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Le commedie di Terenzio
Permitte divis cetera, qui simul 10 stravere ventos aequore fervido deproeliantis, nec cupressi nec veteres agitantur orni.
Quid sit futurum cras fuge quaerere, et quem Fors dierum cumque dabit, lucro 15 adpone, nec dulcis amores sperne puer neque tu choreas,
donec virenti canities abest morosa. Nunc et Campus et areae lenesque sub noctem susurri 20 conposita repetantur hora,
nunc et latentis proditor intumo gratus puellae risus ab angulo pignusque dereptum lacertis aut digito male pertinaci.
Lascia il resto agli dèi: appena hanno placato 10 i venti sul mare fervido furiosi, né i cipressi né i vecchi frassini più agitano le cime.
Del domani non darti pensiero, qualunque giorno ti darà la sorte 15 contalo tra i guadagni e i dolci amori non disprezzare, e le danze,
già che sei giovane e la canizie scontrosa ti è lontana. Ora il Campo e le piazze e i lievi sussurri sul far della notte 20 devi cercare all’ora convenuta,
ora il gradito riso che da angolo appartato tradisce la fanciulla nascosta e il pegno d’amore strappato al braccio o al dito che finge di resistere.
(trad. di A. Roncoroni)
17. virenti canities: esempio di callida iunctura oraziana, dove all’antitesi concettuale (giovinezza/vecchiaia) si aggiunge un vivido contrasto coloristico: virenti (da vireo) significa propriamente «a te che verdeggi»; canities deriva da canus («bianco», «canuto»). 18. Campus: il Campo Marzio.
T 12
Carmina I, 11 LATINO
Nota metrica:
asclepiadei maggiori.
Carpe diem
Rivolgendosi a una ragazza, ansiosa di conoscere il suo futuro, Orazio detta alcune semplici norme di vita in un’ideale sintesi di saggezza: alla precarietà e fugacità della vita, all’impossibilità di sapere quello che porterà il domani (gli dèi hanno posto limiti invalicabili alla conoscenza umana: scire nefas), corrisponde l’esortazione ad accettare il proprio destino (Ut melius, quicquid erit, pati) e a godere del tempo presente, a vivere come se ogni giorno della nostra esistenza fosse l’ultimo (carpe diem).
Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, 5 quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
[1-3] Tu non chiedere – non è lecito saperlo – quale sorte a me, quale a te gli dèi abbiano assegnato, Leuconoe, e non tentare i calcoli babilonesi.
Tu: il pronome personale, di norma sottinteso, è qui posto in forte rilievo, forse per esortare la fanciulla a non seguire l’esempio di tanti altri che ansiosamente (e vanamente, s’intende) si adoperano per conoscere il futuro. – ne quaesieris: costruzione dell’imperativo negativo con l’avverbio ne + congiuntivo perfetto; analogamente nella coordinata nec... temptaris (vv. 2-3). Il verbo quaerere («chiedere», «indagare») era d’uso corrente per la consultazione degli indovini. – scire nefas: proposizione incidentale, sott. est. L’inciso rafforza l’ammonimento già espresso mediante l’imperativo negativo, rendendolo perentorio e indiscutibile. – quem... dederint: interrogativa indiretta nel modo congiuntivo perfetto (da do, dedi, datum, dare), introdotta dall’aggettivo interrogativo quem, accusativo di quis («quale»), raddoppiato in anafora, da unire a finem (sott. vitae); il soggetto della proposizione è il nominativo plurale di, forma dell’uso comune alternativa a dei e dii. – Leuconoe: la maggior parte degli interpreti ritiene che si tratti di un nome fittizio, probabilmente simbolico (“nome parlante”). Il significato generalmente accreditato è «dalla candida mente» (dal greco leukós, «bianco» e noûs, «mente») a indicare una ragazza inesperta, di animo semplice e ingenuo, che si preoccupa del domani e crede nell’astrologia e negli oroscopi. –nec... temptaris = temptaveris. Il verbo temptare («tentare», «provare», «saggiare»; perciò anche «interrogare») esprime con finezza uno stato d’animo inquieto e ansioso. – Babylonios... numeros: i «calcoli» (numeri) degli astrologi o mathematici babilonesi, provenienti cioè dalla Mesopotamia (o che si pretendevano tali). Fin dalla più remota antichità i Babilonesi (o Chaldaei, secondo la denominazione più corrente in Roma) godevano fama di maestri nell’osservazione dei fenomeni celesti e nell’astromantica. In Roma, dopo una fase iniziale di diffidenza e di ostilità culminata con l’espulsione degli astrologi nel 139, all’epoca di Orazio erano ormai numerosissimi e riscuotevano notevole successo, trovando credito non solo in ambito popolare ma anche presso le classi sociali più elevate; non occorre aggiungere che molti di questi sedicenti indovini “caldei” erano in realtà dei ciarlatani.
Nefas/ Fas Il sostantivo neutro indeclinabile nefas appartiene al linguaggio religioso-sacrale romano e indica ciò che «non è lecito» in quanto contravviene a un divieto imposto dalla legge divina, e che pertanto, secondo la visione degli antichi, va contro anche alla legge di natura e al senso morale. È composto di ne (prefisso negativo) + fas, che indica
[3-7] Quanto è meglio accettare ciò che sarà! Sia che Giove ci abbia concesso molti inverni, o per ultimo questo, che adesso affatica il mare Tirreno sulle opposte scogliere, sii saggia, filtra il vino e tronca, poiché il tempo [della vita] è breve, le [troppo] lunghe speranze.
Nomi e parole degli antichi
invece ciò che «è lecito» secondo la stessa legge; si ricordi il verso di Catullo ille, si fas est, superare divos (51, v. 2). L’etimologia rinvia al verbo for, fatus sum, fari «dire», «pronunziare», «esprimere»; fas significa dunque «espressione», e propriamente «parola divina», «comando divino». Di qui la compilazione di un elenco, dapprima affidato ai soli pontefici, poi reso pubblico, con la rigorosa distinzione fra giorni fasti e per contro nefasti, durante i quali era interdetta l’amministrazione della giustizia o ius civile. In seguito la lista dei dies fasti (o senz’altro dei fasti) si ampliò a poco a poco fino a comprendere tutti i giorni dell’anno, con l’indicazione delle feste e degli avvenimenti notevoli, diventando insomma il calendario romano.