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Verifica finale
LETTURA e INTERPRETAZIONE
Un registro ironico e malizioso
Lungi dal ricorrere a commenti moralistici e severi, Orazio fa uso di un registro narrativo maliziosamente ironico. Tra le presunte virtù artistiche dell’invadente seccatore, emerge ad esempio quella di scrivere «alla svelta» una grande quantità di versi (vv. 23-24), un peccato imperdonabile agli occhi del poeta (che in Sermones I, 4 aveva accusato Lucilio di scrivere duecento versi all’ora).
Autoritratto del poeta
Parallelamente, in modo svagato e spiritoso, quasi senza che il lettore se ne accorga, Orazio costruisce il proprio autoritratto. Fin dai primi due versi, ad esempio, si mostra nella posa di un uomo qualsiasi che passeggia «così, senza meta, per la via Sacra» (v. 1): meditans, secondo un’immagine tradizionale del poeta, ma anche immerso in «non so quali sciocchezze» (v. 2). Si rassegna docilmente all’inevitabile seccatura come il povero asinello «troppo gravato» (v. 21). Sballottato per la città dall’irriducibile rompiscatole, giocosamente tradito dall’amico Aristio Fusco, che lo abbandona al suo destino (vv. 60-73), Orazio si dipinge insomma come una sorta di anti-eroe in balìa degli eventi.
Uno scioglimento parodistico
Comico è anche il finale, con quella battuta pronunciata intenzionalmente in tono solenne: «Fui salvo, grazie ad Apollo» (v. 78). Il lettore della satira, con il quale Orazio ha istituito un rapporto di spiritosa complicità, è subito in grado di interpretare la battuta come una giocosa parodia del mondo epico: il dio dei poeti (Apollo) soccorre il suo protetto (Orazio) come gli dèi di Omero soccorrevano gli eroi prediletti durante la furia dei combattimenti. Lo scioglimento buffo della satira, con il seccatore punito e l’anti-eroe Orazio salvo, risponde perfettamente al programma satirico del poeta, che è quello di correggere i vizi umani con l’arma del riso.
T 7
Sermones II, 6, 79-117 ITALIANO
Il topo di città e il topo di campagna
Nella prima parte della satira, Orazio ringrazia Mecenate per il dono di un podere in Sabina, grazie al quale egli ha potuto realizzare la massima aspirazione della sua vita: «un pezzo di terra non tanto grande, dove ci fosse un orto e una fonte di acqua perenne vicina alla casa e un po’ di bosco oltre a questo» (vv. 1-3). Segue una descrizione delle noie e dei fastidi della vita di città, alla quale viene opposto per contrasto un quadro di vita semplice nella campagna sabina, dove le giornate scorrono con ritmi blandi e dolci, leggendo, oziando e conversando con i vicini di casa dinanzi a un calice di vino. Proprio uno di questi vicini, Cervio, si mette allora a narrare la favola del topo di campagna e del topo di città, sulla quale la satira si conclude. Il patrimonio favolistico aveva radici nelle più remote tradizioni della cultura orale, rielaborate letterariamente già da Esiodo nelle Opere e i giorni e da Archiloco in alcune liriche. Ma è solo con Esopo, intorno al VI secolo a.C., che assistiamo alla formazione di un ricco corpus di favole che già nel V secolo, ad Atene, venivano usate come testo scolastico. Nella letteratura romana il repertorio favolistico era comparso finora, in modo episodico e frammentario, soltanto nelle saturae di Ennio e di Lucilio: la satura era sentita evidentemente (a differenza degli altri generi) come uno spazio idoneo ad accogliere elementi della cultura popolare. Orazio utilizza uno schema consueto, quello dell’apologo morale che ha per protagonisti degli animali parlanti, introducendovi alcuni dei motivi-cardine di tutta la sua poesia: la «vita nascosta», al riparo dagli eventi della storia; l’autosufficienza (o autárkeia) del saggio, che si accontenta di quello che ha, astenendosi dai bisogni superflui; la brevità della vita e l’invito al carpe diem.