualcosa: mangiare? Laceri e stinti come cani nel buio bagnato; soli di notte, lune di notte, il faro dell’ingiusto li abbaglia. Solo bolo da spingere, nel digerente.
Beppe Notte Roma impromptu “Niente è più intatto di una rovina”, dici attraversando, coi pini marittimi disposti come funghi, il parco archeologico del tardo capitalismo industriale impiegatizio, hai fame e caldo, puoi mangiare all’ombra e a Ferragosto pulirti con lo stuzzicadenti e sdraiato guardare la festa dell’Assunta che dal Tevere prende il mare, uomini & donne tatuati, guardie di finanza, carabinieri, parroci & Santi, insieme barcollano nelle barche ubriache e i fuochi non solo d’artificio esplodono fuori tempo come rutti. La sera i neon e i karaoke, i fili delle baracche attaccati ai pali della luce. Ci divertiamo molto. Poi torni a casa e guardi le puttane in viale Marconi. La notte ci si dà da fare la notte. Eiaculare stanca.