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T 11 I vecchi e i giovani (Heautontimorumenos, 53-174) LAT IT

5 primis et venerem et proelia destinat.

Frustra: nam gelidos inficiet tibi rubro sanguine rivos lascivi suboles gregis.

Te flagrantis atrox hora Caniculae 10 nescit tangere, tu frigus amabile fessis vomere tauris praebes et pecori vago.

les lascivi gregis inficiet tibi gelidos rivos rubro sanguine. – inficiet: futuro di inficio, e ˘re (in + facio) «mescolare», «tingere», «macchiare» (in particolare, appunto, «di sangue»); ma anche, in accezione esplicitamente negativa, «contaminare», «guastare»; è possibile che alla suggestione coloristica e visiva si aggiunga quest’ulteriore sfumatura, come se il rammarico per la sorte del capretto si estendesse anche all’inevitabile intorbidarsi delle acque cristalline della fonte. – tibi: dativo di fine, che si preferisce tradurre con il possessivo. – gelidos ... rubro sanguine rivos: entro l’elegantissima ed espressiva disposizione a chiasmo degli accusativi e degli ablativi, i legami fra le parole-immagini sono enfatizzati dalle allitterazioni in r e in s, nonché dall’omoteleuto (gelidos ... rivos); al contrasto cromatico, visivo, si aggiunge in un intreccio complesso quello delle sensazioni tattili, fra la gelida freschezza dei rigagnoli (rivi) d’acqua sorgiva e il calore del sangue, evocato sinesteticamente dal colore rosso. – lascivi: genitivo concordato con gregis, da unire a suboles. – subo˘les: soggetto di inficiet; c’è chi lo intende invece come apposizione di un soggetto sottinteso (haedus).

[9-16] Te la feroce stagione dell’ardente Canicola non sa toccare, tu offri deliziosa frescura ai tori stanchi del vomere, al bestiame errante. Anche tu sarai tra le fonti illustri, poiché io canto l’elce che sovrasta la grotta donde sgorgano le tue acque mormoranti.

Te flagrantis ... vago: costruisci atrox hora flagrantis Caniculae nescit tangere te, tu praebes frigus amabile tauris fessis vomere et pecori vago. – nescit = nequit, «non può». – tu ... praebes: anafora in

Lascivus: l’aggettivo lascivus ha vari significati, e anche nel contesto dell’ode oraziana viene interpretato in diversi modi: «[del gregge] lascivo» nel senso di «libidinoso», propenso agli amori; oppure «scherzoso», «vivace», «spensierato»; anche «irrequieto», «sfrenato», che variamente evocano le rapide corse e i salti di questi animali sui prati, alludendo con un’ulteriore punta di rammarico alle felici speranze di vita della vittima sacrificale. Subŏles: il sostantivo femminile suboles, is significa «prole», «rampollo», «figlio». Collegato alla radice di alo, ĕre («nutrire», «far crescere»), come proles, indica tutto ciò che nasce e cresce, la discendenza degli uomini e degli animali così come i germogli delle piante. Canicula: diminutivo di canis,

Nomi e parole degli antichi

propriamente significa «cagnolina»; per traslato è detta Canicula Sirio, la stella più luminosa della costellazione del Cane, che sorge alla fine di luglio; il suo levarsi segna dunque l’avvento del periodo più caldo dell’anno. Così, al verso 9 di Carmina III, 13, il participio-aggettivo flagrantis (da flagro, āre; «fiammeggiare», «ardere»), si riferisce sia all’ardore dell’estate al suo culmine sia all’intensa luminosità dell’astro. Come si sa, «canicola», quale nome comune, e l’aggettivo «canicolare» da esso derivato, sono tuttora di uso corrente nella lingua italiana. Atrox: l’aggettivo atrox, ōcis deriva da ater (atra, atrum), «nero», che per traslato, secondo i diversi contesti, vale «triste», «maligno», «lugubre», «funesto» (il nero è il colore della morte); anche «oscuro», in quanto difficile a intendersi. Nel testo oraziano la stagione (hora) in cui Sirio «ardente» fiammeggia nel cielo è detta atrox, cioè «spietata», «feroce», «violenta», ossia «ferocemente torrida», in quanto coincide con i grandi calori estivi; anche «mortifera», «funesta», «fatale» (= «che porta disgrazia»), poiché nel periodo più arido dell’anno la terra soffre per la scarsità d’acqua; talora la siccità può giungere a bruciare i raccolti e a provocare morìe del bestiame. Si noti (v. 9) il sapiente accostamento dei due aggettivi flagrantis (genitivo concordante con Caniculae in iperbato) e atrox: non solo si intensificano a vicenda sul piano semantico, ma l’insistenza sui suoni aspri dei gruppi consonantici evoca a livello fonoespressivo la violenta oppressione della calura.

Fies nobilium tu quoque fontium, me dicente cavis impositam ilicem 15 saxis, unde loquaces lymphae desiliunt tuae.

poliptòto del pronome di II persona (Te ... nescit tangere, vv. 9-10), stilema caratteristico degli inni alle divinità, che scandisce l’elencazione delle prerogative del dio celebrato e invocato (cfr. il proemiale inno a Venere di Lucrezio, De rerum natura I, 1-43). – frigus amabile: accusativo neutro oggetto di praebes; in disposizione chiastica con atrox hora (v. 9) forma un vivo contrasto, enfatizzato dall’allitterazione in a che lega i due aggettivi, vistosamente discordanti per significato e per suono (aspro e duro atrox; liquido e dolce amabile). – vomere: sineddoche per l’aratro (la parte per il tutto); ablativo di causa da collegare al dativo fessis. – fessis ... tauris ... et pecori vago: un altro chiasmo; al centro si colloca felicemente il verbo praebes, da cui i dativi dipendono. L’aggettivo vago, evocando immagini care alla poesia bucolica, si riferisce al bestiame libero di «errare» sui pascoli e nei boschi, a differenza dei tori, o meglio dei buoi (in latino taurus ha entrambi i significati), adibiti al duro lavoro dell’aratura. – Fies: «diventerai», «sarai»; futuro di fio, fieri. – nobilium ... fontium: cioè le fonti sacre della poesia, come quelle di Castalia (a Delfi), di Aganippe e di Ippocrene (in Beozia). È genitivo partitivo da unire direttamente a fies; sottintende una. – tu quoque: il pronome di II persona riprende e continua la serie aperta ai vv. 9-10; e ancora tuae (v. 16). – Me ... desiliunt tuae: costruisci Me dicente ilicem impositam saxis cavis unde tuae lymphae loquaces desiliunt. – Me dicente: ablativo assoluto di valore causale-temporale. Il poeta vuol dire che in virtù del suo canto anche l’italica fonte di Bandusia (tu quoque) sarà d’ora in poi annoverata fra le sacre fonti della tradizione ellenica, ispiratrici di poesia e a loro volta rese illustri (nobiles) dal canto dei poeti. – cavis ... saxis: lett. «il leccio [o elce] sovrastante le rocce incavate»; ilicem (accusativo di ilex, ilicis, probabilmente un singolare per il plurale) è oggetto di dicente; la collocazione in enjambement dà rilievo all’immagine dell’albero (forse più d’uno) che distende i rami frondosi sulla sorgente, proteggendola con la sua fresca ombra. Il participio perfetto impositam (da impoˉno, e˘re, «porre sopra») concorda con ilicem; l’ablativo semplice cavis ... saxis, retto da un verbo composto con in, esprime il complemento di stato in luogo (non manca peraltro chi lo intende come un dativo); è perifrasi per «grotta». – desiliunt: predicato della relativa introdotta da unde, è indicativo presente di desilio, ı ˉre (de + salio, lett. «saltare», «balzare giù») che evoca il vivace, sonoro (loquaces) sprizzare e scorrere giù «saltellando» delle acque sorgive. – loquaces: lett. «parlanti», «chiacchierine» (da loquor, loqui). – lymphae ... tuae: soggetto di desiliunt, è un grecismo poetico. La scelta del vocabolo non è casuale: lympha (dal greco nymphe, «ninfa») indica in particolare un’acqua limpida, sorgiva; inoltre è attestato Lymphae in luogo di Nymphae, a designare specialmente le ninfe delle acque (personificazione).

Analizzare il testo

1. La fonte di Bandusia cantata da Orazio è una sorgente immaginaria o reale? In questo caso, dove si trovava? 2. L’ode ha una chiara struttura bipartita. Enuncia sinteticamente il contenuto delle due parti, dopo averle identificate, illustrandone i temi e i motivi dominanti. Il componimento si può definire nel complesso unitario? 3. Qual è nella lingua latina la costruzione dell’aggettivo dignus (v. 2)? E del verbo donare (v. 3)? 4. L’ode alla fonte di Bandusia è intessuta di suggestioni letterarie, e d’altra parte di precisi richiami ad antiche tradizioni ed usanze romane e italiche. Distingui nel testo i diversi spunti sui quali è costruita la lirica, facendo seguire all’analisi un breve commento.

Confrontare e interpretare i testi

5. Sebbene il poeta non lo affronti qui in modo del tutto esplicito, l’ultima strofa tocca uno dei temi oraziani per eccellenza, quello dell’immortalità (o quanto meno della perennità) del canto lirico, e più in generale della poesia. Sviluppa questo tema leggendo in particolare almeno l’ode III, 30 [T22], estendendo ove possibile il discorso ad altri testi e ad altri autori, antichi e/o moderni, a te noti.

Dialogo con i MODELLI

La «limpida gelida fonte» nell’epigramma ellenistico

«Come i bucolici, così i poeti di epigrammi non finiscono mai di celebrare la limpida gelida fonte che, spicciando dalla viva roccia su cui si erge un albero alto, offre ristori agli armenti e ai pastori»: così Pasquali in un celebre saggio (Orazio lirico). Si veda, da questi pochi esempi, il grado di raffinata e personale rielaborazione con il quale Orazio sa confrontarsi con i propri modelli.

Paesaggio bucolico-sacrale da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Ermocreonte (Ant. Pal. IX, 327) Ninfe dell’acqua, trovata una splendida polla, v’offerse Ermocreonte questi doni. Salve! Sempre coi vostri piedini la rorida sede calcate! Fatela colma d’una linfa pura.

(trad. di F. M. Pontani)

Anonimo (Ant. Pal. XVI, 227) Abbandonato sull’erba prativa, riposa, viandante, le molli membra dal duro travaglio, dove ammaliato dal pino sarai che lo Zefiro muove, mentre ascolti il frinío delle cicale, e dal pastore dei monti che zufola presso una fonte, sotto un platano folto, nel meriggio. Presto avrai, nel boschetto, dall’aspra canicola scampo. Questo ti dice Ermete: dàgli retta!

(trad. di F. M. Pontani)

Anite (Ant. Pal. XVI, 228) Straniero, qui sotto l’olmo, le membra affrante ristora: soave tra le verdi fronde l’aura susurra; gelida bevi l’acqua alla fonte: ristoro gradito nella calura ardente questo è per i viandanti.

(trad. di R. Cantarella)

Leonida di Taranto (Ant. Pal. XVI, 230) Calda è quest’acqua di forra, di mota erbosa ricolma: attento a te, viandante, non la bere! Fa’ pochi passi e va’ dove pascono in cima i vitelli: presso quel pino dov’è il gregge, un’acqua che tra le rocce ridenti di polle rimormora, fredda più che nordica neve, troverai.

(trad. di F. M. Pontani)

T 22

Carmina III, 30 LATINO

Nota metrica:

asclepiadei minori.

Non omnis moriar

Questo celebre carme congeda il III libro e insieme i primi tre libri delle Odi, pubblicati nel 23 a.C. Composto sullo stesso metro dell’ode a Mecenate che apre il I libro, chiude retrospettivamente in compatta unità la prima raccolta dei Carmina, che certo Orazio doveva allora considerare definitiva. Tema dominante, l’immortalità del canto (unica forma di perenne sopravvivenza concessa agli uomini) che vince il tempo e la morte, insieme al legittimo orgoglio del poeta per la grande opera compiuta. Orazio rivendica un primato, quello di essere stato il fondatore di un genere nuovo, che ancora mancava alla letteratura di Roma: egli per primo (princeps) ha trasferito e ricreato nella lingua latina i modi della lirica greca classica, ispirandosi al «canto eolio» di Saffo e di Alceo (vv. 13-14). La gioia di essere ricordato nel paese natale (vv. 10-12) è un motivo ricorrente nei carmi di commiato, ma Orazio ravviva i consueti cenni autobiografici sottolineando il contrasto fra le proprie umili origini e l’altezza della gloria poetica conquistata (ex humili potens). Mediante un’unica, indimenticabile immagine di ieratica solennità (vv. 8-9), l’immortalità del canto lirico (e della propria fama) viene associata all’immortalità di Roma. Così, nel breve giro di versi dell’ode, il poeta rende plasticamente sensibile, con mirabile concentrazione espressiva, l’innesto della cultura greca sul terreno latino-italico. Orazio assume qui il ruolo sacrale del poeta vates; coerentemente, sul piano della poetica e delle forme, la ricerca si orienta verso i modelli di stile sublime, sopra tutti Pindaro e Simonide

[Dialogo con i modelli, p. 254].

Exegi monumentum aere perennius regalique situ pyramidum altius, quod non imber edax, non Aquilo impotens possit diruere aut innumerabilis 5 annorum series et fuga temporum.

[1-5] Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo e più alto della regale mole delle piramidi, tale che non la pioggia corrosiva, non l’impetuoso Aquilone potranno distruggerlo, né la serie innumerevole degli anni, né la fuga del tempo.

Exegi: perfetto indicativo di exı ˘ go (ex + ago); lett. «ho compiuto», «ho portato a termine». – aere perennius: il comparativo neutro dell’aggettivo perennis, e («che dura per molti anni»; per + annus) concorda con monumentum; l’ablativo aere (da aes, aeris) esprime il termine di paragone. Nel bronzo, materiale nobile e resistente, si forgiavano le statue degli dèi e degli uomini illustri. – regalique... altius: con perfetta simmetria, che scandisce il ritmo solenne dell’esordio, il v. 2 è chiuso da un altro comparativo neutro (altius), pure concordato con monumentum e preceduto dal termine di paragone in ablativo (regali... situ) specificato dal genitivo plurale pyramı ˘dum. È detta «regale», la «mole» delle piramidi, in quanto notoriamente erano i monumenti funebri dei Faraoni, sovrani dell’antico Egitto. – quod non... possit dirue˘re: relativa impropria di valore consecutivo, introdotta dal pronome neutro in accusativo quod, riferito a monumentum. Il predicato singolare possit (diruere) si riferisce a quattro soggetti (imber... Aquilo... series... fuga) introdotti da scandite e perentorie negazioni: l’avverbio non in anafora; le congiunzioni aut... et, con variatio (si ricordi che in frase di significato negativo aut vale «né»). Il verbo diruere (dis + ru˘o) significa propriamente «demolire», «ridurre a rovine» (cfr. ruina, ae). – edax: da e ˘do, e ˘re («mangiare», «consumare»); perciò «divoratrice», ossia, fuor di metafora, «che corrode», «che disgrega». – Aquilo impotens: l’Aquilone o Borea, freddo e tempestoso vento invernale che spira dal Nord, è detto impotens, «violento», «impetuoso»; lett. «che non sa frenarsi» (cfr. Catullo 8, 9). – innumerabilis annorum: non solo il significato in sé, ma anche la lunghezza delle parole e la posizione in enjambement (vv. 4-5) evocano l’incommensurabile, ininterrotto scorrere del tempo. – fuga temporum: anche «la fuga delle stagioni» (tempora anni) o «dei secoli»; il plurale temporum, che vale a designare le più diverse sequenze temporali, conferisce all’espressione un’indefinita suggestione, dilatata dalla metafora (fuga). Se l’espressione precedente evocava l’immensità del tempo, qui l’accento è posto sulla rapidità della sua inarrestabile corsa. Si osservi ancora la disposizione chiastica, enfatizzata dall’omoteleuto che lega i due genitivi (annorum series... fuga temporum).

Non omnis moriar, multaque pars mei vitabit Libitinam: usque ego postera crescam laude recens, dum Capitolium scandet cum tacita virgine pontifex. 10 Dicar, qua violens obstrepit Aufidus et qua pauper aquae Daunus agrestium

[6-9] Non morirò del tutto, e la più gran parte di me sfuggirà a Libitina: io crescerò continuamente rinnovato nella lode dei posteri, finché salirà al Campidoglio il pontefice con la tacita vergine.

Non omnis moriar: lett. «non morirò tutto»; omnis, predicativo del soggetto sottinteso (ego), si può tradurre con un avverbio («interamente», «del tutto»); moriar è futuro di morior, mori, deponente. – multaque pars mei: l’enclitica -que ha valore avversativo («anzi»); pars è soggetto di vitabit (futuro di vito, aˉre; lett. «eviterà»); mei è genitivo del pronome di I persona singolare. – Libitıˉnam: accusativo oggetto di vitabit, è metonimia per «morte». – usque: avverbio da unire sia al futuro crescam, sia all’aggettivo recens. – postera... laude: ablativo di valore causale-strumentale («grazie alla», «per la lode»), dove l’aggettivo postera = posterorum. – recens: «recente» nel senso di «sempre nuovo», «fresco»,

Monumentum: il sostantivo neutro monumentum, -i (dalla stessa radice di moneo, memini, mens, memoria) in accezione più ampia di «monumento» nell’italiano corrente, designa tutto ciò che vale a «ricordare», a conservare la memoria di quanto è ritenuto degno di essere tramandato ai posteri, oltre gli angusti termini della vita individuale e delle singole generazioni. In particolare, l’esordio dell’ode ricalca il linguaggio degli artefici (scultori, architetti, ceramisti...) che, terminata la loro opera, ossia un «monumento» artistico, ne rivendicano il merito e vi appongono la sphraghís (in greco, «sigillo»; la «firma»). Formule del tutto analoghe compaiono

«giovane»; predicativo del soggetto ego, di norma sottinteso, qui espresso in funzione enfatica. – dum... pontifex: costruisci dum pontifex scandet Capitolium cum tacita virgine; proposizione temporale dipendente da crescam.

[10-14] E di me si dirà, là dove violento strepita l’Aufido, e dove Dauno povero d’acqua regnò su popoli agresti, che da umili natali divenuto illustre per primo ho trasferito il canto eolio nei ritmi italici.

Dicar qua... populorum: mediante due perifrasi atte a designare l’Apulia, ove sorge Venosa, Orazio ricorda qui la terra natale, immaginando che partecipi della gloria conseguita dal figlio. Il motivo ricorre fra gli altri in Virgilio, Properzio e Ovidio. – Dicar: lett. «io sarò detto» = «si dirà di me»; costruzione personale dei verba dicendi con l’infinito (deduxisse). – qua... obstrepit... et qua regnavit: due proposizioni relative introdotte da qua, avverbio di moto per luogo in anafora, dipendenti da Dicar. – violens... Aufidus: l’Ofanto, fiume a regime torrentizio, e perciò detto violens («violento», «impetuoso») nei periodi di piena, scorre in Apulia, attraversando anche Venosa. Il predicato obstrepit (da obstre˘po, e˘re, «strepitare», «rumoreggiare») evoca il fragore delle acque; l’aggettivo violens è predicativo del soggetto (Aufidus). – Daunus: re leggendario di una parte della regione àpula, detta Apulia Daunia; secondo il racconto mitico, padre o progenitore di Turno re dei Rùtuli (personaggio di spicco nell’Eneide) e suocero dell’eroe omerico Diomede. A tutt’oggi una parte della Puglia conserva la denominazione di Daunia. – pauper aquae: Dauno è detto «povero d’acqua» in quanto regnava su una terra che altrove Orazio stesso definisce siticulosa («assetata», «sitibonda»; Epodi III, 16). – agrestium... populorum: genitivo plurale retto da regnavit, secondo la costruzione dei verba imperandi in

Nomi e parole degli antichi

anche nelle iscrizioni di carattere politico-militare, dove magistrati e uomini di guerra affidano il ricordo della propria grandezza alla dichiarazione delle imprese compiute. Situs: tra i vari significati del sostantivo maschile situs, -ūs della IV declinazione («sito», «situazione», «posizione», «regione») vi è anche «edificio», «costruzione», che nel contesto dell’ode è appropriata consuetudine tradurre «mole»; altri preferiscono intendere «decrepitezza», «squallore», «disfacimento»; o addirittura «muffa», «ruggine», tutti significati pure attestati, che si sviluppano da quello di «posizione stabile», «immobile». Va detto peraltro che qui il confronto con qualcosa che cade in rovina appare inopportuno; altius evoca un’immagine imponente e grandiosa, così che il paragone assume il valore di un superlativo: «l’alta e immobile mole concreta l’impressione della perenne resistenza al tempo» (A. La Penna). Libitīna: Libitina, nome di origine etrusca, era la dea romana dei funerali. Al suo tempio, situato in un bosco sacro presso l’Aventino, dove erano custoditi gli apparati e gli addobbi che servivano alla celebrazione delle esequie, si versava fin dall’età regia un obolo per ogni cerimonia; libitinarii erano detti gli impresari delle pompe funebri.

regnavit populorum, ex humili potens, princeps Aeolium carmen ad Italos deduxisse modos. Sume superbiam 15 quaesitam meritis et mihi Delphica lauro cinge volens, Melpomene, comam.

greco (ad es. basiléuein). – ex humili potens: sott. factus; lett. «da umile [divenuto] grande», «famoso». Il participio-aggettivo potens (da possum) assume qui il valore di clarus atque magnus, in quanto si riferisce alla grandezza poetica e al prestigio che ne deriva. Non è l’unico luogo dell’opera oraziana in cui il poeta rivendica con orgoglio il riscatto dalle sue umili origini; il motivo ricorre in un altro celebre componimento di commiato (Epistulae I, 20, 20-22 [T27 ONLINE]). Ma già parecchi anni prima, nell’ancor più famosa satira sesta del I libro, ne riconosceva il merito, prima che a se stesso, a suo padre e all’educazione che gli aveva impartito (Sermones I, 6, 65-88). – princeps... modos: costruisci (Dicar...) princeps deduxisse Aeolium carmen ad modos Italos. – princeps: predicativo del soggetto, da connettere direttamente a deduxisse. Da Lucrezio ai poeti augustei, ricorre insistente nella poesia latina l’aspirazione alla gloria dell’inventor (da invenio, «trovare»; traduce esattamente il greco euretés), ossia dell’«iniziatore», del «fondatore» di un genere nuovo nella letteratura di Roma, mediante la composizione di un’opera degna di emulare i modelli greci. Il motivo del “primato” compare in Lucrezio (I, 922-934), Virgilio (Georgiche II, 173-176 [T8, cap. 2], Properzio (III, 1, 3-4). – Aeolium carmen: accusativo oggetto di deduxisse. – ad Italos... modos: moto a luogo figurato. «I modi (ritmi, metri) possono dirsi italici (qui latini) solo nel senso che sono ricreati in parole latine, con le loro quantità sillabiche: giacché i metri (indicati altrove anche con numeri) sono greci» (A. La Penna). In ogni caso, è indiscutibile che Orazio abbia operato non un semplice “trapianto” della lirica greca nella lingua latina, ma una ricreazione originale di impronta autenticamente romana; e tuttavia non è fuori luogo aggiungere che almeno per certi aspetti – non secondari – è lecito dire lo stesso della poesia di Catullo. –deduxisse: infinito perfetto di deduco, e ˘re (de + duco; «trasportare», «trasferire», «trapiantare»). Secondo altri deducere va inteso nell’accezione di «elaborare con cura» (immagine connessa in origine alla filatura della lana), significato attestato in due luoghi dell’opera oraziana (Sermones II, 1, 4; Epistulae II, 1, 125).

[14-16] Prenditi l’orgoglio conquistato con i meriti, e propizia cingimi la chioma, o Melpomene, con il lauro delfico.

Sume superbiam: «assumi», «prendi il [giusto] orgoglio»; cioè «siine orgogliosa» (= puoi esserlo, l’hai meritato). Il poeta rivolge l’invito alla Musa che ha ispirato il suo canto per evitare un’autocelebrazione troppo diretta, ma è ovvio che queste parole sono riferite in realtà a se stesso. Sume (= assume), imperativo che si lega enfaticamente in sequenza allitterante con l’oggetto in accusativo superbiam. – quaesitam meritis: participio congiunto (da quaero, e˘re, «cercare», «chiedere»; quindi «procurarsi», «ottenere»), e ablativo strumentale (meritis): il sintagma vale «meritato». Così il sostantivo superbia, in latino vox media, assume qui il significato pienamente positivo di «giustificata fierezza». – Delphica/ lauro: ablativo strumentale in enjambement di forte spicco; metonimia per la corona d’alloro, premio e simbolo della gloria poetica, detta Delphica in quanto il lauro o alloro era sacro ad Apollo, dio della poesia e della musica. A Delfi nella Focide sorgeva il più celebre santuario dedicato al suo culto. – volens: predicativo del soggetto, il participio-aggettivo volens (da volo, velle; lett. «volente») è termine del linguaggio cultuale che ricorre nelle formule di invocazione alla divinità, cui si chiede di mostrarsi «benigna», «propizia». – Melpomene: qui genericamente Musa della poesia; soltanto nella tradizione posteriore Melpomene verrà associata alla tragedia.

LETTURA e INTERPRETAZIONE

Emblemi della grandezza e dell’eternità di Roma

Dum Capitolium/ scandet cum tacita virgine pontifex (vv. 8-9): nel breve spazio di questa frase Orazio ha concentrato i tre più eminenti simboli della grandezza e dell’eternità di Roma: il Pontifex Maximus, il collegio delle Vestali custodi del fuoco sacro, il colle capitolino con il tempio di Giove eretto dai Tarquinii, detto da Livio arcem... imperii caputque rerum («la rocca dell’impero e il capo del mondo»; Ab urbe condita I, 55, 6); a questi potenti emblemi di perennità associa e affida la sopravvivenza della sua opera e di una «gran parte» di sé.

Una processione rituale

Ma di quale cerimonia sacra si tratta? È probabile che si alluda qui genericamente alle solenni processioni rituali cui partecipavano i pontefici e le

vergini Vestali (in questo caso virgo, come pontifex, sarebbe un singolare collettivo). D’altra parte non è escluso che Orazio faccia riferimento a una cerimonia particolare, che secondo una tarda testimonianza erudita si svolgeva ogni anno alle Idi di marzo, quando la Virgo o Vestalis Maxima (la Vestale più anziana) saliva al tempio di Giove sul Campidoglio ad implorare dagli dèi la prosperità di Roma; non è certo tuttavia se fosse o meno accompagnata dal pontefice massimo (o comunque da un pontefice).

Potenza evocativa di un verbo

Scandĕre è voce poetica ed elevata per ascendĕre; dalla Via Sacra, donde muovevano i cortei rituali, al tempio di Giove Capitolino la strada saliva in ripido pendìo. La potenza evocativa di questo verbo, atto a raffigurare un’ascesa ritmata («scandita», appunto) da un passo lento e solenne, viene rafforzata dalla collocazione in enjambement, che lo isola in fortissimo rilievo, ma ancor più dall’aggettivo tacita, che pervade tutta la scena di un silenzio ieratico.

Aeolium carmen

Il «carme» o «canto eolio» (v. 13) designa la lirica dei poeti eolici; dell’Eolia, regione dell’Asia Minore, faceva parte l’isola di Lesbo, dove erano nati Saffo e Alceo e dove era fiorita la loro poesia. In senso stretto, l’espressione potrebbe riferirsi ai sistemi metrici dei poeti di Lesbo: tuttavia, se è vero che prima di Orazio nessun poeta latino aveva usato la strofe alcaica, è pure noto che già Catullo, nei carmi 11 e 51, aveva riprodotto il sistema saffico minore; anche se nel Liber catulliano si tratta di esperimenti isolati, il vanto di Orazio può suonare esagerato. Ma l’affermazione va intesa in un senso molto più esteso e impegnativo, che trascende l’ambito delle forme metriche: Orazio rivendica il merito di aver composto per primo, nel genere lirico, un’opera organica e di ampio respiro (un monumentum) «trasferendo» nella lingua e nella cultura di Roma anche e soprattutto i grandi modelli della lirica greca classica, non solo Saffo e Alceo ma anche, fra gli altri, Pindaro e Anacreonte, senza concentrarsi prevalentemente sulla poesia di età ellenistica come avevano invece fatto Catullo e i neóteroi.

Analizzare il testo

1. L’ode, che conclude e congeda i primi tre libri dei Carmina, riveste particolare importanza nell’ambito della raccolta, verosimilmente considerata in quel momento definitiva dall’autore. Ripercorri il testo individuando i concetti fondamentali enunciati dal poeta in merito al significato dell’opera compiuta e della propria esperienza di poeta lirico, sottolineando i termini e le espressioni più rilevanti in tal senso. Dividi poi, per maggiore chiarezza, il testo in sequenze, apponendo a ognuna una breve didascalia esplicativa. 2. In quest’ode, dove Orazio esprime l’ormai raggiunta consapevolezza dell’immortalità della propria opera, occorre soffermarsi in particolare sui vocaboli e sulle immagini che esprimono perennità e durata: quali sono? Come si configura e come dobbiamo interpretare, in riferimento alla visione epicurea dell’autore, l’immortalità, ossia la vittoria sul tempo fugace e sulla morte, di cui qui si parla? 3. È lecito affermare che anche in questo componimento Orazio tocchi il tema civile?

Dove, precisamente, e secondo quali modalità? 4. Analizza parola per parola, spiegandone l’esatto significato, la dichiarazione espressa nei vv. 13-14: princeps Aeolium carmen ad Italos/ deduxisse modos. 5. Ricerca nel testo gli aggettivi che rivestono funzione predicativa. 6. Secondo quale costruzione sintattica è impiegato il verbo Dicar (v. 10)? E come si spiega il genitivo agrestium... populorum in dipendenza da regnavit?

Confrontare i testi

7. Confronta l’ode che hai appena letto con altri due componimenti oraziani in cui il poeta affronta il tema della poesia, in modo esplicito o in chiave simbolica: il congedo del primo libro dei Carmina (I, 38) [T15] e l’ode alla fonte di Bandusia (III, 13) [T21], avendo cura di evidenziare i motivi dominanti e le dichiarazioni più significative in ciascuno di essi, non senza rilevare analogie e differenze.

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