L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
T 26 Funestus veternus: una malattia dell’anima Epistulae I, 8 LATINO
PERCORSO ANTOLOGICO
ITALIANO
Nota metrica: esametri.
Orazio risponde a Celso Albinovano, amico e poeta che nell’inverno del 21-20 sta accompagnando il giovane Tiberio Nerone (futuro imperatore e successore di Augusto) durante una missione diplomatica in Oriente. La lettera segue lo schema consueto del galateo epistolare: i saluti iniziali all’amico, cui si augura successo e felicità (vv. 1-2); notizie dello scrivente (vv. 3-12); richiesta di informazioni sulla salute e le vicende del destinatario, con l’aggiunta di un precetto finale (vv. 13-17). Il tono è giocosamente solenne: il poeta affida il compito di salutare l’amico alla Musa, che resta mediatrice di ogni messaggio fino al termine dell’epistola. All’interno di questa cornice manierata e cortese, Orazio inserisce una confessione riguardante il proprio abituale stato d’animo, dominato dall’insoddisfazione e dall’irrequietezza, da una sorta di smania e insieme di torpore esistenziale, quel taedium vitae di cui l’epicureo Lucrezio aveva già denunciato le manifestazioni in versi di impressionante forza descrittiva (De rerum natura III, 1046-1070) e che può essere accostato allo spleen di Baudelaire e alla «noia» leopardiana [ Letture parallele, p. 265]. I due avverbi del v. 4 (recte; suaviter) definiscono i due obiettivi diversi, e quasi opposti, delle due maggiori scuole filosofiche del tempo, la rettitudine stoica e il piacere epicureo, considerati fonti di felicità e di benessere spirituale: ma Orazio è costretto ad ammettere il proprio scacco, l’inefficacia della saggezza filosofica nei confronti del suo insidioso malessere, sul quale non sembrano aver potere i fidi medici del v. 9 (sia che di veri medici si tratti, sia, metaforicamente, dei filosofi «medici dell’anima»). Anche per questo suona amaramente ironica la scherzosa esortazione alla misura che conclude l’epistola.
Celso gaudere et bene rem gerere Albinovano Musa rogata refer, comiti scribaeque Neronis. Si quaeret quid agam, dic multa et pulchra minantem vivere nec recte nec suaviter, haud quia grando 5 contuderit vitis oleamve momorderit aestus, nec quia longinquis armentum aegrotet in agris, sed quia mente minus validus quam corpore toto nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum; fidis offendar medicis, irascar amicis, 10 cur me funesto properent arcere veterno, quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam, Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam. Post haec, ut valeat, quo pacto rem gerat et se, ut placeat iuveni, percontare utque cohorti. 15 Si dicet «recte», primum gaudere, subinde praeceptum auriculis hoc instillare memento: «Ut tu fortunam, sic nos te, Celse, feremus».
2. comiti scribaeque: i comites erano i componenti della cohors al seguito di Tiberio durante la sua spedizione in Oriente. Celso era scriba, cioè segretario personale del futuro imperatore (figliastro di Augusto e figlio di Tiberio Claudio Nerone). 10. veterno: veternus è aggettivo sostantivato (da vetus). Indica uno stato di tor-
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pore caratteristico della vecchiaia, ma anche una sorta di indolenza accidiosa che provoca la paralisi dei centri vitali e una forma di depressione psico-fisica. Cfr. anche Epistole I, 11, 28, dove Orazio parla di strenua... inertia. 12. Tibur: dove Orazio possedeva una villa amatissima. Roma e Tivoli rappresentano due diversi modelli di vita. Si
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osservi l’elegante costruzione chiastica del verso. 17. Ut tu fortunam... feremus: il poeta ammonisce Celso (noto da altri luoghi per la sua presuntuosa vanità) a non insuperbire per il fatto di appartenere alla prestigiosa cohors di Tiberio.