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LABORATORIO Elogio dell’agricoltura (De agri cultura, praefatio, 1-4

T 24

carme 76

LATINO ITALIANO

Nota metrica: distici elegiaci.

Invocazione agli dèi

Catullo, esaminando la propria vita e le proprie azioni passate, può affermare in piena coscienza di aver sempre osservato i sacri doveri della pietas e della fides; ha dunque la certezza di potersi aspettare in futuro la ricompensa di molte «incolumi gioie» (multa... gaudia, vv. 5-6) per le lunghe sofferenze di quel suo amore mal corrisposto (vv. 1-9). Ma sente, insieme, che quelle sofferenze non appartengono ancora al passato, che ancora deve esortare se stesso a lottare e vincere – a tutti i costi – contro la sua tormentosa passione (vv. 10-16). Il motivo dell’amore-tormento, lo sdoppiamento di sé nel dialogo-soliloquio, l’autoesortazione ci riportano al carme 8 [T9]; ma sono lontanissime ormai le tenaci, se pur intermittenti, illusioni, la gelosia, le rievocazioni nostalgiche dei candidi soles, dei convegni d’amore. Lo scavo psicologico qui scende a maggiori profondità, toccando una consapevolezza nuda ed essenziale: quella della propria debolezza e fragilità. Catullo scopre definitivamente, con assoluta chiarezza, di non essere in grado con le sue sole forze di liberarsi da quello che ormai è soltanto un «orribile morbo»; si rivolge dunque, con uno scatto improvviso di straordinaria intensità (v. 17), alle potenze superiori, agli dèi: li invoca con la gravità delle solenni cadenze rituali, chiedendo alla loro misericordia di essere strappato al suo tormento. Nient’altro: ma egli sa di meritare quel soccorso, anzi, di poterlo legittimamente rivendicare «in cambio della sua devozione». Che l’uomo pius abbia il diritto di appellarsi agli dèi è una convinzione che ha radici antiche: profonda e ancestrale, sta nel cuore della religiosità romana.

Si qua recordanti benefacta priora voluptas est homini, cum se cogitat esse pium, nec sanctam violasse fidem, nec foedere nullo divum ad fallendos numine abusum homines, 5 multa parata manent tum in longa aetate, Catulle, ex hoc ingrato gaudia amore tibi.

Se all’uomo è dolce il ricordo del bene compiuto, quando sente di essere giusto, di non avere mai infranto la parola inviolabile, e di non avere abusato del Nume divino, nei patti, ad inganno degli uomini, 5 ti restano incolumi gioie nel tempo avvenire, o Catullo, superstiti a questa per te sventurata passione.

1-2. Si qua... homini: è stata rilevata una certa analogia con l’etica epicurea, richiamata dalla parola-chiave voluptas, il «piacere», che si identifica appunto, al di là delle deformazioni dell’epicureismo “volgare”, con il recte facere. Ma il concetto può benissimo appartenere a un patrimonio tradizionale di moralità e di saggezza pratica, indipendentemente da precisi influssi filosofici. 2. pium: è detto pius colui che è esente da colpe, che adempie consapevolmente i propri doveri, regolati da precise e inderogabili norme, nei confronti degli dèi e degli uomini. Il traduttore rende pius con «giusto» e pietas, parola tematica su cui si chiude circolarmente il carme (v. 26), con «devozione», mentre usa invece il termine italiano «pietà» (v. 17) in un significato più ristretto, quello immediatamente familiare ai nostri contemporanei («misericordia», «compassione»), traducendo misereri. 3. sanctam fidem... foedere: termini-chiave del linguaggio giuridico-sacrale romano, come fallendos da fallere nel verso successivo (cfr. 30 [T15] e 109 [T30]). – nec... nullo: la doppia negazione in questo caso non dà luogo a un’affermazione (come nel latino letterario classico); si tratta di un’espressione pleonastica con valore rafforzativo, caratteristica del linguaggio colloquiale. 4. numine: numen è propriamente il «cenno» (da nuere, verbo che indica il gesto di assentire col capo) mediante il quale si manifesta la volontà divina, e dunque la «santità», l’«autorità» degli dèi. 5. in longa aetate: l’aggettivo ha probabilmente una sfumatura concessiva («per tutto il tempo della tua vita, per quanto lunga possa essere»).

Nam quaecumque homines bene cuiquam aut dicere possunt aut facere, haec a te dictaque factaque sunt; omnia quae ingratae perierunt credita menti. 10 Quare cur te iam amplius excrucies?

Quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis et dis invitis desine esse miser?

Difficile est longum subito deponere amorem. Difficile est, verum hoc qua lubet efficias. 15 Una salus haec est, hoc est tibi pervincendum; hoc facias, sive id non pote sive pote.

O di, si vestrum est misereri, aut si quibus unquam extremam iam ipsa in morte tulistis opem, me miserum aspicite et, si vitam puriter egi, 20 eripite hanc pestem perniciemque mihi, quae mihi subrepens imos ut torpor in artus expulit ex omni pectore laetitias.

Quanto un uomo, difatti, può compiere o dire di bene, tu l’hai detto o compiuto. Ma tutto, invano affidato ad un animo ingrato, è perito. 10 Perché dunque continui ad accrescere l’antico tormento, e non rendi più fermo il tuo animo, e non ti ravvedi, e non smetti di vivere in pena, malgrado il volere divino?

È difficile deporre ad un tratto una lunga passione. È difficile, ma devi riuscirvi a ogni costo. 15 Questa è la sola salvezza, questa la tua grande vittoria. Tenta l’impresa, possibile o perduta che sia.

O dèi, se la pietà vi si addice, e se mai concedeste ad alcuno nell’ora della morte un estremo soccorso, guardate me pure infelice, e se la mia vita fu pura, 20 strappatemi a questo male che mi consuma e come letargo si insinua in ogni fibra del corpo disperdendo tutte le gioie dal profondo dell’animo.

10. excrucies: cfr. 85, 2 [T25]. Si noti qui la scelta della forma verbale attiva. 11. Quin... offirmas: cfr. obstinata mente perfer, obdura in 8, 11 [T9]; notevoli anche le coincidenze lessicali fra i due componimenti: desine... miser (v. 12) / Miser... desinas (8, 1). 13. deponere: «metter giù», come un peso che schiaccia e affatica (cfr. 31, 8 [T16]). 16. pote: sottintende est (o es); questa forma si trova in libera alternanza con potis, presente al v. 24 (cfr. anche 72, 7 [T23]). 17. si vestrum est... si quibus: il si non mette in dubbio, ma afferma; si tratta di un movimento dello stile liturgico, caratteristico degli inni e delle preghiere agli dèi, in cui, dopo l’invocazione (O di), alle vere e proprie richieste di soccorso (me miserum aspicite... eripite... mihi, vv. 19-20) si fa precedere l’elencazione delle prerogative divine (una variante più comune è la serie dei relativi, secondo lo schema «O tu che...»: si veda il celeberrimo inno a Venere che apre il poema di Lucrezio [T1, cap. 11]). 21-22. subrepens... laetitias: icastica rappresentazione della patologia amorosa, da collegare alle contigue scelte

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