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T 17 Le malefatte di Eschino e la difesa di Micione (Adelphoe, 78-154) IT

T 26

Funestus veternus: una malattia dell’anima

Epistulae I, 8 LATINO ITALIANO

Orazio risponde a Celso Albinovano, amico e poeta che nell’inverno del 21-20 sta accompagnando il giovane Tiberio Nerone (futuro imperatore e successore di Augusto) durante una missione diplomatica in Oriente. La lettera segue lo schema consueto del galateo epistolare: i saluti iniziali all’amico, cui si augura successo e felicità (vv. 1-2); notizie dello scrivente (vv. 3-12); richiesta di informazioni sulla salute e le vicende del destinatario, con l’aggiunta di un precetto finale (vv. 13-17). Il tono è giocosamente solenne: il poeta affida il compito di salutare l’amico alla Musa, che resta mediatrice di ogni messaggio fino al termine dell’epistola. All’interno di questa cornice manierata e cortese, Orazio inserisce una confessione riguardante il proprio abituale stato d’animo, dominato dall’insoddisfazione e dall’irrequietezza, da una sorta di smania e insieme di torpore esistenziale, quel taedium vitae di cui l’epicureo Lucrezio aveva già denunciato le manifestazioni in versi di impressionante forza descrittiva (De rerum natura III, 1046-1070) e che può essere accostato allo spleen di Baudelaire e alla «noia» leopardiana [Letture parallele, p. 265]. I due avverbi del v. 4 (recte; suaviter) definiscono i due obiettivi diversi, e quasi opposti, delle due maggiori scuole filosofiche del tempo, la rettitudine stoica e il piacere epicureo, considerati fonti di felicità e di benessere spirituale: ma Orazio è costretto ad ammettere il proprio scacco, l’inefficacia della saggezza filosofica nei confronti del suo insidioso malessere, sul quale non sembrano aver potere i fidi medici del v. 9 (sia che di veri medici si tratti, sia, metaforicamente, dei filosofi «medici dell’anima»). Anche per questo suona amaramente ironica la scherzosa esortazione alla misura che conclude l’epistola.

Nota metrica:

esametri. Celso gaudere et bene rem gerere Albinovano

Musa rogata refer, comiti scribaeque Neronis.

Si quaeret quid agam, dic multa et pulchra minantem vivere nec recte nec suaviter, haud quia grando 5 contuderit vitis oleamve momorderit aestus, nec quia longinquis armentum aegrotet in agris, sed quia mente minus validus quam corpore toto nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum; fidis offendar medicis, irascar amicis, 10 cur me funesto properent arcere veterno, quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam,

Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam.

Post haec, ut valeat, quo pacto rem gerat et se, ut placeat iuveni, percontare utque cohorti. 15 Si dicet «recte», primum gaudere, subinde praeceptum auriculis hoc instillare memento:

«Ut tu fortunam, sic nos te, Celse, feremus».

2. comiti scribaeque: i comites erano i componenti della cohors al seguito di Tiberio durante la sua spedizione in Oriente. Celso era scriba, cioè segretario personale del futuro imperatore (figliastro di Augusto e figlio di Tiberio Claudio Nerone). 10. veterno: veternus è aggettivo sostantivato (da vetus). Indica uno stato di torpore caratteristico della vecchiaia, ma anche una sorta di indolenza accidiosa che provoca la paralisi dei centri vitali e una forma di depressione psico-fisica. Cfr. anche Epistole I, 11, 28, dove Orazio parla di strenua... inertia. 12. Tibur: dove Orazio possedeva una villa amatissima. Roma e Tivoli rappresentano due diversi modelli di vita. Si osservi l’elegante costruzione chiastica del verso. 17. Ut tu fortunam... feremus: il poeta ammonisce Celso (noto da altri luoghi per la sua presuntuosa vanità) a non insuperbire per il fatto di appartenere alla prestigiosa cohors di Tiberio.

Musa, ti prego di dire a Celso Albinovano, compagno e segretario di Nerone, di star bene e di passarsela bene. Se ti chiederà che cosa faccio, digli che promettevo di fare molte belle cose e invece non riesco a vivere né bene, né lietamente, non perché la grandine abbia colpito le mie viti e il caldo bruciati gli ulivi, né perché il mio armento giaccia ammalato in luoghi lontani; ma perché meno sano d’animo che di tutto il corpo, non voglio imparare nulla, non voglio ascoltare nulla che possa alleviarmi il male, mi disgustano i fidi medici, mi arrabbio con gli amici perché si danno tanta premura per liberarmi di questo letargo funesto, vado dietro a ciò che mi può nuocere e fuggo ciò che penso mi gioverebbe, e, volubile come il vento, sento la nostalgia di Tivoli, quando sono in Roma, e quella di Roma quando sono a Tivoli. Dopo ciò, domandagli come sta in salute, come attende ai suoi affari e a se stesso e se è entrato nelle grazie del giovane Tiberio e del suo séguito. Se quello dirà che tutto gli va bene, ricordati di congratularti con lui e poi di sussurrargli agli orecchi questo precetto: «Come tu saprai regolarti con la fortuna, così noi, o Celso, ci regoleremo con te».

(trad. di A. Gustarelli)

Letture PARALLELE

Inquietudine esistenziale e taedium vitae

In tutte e due le epistole oraziane che proponiamo (I, 4 e I, 8), è presente il tema dell’inquietudine esistenziale e del taedium vitae. Per un ulteriore approfondimento, si può leggere anche l’epistola I, 11 insieme ad altri passi contenuti in Satire II, 7 (22 sgg. e 111 sgg.) e Epistole I, 1, 97 sgg. Significativo il confronto con il brano

Spleen e Ideale si intitola la prima e fondamentale sezione dei Fiori del male (1857) di Charles Baudelaire, da leggere nella classica traduzione in versi di Luigi de Nardis lucreziano già ricordato e con diversi luoghi delle opere filosofico-morali di Seneca (ad esempio De tranquillitate animi 2, 6-15; Epistulae ad Lucilium 2; 28; 69). Il tema godrà di ampia fortuna nella lirica moderna. Scrive Leopardi, in un passo dell’epistola poetica Al conte Carlo Pepoli (78-87):

Altri, quasi a fuggir volto la trista umana sorte, in cangiar terre e climi l’età spendendo, e mari e poggi errando, tutto l’orbe trascorre, ogni confine degli spazi che all’uom negl’infiniti campi del tutto la natura aperse, peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside su l’alte prue la negra cura, e sotto ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno felicità, vive tristezza e regna.

(Universale Economica Feltrinelli), oppure nella versione in prosa di Attilio Bertolucci (Grandi Libri Garzanti).

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Al suo libro Epistulae I, 20 ONLINE

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