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Seneca nel tempo

Senecanel TEMPO

Le critiche rivolte a Seneca La fortuna

di Seneca appare contrastata già presso i contemporanei, che sottopongono a dure critiche sia lo stile (inconfondibile e decisamente innovativo rispetto alla tradizione) sia l’uomo. Svetonio ascrive a Caligola un giudizio feroce e acuto sullo stile di Seneca: harena sine calce, cioè una scrittura che procede spezzata e slegata, priva dei consueti nessi sintattici. Quintiliano [T2, cap. 6], in età flavia, definisce lo stile senecano come un corruptum et omnibus vitiis fractum dicendi genus, «un tipo di eloquenza corrotta e guastata da ogni sorta di difetti» (X, 1, 125). Nell’età degli Antonini, Frontone [T2, cap. 13] condanna le eccessive sottigliezze del pensiero, il barocchismo delle immagini e delle espressioni, i neologismi ad effetto, la ricerca di novitas. Sappiamo tuttavia, proprio dalle testimonianze di Quintiliano e di Frontone, quanto grande fosse il fascino esercitato da questo stile suggestivo e scintillante sui giovani, presso i quali Seneca rappresentò, per diverse generazioni, un modello di prosa moderna e anticlassica. Tacito, con una punta di malignità che non sminuisce la precisione e la severità del giudizio, scrisse che lo stile di Seneca era perfettamente intonato al gusto del tempo: ingenium amoenum et temporis eius auribus accomodatum (Ann. XIII, 3, 1). Anche la personalità di Seneca fu sottoposta a critiche, a volte spietate, centrate sulla contraddizione fra la nobiltà severa degli scritti e il comportamento non irreprensibile dell’uomo. Lo stesso Tacito riferisce in diversi passi le dicerie maligne sul filosofo, accusato di aver incamerato perfino i beni e i denari provenienti dai delitti di Nerone (Ann. XIII, 18, 1) e di aver accumulato la cifra astronomica di trecento milioni di sesterzi «in quattro anni di favore regale» (Ann. XIII, 42, 4). Doveva scrivere ancora Agostino, sottolineando le contraddizioni del personaggio: colebat quod reprehendebat, agebat quod arguebat, quod culpabat adorabat («venerava ciò che criticava, praticava ciò che accusava, e ciò che condannava adorava»).

Nell’età del Cristianesimo Fu tuttavia

proprio in ambito cristiano che gli scritti filosofici di Seneca vennero letti con sempre maggiore interesse, soprattutto in ragione di alcune impressionanti coincidenze con la dottrina evangelica: l’insistenza su tematiche di ordine religioso, un’idea della vita come militia e come continua lotta fra bene e male, il costante richiamo alla coscienza e alla legge morale, le nozioni di eguaglianza e di fratellanza fra gli uomini, l’indifferenza di fronte ai beni materiali e agli onori pubblici, la condanna dei giochi gladiatorii. Seneca saepe noster, sentenziò con acutezza, agli inizi del III secolo, Tertulliano (De anima 20, 5); «venerando» lo definisce Gerolamo, che lo cita sovente.

La leggenda di Seneca cristiano Al IV

secolo appartiene anche un carteggio apocrifo di quattordici lettere fra Seneca e san Paolo, che si era stabilito in Roma, dove era stato martirizzato, proprio negli anni del principato di Nerone. Forse la leggenda di Seneca cristiano nacque da un particolare storicamente fondato: Paolo era stato infatti giudicato nel 52 d.C. dal proconsole dell’Acaia Gallione, fratello maggiore di Seneca. La leggenda e il falso carteggio favorirono lo sfruttamento dei libri filosofici di Seneca, utilizzati per trarne raccolte di sentenze (Liber de moribus; Monita Senecae; Sententiae Senecae).

Nel Medioevo «Seneca morale» lo definì Dante, con la consueta forza di sintesi, nell’Inferno (IV, 141). Particolare rilievo assume la morte di Seneca, che troviamo narrata esemplarmente in opere medievali di ampia diffusione quali il Roman de la Rose, la Leggenda aurea di Iacopo da Varagine e il Novellino. Seneca, com’è noto, fu uno degli auctores privilegiati del Petrarca, che lo cita spesso (e spesso anche lo imita nei trattati latini). 

In età moderna e contemporanea La

fortuna filosofica di Seneca nel pensiero dottrinale cristiano era destinata a protrarsi a lungo nel tempo, sia in ambito cattolico (Erasmo), sia protestante (Calvino). Né va dimenticata l’influenza profonda che le riflessioni di Seneca esercitarono sul pensiero laico: molto gli devono, per restare ai nomi più noti, pensatori come Montaigne e Rousseau. Ma ancora oggi la lettura di Seneca continua a restare una delle tappe fondamentali del pensiero etico occidentale. Quello che opere come le Epistulae ad Lucilium hanno saputo insegnare ai posteri, e che nelle società odierne, minate prima dai totalitarismi di entrambi i segni, in seguito dall’invadenza stordente e acritica dei media, appare ancora più prezioso, è l’esigenza di salvaguardare il proprio spazio interiore.

Il teatro di Seneca Immensa fu poi la

fortuna del teatro tragico senecano, ritrovato verso la fine del Duecento nel codice «Etrusco» del monastero di Pomposa dal protoumanista Lovato Lovati. Le imitazioni fiorirono rapidamente, raggiungendo il culmine fra Cinquecento e Seicento: al modello del teatro di Seneca (fondato sul gusto del macabro e dell’orrido, sull’enfasi dello stile, sull’energia passionale dei personaggi e sulla spettacolarità delle situazioni) si ispirarono la nascente tragedia italiana (dall’Orbecche del Giraldi Cinzio al Torrismondo di Torquato Tasso), Shakespeare (Tito Andronico) e il teatro elisabettiano di lingua inglese (Jew of Malta di Marlowe), la tragedia francese di Corneille (Medea) e di Racine (Fedra). Vitale anche la presenza di Seneca tragico nel Settecento: all’Agamemnon si rifanno sia l’Oreste di Voltaire, sia l’Agamennone e l’Oreste di Vittorio Alfieri. Di grande persistenza, in particolare, fu il motivo delle apparizioni di ombre e fantasmi, presenti sia nel Thyestes (l’ombra di Tantalo) sia nell’Octavia (l’ombra di Agrippina): di qui le shakespeariane ombre di Banco (nel Macbeth) e del padre di Amleto; di qui le apparizioni del teatro alfieriano (nel finale del Polinice e all’inizio dell’Agamennone).

Seneca trattatista politico Rilevante fu

anche la fortuna del trattato De clementia in età imperiale, soprattutto presso i panegiristi (a cominciare dal Panegirico di Traiano di Plinio il Giovane). Le implicazioni ideologiche del trattato furono motivo di ampia discussione anche nei secoli moderni: lo deprecò il Petrarca (Fam. XXIV, 5); lo difese due secoli più tardi Calvino (commentandolo nel 1532); lo lessero con interesse sia Montaigne sia Diderot.

Anfora da Cuma raffigurante Medea infanticida, ca 330 a.C. Parigi, Musée du Louvre.

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