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Dialogo con i MODELLI Fedro ed Esopo
la storia degli altri, dei potenti: In principatu commutando saepius/ nil praeter domini mores mutant pauperes («Nei mutamenti di governo, molto spesso i poveri non cambiano altro che le abitudini dei padroni») è la morale dell’asino (I, 15) costretto a portare eternamente il suo basto. Le rane, in cerca di un re (I, 2), finiscono per abbracciare un governo peggiore dei precedenti: i mutamenti sono dunque pericolosi, anche perché gli uomini sono per natura vili e inclini al servaggio. La guerra è vista esclusivamente come un affare dei grandi: nella favola delle rane e dei tori (I, 30), una rana (cioè il popolo) guarda dalla palude i tori che lottano e osserva:
Heu quanta nobis instat pernicies! («Ahimè, quante disgrazie ci attendono!»). La morale è presto detta: Humiles laborant ubi potentes dissident («Gli umili soffrono quando i potenti litigano»). Fedro non crede in utopie salvifiche come non crede nelle parole d’ordine del sistema. Chi potente non è, ha una sola risorsa: sparire nelle pieghe della storia, rendersi invisibile. I suoi ammaestramenti riguardano il singolo, la sua dimensione interiore, non la comunità degli uomini, che appare consegnata inesorabilmente alla dura legge naturale dei rapporti di forza. Due temi di attualità: servilismo e dispotismo Sulla visione del mondo di
Fedro non agisce solo la condizione di liberto ma anche la particolare situazione della società romana nella nuova età del principato. Non è un caso che centrali, in queste favole, risultino i temi del dispotismo e del servilismo.
Nella quinta favola del II libro, protagonista è lo stesso imperatore Tiberio, ritratto nella sua villa del Miseno mentre viene fatto oggetto di cure interessate da parte di uno schiavo zelante. Qui lo spunto morale è soverchiato dai toni satirici, che restano tuttavia contenuti, o forse compressi, nell’involucro pessimistico e disincantato della favola. Fedro non conosce le punte acri o l’asprezza aggressiva proprie, con l’eccezione di Orazio, della satira romana: il suo mondo, come si è detto, resta circoscritto all’immediato presente, rassegnato all’inevitabilità del male.
Dialogo con i MODELLI
Fedro ed Esopo
■ Fedro inventor del genere favolistico in Roma Fedro è il primo autore in lingua latina a realizzare un corpus autonomo di fabulae; gli spetta dunque il titolo di inventor del genere in Roma. ■ Si rifà espressamente al greco Esopo Nella sua opera si rifà espressamente al patrimonio favolistico in lingua greca, trasmesso sotto il nome del leggendario schiavo Esopo (VI secolo a.C.); tuttavia, percorrendo in successione i prologhi e gli epiloghi dei cinque libri, assistiamo a una progressiva rivendicazione di originalità e di autonomia rispetto al modello.
■ Progressiva rivendicazione di originalità Nel prologo del I libro (vv. 1-2) Fedro presenta infatti le proprie favole come una semplice ripresa di quelle esopiane, riservandosi un unico merito, quello di averle trasposte in versi: Aesopus auctor quam materiam repperit/ hanc ego polivi versibus senariis. Esopo è l’auctor, l’inventore del genere in lingua greca, colui che ha «trovato la materia»; Fedro è colui che ha vestito la prosa della tradizione esopica di versi senari, «limandola» (polivi), cioè elaborandola sul piano artistico. Ma già nel prologo del II libro, Fedro scrive di voler innovare le favole esopiche rendendole più varie e piacevoli.
■ Un processo di emulazione Siamo dunque nell’ambito di un vero e proprio processo di emulazione, ribadito nel prologo del III, dove Fedro afferma di aver reso una «strada» quello che in Esopo era solo un «sentiero», dimostrando di saper pensare e immaginare «molte più cose di quante lui [Esopo] ne avesse mai lasciate». Nei prologhi dei due libri successivi, Fedro sottolinea con sempre maggior forza il concetto, giungendo ad affermare che Esopo è solo un nome utilizzato per dar peso (auctoritas) ai propri versi.