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Leggere un TESTO CRITICO Il tempo e la morte in Orazio (A. Traina

Leggere un TESTO CRITICO

Il tempo e la morte in Orazio

Concentrando in particolare l’attenzione sull’ode a Postumo, Alfonso Traina individua nella categoria della temporalità il centro ispiratore di tutta la poesia oraziana.

Il tema della morte è inscindibile dal tema del tempo. È la morte che dà all’uomo l’angoscia del tempo, perché è la morte, ultima linea rerum («ultima meta»: Epist. I, 16, 79) che toglie al tempo la rassicurante ciclicità della natura per distenderlo nella breve linea della vita umana. Brevis: ecco un altro aggettivo le cui occorrenze temporali in Orazio superano la somma delle analoghe occorrenze in Lucrezio Catullo Virgilio. Nimium breves, «di troppo breve durata» sono i fiori della rosa che nell’ode II, 3, 13 sg. [T15 ONLINE] simboleggiano le gioie del canto e della vita in contrasto con l’eternità dell’oltretomba, iconicamente rappresentata dall’ipermetro che, alla chiusa dell’ode, prolunga oltre i confini del verso l’epiteto antonimico (aeternus) e lo salda al suo sostantivo (v. 26 sg.): in aeter[num / exilium. Brevem chiama Orazio il padrone di un giorno, spossessato dalla morte (Carm. II, 14, 24 [T17]), con un’audacia semantica che trasferisce per la prima volta brevis, predicato a persona, dalla sfera fisica («di corta statura») a quella temporale di aevi brevis (Sat. II, 6, 97: [T7]). È nel carme II, 14 (vv. 1-4) che si fa più esplicita la connessione del tempo e della morte: Eheu fugaces, Postume, Postume, / labuntur anni nec pietas moram / rugis et instanti senectae / adferet indomitaeque morti [T17]. L’incalzare del tempo è reso non solo da lessemi nominali (fugaces) e verbali (labuntur, instanti), ma anche dall’affannosa geminatio del vocativo (un nome che «sa di morte», diceva il Pascoli), donde viene alla strofa un convulso dinamismo che va a infrangersi sul blocco eptasillabico della clausola indomitaeque morti. Nessuna traduzione può riprodurre tutte le connotazioni di questo latino. «Fugace», per noi, è solo un sinonimo letterario di «passeggero». Ma fugax, connotato negativamente dal suffisso -ac-, è il soldato che fugge dal suo posto di combattimento (Carm. III, 2, 14): riferirlo agli anni, con una metafora oggi logora, ma allora inedita, significa farne dei traditori che ci abbandonano a nostra insaputa (come altrove, con diversa ma sempre inedita metafora, ne fa dei banditi che ci spogliano; Epist. II, 2, 55: singula de nobis anni praedantur euntes: «gli anni portano via tutto, un bene dopo l’altro»); lo conferma il verbo, labuntur, che è uno scivolare furtivo e silenzioso (cfr. Carm. I, 13, 7: furtim labitur: «[il pianto] scivola [sulle mie guance] senza che mi accorga»). Seneca, erede del senso e del lessico oraziano del tempo, userà il medesimo verbo in De brevitate vitae VIII, 5: «il tempo non darà segno della sua velocità, scorrerà via senza rumore (tacita labetur)». Non c’è dubbio: Orazio appartiene a quel tipo d’uomini i quali «vivono più sotto gli auspici del tempo che passa e della morte che si avvicina che del tempo che progredisce e che facciamo progredire in noi» (Minkowski). Questa angoscia del tempo, questo senso del precario tradiscono un fondo d’insicurezza che potrebbe avere radici lontane, nell’assenza di una figura materna, se così deve interpretarsi il silenzio di Orazio sulla madre, sorprendente non in se stesso, ma di fronte alle tante menzioni del padre (e, una volta in Carm. III, 4, 10, della nutrice).

(A. Traina, introduzione a Orazio, Odi e Epodi, trad. e note di E. Mandruzzato, Rizzoli, Milano 1985, pp. 10-11)

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